venerdì 28 giugno 2024

Yak

Yak voce tibetana; in it. s.m. inv., pr. adatt. Grosso ruminante dal pelame lungo, folto e ondulato, di colore scuro, con lunghe corna, allevato sugli altipiani del Tibet.

Etimologia: voce di origine tibetana, dalla parola gyag, "yak".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


Alcyone mi tirò per la manica e mi indicò un manifesto appeso a una bacheca di legno.
La assecondai e mi fermai a leggere. – Cercasi Bue Longicorna per il viaggio della Gran Sacerdotessa Amaveradora di Oire.
La pergamena era corredata dal disegno di un bovino con un paio di corna esagerate, cavalcato da una bellissima fanciulla circonfusa di luce. Stando a quanto c’era scritto, il tempio si serviva da anni dallo stesso allevatore per i pellegrinaggi della sacerdotessa. Tuttavia, pochi mesi prima, quel tizio aveva ceduto l’intera mandria a un mercante per darsi alla coltivazione di legumi, lasciando letteralmente a piedi la sacerdotessa.
Fischiai. – Tutta la mandria? Quello sì che ci sa fare col commercio. Se avessi la metà del suo talento, a quest’ora non ci troveremmo a dover lavare i piatti per guadagnarci un pasto. A tal proposito, forse è meglio se cerchiamo una taverna a corto di personale…
– No, no, Trevis! Guarda! – Alcyone staccò un manifesto che copriva la sommità del primo e lesse la scritta a lettere cubitali: – Ricompensa: 2000 ducati.
Ecco, ora quel pezzo di pergamena aveva la mia totale attenzione. – Dobbiamo procurarci un Bue Longicorna. Subito!
Alcyone assunse quello sguardo Quello che voleva dire che da lì a poco le cose si sarebbero messe molto male per noi, ed esclamò: – Io sono stata uno yak, una volta!
Sospirai. Le mie conversazioni con lei tendevano a ruotare attorno a quel genere particolare di logica che la gente normale avrebbe definito follia. Dal mio punto di vista, però, ero più matto io che le andavo dietro e che ormai non mi chiedevo più se quello che mi diceva fosse vero o falso.
– Ma questo qui non è uno yak. È un Bue Longicorna. E scusa, devo ricordarti quello che è successo l’ultima volta che abbiamo tentato una cosa del genere?
Alcyone già non mi ascoltava più. Si legò il nastrino rosso al polso e iniziò a cantilenare la formula magica fatta di sillabe incomprensibili, sbrilluccichii vaganti e cose del genere.
– Oh, dei del cielo, lo sta facendo di nuovo! – Mi girai. Non volevo vederlo.
Non appena Alcyone si fu trasformata nella bestia del manifesto, si avvicinò a noi una vecchina con un sacchetto. – Buon uomo, mi vu-vuoi vendere la tua mu-mucca? – mi chiese, incespicando un po’ nelle parole. – In cambio ti po-posso dare non tre, non cinque, ma un sa-sacchetto pieno di fagioli ma-magici…
– No! Non vendo niente. Via, sciò! – sbottai, esasperato. – Non è possibile. Da quando quel Jack si è messo a raccontare la sua storiella, ogni contadino della zona si sente in dovere di tentare di fregare chiunque giri accompagnato da un capo di bestiame!

giovedì 27 giugno 2024

Audioracconto - Origami


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di LA MM da Pexels


Breve metafora sulla vita come un origami.

Origami
(racconto breve non di genere)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2019/11/origami.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Prelude No. 22 di Chris Zabriskie
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=GE4dhW0bUgs).

Immagine di: LA MM (https://www.pexels.com/it-it/foto/carta-origami-rossa-1582782/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 24 giugno 2024

Nessuna fotografia né video


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Foto di Knelstrom ltd da Pexels


