giovedì 12 marzo 2020

Oro trasparente

 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Filipe Delgado from Pexels


Era poco più di un buco, un foro circolare scavato nella roccia che scendeva nelle profondità buie della terra. Da tempo erano andati distrutti ogni forma di abbellimento e ogni struttura sopraelevata che lo facesse risaltare anche a distanza, come un muretto circolare o un arco di metallo che sorreggesse un secchio per attingere l'acqua, e del pozzo non era rimasto che quel foro, coperto da una lastra di metallo per evitare che la sottile sabbia grigiastra del mare asciutto lo riempisse. Così, quando il vento passava e le dune si spostavano, si poteva anche camminargli sopra senza nemmeno notarlo. Bisognava sapere esattamente dove scavare nella sabbia fino a sentire il clangore di metallo che indicava che avevamo trovato il nostro tesoro.
Ci volevano quattro uomini per smuovere la lastra. Ogni volta, rivedere il cielo riflesso dal prezioso liquido in fondo al pozzo era quanto di più vicino al paradiso potessi immaginare.
Eppure, recarsi al pozzo era pericoloso.
Ci andavamo solo durante la stagione più arida, quando l'acqua piovana accumulata nelle cisterne stava per finire, e ci andavamo armati, e in gruppo. Mentre la pompa risucchiava l'acqua dal pozzo e la riversava nella cisterna mobile, noi ragazzi trattenevamo il fiato e sbirciavamo ansiosi le vedette, una per ogni punto cardinale e un'altra davanti alla cisterna, che ci davano le spalle e scrutavano l'orizzonte. Solitamente non proferivano parola e potevamo andarcene indisturbati, ma quella volta fu diverso. Taja, che guardava verso nord, gridò un avvertimento per farsi sentire sopra al frastuono gorgogliante della pompa, e subito due uomini con i fucili la raggiunsero. Noi che controllavamo il livello dell'acqua nella cisterna e ci assicuravamo che il tubo calato nel pozzo non pescasse a vuoto, non riuscivamo a vedere ciò che aveva visto Taja, ma eravamo certi che fosse un altro gruppo venuto a prendere l'acqua.
– Aspettate – mormorò la vecchia San, rivolta non a noi ma agli estranei che sopraggiungevano, come se avessero potuto udirla. – Aspettate.
Sapevamo tutti quanto fosse pericoloso avvicinarsi a un gruppo proveniente da un luogo diverso. Ogni comunità era portatrice sana di uno o più patogeni mortali, con i quali ormai si conviveva senza danno; i sintomi, se mai si presentavano in un nuovo nato, erano assai lievi, e passavano entro il primo anno. Noi che vivevamo assieme non potevamo contagiarci l'un l'altro, dato che avevamo già tutti la stessa malattia e le stesse difese. Ma gli estranei avevano altre malattie e altre difese.
Entrare in contatto con loro poteva significare la distruzione di entrambi i gruppi.
Sentii un altro grido spezzato provenire da Taja, e uno dei due che l'affiancava disse: – Che fanno... caricano i fucili?
– Non possono spararci, vero? – chiesi a San. – Siamo troppo vicini al pozzo!
Se uno di noi fosse caduto dentro, o se anche solo il nostro sangue fosse stillato nell'acqua, avrebbe contaminato la fonte rendendola inservibile per chiunque altro. E tanti saluti alla regola non scritta che rispettavamo tutti, di lasciare il pozzo il più possibile pulito, e disinfettare la lastra di metallo e ovunque avessimo toccato.
In fondo, cercavamo solo di sopravvivere tutti nel mondo del dopo.

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