lunedì 8 aprile 2024

La Sposa del Deserto


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Era una tradizione, quella di Vostaldjertarn, l'Ultimo Giardino, la Perla del Sud, che risaliva a molti secoli addietro, e non si era mai interrotta, neppure quando le nazioni dei crudeli cannibali del nord avevano mosso guerra alle pacifiche città verdi, invadendole e saccheggiandole una dopo l'altra. Anzi, a maggior ragione, Vostaldjertarn proseguiva nel conservare intatto quel costume, perché in tempi di guerra una speranza effimera, una leggenda, era preferibile all'abbandonarsi alla disperazione.
L'Ultimo Giardino ai confini del deserto combatteva da sempre contro l'avanzare delle terre aride, e forse questa antica battaglia era all'origine della tradizione della Sposa del Deserto.
Ogni anno, nel giorno più lungo, una giovane donna in età da marito, ma non ancora promessa ad alcuno, veniva scelta e preparata a incontrare un invisibile sposo tra le dune di sabbia. Ogni anno, nel giorno più lungo, la donna e coloro che l'accompagnavano attendevano al riparo di una tenda, e ogni anno tornavano a casa disidratati e con un principio di insolazione.
Non accadeva mai nulla alla Sposa del Deserto al di fuori di questo, ma a Vostaldjertarn continuavano a mandare una sposa designata anno dopo anno, perché secondo la leggenda la Sposa del Deserto avrebbe assicurato la pace, la prosperità e la gioia agli abitanti di Vostaldjertarn e di tutte le città verdi. Qualcuno tra i più anziani si spingeva addirittura ad affermare che il compito della Sposa del Deserto era quello di salvare il mondo.
Che fosse vero oppure no, era un onore e una grande responsabilità essere scelta come Sposa del Deserto.
Dinalys non credeva alle vecchie leggende, eppure, quando fu il suo turno, non si tirò indietro. Chi mai lo avrebbe fatto, al suo posto, con la prospettiva di una rendita assicurata per un anno a fronte di quel piccolo fastidio? La Sposa del Deserto non avrebbe portato pace, prosperità e gioia a tutta la regione, ma a lei di sicuro sì.
Questo Dinalys pensava mentre le donne le lavavano la pelle e la profumavano con oli di Xar e di Jalanth, le acconciavano i capelli e la aiutavano a indossare il più bell'abito che lei avesse mai visto. Stretto in vita e sul petto, morbido sui fianchi, ampio e vaporoso sulle gambe con un lunghissimo strascico, il vestito candido era un impeccabile capolavoro di ricamo in leggerissima tela di ragno che aveva richiesto mesi alle migliori sarte di Vostaldjertarn per essere tessuto, e che si sarebbe poi riempito di sabbia e intriso di sudore appiccicoso per tutto il giorno. Questo Dinalys pensava, pragmatica com'era, mentre le coprivano il capo con un velo di tulle bordato da un ricamo di pizzo dai motivi floreali.
Tutto in nome di uno sposo immaginario che non l'avrebbe mai vista.
Com'era consuetudine, Dinalys partì all'alba accompagnata da suo fratello e da uno zio. Non aveva voluto coinvolgere in quella farsa suo padre: gli aveva detto che sarebbe tornata così com'era andata, da donna libera, e dunque non aveva bisogno di lui, e mentre arrancava tra dune roventi trattenendo su un braccio lo strascico, pensò che aveva fatto bene a non portarlo in quell'inferno.
Piantarono la tenda all'ombra di una duna, quando suo zio giudicò di essere sufficientemente lontani dalla città da poter essere "dall'altra parte del mondo, per quanto ne sapevano".
E lì, con il soffio costante e lieve che gettava spruzzi di sabbia ai suoi piedi, Dinalys e i suoi accompagnatori di accinsero ad attendere.
Di tanto in tanto, suo fratello e suo zio si passavano un cannocchiale, scrutavano l'ampia distesa di sabbia, e commentavano: – Ancora nessuno.
