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Ho un'amica di penna. Lo so, non è una maniera molto moderna, né comoda, per tenersi in contatto, ma d'altra parte lei non è quello che si può definire una persona moderna. E io non ho altro modo di contattarla che scriverle.
È cominciato tutto un anno fa, quando i miei amici mi hanno regalato un'autentica Remington, uno tra i primi modelli, non starò ad annoiarvi con tutti i dettagli. Ah, per chi non lo sapesse, si tratta di una macchina da scrivere. Quelli che per altri sarebbero sembrati soldi sprecati, per me furono una sorpresa straordinaria. Erano anni che ne cercavo una in buone condizioni, e i miei amici lo sapevano.
Non che fosse un desiderio tanto difficile da indovinare, anche se non li avessi assillati fino alla noia più totale a furia di parlarne. La mia casa straripa di simili anticaglie, radio a transistor, proiettori cinematografici, grammofoni, e ho perfino una macchina fotografica per dagherrotipi, ma la Remington ancora mi mancava. La sistemai in una teca di vetro proprio al centro della mia scrivania, con un foglio inserito, e per un paio di giorni la rimirai da lontano, passando di fretta in corridoio senza entrare nello studio.
Poi una sera, passando come al solito, notai che nella teca c'era qualcosa di diverso. La Remington era ancora lì, come l'avevo lasciata, ma il foglio spuntava un po' di più dal carrello, e quando entrai nello studio e feci il giro della scrivania, scoprii un testo di una decina di righe impresso sul foglio.
All'inizio pensai a uno scherzo. Non credevo che il nastro funzionasse ancora dopo tutti questi anni, e io non mi ero dato pena di sostituirlo, non avendo alcuna intenzione di usarla. Estrassi il foglio dalla macchina da scrivere e lo lessi.
Era una lettera, o forse una pagina di diario. Non era facile da decifrare, per via delle parole obsolete e delle frasi piuttosto complesse. Sembrava un testo tratto da qualche romanzo ottocentesco, e la data a inizio foglio infatti era quella odierna per quanto riguardava giorno e mese, ma l'anno risaliva a più di un secolo fa.
Non poteva essere altro che uno scherzo.
Tirai fuori la macchina da scrivere dalla teca, presi un altro foglio bianco, lo infilai e battei sui tasti una risposta concisa: "Mia cara Violante", questo era il nome con cui il mio amico burlone aveva firmato il suo scherzo, "saluti dall'anno 2024. In fede, Ennio Bertolucci".
Non mi sorprese che tutto funzionasse a dovere: evidentemente, in vista dello scherzo, la macchina da scrivere doveva essere stata revisionata e rimessa in funzione. Nella mia risposta avevo tentato di ricalcare per quanto possibile lo stile ottocentesco del testo, per far sorridere l'autore dello scherzo non appena fosse passato da me in visita e l'avesse vista. Ero certo che in quell'occasione sarei riuscito a beccarlo e a farci due risate assieme. Ma non ce ne fu modo, perché prima della successiva tradizionale serata tra amici, il foglio si era già alzato di un altro paio di centimetri. La risposta firmata da Violante diceva, con molti più giri di parole e digressioni indignate: "Non so chi tu sia o creda di essere, ma non toccare mai più la mia macchina da scrivere".
– Abbiamo un fantasmino arrabbiato, a quanto pare – ricordo che mormorai, e infilai un altro foglio nella Remington, disposto a continuare a stare allo scherzo del mio ingegnoso amico.
Era forse entrato in casa mia mentre ero fuori al lavoro? A chi avevo lasciato una chiave in caso di emergenza?
Me ne stavo lì a riflettere sul probabile colpevole e su cosa potessi scrivergli, già pregustando il ticchettio dei tasti sotto le mie dita, quando lo udii. Dapprima pensai che lo stavo immaginando, d'altra parte conoscevo così bene quel battito rapido e il rollio crepitante del carrello che scorreva indietro. Poi, lo vidi.
I tasti che si abbassavano da soli in rapida sequenza, le parole che si componevano sul foglio. Trasalii e quasi cascai dalla sedia.
Ma allora c'era davvero un fantasma!
