lunedì 13 aprile 2020

Insieme per caso


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Mi ero rifugiata al caffè all'angolo, quello con il gruppo di studenti che improvvisavano musica jazz abbarbicati su una pedana troppo stretta per contenerli tutti, ed ero seduta al mio tavolino solitario con una tazza di tè e un libro di poesie che parevano uscite da una partita di scarabeo, quando il fatto avvenne. Che sia chiaro, ero lì per rimandare le responsabilità che sembravano addensarsi nella mia vita come nubi in un cielo in tempesta, oscurando ogni traccia d'azzurro: non avevo voglia di ridipingere o ristrutturare casa, né di impegnarmi nel giardinaggio, nonostante ormai il mio cortile paresse più una giungla che un prato all'inglese, e di sicuro potevo procrastinare di qualche giorno il cambio stagionale degli pneumatici del mio vecchio macinino. Dunque, l'ultima cosa che cercavo era compagnia, e le coppiette che amoreggiavano agli altri tavoli mi facevano storcere il naso.
Ma il destino aveva altri piani per me.
Non so cosa sarebbe accaduto se non avessi deciso di cedere alla pigrizia per quel giorno, o se avessi scelto un tavolo all'interno, piuttosto che sotto il tendone che dava sulla strada. Del senno di poi sono piene le teste di chi è più bravo di me a rimuginare. Il fatto che avvenne, e che ormai non avrebbe potuto svolgersi in modo diverso, fu che dall'incrocio vennero verso il bar, di corsa e in fila, per primo un furetto, per secondo un cane di taglia media e di razza probabilmente meticcia, e per terzo un ragazzino che gridava in continuazione: – Thomas Jefferson! Thomas Jefferson, fermo! Torna qui! Da bravo!
Non mi soffermai sul fatto che quello fosse un nome assai strano per un cane. Mi preoccupai piuttosto del furetto che raggiunto il mio tavolo, saltò su una sedia, saltò sulla tovaglia, e nella sua frenesia rovesciò il tè sul libro di poesie - non una gran perdita, a mio avviso, almeno per quanto riguarda il libro - prima di zomparmi addosso e arrampicarsi sulla mia testa. Non riuscendo a liberarmene, perché la bestiola tentava di graffiare e mordere ogni volta che avvicinavo le mani, non trovai altra soluzione che calcarmi in testa il cappello di paglia che avevo in grembo prima che il cane mi raggiungesse, tallonato dal bambino.
Il cane non doveva essere di quelli più furbi, perché continuò a girare attorno al tavolo con il naso premuto a terra, tra guaiti e qualche latrato, ignorando la bestia tremebonda con la coda che pendeva fuori dal cappello, e che ogni tanto mi affannavo a ricacciare sotto la falda. Il tutto finì dieci lunghissimi minuti più tardi, con il bambino che riuscì ad agganciare il guinzaglio al cane e a distoglierlo dalla caccia con qualche strattone.
– Aspetta... e il tuo furetto? – gli chiesi, prima che si allontanasse.
Il bimbo fece spallucce. – Non è mio, signora. Se lo può tenere se vuole. Basta che aspetta che siamo lontani prima di tirarlo fuori da lì sotto.
Sospirai e attesi ancora un po', e alla fine dovetti lottare per convincere la bestia a scendere dal suo trespolo. Pensando che qualunque lavoro stessi rimandando fosse meglio di un altro imprevisto come quello, mi accinsi a pagare e a dirigermi a casa, ma dopo pochi passi mi vidi tallonata dalla bestiola a cui avevo dato temporaneo asilo.
– Via... sciò... vattene a casa tua, ragazzaccio dispettoso! – gli intimai, con qualche gesto della mano e del libro fradicio, all'aroma di tè. Agitai persino il cappello, ma niente, quello non mollava. Nonostante le mie continue esortazioni a lasciarmi in pace, per quanto affrettassi il passo fino a risolvermi a correre, non c'era verso: il furetto mi stava sempre dietro, a tre o quattro passi di distanza.
Dovevo avergli fatto una gran bella impressione con quel salvataggio.
Arrivata a casa, una volta aperto la porta, la bestiola mi passò tra le gambe e si accomodò all'interno prima di me, e fu allora che capii che per quanto ci provassi, non mi sarei mai più liberata di quell'impiastro.
E fu così che adottai un furetto. O meglio, che un furetto adottò me.

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