Se avessi dovuto scommettere, quando ho lasciato la collina che fino ad allora era tutto il mio mondo per andare in mezzo alla gente e imparare a controllarmi e a comportarmi come uno di loro, avrei detto che non sarei riuscito a resistere più di un mese. E invece, mancavano poche settimane alla fine dell'anno scolastico e gli "incidenti" si potevano contare sulle dita di una mano, e mai nessuno abbastanza grave da non poter essere "spiegato" e dimenticato, nei rari casi in cui era accaduto in presenza di testimoni.
Se all'inizio, per evitare guai, mi affrettavo non appena finivano le lezioni a tornare a casa dei parenti di zia Clara, che mi ospitavano e che conoscevano almeno una parte della verità su di me,  con l'andare del tempo mi ero permesso di attardarmi sempre di più con Evangeline e con il suo amico Claudio, anche se non mi ero mai pienamente sentito parte della loro vita.
Non potevo dire loro chi ero. Non potevo permettermi di provare alcuna emozione in loro presenza.
Fortunatamente lo stereotipo dell'adolescente apatico giocava a mio favore, anche se non era facile mantenere quella facciata con quei due che erano, ciascuno a suo modo, l'esatto opposto di quello stereotipo.
Evangeline in un vestito giallo dalla gonna lunga, i campanellini tintinnanti perennemente attaccati allo zaino, era un raggio di sole ciarliero che a stento si tratteneva dal chiacchierare durante le lezioni. Claudio sempre in vena di scherzi, coi suoi mille progetti che non portava mai a termine e la musica ad alto volume, era un giullare di classe ma anche un trascinatore di masse, quando la situazione lo richiedeva.
Io ero una figura sullo sfondo e tale dovevo restare. Perciò, mi sorprendeva che quei due dopo tanti mesi ancora cercassero la mia compagnia.
Quel giorno Evangeline mi aveva invitato a prendere un panino al chiosco, da mangiare seduti su una panchina del parco che attraversavamo sempre, diretti alla fermata dei rispettivi autobus. Non era la prima volta, e dato che di solito alla domanda su quale volevo io rispondevo con un'alzata di spalle e un "è lo stesso", quella volta lei mi aveva preceduto.
– Che panino vuoi? Ah, lo so, aspetta, devi provare questo assolutamente, sono certa che ti piacerà da impazzire!
Se non fossi stato ormai abituato a controllare anche la più piccola delle reazioni, alla vista del suo dito puntato sui panini "alla diavola" avrei rischiato di mostrarle la mia sorpresa nei capelli che si schiarivano all'improvviso, nella mia fisionomia mutata. Ma non era successo nulla, e lei aveva continuato a chiacchierare come faceva di solito, e io mi ero detto che era impossibile che lo avesse scelto per me perché sospettava qualcosa, anche se in uno di quegli "incidenti" c'era stata anche lei.
Che da allora talvolta Evangeline mi guardasse in un modo diverso, era solo una mia impressione.
Probabilmente lo aveva scelto perché sperava con quel gusto piccante di provocare una reazione che non era mai riuscita a evocare in tanti mesi, mi dissi, mentre mangiavo quel panino unto all'ombra di un platano in sua compagnia.
Silenzio, finalmente, da parte sua. Nessuna domanda da glissare, nessun interminabile chiacchiericcio che per quanto fosse diventato quasi piacevole, Evangeline aveva una bella voce in fondo sebbene un po' troppo acuta e infantile, rischiava di rompere la mia concentrazione nel mostrare al mondo sempre lo stesso volto, nel provare nient'altro che una passiva indifferenza.
Solo il canto degli uccelli sopra le nostre teste, lo stormire delle foglie nel vento, voci indistinte e passi distanti da noi, e il traffico in lontananza.
Ogni tanto udivo i campanellini dello zaino di Evangeline, quando lei gli dava una gomitata, e i mugolii che seguivano i suoi bocconi avidi. Colsi con la coda dell'occhio il momento in cui lei si voltò e mi rivolse un sorriso a bocca piena, da bambina. Non mi girai a guardarla, anzi, finsi di non averla nemmeno vista.
Però la sentii sbuffare.
– Almeno è buono il panino che ho scelto per te, noiosone? – fece lei, e poi diede un gridolino di gioia quando i primi piccioni ci svolazzarono intorno, attirati dalle briciole dei nostri panini.
– Qui, bell'uccellino, qui! – disse Evangeline, lanciando pezzetti di pane tutto attorno, cosa che attirò sempre più volatili finché non fummo del tutto circondati, per la sua gioia e per il mio disappunto.
Mantenni la calma, anche se non amavo i pennuti, chissà perché. Forse era per via delle ali. In tutte le rappresentazioni, quelle degli uccelli erano le stesse ali degli angeli.
Poi l'inaspettato avvenne. Dal vialetto del parco, un ragazzo piombò a tutta velocità in mezzo ai piccioni, facendoli volare via all'unisono in un caotico e rumoroso stormo, costringendo me ed Evangeline a ripararci il volto con le braccia, e meno male, perché non sapevo quanto fossi stato in grado di mantenere il controllo in quel momento. Quando lo stormo si fu diradato, vedemmo Claudio in piedi di fronte a noi, con una videocamera sulla spalla, che commentava, con voce impostata a metà strada tra la voce fuori campo di un documentario e un paparazzo di professione che ha ottenuto uno scoop: – Ed ecco, nel suo habitat naturale, la coppia più scombinata dell'intera scuola! Qualcosa da dichiarare?
Mentre Evangeline protestava: – Ma noi non siamo una coppia! Siamo solo amici, Ethan, diglielo anche tu! – Io mi affrettavo a tirare sulla testa il cappuccio della felpa e a girarmi di spalle.
Avevo preso l'abitudine di mettermi sempre giacche o maglie con il cappuccio dall'incidente fuori dalla palestra, la volta in cui avevo difeso Evangeline dai bulli.
Era buio quella volta, e lei mi aveva a malapena intravisto. Non aveva mai capito che ero stato io. Almeno, credo.
Non ne avevamo mai parlato.
– Lo sai che non devo comparire né nelle foto, né nei video! – brontolai in tono cupo rivolto a Claudio, mentre cercavo di riprendere il controllo di me. Ero cambiato, oh, ero certo di essere cambiato, riuscivo a sentirlo.
– Eddai, Ethan, Claudio non voleva fare niente di male – lo difese Evangeline. La sua mano che mi accarezzava la schiena non mi aiutava affatto a tornare alla normalità. Alle volte, avrei voluto che fosse meno gentile con me.