Archiviata l'idea che tutto fosse solo un elaborato scherzo da parte di un mio amico, i primi tempi io e Violante li passammo così: io a tentare di convincerla che l'anno era quello che le avevo scritto e che lei era morta e diventata un fantasma, e lei a tentare di convincermi che era vivissima, che io mi sbagliavo sull'anno e che dovevo lasciarla in pace. Arrivò, qualche volta, a dirmi che ero un diavolo o uno spirito maligno, e a minacciare di chiamare un vescovo suo parente per fare un esorcismo.
Qualche settimana dopo, una sera, vidi in tv un film sui viaggi nel tempo che mi fece riconsiderare la nostra situazione. Glielo scrissi: forse avevamo ragione entrambi, eravamo tutti e due vivi nei rispettivi anni, e quella macchina da scrivere ci permetteva per chissà quale scherzo del destino di comunicare.
Violante era scettica, ma mi mise alla prova. Mi chiese se l'uomo fosse arrivato sulla luna o al centro della terra e in quanti giorni si poteva fare il giro del mondo nella mia epoca. Chiaramente, doveva aver letto i romanzi di un certo Jules Gabriel Verne.
Alcune delle mie risposte la scioccarono, altre, la delusero. Procedemmo così, a conoscerci, passando da informazioni più generali sulle rispettive epoche a questioni di ordine più personale.
Nessuno dei due, scoprimmo, era coniugato. Non che importasse, dal momento che non avevamo modo di incontrarci. Più la conoscevo, però, più lei mi piaceva. Era il tipo di donna che mi sarebbe piaciuto incontrare nella mia epoca: intelligente, spiritosa, determinata, certo un po' tradizionalista e superstiziosa alle volte, ma glielo potevo perdonare, considerando il secolo in cui era nata. Ci scrivevamo, se non tutte le sere, tutte le volte che ne avevamo occasione. Anche soltanto per un saluto, per provare che la magia della Remington, o qualunque cosa fosse quella che ci permetteva di comunicare attraverso il tempo, funzionava ancora.
Era un po' come chattare al pc con una donna dall'altra parte del mondo, solo che lo facevo con una tecnologia molto meno avanzata, fogli di carta e macchina da scrivere, e che non c'era alcuna speranza di prendere un aereo per incontrarsi e conoscersi di persona.
Ci sarebbe voluta una macchina del tempo, per quello. Peccato che io non fossi un ingegnere.
Oggi è un anno esatto dal giorno in cui io e Violante iniziammo a scriverci. Il nostro primo anniversario, in un certo senso. E così, anche se non posso condividerli con lei, ho preso una bottiglia di spumante, una torta, e un mazzo di rose rosse. Ce li ho qui, sulla scrivania, e sto cercando di descriverle il tutto il più precisamente possibile, il profumo inebriante delle rose e il sapore aspro e allo stesso tempo dolce, un po' frizzantino, del vino che ho già stappato e assaggiato, e la consistenza morbida del pan di spagna. Cerco di renderla partecipe, nel nostro modo speciale, della mia vita, come lei ha sempre fatto con me. Ci raccontiamo tutto, io e Violante.
Concludo con un "Buon anniversario, mia adorata Violante", e firmo con le mie iniziali per poi andare a capo riga, il segnale convenuto che la informava che io avevo finito e che lasciavo a lei i tasti, nel caso ci fossimo trovati alla scrivania nello stesso istante dei rispettivi tempi paralleli.
Era stato necessario trovare il modo di fare a turno, dopo il disastro di fine ottobre di quasi un anno fa, in cui avevamo cercato di scrivere entrambi nello stesso momento. Il nastro si era incastrato, e per liberarlo avevo dovuto romperlo, e poi cercare in fretta e furia un ricambio con il timore di perdermi un suo messaggio se non avessi sistemato la macchina da scrivere alla svelta.
Nell'attesa continuo la fetta di dolce che avevo a malapena iniziato, e centellino il vino nel bicchiere. La torta non è granché, troppo dolce e pastosa, ma il vino è ottimo, ed è un peccato non potergliene portare un bicchiere né condividere un brindisi. Come lo è non poterle infilare un bocciolo tra i capelli, oppure baciarla.