Dinalys si sarebbe volentieri messa a dormire, se il caldo asfissiante non glielo avesse impedito. Cominciava anche a pensare che forse un solo anno di rendita non era sufficiente a compensarla di tutto il disagio che stava patendo, quando all'improvviso suo fratello sbottò: – Arriva qualcuno!
Lo zio, che non gli credeva, si fece passare il cannocchiale. Ma non lo poté rimproverare e criticare per aver visto un miraggio e averlo scambiato per una persona, perché davvero arrivava qualcuno.
Lo straniero avanzava intabarrato in un mantello color ocra, poco più scuro della sabbia del deserto, che lo nascondeva a occhi distratti, e il suo volto era coperto da un copricapo di una sfumatura più chiara che celava i suoi lineamenti in volute di tessuto, lasciando scoperta solo un fascia in corrispondenza degli occhi. Dinalys vide qualcosa scintillare alla luce del sole suo suo volto, ma non capì cosa fosse, e pensò a un gioiello, almeno finché suo zio non sbottò allarmato: – Gli occhi! Ha gli occhi che brillano, è un demone del nord, un dannato cannibale del nord!
Tutti, al sud, sapevano riconoscere il segno del peccato. Gli uomini del nord che mangiavano carne umana erano maledetti, segnati da freddi occhi color argento, così che non avrebbero mai potuto nascondere il loro vizio, ovunque andassero. In realtà, vi era una spiegazione scientifica assai semplice: con la loro dieta contro natura, un pasto dopo l'altro, accumulavano nell'organismo la crolanina, la polvere d'argento che si depositava principalmente nelle iridi, mutandone il colore.
Dinalys tremò. Non era uno sposo del deserto, quello che stava venendo a prenderla.
– Che ci fa uno di quei demoni così a sud? – brontolò suo zio, e mise mano al fucile che aveva portato per precauzione. Subito, però, si piegò in due e si portò le mani alla testa.
– Zio! – urlò suo fratello, prima di crollare in ginocchio.
Dinalys rimase in piedi, nel suo splendido abito bianco da sposa lordato dalla sabbia e dal sudore, ad attendere quello che ormai si domandava se fosse davvero un uomo.
Non pensava più che fosse un soldato del nord, no, qualcosa nel suo atteggiamento glielo aveva fatto escludere. E quando fu abbastanza vicino, Dinalys vide che non aveva occhi d'argento, ma dorati, scintillanti occhi color del sole colmi di un inspiegabile affetto. Adorazione, quasi.
– Chi sei? – gli chiese, quando l'uomo dagli occhi dorati si fermò nell'aria rovente del deserto, a pochi passi da lei.
Lo straniero non rispose, non a parole, ma Dinalys ottenne molto più di quello che aveva chiesto. La conoscenza esplose nella sua mente in vivide immagini e sensazioni potenti, e Dinalys vide una bestia enorme, un mostro alato dalle squame scintillanti d'oro, una creatura di leggenda capace di plasmare la sabbia del deserto in palazzi e giardini e fonti d'acqua fresca, e lo avrebbe fatto per lei, se solo lo avesse voluto. Dinalys allora capì che lo straniero le aveva detto il suo nome, che nella sua lingua senza parole equivaleva a mostrarle tutto ciò che lui era, e fece di più quando le mostrò chi lei era per lui, chi poteva essere se lo desiderava, e quanto l'aveva attesa.
Dinalys gli sorrise, per nulla intimorita. – Sì, lo voglio – mormorò, e si mosse per andargli incontro, lasciando l'ombra della tenda. Ma suo zio, che si era ripreso abbastanza, allungò una mano a trattenerla, stringendole un braccio. – Din, sciocca ragazza, resta qui! Non lo vedi... non vedi cos'è?
– Lo vedo, zio, e proprio per questo devo andare – ribatté Dinalys.
Che ironia, proprio lei che non aveva mai creduto alla leggenda era l'unica autentica Sposa del Deserto, la donna che avrebbe salvato il mondo.

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