– Sì, amico, Evalina qui ha ragione! – confermò Claudio, storpiando come al solito il nome di Evangeline, che sbuffò e protestò vivacemente a quell'appellativo. – È solo per il progetto di fine anno – proseguì Claudio. – Ho deciso che lo faccio sotto forma di film, farò un film su tutti i nostri compagni, perciò capisci che devi esserci anche tu, no? Non lo vedrà nessuno al di fuori della classe, giuro che non lo metto online né nulla del genere!
La sua voce era diventata quasi una supplica verso la fine.
A loro avevo fornito la versione ufficiale della mia storia. Avevo spiegato che non potevo comparire in nessuna foto o video per evitare che mio padre mi trovasse. Che mia madre era scappata da lui quando ero ancora un bambino, e che io ero rimasto con lei nella comunità protetta assieme ad altre donne vittime di abusi, e avevo studiato da solo in quella casa finché avevo potuto, allontanandomi da quel nostro rifugio solo per sostenere gli esami obbligatori. Da quell'anno invece ero ospite di certi parenti di una donna della comunità che era diventata amica di mia madre, e lei si era fidata a lasciarmi andare solo perché vivevano in una città lontana da dove aveva abitato con mio padre, ma che dovevo stare comunque attento ed evitare che lui potesse riconoscermi da una foto messa online con troppa leggerezza da me o da altri.
Non era quello il vero motivo per cui non volevo prove fotografiche del mio aspetto, ma era una storia abbastanza plausibile, e sufficientemente vera.
Mio padre era davvero un tipo da evitare a tutti i costi, ma non avrebbe guardato Facebook per trovarmi.
Il problema era che con una foto, e peggio ancora con un video, qualcuno avrebbe potuto notare una differenza minima ma significativa nel modo in cui apparivo. La memoria umana è fallace, quella potevo ingannarla se per caso non fossi riuscito a mantenere un controllo perfetto sulle mie emozioni come d'altra parte già mi era capitato. Una foto, invece, era una prova inoppugnabile.
Perciò, anche se quel video non fosse mai finito online, era ugualmente un problema.
Ma non potevo insistere, o avrei rischiato di insospettirlo.
– E va bene – dissi in tono rassegnato, fingendo di cedere. – Ma il resto dell'intervista, o quello che è, la faccio tenendomi il cappuccio su. E dopo oggi, niente più riprese, mai più.
Ero riuscito a riprendere il controllo, perché avevo un piano. Mi girai e sbirciai da sotto il cappuccio con il solito sguardo annoiato.
– È un film! – ribatté Claudio in tono entusiasta. – Il titolo è: "Che cosa fanno gli studenti quando non sono studenti?"
Lo avrebbe sorpreso sapere che cosa facevo io.
Feci spallucce. – Leggo. Ascolto musica. Le solite cose.
Evangeline mi diede una gomitata. – Il signor noiosone qui non si sa divertire, che sorpresa! Io, invece...
E iniziò a raccontare nei minimi dettagli una sua giornata tipo.
Fu solo quando Claudio posò la telecamera su un tavolino del parco, sotto la mia sorveglianza, e si allontanò con Evangeline dopo qualche ripresa in cui erano apparsi insieme e avevano finito come sempre per accapigliarsi e farsi il solletico a vicenda, che io riuscii a mettere in atto il mio piano.
Mi curvai sulla telecamera, in modo che nessuno potesse vedere il mio volto celato dal cappuccio, e pensai a quanto mi irritasse dover sempre fingere, nascondere chi ero, non avere amici o mentire agli unici che potessi considerare tali, a quanta rabbia mi faceva che loro potevano divertirsi e scherzare assieme e io no. Quando sentii che il furore mi colmava e che il mio volto era completamente cambiato, prima che il mio potere scagliasse la telecamera di Claudio e lo zainetto di Evangeline e tutto quello che mi circondava lontano da me, lo concentrai in un unico punto, come mi ero allenato a fare da solo, in camera mia, per tante notti.
Avevo distrutto in un paio di occasioni la scrivania e parte della mobilia della stanza degli ospiti dei parenti di zia Clara, ma ne era valsa la pena.
Con precisione chirurgica diressi una scarica di potere lì dov'era inserita la scheda di memoria in quel modello di telecamera, e la distrussi, lasciando intatto tutto il resto.
Usciva già un fil di fumo da quel punto della telecamera, ma mi presi tutto il tempo che mi serviva per calmarmi e indossare di nuovo la mia maschera di indifferenza. Solo allora, quando fui certo di essere di nuovo il ragazzo apatico che conoscevano, e non quell'altro me, quello arrabbiato e potente che Evangeline aveva intravisto fuori dalla palestra, al buio, li chiamai.
– Claudio? Evangeline? Io non so che sta succedendo qui, ma non mi sembra normale.
Claudio tornò verso di me, dapprima a passi lenti, poi di corsa, tallonato da Evangeline, e quando scorse il filo di fumo che si levava dall'alloggiamento della scheda di memoria, ululò di disperazione: – Nooooooo, che cosa hai fatto, c'era tutto il mio film lì dentro, non avevo ancora scaricato niente...
Mi allontanai dalla telecamera, stringendomi nelle spalle. – Io? Io non l'ho nemmeno toccata.
Ed era vero.
– Se avessi fatto una copia di backup come dice sempre la prof di informatica... – rincarai la dose, mentre Evangeline si affrettava a rincuorarlo.
– Dev'essere stato un corto circuito... mi dispiace tanto, Claudio! Se vuoi quando l'hai riparata ti ridico tutto, faccio anche le stesse facce, basta che mi dici quando e ci troviamo qui al parco... vero Ethan?
Scossi la testa. – Non contate su di me. Avevo detto una volta, solo oggi, e poi mai più. E ora devo tornare a casa. Ci vediamo domani.
Mi girai e me ne andai senza lasciare loro il tempo di ribattere, e per tutto il tragitto in tram riuscii a mantenere una faccia da poker, e quando arrivai a chi era presente in casa biascicai un: – Oggi è stata dura, devo restare un po' da solo.
Mi rintanai nella mia stanza e solo in quel momento lasciai libero sfogo alla rabbia, alla frustrazione, alla tristezza, che alteravano a turno i tratti del mio volto, e al potere violento e devastante che accompagnava quegli stati d'animo, ben diverso da quello che faceva galleggiare gli oggetti quando mi sentivo felice.
Il giorno dopo, dovetti tornare all'Ikea a prendermi un'altra scrivania.

