giovedì 2 giugno 2022

Il figlio della rabbia


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Sergey Katyshkin da Pexels


Ruben si terse la fronte con il polso. La polvere rossa era ovunque, e danzava finissima nell'aria al ritmo del suo braccio, nel manovrare avanti e indietro la pialla sulla figura che aveva di fronte, sempre meno grezza. Mescolata al sudore, gli colava sulle palpebre, appannandogli la vista con un velo rosso.
Quando gli avevano portato quel pezzo di legno, Ruben aveva detto che non sapeva che farsene.
– Usalo, tienilo, non ci importa – gli avevano detto. – Noi non lo vogliamo. Questo legno è maledetto, sanguina.
E in effetti, non appena Ruben aveva passato la mano sul legno - incredibilmente liscio, privo di nodi o venature, e di un tenue color carne - gli era rimasta appiccicata quella polvere rossa, impalpabile come cipria. Il falegname lo aveva messo da parte, in un angolo della bottega, ed era andato avanti con il suo lavoro.
Nel corso degli anni, Ruben pensò più volte di buttarlo via, o di farne legna da ardere per il camino; se non mise in atto i suoi propositi, fu solo a causa di sua moglie. Era lei che ogni sera spazzava il pavimento della bottega, raccoglieva i pezzetti di legno più grandi, che potevano essere ancora utili per scaldarsi, e cacciava fuori dalla porta i trucioli più fini e la polvere, compresa quella di colore rosso che quotidianamente veniva prodotta da quel vecchio legno.
– Come sta oggi il mio bambino? – chiedeva la donna nel passargli accanto, e gli assestava qualche affettuosa pacca sull'estremità in alto. Poi rideva, e Ruben con lei.
Sua moglie morì senza dargli un figlio.
Folle di rabbia e di dolore, Ruben si precipitò in bottega e menò fendenti con lo scalpello contro il banco di lavoro e contro le ultime opere in attesa solo di essere terminate o consegnate. Sfregiò la statuina di una fata, distrusse a martellate un teatrino di burattini, si accanì contro un asinello di legno, finché non sollevò il martello contro lo strano dono di tanti anni prima. Allora, il falegname vacillò.
– ...il mio bambino – biascicò con voce impastata il vecchio falegname. Mollò gli strumenti, che piombarono con fracasso sul pavimento, e cadde in ginocchio.
Decise in quell'istante che le avrebbe dato il bambino che loro non avevano potuto avere.
La brava gente del villaggio mormorava che il falegname era impazzito, poiché Ruben non consegnò mai gli ultimi lavori che gli erano stati richiesti, e non ne accettò di nuovi.
Da mattina a sera, non faceva altro che lavorare uno strano pezzo di legno color carne, che qualche taglialegna superstizioso gli aveva consegnato anni prima. Passando davanti alla finestra semichiusa della sua bottega, lo si poteva vedere indaffarato nella stanza in penombra, a battere colpi frenetici con il mazzuolo sullo scalpello, o a lavorare di raspa per lisciare la superficie della sua opera o ancora maneggiare l'una o l'altra sgorbia dalla lama sagomata per incidere i dettagli. Ogni giorno i suoi passi e i suoi sospiri si mescolavano ai colpi sordi e ripetuti, al tintinnare degli strumenti posati o afferrati dal banco, al ritmico grattare del metallo sul legno.
E ovunque, la polvere rossa si librava, volteggiava, riempiva lo spazio densa come la furia del falegname, come il suo livore che non si era mai sopito. La vita era stata ingiusta con lui, gli aveva tolto tutto, senza dargli in cambio nulla. Aveva solo quel pezzo di legno trasfigurato nella statua di un ragazzo di dodici, forse tredici anni, così realistico da togliere il fiato, da non parere nemmeno di legno, da non lasciare sorpresi se un giorno o l'altro avesse deciso di muoversi e parlare.
– Il mio bambino...
Il falegname gli aveva parlato, di tanto in tanto, nel corso della sua creazione. Tossendo per la polvere rossa che gli entrava in bocca, gli aveva raccontato di lei, di com'era stata buona e amabile, e gli aveva raccomandato di essere un bravo bambino, rispettoso, educato e sincero. Non aveva mai ricevuto risposta dalla sua creazione di legno, ma nella sua follia, Ruben si era convinto che la statua del fanciullo lo stesse ascoltando.
Ruben aveva impiegato tutta la sua maestria nella sua creazione più bella. Seduto sul banco di lavoro, con la polvere rossa che gli si depositava addosso e arrossava le gote, Ruben ammirò la perfezione delle dita mollemente adagiate in grembo, e il lieve tremolio dietro le palpebre chiuse.
La statua aprì gli occhi e lo fissò.
Ruben, dopo il primo istante di stupore, fece per spalancare le braccia e abbracciarlo, ma fu raggelato nell'udire la voce roca e astiosa del ragazzo.
– Padre...
La statua afferrò lo scalpello accanto alle sue gambe sul banco di lavoro, contrasse le labbra in un ghigno sadico, e pugnalò al collo il falegname.
La mattina dopo, quando la brava gente del villaggio lo trovò esanime tra la polvere rossa e il sangue raggrumato, e senza più traccia alcuna della bellissima opera su cui lo avevano visto al lavoro dalla finestra, giudicò che qualcuno, probabilmente uno straniero di passaggio - sia mai che il colpevole di un crimine così efferato fosse stato ancora lì in mezzo a loro - lo avesse ucciso per rubare il suo capolavoro.

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