giovedì 8 marzo 2018

La giustizia degli alberi

(racconto ispirato dall'esercizio Le ultime parole)

Una doverosa avvertenza: avevo all'inizio pensato di glissare su certe espressioni e tagliare il finale, lasciando all'immaginazione con frasi come "mi riempie di insulti" o "conclude con una imprecazione", ma poi mi sono ricordata il consiglio di Stephen King. Sii sincero, scrivi in modo onesto, se un personaggio si esprime in quella maniera, riporta le sue parole. L'ho seguito, quindi il racconto di oggi contiene linguaggio scurrile e temi forti, e ti invito a non proseguire se ciò ti disturba.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Io so una cosa che lui non sa. Più di una, ma il punto fondamentale è questo: io non sono più la ragazza spaventata di quella notte. Perciò trovo molto divertente che mentre me ne sto appoggiata al bancone con l'aria più serena del mondo, lui mastica a vuoto in un silenzio turbato, gli occhi fissi su di me.
– Ho detto: ciao – ripeto tranquilla. Inclino la testa e riprendo a sorridere.
I suoi amici mi guardano e smettono di ridere. Sono rimasti in pochi: due di loro li riconosco e, ne sono certa, loro riconoscono me. Il terzo invece è nuovo, perplesso, e interessato.
Riporto gli occhi sul mio uomo.
– Che cazzo ci fai tu qui? – mi apostrofa lui.
– La stessa cosa che fai tu. Mi diverto. Posso offrirti qualcosa da bere?
Lui sbuffa, appoggia le braccia conserte al bancone e si curva in avanti. – Non voglio niente da te. Avresti fatto meglio a stare zitta...
Vedo le sue labbra continuare a muoversi formulando parole a bassa voce, soffocate dalla musica del locale. Non è difficile immaginare i modi in cui mi chiama.
Volgo le spalle al bancone e osservo una ragazza ballare in mezzo alle sue amiche, ricci biondo rame, un vestito rosso e un sorriso ampio da bambina, il giorno del suo compleanno. Ai margini del gruppo, un ragazzo con un bicchiere di mojito a metà la punta. – È vero, tutto quello che volevi lo hai già preso – replico al mio uomo. Mi curvo verso di lui e aggiungi a voce più bassa: – E probabilmente avrei fatto meglio a stare zitta, visto come è finita.
Mentre il ragazzo si avvicina al gruppetto intento a ballare e rivolge la parola a un'amica della bionda vestita di rosso, il mio uomo alza gli occhi e mi chiede. – Che cosa vuoi, Christie? Soldi?
Scuoto la testa. – Mary Autumn. Mi faccio chiamare Mary Autumn, adesso. – Distolgo lo sguardo dal ragazzo: è innocuo, al contrario dell'uomo che ho accanto. – E non voglio niente, solo bere un po'. Ho sete, voi no?
Coinvolgo i suoi amici con un mezzo sorriso, ed è facile allora accumulare i bicchieri sul bancone mentre parliamo del niente, proprio come quella notte, e la sua diffidenza si scioglie nell'alcol. Solo che, al contrario di quella notte, a fine serata la proposta di accompagnarmi a casa è la mia. Mi appoggio a lui, gli infilo una mano in tasca, e mentre è distratto da altri pensieri gli prendo le chiavi dell'auto. – Però guido io. Tu sei troppo ubriaco – gli dico, sollevandole in alto. Lui cerca di afferrarle, ma io porto indietro il braccio e lo alletto con un: – E se vuoi, puoi restare da me.
I suoi amici fischiano, commentano, ridacchiano, e vengono avanti. Scuoto la testa. – Uno alla volta. Sono una ragazza per bene, io.
Li lasciamo indietro. Sfiliamo verso l'ingresso del locale, tra luci soffuse e faretti colorati, e sopporto la mano che mi piazza sul fondoschiena mentre lo accompagno alla sua Maserati.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Sono stata brava: non ho mosso una foglia per tutto il tragitto, nonostante le sue avances e i suoi "allora dillo che quella sera ti è piaciuto, dillo!" ululati tra esalazioni alcoliche. Non incrociamo un'auto per chilometri lungo la strada: lui l'aveva scelta per questo, anni fa. Accosto e spengo il motore. Ci siamo solo noi e gli alberi. Lui guarda fuori. Guarda me. – Dove cazzo siamo?