sabato 22 giugno 2024

Xerobio

Xerobio [xe-rò-bio] agg., s. (pl.m. -bi) 1. agg. biol. Di organismo vegetale o animale in grado di vivere in ambienti aridi. 2. s.m. Ambiente naturale caratterizzato da clima molto asciutto e dalla grande scarsità o assoluta mancanza di acqua.

Etimologia: deriva dal greco, composto da xeros, "secco, arido", e da bios, "vita".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non avevo bisogno di voltarmi per capire che era là.
La creatura mi spiava ormai da giorni, sempre alla stessa distanza. Si avvicinava sottovento, con cautela. Passi lievi, respiro trattenuto. Ma nonostante tutte le sue precauzioni, la sua presenza non era un mistero per me.
Quel giorno, però, c’era qualcosa di diverso. Quel giorno la creatura era più vicina.
Continuai a scavare la buca. Avrei potuto lasciare che se ne occupasse un’unità automatica, ma c’era qualcosa nei lavori manuali, nell’usare il mio corpo, che mi elettrizzava quasi quanto il riflettere su teorie e astrazioni.
Posai la pala e sollevai la pianta aliena. Volevo che la creatura la vedesse: foglie carnose dalla forma sagittata, di un rossiccio marrone, e un lungo groviglio di radici arruffato dal vento. La abbassai nella buca e adattai la mia voce per parlare alla creatura a una frequenza che il suo orecchio fosse in grado di udire: – La riconosci? Viene dal vostro deserto, a nord di qui. Ha radici profonde, ma il vento era riuscito a strapparla dalla terra, e col tempo l’avrebbe sepolta. Si può dire che l’ho salvata. Sai come si chiama?
Rimasi in ascolto mentre spingevo con le mani la terra sabbiosa nella buca, a ricoprire le radici. Non sapevo quanto il dialetto di quella zona selvaggia del pianeta fosse diverso dalla lingua ufficiale. Avevo bisogno di sentire la creatura parlare, per capirlo. Ma lei, o lui, non emetteva alcun suono, a parte i lievi fruscii che mi permettevano di individuare la sua posizione, sempre più vicina, alle mie spalle. Sganciai dalla cintura il cilindro dell’acqua, sfiorai il pulsante per aprirlo, sollevai una foglia e versai qualche goccia.
– La ammiro, sai? È una creatura resistente. Xerobia. Non le serve molto, ma ogni tanto ha sete anche lei. Ne ho portata più del necessario, tu vuoi dell’acqua? – Tesi indietro il braccio, senza guardare. Lasciai il cilindro quando avvertii un’altra mano afferrarlo. Ah, il linguaggio dell’offerta di nutrimento o di ristoro, simbolo universale di amicizia!
Solo allora osai voltarmi a guardarla con tutti e quattro i miei occhi. La creatura stringeva il cilindro tra le mani palmate, di un colore appena più chiaro di quello delle foglie. Mormorò qualcosa che non somigliava affatto alla lingua ufficiale che avevo appreso. Ma io ho una memoria perfetta di qualunque suono abbia mai udito, e non mi fu difficile confrontare il suo bisbiglio con le parole che già conoscevo, provando ad alterare mentalmente vocali, consonati e accenti fino a giungere a una frase di senso compiuto.
Provai a riformulare quella frase con altre parole, modificate nella pronuncia secondo ciò che avevo appreso del suo dialetto: – È male inghiottire un liquido da soli?
– Sì – replicò la creatura, tendendomi il cilindro. – Prima tu.

giovedì 20 giugno 2024

Audioracconto - L'orsacchiotto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Pixabay da Pexels


I problemi di un padre alle prese con l'orsacchiotto un po' troppo grande della figlia.

L'orsacchiotto
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2019/11/lorsacchiotto.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Good Starts di Jingle Punks
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=ghwT9pOcvMc).

Immagini di: Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-che-abbraccia-il-giocattolo-della-peluche-dell-orso-grigio-sul-materasso-bianco-206402/), Brett Sayles (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-con-l-espressione-facciale-alla-scatto-di-foto-2771786/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 17 giugno 2024

Morte in piscina


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Alex Sever da Pexels


Lasciamelo dire, i luoghi affollati sono i peggiori. I luoghi di vacanza affollati, in cui c'è tanta gente che corre, ride e si diverte, il peggio del peggio. Ma non scelgo io dove finisce una vita, non detto io le regole.
Eh sì, succede anche qui, in un parco acquatico, fra scivoli colorati, gonfiabili galleggianti e fontane che spruzzano getti d'acqua tiepida sulle teste dei ragazzini urlanti. È una bella giornata, rovente a giudicare dalla qualità della luce, io il calore non lo sento più da un pezzo. Se vorrei mollare tutto, ignorare il richiamo che mi ha condotto fin qui e andare a divertirmi? Qualche anno fa, ti avrei detto di sì. Ma anche quello è passato da un pezzo.
Non sono qui in cerca di una normalità e di una vita che non mi appartiene più. Sono qui per il bambino. È sotto da un bel po' ormai, e il bagnino che dovrebbe sorvegliare questa zona si è allontanato per riportare un marmocchio che si è smarrito dai suoi genitori. C'è un altro addetto alle piscine in zona, ma è troppo impegnato ad approcciare con sapide avances una ragazza allungata su una sdraio. Gli amichetti del bambino probabilmente pensano che stia scherzando, o ignorano il pericolo. Nessuno degli adulti si è accorto di niente.
Gli resto solo io, e sento quanto la sua anima mi chiami, quanto ormai sia vicina al limite. Gli lascio ancora qualche istante, un'ultima speranza che qualcuno intervenga, ma la catena di coincidenze che ha portato a questo momento non si spezza, e allora avanzo. So che cosa potresti dire. Che sono crudele, a prendere un bambino. Credimi se ti dico che l'alternativa sarebbe peggio.
Prova a ricordare il dolore più intenso che tu abbia mai sentito nella tua vita, moltiplicalo per mille poiché il ricordo di un dolore è invariabilmente sbiadito rispetto all'originale, e immagina che non abbia fine. Ecco, questa è l'alternativa.
Comunque, ora è tempo, vado dal bambino. I luoghi affollati come questa piscina mi costringono a una danza di schivate e a tenere bene in alto sopra le teste altrui la mia falce, poiché la lama è molto affilata e basta un semplice tocco, e io non ho voglia di prendermi anche qualche extra come mi capitava all'inizio, quand'ero un tristo mietitore inesperto e recalcitrante. A bordo piscina valuto la situazione, il bambino è ancora sotto, un altro ragazzino tuffa la testa sott'acqua ma ha i braccioli, impossibile immergersi. In lontananza, in un'altra piscina, un bagnino fischia e poi redarguisce dei monelli per chissà quale comportamento pericoloso. Io trovo un varco tra i corpi dei giovani bagnanti e mi tuffo, e lascio che l'acqua odorosa di cloro mi avvolga senza bagnarmi.
Avrei potuto semplicemente apparire sul fondo della piscina, ma anche in situazioni come queste a volte provo ancora piacere a muovermi come l'essere umano che ero, anche se il mio corpo attuale è totalmente diverso. Non ho bisogno di respirare, né di battere le palpebre. Però posso nuotare.
Raggiungo il bambino e lo abbraccio. Sembra così piccolo, con la schiena contro il mio petto. Ha smesso di dibattersi e ora giace inerte tra le mie braccia. Il suo cuore batte ancora, debole e rallentato, ancora per poco.
Guardo verso l'alto, le ombre degli altri bambini che si agitano in superficie, sembra quasi un altro mondo, un mondo lontanissimo, da cui persino i suoni, le loro grida di gioia, lo scroscio dell'acqua, i rapidi passi nelle ciabatte di plastica a bordo piscina giungono attutiti e distanti. L'unica cosa che conta adesso è questa eco che mi vibra nella schiena, in qualunque cosa io abbia al posto della spina dorsale, e che mi sprona con la pressione di un'agonia a prendere il bambino.
No, non c'è davvero più tempo. E allora appoggio la punta della falce al suo petto nudo, un piccolo graffio, ed è fatta. Il suo corpo mi pare farsi più leggero, la falce più pesante. Lo lascio, e mi allontano di un paio di bracciate.
All'improvviso l'acqua della piscina si anima, io mi faccio più indietro, in un gorgoglio di bolle due uomini afferrano il corpo del bambino e lo tirano su.
Uno dei due ha la divisa da bagnino, l'altro no, ma non ha importanza. Ci proveranno, ma non c'è più niente da rianimare nel piccolo affogato. Il mio lavoro qui è compiuto.
Lascio la piscina con i suoi scivoli colorati, i suoi gonfiabili e i suoi giochi d'acqua che soffiano imperterriti allegri spruzzi, nonostante la gioia sia ormai mutata in sgomento lassù, oltre i riverberi del sole sull'acqua, e a allo sgomento seguirà la disperazione, e come sempre accade in questi casi verranno distribuite colpe a chi non ha vegliato. Ma non è cosa che mi riguardi.
C'è un'altra piscina che aspetta l'anima che ho preso, nella sala delle memorie ribelli.