Ho la tentazione di scriverlo, di aggiungere quelle due righe, ma mi trattengo.
Già i tasti si mettono in movimento da soli, ma è diverso dalle altre volte. I tasti si abbassano uno alla volta, e il ritmo è lento, faticoso, come di qualcosa che si trascina stanco, pesante.
Strano.
Violante è sempre stata abile con la macchina da scrivere, sa battere sui tasti anche più velocemente di me. Mi chino sul testo e lo leggo man mano che si compone di fronte ai miei occhi.
– Lasciate... stare... mia... moglie?
Sono scioccato. Violante mi aveva sempre detto tutto, o almeno così credevo.
Non credo mi avesse mentito, quando mi aveva scritto di non essere "maritata". Non aveva motivo di farlo, eravamo due sconosciuti allora, all'inizio della nostra insolita relazione per corrispondenza, e sapevamo entrambi che non ci sarebbe potuto essere nient'altro che la parola scritta tra di noi.
Non mi aveva però detto di non essere promessa ad alcun uomo, come era probabile si facesse nella sua epoca. E mi aveva accennato una volta, quattro o cinque mesi fa, a una difficile decisione che doveva prendere, senza però specificare quale fosse. Si trattava forse di quel matrimonio? Perché non mi aveva scritto che la sua condizione nel frattempo era cambiata? Aveva forse paura che io avrei smesso di scriverle? Avrei potuto rassicurarla che non sarebbe cambiato nulla tra noi, a parte forse evitare di mandarle un messaggio compromettente come quello che mi era saltato in mente prima di ricevere l'avvertimento da suo marito.
Fortuna che alla fine non lo avevo battuto sui tasti, anche se fino a due minuti fa morivo dalla voglia di renderla partecipe di quel pensiero.
Nel frattempo, l'agonia dei tasti schiacciati a uno a uno è terminata. La frase intera consiste nell'avvertimento di non scrivere più a Violante, e la minaccia di distruggere la macchina da scrivere se l'avessi fatto.
Mi prende il panico, e per un minuto non riesco a ragionare. Ho un solo pensiero. Se la macchina da scrivere fosse stata distrutta nel passato, allora non sarebbe arrivata nelle mie mani e io non avrei mai conosciuto Violante. Non posso permettere che una cosa del genere accada.
Tolgo svelto il foglio dalla macchina da scrivere e la rimetto al suo posto nella teca. Resto a fissarla per cinque minuti buoni, temendo di vederla sparire da un momento all'altro. Poi mi viene in mente che anche se è troppo rischioso per me scriverle, non sapendo chi c'è dall'altra parte, forse Violante può mandarmi comunque un messaggio quando lui non la sorveglia, e quel messaggio senza un supporto in cui restare impresso sarebbe andato perso per sempre. Riapro la teca, infilo un foglio bianco, richiudo la teca.
Per precauzione, la serro con un lucchetto, così non mi viene la tentazione di provare a scriverle, e i mei inconsapevoli amici in visita non possono mettersi a giocare con la Remington.
Loro non sanno nulla di me e Violante. Non gliel'ho mai raccontato, e d'altra parte, non mi crederebbero. Ma i fogli con le nostre parole sono ancora lì, nell'armadio, racconti ordinatamente in file di faldoni, intere nottate passate a tirare tardi chattando con una sconosciuta di più di un secolo fa. Non ho più voglia di festeggiare questo anniversario, butto le rose nella spazzatura e metto lo spumante e la torta in frigo, forse domani li porterò a un barbone, almeno farò felice qualcuno.
Prima di addormentarmi, tristemente presto rispetto al mio solito, formulo un piano. Conosco il suo nome e cognome, conosco il suo anno di nascita e la città dove vive. Quanto sarà difficile reperire informazioni sul suo conto, scoprire se sia rimasta presto vedova o se suo marito se ne sia andato a fare lunghi viaggi per mare e quando?
– Non può finire così, Violante – mi dico. – Giuro che questo non sarà il nostro unico e ultimo anniversario.
Lo so che cosa potete pensare. Perché darsi tanta pena per una donna che in fin dei conti è già morta, e che comunque non potrò mai stringere tra le mie braccia?
Ho una sola risposta.
Amore.
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