lunedì 30 aprile 2018

Addosso!

(racconto ispirato dall'esercizio Le differenze contano)

Per questo esercizio ho deciso di espandere un po' un vecchio brano, il cui punto di vista aveva già due differenze rispetto a me: l'età, e il genere.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La prima volta che vidi mia cugina se ne stava aggrappata alla gonna di sua madre, quasi completamente nascosta se non per una manica rosa e metà del volto. Un occhio verde mi fissava spalancato e i suoi ricci neri, spettinati, la facevano sembrare ancor più pallida e spaurita. Avevo appena il doppio della sua età, ma l’essere nato a Terrana, non troppo distante dalla capitale dell’Impero, mi faceva sentire un uomo di mondo. Portai il braccio destro al busto e mi piegai in un goffo inchino. Dietro di me mio fratello ridacchiava, scimmiottandomi.
– Principessa – mormorai, nel mio pessimo dialetto orientale. Mi rispose un gridolino eccitato mentre lei correva ad appendersi al mio collo.
– Ehi, piano, sei pesante! – protestai.
– Non è vero. Sono leggerissimissima – rispose lei, con una pronuncia assai migliore della mia.
– Va bene, va bene. Hai ragione tu – concessi, mentre mi abbassavo per farle toccare terra con la punta dei piedi. Mi sforzai di guardare indietro, sopra la spalla destra. Mio fratello  rideva ancora, sguaiatamente. – Non fare lo stupido e vieni qui a darmi una mano! – gli ingiunsi nell'imperiale di Terrana, che in quel momento aveva due vantaggi: era la mia lingua madre, perciò non avevo problemi a parlarla, ed ero certo che mia cugina non ne comprendesse neanche una parola.
Mio fratello smise di ridere. Sbuffò, si stiracchiò, venne avanti e si sedette sui talloni. Fissando la piccola, mormorò nel dialetto orientale: – Mio fratello dice che se non ti stacchi subito dal suo collo, ti prenderà e ti darà a Shaul Tsokhàr.
Mi sorprese sentirlo parlare quella lingua meglio di me. E mi ci volle un po' per riconoscere il nome dello spaventoso dio della notte delle terre d'oriente ma, intanto, su mia cugina quel nome aveva già sortito il suo effetto. La bambina sgranò gli occhi, si lasciò scivolare giù e con un urletto di terrore corse ad aggrapparsi alle gambe di sua madre. La zia smise di parlare con nostra madre e ci gettò un'occhiata torva.
– Ma che hai fatto? – sibilai a mio fratello.
Lui scrollò le spalle e si alzò. – Ha funzionato, no? Mi hai chiesto di aiutarti, e io l'ho...
Non lo lasciai finire. Mi raddrizzai e gli diedi un pugno sulla spalla. – Sei una carogna!
Mio fratello ricominciò a ridere e mi saltò sulla schiena. Si aggrappò a me con un braccio che afferrai all'istante, e mentre provavo ad allentare la presa, abbassò il pugno sinistro per cercare di colpirmi al fianco.
Da lì sarebbe iniziata un'altra delle nostre mitiche zuffe, se in quel momento un'ombra non fosse calata su di noi.
Alzammo gli occhi e vedemmo il volto severo di nostro padre. Le palpebre strette e la mascella contratta nascondevano a stento la rabbia. Era una situazione che si verificava così spesso che non aveva nemmeno bisogno di parlare.
Ci separammo. Ma le nostre reciproche occhiate dicevano che la baruffa era solo rimandata.

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