sabato 15 giugno 2024

Whist

Whist s. ingl. inv.; in it. s.m. (solo sing.) Gioco di carte simile al bridge.

Etimologia: voce di origine inglese, di etimo incerto, forse derivata da un incrocio tra il verbo whisk, "spazzare, spolverare", ma anche "guizzare via", e l'espressione whist!, "zitto!", che si riferisce al silenzio obbligatorio per i giocatori.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Rusanthan Harish da Pexels


Gileann era sotto di ventitré punti e non aveva più carte di draghi da giocare. Non era il caso di regalare ai suoi avversari la regina di fate, perciò la scelta era tra scartare un misero tre di ondine o cercare di prendere il cavaliere di draghi con uno dei suoi elfi, che per quella mano erano i vincenti. Per quanto poco valesse un cavaliere, erano pur sempre punti, ma Gileann doveva considerare anche i tre assi che non erano stati giocati.
– Che ti succede, occidentale? Non c’è magia in questa mano? – lo sbeffeggiò il giocatore alla sua destra. – O forse dovrei dire: in queste carte?
Non era raro che i giocatori si sfottessero durante una partita di whist, come in tutti i giochi in cui la concentrazione era necessaria; ma il modo lento con cui erano state pronunciate le ultime parole indussero Gileann a dare all’uomo una seconda occhiata. Era un tizio pallido, con baffi sottili, un pizzetto deformato dal ghigno e la testa rasata sotto a un basco grigio. La tunica di lana grezza dalle cuciture allentate era in parte fuori dalle brache, ma la cintura in pelle di teraptide era chiusa da un’elaborata fibbia d’argento e le sue unghie erano curate e pulite. Quando staccò la destra dal ventaglio di carte per farla scivolare verso una sacchetta in seta di Varelya appesa alla cinta, Gileann mollò le carte, si alzò in piedi, gli torse il braccio dietro la schiena e gli sbatté la testa sul tavolo.
– Un dannato baro – biascicò agli altri due. Bastò a farli rilassare e a impedire che si intromettessero: l’ometto stava vincendo e non aveva amici a quel tavolo. Gileann si abbassò per sussurrargli all’orecchio: – So riconoscere un travestimento quando ne vedo uno. E il tuo è pessimo, mago.
Alzò gli occhi dal viso furibondo per assicurarsi che non avesse un compare in sala, pronto a intervenire con qualche abracadabra; poi proseguì: – Ascoltami bene e vedi di riferirlo anche al tuo arcimago o a chi ti ha mandato: io ho bruciato il mazzo di carte Symbolon di mio padre. Non mi andava di essere perseguitato per tutta la vita da voialtri per qualcosa che comunque non avrei saputo come usare, è chiaro? E ora vattene prima che ti dimostri che la mia mano è più veloce della tua mente.
Gileann lo lasciò andare via e si sedette. Erano rimasti in tre e non si poteva giocare in tre a whist. Ma ben presto un uomo dai capelli scuri si avvicinò a loro.
– Serve un quarto? Mi hanno appena cacciato dal tavolo dei dadi, oggi madama Fortuna è con me! – esclamò. Quando si fu seduto, mentre le carte venivano rimescolate, bisbigliò a Gileann: – Ho visto ciò che hai fatto. Ci vuole fegato a minacciare un mago. Se qui non stai vincendo e ti servono soldi, potrei avere proprio il lavoro che fa per te.

giovedì 13 giugno 2024

Audioracconto - Il fiore di Tìpfhé


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Pixabay da Pexels


Essere nati a Tìpfhé ha i suoi svantaggi. Prima regola: non arrabbiarsi.

