lunedì 24 giugno 2024

Nessuna fotografia né video


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Foto di Knelstrom ltd da Pexels


Se avessi dovuto scommettere, quando ho lasciato la collina che fino ad allora era tutto il mio mondo per andare in mezzo alla gente e imparare a controllarmi e a comportarmi come uno di loro, avrei detto che non sarei riuscito a resistere più di un mese. E invece, mancavano poche settimane alla fine dell'anno scolastico e gli "incidenti" si potevano contare sulle dita di una mano, e mai nessuno abbastanza grave da non poter essere "spiegato" e dimenticato, nei rari casi in cui era accaduto in presenza di testimoni.
Se all'inizio, per evitare guai, mi affrettavo non appena finivano le lezioni a tornare a casa dei parenti di zia Clara, che mi ospitavano e che conoscevano almeno una parte della verità su di me,  con l'andare del tempo mi ero permesso di attardarmi sempre di più con Evangeline e con il suo amico Claudio, anche se non mi ero mai pienamente sentito parte della loro vita.
Non potevo dire loro chi ero. Non potevo permettermi di provare alcuna emozione in loro presenza.
Fortunatamente lo stereotipo dell'adolescente apatico giocava a mio favore, anche se non era facile mantenere quella facciata con quei due che erano, ciascuno a suo modo, l'esatto opposto di quello stereotipo.
Evangeline in un vestito giallo dalla gonna lunga, i campanellini tintinnanti perennemente attaccati allo zaino, era un raggio di sole ciarliero che a stento si tratteneva dal chiacchierare durante le lezioni. Claudio sempre in vena di scherzi, coi suoi mille progetti che non portava mai a termine e la musica ad alto volume, era un giullare di classe ma anche un trascinatore di masse, quando la situazione lo richiedeva.
Io ero una figura sullo sfondo e tale dovevo restare. Perciò, mi sorprendeva che quei due dopo tanti mesi ancora cercassero la mia compagnia.
Quel giorno Evangeline mi aveva invitato a prendere un panino al chiosco, da mangiare seduti su una panchina del parco che attraversavamo sempre, diretti alla fermata dei rispettivi autobus. Non era la prima volta, e dato che di solito alla domanda su quale volevo io rispondevo con un'alzata di spalle e un "è lo stesso", quella volta lei mi aveva preceduto.
– Che panino vuoi? Ah, lo so, aspetta, devi provare questo assolutamente, sono certa che ti piacerà da impazzire!
Se non fossi stato ormai abituato a controllare anche la più piccola delle reazioni, alla vista del suo dito puntato sui panini "alla diavola" avrei rischiato di mostrarle la mia sorpresa nei capelli che si schiarivano all'improvviso, nella mia fisionomia mutata. Ma non era successo nulla, e lei aveva continuato a chiacchierare come faceva di solito, e io mi ero detto che era impossibile che lo avesse scelto per me perché sospettava qualcosa, anche se in uno di quegli "incidenti" c'era stata anche lei.
Che da allora talvolta Evangeline mi guardasse in un modo diverso, era solo una mia impressione.
Probabilmente lo aveva scelto perché sperava con quel gusto piccante di provocare una reazione che non era mai riuscita a evocare in tanti mesi, mi dissi, mentre mangiavo quel panino unto all'ombra di un platano in sua compagnia.
Silenzio, finalmente, da parte sua. Nessuna domanda da glissare, nessun interminabile chiacchiericcio che per quanto fosse diventato quasi piacevole, Evangeline aveva una bella voce in fondo sebbene un po' troppo acuta e infantile, rischiava di rompere la mia concentrazione nel mostrare al mondo sempre lo stesso volto, nel provare nient'altro che una passiva indifferenza.
Solo il canto degli uccelli sopra le nostre teste, lo stormire delle foglie nel vento, voci indistinte e passi distanti da noi, e il traffico in lontananza.
Ogni tanto udivo i campanellini dello zaino di Evangeline, quando lei gli dava una gomitata, e i mugolii che seguivano i suoi bocconi avidi. Colsi con la coda dell'occhio il momento in cui lei si voltò e mi rivolse un sorriso a bocca piena, da bambina. Non mi girai a guardarla, anzi, finsi di non averla nemmeno vista.
Però la sentii sbuffare.
– Almeno è buono il panino che ho scelto per te, noiosone? – fece lei, e poi diede un gridolino di gioia quando i primi piccioni ci svolazzarono intorno, attirati dalle briciole dei nostri panini.
