lunedì 24 luglio 2017

Un fiuto eccezionale

(racconto ispirato dall'esercizio Va' dove ti porta il naso. Ho scelto di svolgere la seconda parte dell'esercizio, ma da un personaggio/punto di vista non umano)

 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Avere il naso fino in questo posto è una maledizione. Non posso fare un passo fuori dalla soglia della mia casa – perfettamente deodorata e confortevole per le mie narici – che vengo sopraffatto dalla miriade di olezzi che permeano le vostre città. Tanfo di fogna, di urina e di feci di cani e guano di piccioni. Sudore in infinite variazioni di fragranze e intensità. Catrame arroventato dal sole e gomma di pneumatici. I miasmi mefitici dello smog. E che dire di ciò che chiamate “cibo”? Mi meraviglia che riusciate a metterlo in bocca, da quanto puzza.
Camminare per strada, per me, è un’impresa. Ma non è nulla a confronto del dover entrare in un edificio, in particolare un alto palazzo, e dover salire fino all’ultimo piano. Lungo la via, all’aria aperta, gli odori si disperdono. All’interno di uno spazio chiuso, soprattutto se angusto, ci rimangono e sembrano moltiplicarsi a dismisura, rimbalzando tra le pareti. Per questo solitamente non prendo l’ascensore, il più ristretto degli spazi, e preferisco invece salire le scale. Salvo quella volta che mi si è aperto davanti, vuoto. Mi sono bloccato. Salire trenta piani di scale a piedi solo per andare a richiedere un documento in un ufficio mi è sembrato d’un tratto uno spreco d'energie. Ho messo dentro la testa, annusato, e storto la bocca. L’odore di una sfilata di varia umanità era forte, ma sopportabile. Ce la posso fare, mi dissi. Basta trattenere il fiato e schiacciare il pulsante.
Ho preso un bel respiro, sono entrato, e ho scelto rapidamente il tasto corrispondente al mio piano. Le porte si sono chiuse, imprigionandomi assieme al lezzo. Non avevo fatto neanche un paio di piani che l’ascensore si è fermato, le porte si sono aperte, ed è entrato un grassone dalle ascelle pezzate e la fronte madida. Mi sono tirato indietro alla zaffata fetida. Perfino il suo alito sapeva di sudore, quando mi ha chiesto: – Sale?
Mi sono addossato alla parete dell’ascensore, e non ho saputo far altro che annuire, trattenendo il fiato. L’uomo si è voltato, ha schiacciato un pulsante al centro della tastiera, e l’ascensore è ripartito. Ho tossito, e ho approfittato del fatto che non stava guardando per tapparmi il naso. Ho contato i piani che mi separavano dalla liberazione, anche se già sapevo che il suo fetore avrebbe ammorbato l’aria del piccolo ascensore anche quando se ne fosse andato. I numeri scorrevano lenti sul contatore luminoso sopra la porta. E poi è accaduto.
Con un ronzio che si smorzava e una lieve decelerazione che ci ha fatto sobbalzare, l’ascensore si è bloccato.
– No… – ho mugolato disperato, scivolando a terra lungo la parete. – No, no, no, no…
La sua puzza nauseabonda già mi bruciava le narici e la gola, e quello che fa, si è girato e si è avvicinato?
Sì, si è girato e si è avvicinato, cercando di rassicurarmi: – Claustrofobico, eh? Non si preoccupi, verrà qualcuno a farci uscire tra una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo. Succede sempre.
– Un quarto d’ora? – ho sbottato incredulo. Mi sono tappato il naso e la bocca con entrambe le mani, cercando di filtrare l’aria irrespirabile della stretta cabina. – Per favore… ho bisogno di spazio…
Quello ha annuito ed è arretrato. Lasciamo pure che mi creda in panico perché ho paura dei luoghi chiusi e ristretti, mi sono detto, se serve a tenerlo lontano da me il più possibile. E mi sono ripromesso di non farmi allettare mai più da una simile trappola mortale: la prossima volta, meglio le scale!

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