Il fiore di Tìpfhé
(racconto breve di genere fantascienza)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/08/il-fiore-di-tipfhe.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Prelude No. 17 di Chris Zabriskie
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=cFSYOJ3exG4).

Immagine di: Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/fiore-rosso-34522/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 10 giugno 2024

Luoghi in cui preferirei essere

(invece che in una sala operatoria)



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Павел Сорокин da Pexels


Sulla cima di un vulcano
spento, ovviamente.
In un terrario gigante di serpenti non velenosi
meglio se dopo che hanno già mangiato
non amo gli abbracci troppo stretti.
Dal dentista per una carie,
perché è preferibile un male che conosco
a uno che mi è totalmente sconosciuto.
Nel deserto di notte, col freddo
o nella gelida oscurità dei paesi artici:
io e il ghiaccio non andiamo d'accordo, ma almeno
dicono che il panorama lassù sia meraviglioso.
A un banchetto vegano
sì, persino quello sarebbe meglio.
Su un altro pianeta
uno con aria respirabile e senza vermi giganti
e niente ragni, grazie.
A Essos, alla corte di Daenerys,
che perlomeno un po' riuscirei a farmi capire
anche se so dire solo cose utili quanto
"Mio padre è un uccello", "State mangiando gufi?",
e "Quel cavaliere è una donna"
(sia mai che incontri Brienne di Tarth).
Vedrei un drago da vicino
anche se probabilmente sarebbe l'ultima cosa che vedo.
D'altra parte la gente troppo buona
non scampa mai tanto in questi mondi,
dice il drago goloso.
Ho pensato a tutti questi posti
in cui preferirei essere,
ma l'unico in cui vorrei davvero essere
è a casa, davanti a un foglio bianco
con una penna,
la mia famiglia e un gatto,
e un tè, musica e un bel libro
per riposarmi
quando sarò tornata dalla mia mente. 

sabato 8 giugno 2024

Jacquerie

Jacquerie s.f. fr. (pl. jacqueries); in it. s.f. inv. (o pl. orig.) 1. La rivolta antifeudale dei contadini nella Francia del secolo XIV. 2. estens. Sommossa contadina.

Etimologia: deriva dal soprannome Jacques Bonhomme, usato già dal 14° secolo tra i nobili di Francia per indicare, ironicamente, il contadino francese.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Rene Asmussen da Pexels


– Nossignore, no! La rivolta presso la Dama di Roccia, la Notte dei Fuochi, quella che pose definitivamente fine a ogni cruento e insensato sacrificio a quei mostri che un tempo veneravamo come dei non fu affatto frutto di una jacquerie, tutt’altro! – Maizorean Lunandi-Xares, non più tanto umile storiografo dei regni, agitò il bicchiere sprizzando gocce di sidro sul bancone e sul viso di un annoiato, e già piuttosto brillo, compagno di bevute assegnatogli dal caso. – Io c’ero e ve lo posso assicurare. Fu un piano ben congegnato. Una battaglia di proporzioni epiche. Uno scontro all’ultimo sangue per la sopravvivenza e la libertà e tutto ciò che esiste di più caro e prezioso. D’altra parte i Kalaan non sono certo un popolo di contadini e calzolai, nossignore! Tra di loro vi sono i più feroci tagliagole di tutti i regni, i truffatori più scaltri, i ladri più abili. Per gli dei, persino adesso che sono riconosciuto dai Kalaan come amico, non oserei recarmi al nord per la commemorazione della vittoria se non accompagnato da qualcuno che mi sia ancora più amico! Qualcuno di cui mi possa fidare senza alcun dubbio, in virtù di una comune amica, che possa aver trovato la pace, lady…
La testa del suo compagno di bevute scivolò con un tonfo sul bancone e quello seguitò a russare, col naso schiacciato sul legno.
– Oh, be’… è stato un piacere discutere di storia recente con voi! – Maizorean pagò per entrambi e si affrettò a raggiungere l’uomo che lo attendeva sulla soglia della taverna da chissà quanto.
– Controllato di avere ancora il portamonete e tutti i bottoni della giacca? – fece Kal Tydas.
– Suvvia, non tutti sono pericolosi come voi per il mio oro e le mie pergamene, diavolo di un Kalaan!
Kal lo precedette all’esterno. – Sarà, ma quello faceva solo finta di dormire.
– Dite? – Maizorean si arrampicò sul carro. Fissò il bandito. – E da cosa lo deducete, di grazia?
Kal non sorrise. Non sorrideva più, da quella notte. – Perché lo avrei fatto anch’io, pur di farvi smettere.

giovedì 6 giugno 2024

Audioracconto - Oggi scegliete voi!


Foto di Anna Sulencka da Pixabay
Foto di Pixabay da Pexels


Un antiquario è andato al cinema, ma non vorrebbe essere lì...

Oggi scegliete voi!
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/01/oggi-scegliete-voi.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Iron Horse - Silent Film Dark by Kevin MacLeod (http://incompetech.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=Ed5wdCk1ERI).

Immagine di: Anna Sulencka (https://pixabay.com/it/photos/sala-spettacoli-cinema-teatro-1727890/) da Pixabay, distribuito ad uso gratuito (https://pixabay.com/it/service/license-summary/).

lunedì 3 giugno 2024

Merce illegale


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Nina zeynep güler 🦕 zz da Pexels