– Qui, bell'uccellino, qui! – disse Evangeline, lanciando pezzetti di pane tutto attorno, cosa che attirò sempre più volatili finché non fummo del tutto circondati, per la sua gioia e per il mio disappunto.
Mantenni la calma, anche se non amavo i pennuti, chissà perché. Forse era per via delle ali. In tutte le rappresentazioni, quelle degli uccelli erano le stesse ali degli angeli.
Poi l'inaspettato avvenne. Dal vialetto del parco, un ragazzo piombò a tutta velocità in mezzo ai piccioni, facendoli volare via all'unisono in un caotico e rumoroso stormo, costringendo me ed Evangeline a ripararci il volto con le braccia, e meno male, perché non sapevo quanto fossi stato in grado di mantenere il controllo in quel momento. Quando lo stormo si fu diradato, vedemmo Claudio in piedi di fronte a noi, con una videocamera sulla spalla, che commentava, con voce impostata a metà strada tra la voce fuori campo di un documentario e un paparazzo di professione che ha ottenuto uno scoop: – Ed ecco, nel suo habitat naturale, la coppia più scombinata dell'intera scuola! Qualcosa da dichiarare?
Mentre Evangeline protestava: – Ma noi non siamo una coppia! Siamo solo amici, Ethan, diglielo anche tu! – Io mi affrettavo a tirare sulla testa il cappuccio della felpa e a girarmi di spalle.
Avevo preso l'abitudine di mettermi sempre giacche o maglie con il cappuccio dall'incidente fuori dalla palestra, la volta in cui avevo difeso Evangeline dai bulli.
Era buio quella volta, e lei mi aveva a malapena intravisto. Non aveva mai capito che ero stato io. Almeno, credo.
Non ne avevamo mai parlato.
– Lo sai che non devo comparire né nelle foto, né nei video! – brontolai in tono cupo rivolto a Claudio, mentre cercavo di riprendere il controllo di me. Ero cambiato, oh, ero certo di essere cambiato, riuscivo a sentirlo.
– Eddai, Ethan, Claudio non voleva fare niente di male – lo difese Evangeline. La sua mano che mi accarezzava la schiena non mi aiutava affatto a tornare alla normalità. Alle volte, avrei voluto che fosse meno gentile con me.
– Sì, amico, Evalina qui ha ragione! – confermò Claudio, storpiando come al solito il nome di Evangeline, che sbuffò e protestò vivacemente a quell'appellativo. – È solo per il progetto di fine anno – proseguì Claudio. – Ho deciso che lo faccio sotto forma di film, farò un film su tutti i nostri compagni, perciò capisci che devi esserci anche tu, no? Non lo vedrà nessuno al di fuori della classe, giuro che non lo metto online né nulla del genere!
La sua voce era diventata quasi una supplica verso la fine.
A loro avevo fornito la versione ufficiale della mia storia. Avevo spiegato che non potevo comparire in nessuna foto o video per evitare che mio padre mi trovasse. Che mia madre era scappata da lui quando ero ancora un bambino, e che io ero rimasto con lei nella comunità protetta assieme ad altre donne vittime di abusi, e avevo studiato da solo in quella casa finché avevo potuto, allontanandomi da quel nostro rifugio solo per sostenere gli esami obbligatori. Da quell'anno invece ero ospite di certi parenti di una donna della comunità che era diventata amica di mia madre, e lei si era fidata a lasciarmi andare solo perché vivevano in una città lontana da dove aveva abitato con mio padre, ma che dovevo stare comunque attento ed evitare che lui potesse riconoscermi da una foto messa online con troppa leggerezza da me o da altri.
Non era quello il vero motivo per cui non volevo prove fotografiche del mio aspetto, ma era una storia abbastanza plausibile, e sufficientemente vera.
Mio padre era davvero un tipo da evitare a tutti i costi, ma non avrebbe guardato Facebook per trovarmi.
Il problema era che con una foto, e peggio ancora con un video, qualcuno avrebbe potuto notare una differenza minima ma significativa nel modo in cui apparivo. La memoria umana è fallace, quella potevo ingannarla se per caso non fossi riuscito a mantenere un controllo perfetto sulle mie emozioni come d'altra parte già mi era capitato. Una foto, invece, era una prova inoppugnabile.
Perciò, anche se quel video non fosse mai finito online, era ugualmente un problema.