– A casa mia. Vieni! – lo esorto, e scendo. Lontano dalla città, dagli alti palazzi che intrappolano il vento, posso finalmente respirare di nuovo. Allargo le braccia, e sono il vento che accarezza i rami, sono le foglie che frusciano. Rilasso le braccia e m'incammino tra gli alberi.
Lui è sceso e ha chiuso la portiera, ma è rimasto accanto alla maserati. Quel minimo di lucidità che ha ancora gli dice di non fidarsi. Gli indico un punto più avanti. – Casa mia è da questa parte... coraggio, non avrai paura di una donna? Che cosa ti posso mai fare io, te lo ricordi di quanto sei forte, o no?
Lui ghigna e si affretta a raggiungermi. Deve appoggiarsi agli alberi per non cadere, sento le sue mani addosso quando tocca un tronco dopo l'altro. Sopporto, ma quando mi arriva davanti e allunga le mani per aggrapparsi a me, mi tiro indietro e lo lascio piombare a terra.
Lui mugola, agita le gambe e si puntella sulle mani.
Mi piego su di lui, e assieme a me si piega ogni ramo. – Te lo ricordi questo posto, vero? È stato qui che mi hai portato. Mi hai lasciato là, sulla strada, in mezzo al nulla. Ma non ero da sola come tu pensavi.
Sporco di terra, lui alza gli occhi e mi rivolge uno sguardo astioso. Si mette carponi e fa per afferrarmi le gambe, ma io sono più veloce: una delle mie radici si avvolge alle sue caviglie e lo tira indietro, facendolo ricadere di nuovo steso a terra. – Che cazzo succede qui? – biascica, lottando per alzarsi. Lo stringo con un'altra radice alla vita e lo tengo giù.
– Vuoi sapere cosa succede? Te lo dico io. Succede che una volta, qui, mi è stata offerta "giustizia, non vendetta". Ho accettato, e mi sono affidata alla giustizia degli uomini. E ho scoperto che nella giustizia degli uomini la verità più convincente si ottiene con il denaro. Io ero solo una povera pazza, una che mirava ai tuoi soldi, che aveva tentato il suicidio e che non aveva una famiglia importante alle spalle. Come si può dare ascolto a una testimone così inaffidabile? Non lo so quanti anni hai passato dentro, alla fine. Troppo pochi. E tu non sei cambiato. Tu non sei pentito. Quante altre hai portato qui?
Lui solleva la testa e mi urla in faccia. – Nessuna! Nessuna, stronza, vuoi sentirmi dire che sei stata l'unica puttana che mi sono fatto qui? Te lo dico, sei stata la sola, e ora dammi una cazzo di mano a liberarmi da queste cose...
Lui cerca di allentare le radici, ma io stringo di più. Mi raddrizzo e allargo le braccia. La mia pelle si indurisce in una corteccia bruna e i miei capelli si ricoprono di foglie. Quando riprendo a parlare, dalle mie labbra fluisce in un coro la voce di molte donne, molte vite: – Bugiarlo. Ho raccolto le loro lacrime, ho ascoltato le loro preghiere. La giustizia degli uomini ci ha deluso. Ora è tempo della giustizia degli alberi.
Lo sento piangere, supplicare e graffiare il suolo in cerca di un appiglio mentre con le radici che lo avvolgono tiro verso il basso. I suoi piedi e le sue gambe affondano nella terra. Le sue lacrime non mi faranno cambiare idea, perché io so una cosa che lui non sa. La sapevo fin dal momento in cui l'ho visto al bancone del bar: questa è l'ultima volta che una donna avrà a che fare con lui.
Lo lascio sprofondare nella terra e riempirsi la bocca di fango. Io sono la terra, e mi conosco. So come disporre dei rifiuti organici. Oh, si agiterà per un po', sì. Ma poi se ne starà tranquillo mentre lo digerisco, e il mio corpo d'alberi crescerà più forte su ciò che resta di lui.
Mi siedo, attendo, e ascolto. Ascolto le grida delle mie sorelle.
Io sono una figlia della Madre, e offrirò il mio aiuto a chi lo chiederà, così come un tempo è stato offerto a me.

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