Vovos era grosso, grigio, e si muoveva con la stessa grazia di un telumu a terra o, come avrebbe detto una persona che avevo conosciuto su un pianeta periferico, di un "elefante in un negozio di cristalli". Sarebbe parso minaccioso, ed era il motivo per cui gli avevo chiesto di accompagnarmi in quella missione, se non si fosse scusato ogni volta che urtava qualcuno mentre ci spostavamo da una bancarella all'altra nel vociare della folla, un mare di gente indaffarata che Vovos superava con tutta la testa e le spalle, nonostante se ne stesse ingobbito com'era solita fare la sua gente quando aveva a che fare con razze aliene più basse di loro, ovvero praticamente sempre. La cacofonia di voci che si esprimevano in lingue diverse, il sentore speziato di cibi che non conoscevo, il contatto fugace con la pelle ruvida di un estraneo o la mano umida di una creatura anfibia scatenava lampi di luce colorata al limite del mio campo visivo, un gusto ora dolce ora amaro in bocca e un sibilo musicale che andava e veniva, perciò ero un po' distratto da tutta la confusione che mi circondava e che mandava in corto circuito i miei sensi, abituati a un altro sole e a un altro mondo. Per questo la voce di Vovos mi sembrò giungere da molto lontano, e in un primo momento non capii la sua domanda.
– Scusa, che hai detto? – gli feci, distogliendo lo sguardo dalla mercanzia che stavo esaminando, una serie di barattoli trasparenti contenenti esemplari morti di insetti alieni.
Vovos grugnì prima di ripetere: – Dicevo, quando troviamo quello che cerchi, che intendi fare? Non abbiamo l'autorità per arrestare nessuno, non siamo quel genere di guardiani, noi... risolviamo conflitti, tutto qui.
Con decisioni che possono contraddire qualunque legge, se necessario, pensai, ma non lo dissi. Vovos sapeva come agiva l'Ena Catera e quale autonomia ci era concessa, lui vi apparteneva da molto prima di me. – Non è il venditore che mi interessa – ribattei, mentre lo precedevo verso la bancarella successiva. Era talmente affollata che feci fatica a vedere la merce in vendita, ma una volta appurato che conteneva solo vecchia tecnologia per animi nostalgici, la superai senza degnarla di una seconda occhiata. Attesi che Vovos mi raggiungesse prima di mormorargli: – Quello che mi è stato chiesto è di andare alla fonte del problema.
– I... cacciatori? – bofonchiò il massiccio alieno grigio.
– Esatto, i cacciatori.
Avevo dovuto spiegarglielo perché non erano in tanti a sapere quello che accadeva, ancora adesso, sul mio pianeta natale. A tanti nemmeno interessava, ma quando avevo ricevuto l'incarico di andare nell'emisfero "non civilizzato" del pianeta per rispondere a una richiesta d'aiuto, quale unico nativo di quel mondo che era entrato a far parte dell'Ena Catera, ero stato ben felice di accettare quella missione.
– Sempre che troviamo quello che cerchi – precisò Vovos. – Qual è questo, il settimo mercato non autorizzato sul quinto pianeta che visitiamo... o il decimo sul sesto? Ho perso il conto. In ogni caso è tanta strada per dei semplici tatuaggi, anche viaggiando col tuo metodo, che per inciso mi lascia sempre lo stomaco sottosopra.
Prima di raggiungere un banchetto defilato, che con il suo contenuto mi sembrava più promettente degli altri, mi voltai e lo fulminai con lo sguardo. – Non sono semplici tatuaggi.
Un gorgoglio di gola da parte del mio collega precedette la sua solita ampollosa formula di scuse, a cui seguì una domanda in tono abbattuto: – Ma sono disegni sulla pelle, no? Disegni indelebili, quindi sono tatuaggi.
– No, Vovos – cercai di spiegargli in tono paziente, ignorando la folla che ci sciamava attorno, e i richiami acuti dei venditori. – La parola con cui li definiamo si traduce più o meno come "fioritura". E tu sai cosa sono i fiori per gli alberi, vero?
– Certo – replicò Vovos svelto. – Sono... uuuhh! – Vovos gemette e non proseguì, ma si curvò di più su sé stesso e portò le grosse mani a coppa al centro del ventre, in corrispondenza della piega adiposa sotto la divisa dell'Ena Catera e l'anonimo mantello da viaggiatore che la nascondeva, una mia idea, dato che pensavo che avremmo ottenuto di più come semplici acquirenti che non in veste ufficiale.
– D'improvviso ho immaginato come mi sentirei se qualcuno provasse a tagliarmi il mio puru-puru – Si giustificò Vovos, raddrizzandosi un poco, ma senza togliere le mani a protezione del punto sensibile. – Brutta sensazione. Bruttissima. E adesso che so che cosa sono questi vostri tatuaggi, non capisco perché qualcuno che non sia il loro proprietario ci tenga ad averli.
Mi voltai e feci cenno a Vovos di seguirmi verso il banchetto che avevo adocchiato. Vasi di materia ignota essiccata, barattoli di polveri, boccette con etichette scritte a mano mi dicevano che forse quello era il posto giusto. – C'è chi li considera dei portentosi medicamenti – sussurrai a Vovos, nell'esaminare la merce esposta sotto gli occhi rapaci del venditore. – Pura superstizione, naturalmente. E la parte peggiore, è che chi ci crede ritiene che per essere efficaci devono essere raccolti prima della maturazione, e dato che è un punto molto irrorato da vasi di linfa, la probabilità di sopravvivenza è...
Trattenni il fiato nello spostare una serie di bottigliette colorate. Dietro ad esse, dentro scatoline dal coperchio trasparente, vidi lembi di pelle bruna con aloni che andavano dal verde acceso all'azzurro, e segni più scuri che tratteggiavano forme di animali che mi erano noti, o il disegno di una foglia, un albero-ombrello, o paesaggi appena accennati come un lago o la sagoma di due montagne alla cui vista il mio sguardo si velò di azzurro e avvertii una fitta in fondo alla gola. Portai la mano al braccio, lì dove avevo la mia fioritura, in un gesto di protezione simile a quello fatto poco prima da Vovos, anche se sapevo che ormai non era più di alcun interesse per chi praticava quel commercio. Passai di nuovo in rassegna i lembi di pelle strappati alle carni dei miei simili. Alcuni erano vecchi, altri più freschi, ma quelli che ero venuto a cercare non c'erano.
– Ooooh, quanti sono! – mormorò il mio collega, che si guardava bene dal provare a toccare le scatoline. E non solo perché con tutte le bottiglie attorno poteva rischiare di causare dei danni, ma perché adesso sapeva che cos'erano quei "tatuaggi".
Evitai di usare l'Ilnova, il linguaggio comune interplanetario, e preferii esprimermi in un'altra delle lingue che conoscevo e che sapevo essere nota anche a Vovos, nel dirgli: – E ognuno è la vita di un ragazzo o di un bambino. Ora capisci perché tutto questo deve finire?
La caccia ai figli dei clan e il commercio delle fioriture era diventato illegale da quando metà del mio pianeta si era unito al Kathrà, il sodalizio del mondi, ma questo non aveva scoraggiato i cacciatori. Non tutti, almeno. Le incursioni erano diventate più rare, ma non si erano fermate. E sapevo che non sarei stato io quello che aveva il potere di porre fine per sempre alla caccia, ma potevo almeno accogliere la richiesta d'aiuto degli anziani di un clan che aveva perso i suoi membri più giovani, riconsegnare le fioriture per farli tornare integri nell'altra vita, e assicurare alla giustizia almeno i colpevoli di questo crimine.
Era mio dovere ascoltare anche le motivazioni e le richieste della controparte, i cacciatori, poiché così agiva l'Ena Catera, e per me era una fortuna perché altrimenti a questo punto della mia vita sarei ancora in una prigione per analfabeti in un pianeta su cui non intendo fare ritorno.
Avevo scelto Vovos per accompagnarmi anche perché in questa faccenda sarebbe stato in grado di rimanere più neutrale del sottoscritto, ma dubitavo fortemente che la questione si sarebbe conclusa in un altro modo.
Levai gli occhi dalla merce al venditore e, come se fossi stato interessato all'acquisto, gli dissi: – Non hai niente di più fresco?
Il venditore fece schioccare le labbra a forma di becco. – Oh, un intenditore! Sì, giusto da poco ho ricevuto un raccolto davvero freschissimo, di prima qualità.
E mentre lo diceva, tirò fuori da sotto il banco un'altra serie di scatoline, e al loro interno tutte quante le fioriture recavano il disegno di un fiume sinuoso. Lo avevo già visto sulle braccia dei membri del clan che avevano chiesto il mio aiuto.
Finalmente. Dopo tanti tentativi a vuoto, dopo tanti vicoli ciechi, avevamo la prima vera pista da seguire per rintracciare i cacciatori. Non erano tutte nelle sue mani, compresi da un rapido conto delle scatoline, però erano già molte di quelle vite spezzate.
– Vovos, ci siamo – mormorai all'energumeno che mi accompagnava, che subito si mosse per tagliare ogni via di fuga al mercante, mentre io scostavo il mantello per rivelare con la mia riconoscibilissima divisa dell'Ena Catera la mia identità e il motivo che aveva condotto in cerca della sua merce illegale.

