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Camminando verso ovest, dall'isola a poco a poco emergevano le pareti di un edificio imponente, con torri grigie che pesavano sul mare come macigni ammucchiati da un gigante. Nell'avvicinarmi alla riva ebbi la netta impressione che si curvassero verso di me, quasi a volermi afferrare. Era una tiepida giornata di tarda primavera, ma io avvertivo il gelo di una bufera nella brezza salmastra, che mi indusse a stringermi addosso il soprabito. Non riuscivo a guardare direttamente la rocca; piuttosto, preferivo fissare il cielo velato da strisce di nubi e immaginare il vuoto lì dov'era Miral, o sbirciare il suo riflesso distorto dalle onde e dalle lacrime. Lacrime di rabbia, mi dicevo, perché avrei voluto smontare la rocca pietra dopo pietra, sollevare il mare, far precipitare le lune dai cieli, gettare in aria le carte con cui la sorte mi aveva costretto a giocare piuttosto che percorrere quell'ultimo tratto di strada e scoprire che la lettera che avevo in tasca non era uno scherzo, né un errore. Ma sapevo che erano ben altre le torri che avrei voluto veder crollare.
Granitica come una tomba, la rocca di Miral attendeva, e io attendevo sulla spiaggia, assieme ai pellegrini mormoranti, che la marea calasse ed emergesse il Cammino dei Saggi. Isolato dagli altri, infilai la mano in tasca e sfiorai la lettera. C'era un solo motivo per me per compiere quel viaggio: mio padre era morto, quasi certamente per ordine dei maghi, e a Miral avrei trovato il suo corpo, quel poco che restava della mia famiglia, e qualunque cosa avesse scelto di lasciarmi in eredità.
Ero un ragazzino con un soprabito troppo grande e appena un'ombra di baffi sopra il labbro, e quello era un ritorno a casa troppo faticoso per le mie gambe magre e le mie spalle strette.
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