giovedì 26 dicembre 2019

Quel grazie su un biglietto


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L'istante in cui il biglietto mi è caduto tra le mani nell'aprire l'armadietto avrei dovuto sentirmi sollevata. In fondo, quel "grazie" sopra a due vocali puntate significava la fine dei miei guai e di ogni ulteriore rischio. Voleva dire che lui se n'era andato dal locale caldaie e che non c'era più niente che voleva che facessi. Niente più commissioni, niente garze cambiate clandestinamente, nessun altro medicinale sottratto alle nostre scorte. Avevo già fatto fin troppo per lui, e un ringraziamento era il minimo. Eppure, non mi sentivo sollevata.
Non era neanche indignazione quello che provavo. Sarebbe stato un sentimento lecito: dopo tutto ciò che avevo fatto, un semplice "grazie" su un foglietto di carta era, appunto, il minimo. Non aveva nemmeno avuto la decenza di dirmelo di persona. E in più, per infilare il biglietto là dentro di sicuro aveva dovuto carpire informazioni su di me, scoprire quale fra i molti armadietti mi apparteneva, e scassinare la serratura. Avevo più di un motivo per giustificare la mia collera. Ma non era quella violazione a irritarmi.
Ero arrabbiata perché durante la sua permanenza nei sotterranei dell'ospedale io mi ero sentita viva come mai mi era capitato prima di allora, e quel biglietto giungeva come un'inattesa brutta notizia a porre fine a tutto, e lo aveva deciso lui, senza consultarmi, senza nemmeno chiedermi se a me stava bene. Accartocciai il biglietto nella mano stretta a pugno e ignorai l'occhiata in tralice di Colette, due armadietti più in là. Avevo un vantaggio: sapevo dove abitava.
E avevo tutta l'intenzione di non permettere che finisse così.

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