sabato 1 giugno 2024

Koinè

Koinè [koi-nè] o coinè s.f. inv. 1. Lingua comune, basata sul dialetto attico, diffusa nelle regioni del Mediterraneo centro-orientale come strumento di comunicazione a partire dal sec. IV a.C.. 2. estens. Lingua comune in un determinato territorio. 3. fig. Unione, affinità.

Etimologia: dal greco koinē, femminile dell'aggettivo koinós "comune", con sottinteso diálektos, "lingua".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Jessie Marsden sapeva che qualcuno sarebbe passato a prenderla. Lo sapeva fin da quando si era sparsa la voce che la Caravella aveva agganciato una scialuppa. Non erano rimasti in molti a saper parlare l’Ilnova, o Esperanto delle stelle, a bordo della nave generazionale; ed era impossibile che i nuovi arrivati conoscessero la particolare koinè che si era sviluppata tra i passeggeri della Pinta, un’insalata di lingue terrestri che ben rappresentava il loro gruppo eterogeneo. Una base comune di inglese faceva da collante a una variegatura di spagnolo e francese, a una spruzzata di russo condita da un pizzico di hindi, guarnito a sua volta da una glassa di mandarino e giapponese e accompagnato da quel tanto che bastava di tedesco. Poteva contenere tracce di italiano e chissà cos’altro: a quel punto era difficile ricordare a quale lingua fosse appartenuta quale parola.
Jessie aveva imparato da sua madre, oltre alla lingua comune, anche l’Ilnova; ma più come una sorta di esercizio intellettuale che per necessità, e quella conoscenza le era valsa un posto come “addetta alle comunicazioni con l’esterno”, un lavoro noioso ma ben remunerato. Era la prima volta in dieci anni che le sue capacità erano richieste.
– Sono qui per i passeggeri della scialuppa – disse all’infermiera quando il tenente Herman Stone, che l’aveva accompagnata fin lì, la mollò e fece dietrofront senza darle ulteriori informazioni.
– La passeggera – la corresse l’altra. – Stanza 3B, questa è la chiave magnetica. Abbiamo fatto tutti gli accertamenti del caso, è umana, non dovresti avere problemi, salvo… ah, le abbiamo mostrato delle immagini. Foto di alieni. Da quanto abbiamo capito… sembra sia stata cresciuta dai Rijihl.
– Non vedo come sia un problema. Anzi, semplifica le cose. Almeno non rischio di offenderla per sbaglio.
L’infermiera ridacchiò nervosamente mentre la lasciava. Aperta la porta, Jessie si ritrovò di fronte a una ragazzina sparuta seduta sul letto, che la fissò con un sorriso sfrontato e le disse, in Ilnova: – Era ora che venisse qualcuno a darmi il benvenuto in questo schifo di nave! Tutto qui il comitato di accoglienza?
– Ha parlato la regina dell’universo – ribatté Jessie, ricambiando il sorriso. – Quella che è arrivata in una capsula di salvataggio tenuta insieme con la bava di Gluak!
La ragazzina ghignò compiaciuta e si accinse a replicare con un’invettiva sarcastica. Oh sì, Jessie non vedeva l’ora di insegnarle la koinè della nave. Ci sarebbe stato da divertirsi.