lunedì 23 gennaio 2017

Eroi di carta

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.

      “Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

      “Dunque, emh… non è… non è ancora…” Lui mi guarda severo, in una nuvola di fumo. Prendo coraggio e butto fuori l’intera frase: “Non è ancora finito.”

      So di stare mentendo, o meglio, di non aver ancora detto tutto. Il romanzo era finito, almeno sulla carta. Poi, prima di riuscire a trascriverlo al computer, era successa quella cosa.

      L’ometto dietro la scrivania inarca un sopracciglio e raddrizza la schiena. All’improvviso sembra più alto. Dà l’impressione di un cobra pronto a colpire: brutto segno.

      “Mi auguro per lei che ci sia una spiegazione. Il tempo scorre, e non ho bisogno di ricordarle che la consegna è tra due settimane” soffia fuori lui assieme a una voluta di fumo. Mi sembra di essere tornata a scuola, e di dover dire alla maestra che il cane ha mangiato i miei compiti. Spiegazione che sarebbe molto più plausibile di quella che stavo per dare.

      “Il romanzo ha preso vita” mormoro, con un filo di voce. Avessi potuto scriverlo sarebbe stato a grandi lettere, ma la mia voce non è forte quanto la mia penna.

      Sulla fronte gli si formano due rughe sottili. Segno molto brutto.

      “Posso dimostrarlo, mi dia solo un’occasione per…” La lingua va per conto suo mentre sono alla frenetica ricerca di un foglio di carta, fosse anche una salvietta stropicciata. Noto la fotocopiatrice in un angolo, mi avvicino, apro il cassetto e prendo un bel foglio A4, liscio e pulito.

      Quando mi volto la sigaretta tra le sue labbra è scomparsa. Evidentemente quel dettaglio non le piaceva.

      Mi protendo sulla scrivania e rovescio il portapenne nell’afferrare una biro blu.

      “Scusi” dico, più flebile del tonfo tintinnante che ne consegue. Mentre lui lo rimette in piedi con uno sbuffo, io mi appoggio su un angolo del ripiano e butto giù quattro righe, di getto. La prima cosa che mi è venuta in mente, complice la sigaretta di prima: un posacenere di cristallo. Descrivo la trasparenza del materiale, la simmetria delle forme arrotondate, la levigatezza della sua superficie e una lieve spirale azzurra sul fondo della conca. Un piccolo tocco di genio.

      Quando ho finito poso il foglio tra di noi e attendo. Il mio editore lo legge, poi mi scruta da sotto le folte sopracciglia.

      “E questo cos’è?” La sua voce, nella mia mente, ha il suono di un tuono lontano.

      “Dovrebbe, ecco…” Riprendo in mano il foglio ed abbozzo un origami a forma di ciotolina. Poi lo poso di nuovo sulla scrivania.

      Ci protendiamo entrambi sopra la forma di carta e la scrutiamo in silenzio, io con ansia e aspettativa, lui con nervosismo e impazienza.

      Non succede niente, assolutamente niente.

      Infine, con un gesto, è tutto finito. È il mio editore che protende un braccio, l’indice puntato alla porta.

     “Fuori di qui! E se il romanzo non è pronto tra due settimane, le consiglio di non tornare!”

      Mi affretto a seguire il suo consiglio.


       Dieci minuti più tardi sono imbottigliata nel traffico; ne approfitto per fare un esperimento. Prendo il moleskine che ho l’abitudine di tenere nel vano portaoggetti assieme ad una penna formato mignon, strappo un foglio, e comincio a scrivere.

      Si tratta di una farfalla stavolta, una di quelle piccole e bianche che si vedono spesso d’estate lungo le strade di campagna, ma la descrivo con una tale ricchezza di particolari che sembra quasi una monarca. Aggiungo perfino un punto nero sull’ala sinistra, come un singolo neo all’angolo della bocca di una dama. Lo so, a volte esagero coi particolari, ma non riesco a farne a meno.

      Metto via penna e moleskine, piego il foglio e lo poso sul palmo della mano. Non devo attendere a lungo: il foglio comincia a raggrinzirsi e crepitare, il centro della piega si tinge di nero, le righe e le scritte sbiadiscono, la carta si restringe e si assottiglia.

      Battendo le ali delicate la farfalla prende il volo, leggiadra come l’ho descritta.

      “Non è giusto!” strepito, battendo il piede destro in un moto di stizza. La macchina fa un balzo in avanti e mi affretto a frenare, mentre intorno a me si leva un coro di clacson. A macchina ferma alzo le mani dal volante, gettando occhiate a destra e a manca ai miei compagni di coda per assicurare loro che non l’avrei rifatto.

      Apro un po’ il finestrino per lasciare uscire la farfalla e mi metto l’auricolare del cellulare all’orecchio.

      “Non puoi fare così. È assolutamente ingiusto” ripeto al telefono. “Dovresti saperlo. Ci vuole coerenza quando si scrive, soprattutto quando si racconta un universo alternativo e fantastico.”

      Il traffico riprende a scorrere lentamente. Ingrano la prima e mi avvio.