Ma non potevo insistere, o avrei rischiato di insospettirlo.
– E va bene – dissi in tono rassegnato, fingendo di cedere. – Ma il resto dell'intervista, o quello che è, la faccio tenendomi il cappuccio su. E dopo oggi, niente più riprese, mai più.
Ero riuscito a riprendere il controllo, perché avevo un piano. Mi girai e sbirciai da sotto il cappuccio con il solito sguardo annoiato.
– È un film! – ribatté Claudio in tono entusiasta. – Il titolo è: "Che cosa fanno gli studenti quando non sono studenti?"
Lo avrebbe sorpreso sapere che cosa facevo io.
Feci spallucce. – Leggo. Ascolto musica. Le solite cose.
Evangeline mi diede una gomitata. – Il signor noiosone qui non si sa divertire, che sorpresa! Io, invece...
E iniziò a raccontare nei minimi dettagli una sua giornata tipo.
Fu solo quando Claudio posò la telecamera su un tavolino del parco, sotto la mia sorveglianza, e si allontanò con Evangeline dopo qualche ripresa in cui erano apparsi insieme e avevano finito come sempre per accapigliarsi e farsi il solletico a vicenda, che io riuscii a mettere in atto il mio piano.
Mi curvai sulla telecamera, in modo che nessuno potesse vedere il mio volto celato dal cappuccio, e pensai a quanto mi irritasse dover sempre fingere, nascondere chi ero, non avere amici o mentire agli unici che potessi considerare tali, a quanta rabbia mi faceva che loro potevano divertirsi e scherzare assieme e io no. Quando sentii che il furore mi colmava e che il mio volto era completamente cambiato, prima che il mio potere scagliasse la telecamera di Claudio e lo zainetto di Evangeline e tutto quello che mi circondava lontano da me, lo concentrai in un unico punto, come mi ero allenato a fare da solo, in camera mia, per tante notti.
Avevo distrutto in un paio di occasioni la scrivania e parte della mobilia della stanza degli ospiti dei parenti di zia Clara, ma ne era valsa la pena.
Con precisione chirurgica diressi una scarica di potere lì dov'era inserita la scheda di memoria in quel modello di telecamera, e la distrussi, lasciando intatto tutto il resto.
Usciva già un fil di fumo da quel punto della telecamera, ma mi presi tutto il tempo che mi serviva per calmarmi e indossare di nuovo la mia maschera di indifferenza. Solo allora, quando fui certo di essere di nuovo il ragazzo apatico che conoscevano, e non quell'altro me, quello arrabbiato e potente che Evangeline aveva intravisto fuori dalla palestra, al buio, li chiamai.
– Claudio? Evangeline? Io non so che sta succedendo qui, ma non mi sembra normale.
Claudio tornò verso di me, dapprima a passi lenti, poi di corsa, tallonato da Evangeline, e quando scorse il filo di fumo che si levava dall'alloggiamento della scheda di memoria, ululò di disperazione: – Nooooooo, che cosa hai fatto, c'era tutto il mio film lì dentro, non avevo ancora scaricato niente...
Mi allontanai dalla telecamera, stringendomi nelle spalle. – Io? Io non l'ho nemmeno toccata.
Ed era vero.
– Se avessi fatto una copia di backup come dice sempre la prof di informatica... – rincarai la dose, mentre Evangeline si affrettava a rincuorarlo.
– Dev'essere stato un corto circuito... mi dispiace tanto, Claudio! Se vuoi quando l'hai riparata ti ridico tutto, faccio anche le stesse facce, basta che mi dici quando e ci troviamo qui al parco... vero Ethan?
Scossi la testa. – Non contate su di me. Avevo detto una volta, solo oggi, e poi mai più. E ora devo tornare a casa. Ci vediamo domani.
Mi girai e me ne andai senza lasciare loro il tempo di ribattere, e per tutto il tragitto in tram riuscii a mantenere una faccia da poker, e quando arrivai a chi era presente in casa biascicai un: – Oggi è stata dura, devo restare un po' da solo.
Mi rintanai nella mia stanza e solo in quel momento lasciai libero sfogo alla rabbia, alla frustrazione, alla tristezza, che alteravano a turno i tratti del mio volto, e al potere violento e devastante che accompagnava quegli stati d'animo, ben diverso da quello che faceva galleggiare gli oggetti quando mi sentivo felice.
Il giorno dopo, dovetti tornare all'Ikea a prendermi un'altra scrivania.

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