      “Se inventi una regola, dev’essere valida sempre. Oppure devi far capire a me e ai lettori perché a volte non funziona. Si tratta per caso del luogo? Oppure non può funzionare se qualcun altro guarda? Insomma, rispondimi, dammi un segno!”

      Svolto a destra, dove la via è più libera. Lei non risponde, come al solito. La conversazione tra noi è sempre stata una strada a senso unico, io sono la sola a parlare. Eppure, da molti piccoli indizi io so che c’è, lei è reale. Come quella sigaretta scomparsa. Poco professionale da parte sua. Io almeno sarei stata abbastanza attenta da cancellarla anche prima.

      Parcheggio nei pressi di casa, spengo il motore e sbuffo. “Non ti capisco. Se rappresento il tuo sogno divenuto realtà, non dovresti rendermi le cose facili?”

      Mi tolgo l’auricolare e prendo il telefono, spento, dalla tasca della portiera.


       Appena apro la porta di casa Pertrafra trotta ad accogliermi. È il grosso spinone che compare all’inizio del quinto capitolo, e il cui pelo si tinge a seconda dell’umore di chi lo accarezza. Mentre gli faccio i grattini dietro la testa è grigio stanchezza, con lievi riflessi ramati di rabbia. Mi lecca la mano e si butta a terra, a pancia all’aria e le zampe che si dimenano come se fosse un cucciolo grande un quarto della sua stazza. Rido, e il suo pelo diviene color bianco-arancio. Lo avevo creato come elemento comico della storia, ma svolge la sua funzione egregiamente anche al di fuori del romanzo. Era anche un valido aiuto per i miei eroi: quando la situazione si faceva spinosa, lo spinone diventava un drago. Letteralmente.

      Non ho ancora avuto occasione di sperimentare questa sua qualità al di fuori del romanzo, e spero di non doverlo fare.

      “Bentornata” dice una voce maschile. Inconsu si sporge dalla porta della cucina. È un bello spettacolo, con il grembiule rappresentante il David di Michelangelo sopra l’armatura scintillante. Tiene in mano il coltello come fosse una spada, e mi fa pensare ancora una volta che ho fatto la scelta giusta a sistemarlo in cucina. Con la sua apparizione avevo perso un capitolo e mezzo, ma avevo guadagnato un bravissimo cuoco. Una scrittrice deve sempre trarre il meglio dai suoi personaggi.

      “Com’è andata?” chiede Inconsu, un sorriso cordiale sulle labbra.

      “Non bene” rispondo. Mi tolgo le scarpe e lascio cadere le chiavi sullo svuotatasche in corridoio.

      “Io te lo avevo detto” fa Diada, uscendo dal salotto. Fa una smorfia e agita lo spolverino a mo’ di bacchetta magica. Paradossalmente s’intona con la sua tunica viola ricamata di glifi alchemici, la sua aria misteriosa e altera, la sua specializzazione in incantesimi dell’aria e dell’acqua. Lei mi è costata due interi capitoli, ma la mia casa non è mai stata così pulita e in ordine.

      I miei eroi di carta.

      Vado in salotto e mi siedo di fronte al computer. Non ho tempo da perdere, devo riscrivere le loro avventure in due sole settimane, e stavolta non commetterò l’errore di usare la carta. La pagina bianca ha un po’ troppo potere per me. Me ne ricordo sempre quando vedo l’antica foresta del regno di Areereire nella mia camera da letto, con la vecchia quercia e i frassini dalle chiome che stormiscono al vento. Purtroppo le idee migliori mi vengono prima di addormentarmi. Alcune di quelle foglie, lo giuro, sono a quadretti.

      Adesso le mie dita danzano rapide sulla tastiera. Lo schermo però non ha lo stesso sapore della carta, non ha la stessa concretezza e non mi dà lo stesso piacere dello scorrere di una penna. Forse è per questo che la magia non funziona.

      Sono a buon punto, quasi alla fine del terzo capitolo, quando arriva la goccia che fa traboccare il vaso. Solo che nel mio caso è gialla, sa di aranciata, ed è una goccia da almeno due litri. Inconsu fa appena in tempo a tirarmi indietro, ma il computer e la scrivania sono ridotti a un’opera cubista. Pertrafra abbaia uno sbuffo di fumo al grumo giallo e nero che era fino a poco prima parte del mio arredamento, e che continua inesorabilmente a sciogliersi in un ammasso informe.

      “Qualcosa in meno da spolverare” commenta Diada, allegra una volta tanto.

      Io alzo gli occhi al soffitto. So che non posso vederla, la penna che sta scrivendo me; ma cerco il dialogo lo stesso, come ogni volta che s’inventa qualcosa di astruso per mettermi i bastoni tra le ruote. “Adesso basta!” le dico. “Sono stufa di sopportare i tuoi capricci, ma questo è troppo. Vuoi almeno fare attenzione quando fai uno spuntino mentre scrivi?”

      Ho deciso. Domani porterò Diada, Inconsu e Pertrafra dal mio editore. Se restano come sono ora, lui non potrà non credermi. Se si ritrasformano nelle pagine del romanzo, allora avrò qualcosa da presentargli. In ogni caso avrò vinto, e almeno una di noi due potrà dire di essere una scrittrice con la esse maiuscola.

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