lunedì 29 luglio 2024

L'anniversario


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Asad Photo Maldives da Pexels


Ho un'amica di penna. Lo so, non è una maniera molto moderna, né comoda, per tenersi in contatto, ma d'altra parte lei non è quello che si può definire una persona moderna. E io non ho altro modo di contattarla che scriverle.
È cominciato tutto un anno fa, quando i miei amici mi hanno regalato un'autentica Remington, uno tra i primi modelli, non starò ad annoiarvi con tutti i dettagli. Ah, per chi non lo sapesse, si tratta di una macchina da scrivere. Quelli che per altri sarebbero sembrati soldi sprecati, per me furono una sorpresa straordinaria. Erano anni che ne cercavo una in buone condizioni, e i miei amici lo sapevano.
Non che fosse un desiderio tanto difficile da indovinare, anche se non li avessi assillati fino alla noia più totale a furia di parlarne. La mia casa straripa di simili anticaglie, radio a transistor, proiettori cinematografici, grammofoni, e ho perfino una macchina fotografica per dagherrotipi, ma la Remington ancora mi mancava. La sistemai in una teca di vetro proprio al centro della mia scrivania, con un foglio inserito, e per un paio di giorni la rimirai da lontano, passando di fretta in corridoio senza entrare nello studio.
Poi una sera, passando come al solito, notai che nella teca c'era qualcosa di diverso. La Remington era ancora lì, come l'avevo lasciata, ma il foglio spuntava un po' di più dal carrello, e quando entrai nello studio e feci il giro della scrivania, scoprii un testo di una decina di righe impresso sul foglio.
All'inizio pensai a uno scherzo. Non credevo che il nastro funzionasse ancora dopo tutti questi anni, e io non mi ero dato pena di sostituirlo, non avendo alcuna intenzione di usarla. Estrassi il foglio dalla macchina da scrivere e lo lessi.
Era una lettera, o forse una pagina di diario. Non era facile da decifrare, per via delle parole obsolete e delle frasi piuttosto complesse. Sembrava un testo tratto da qualche romanzo ottocentesco, e la data a inizio foglio infatti era quella odierna per quanto riguardava giorno e mese, ma l'anno risaliva a più di un secolo fa.
Non poteva essere altro che uno scherzo.
Tirai fuori la macchina da scrivere dalla teca, presi un altro foglio bianco, lo infilai e battei sui tasti una risposta concisa: "Mia cara Violante", questo era il nome con cui il mio amico burlone aveva firmato il suo scherzo, "saluti dall'anno 2024. In fede, Ennio Bertolucci".
Non mi sorprese che tutto funzionasse a dovere: evidentemente, in vista dello scherzo, la macchina da scrivere doveva essere stata revisionata e rimessa in funzione. Nella mia risposta avevo tentato di ricalcare per quanto possibile lo stile ottocentesco del testo, per far sorridere l'autore dello scherzo non appena fosse passato da me in visita e l'avesse vista. Ero certo che in quell'occasione sarei riuscito a beccarlo e a farci due risate assieme. Ma non ce ne fu modo, perché prima della successiva tradizionale serata tra amici, il foglio si era già alzato di un altro paio di centimetri. La risposta firmata da Violante diceva, con molti più giri di parole e digressioni indignate: "Non so chi tu sia o creda di essere, ma non toccare mai più la mia macchina da scrivere".
– Abbiamo un fantasmino arrabbiato, a quanto pare – ricordo che mormorai, e infilai un altro foglio nella Remington, disposto a continuare a stare allo scherzo del mio ingegnoso amico.
Era forse entrato in casa mia mentre ero fuori al lavoro? A chi avevo lasciato una chiave in caso di emergenza?
Me ne stavo lì a riflettere sul probabile colpevole e su cosa potessi scrivergli, già pregustando il ticchettio dei tasti sotto le mie dita, quando lo udii. Dapprima pensai che lo stavo immaginando, d'altra parte conoscevo così bene quel battito rapido e il rollio crepitante del carrello che scorreva indietro. Poi, lo vidi.
I tasti che si abbassavano da soli in rapida sequenza, le parole che si componevano sul foglio. Trasalii e quasi cascai dalla sedia.
Ma allora c'era davvero un fantasma!
Archiviata l'idea che tutto fosse solo un elaborato scherzo da parte di un mio amico, i primi tempi io e Violante li passammo così: io a tentare di convincerla che l'anno era quello che le avevo scritto e che lei era morta e diventata un fantasma, e lei a tentare di convincermi che era vivissima, che io mi sbagliavo sull'anno e che dovevo lasciarla in pace. Arrivò, qualche volta, a dirmi che ero un diavolo o uno spirito maligno, e a minacciare di chiamare un vescovo suo parente per fare un esorcismo.
Qualche settimana dopo, una sera, vidi in tv un film sui viaggi nel tempo che mi fece riconsiderare la nostra situazione. Glielo scrissi: forse avevamo ragione entrambi, eravamo tutti e due vivi nei rispettivi anni, e quella macchina da scrivere ci permetteva per chissà quale scherzo del destino di comunicare.
Violante era scettica, ma mi mise alla prova. Mi chiese se l'uomo fosse arrivato sulla luna o al centro della terra e in quanti giorni si poteva fare il giro del mondo nella mia epoca. Chiaramente, doveva aver letto i romanzi di un certo Jules Gabriel Verne.
Alcune delle mie risposte la scioccarono, altre, la delusero. Procedemmo così, a conoscerci, passando da informazioni più generali sulle rispettive epoche a questioni di ordine più personale.
Nessuno dei due, scoprimmo, era coniugato. Non che importasse, dal momento che non avevamo modo di incontrarci. Più la conoscevo, però, più lei mi piaceva. Era il tipo di donna che mi sarebbe piaciuto incontrare nella mia epoca: intelligente, spiritosa, determinata, certo un po' tradizionalista e superstiziosa alle volte, ma glielo potevo perdonare, considerando il secolo in cui era nata. Ci scrivevamo, se non tutte le sere, tutte le volte che ne avevamo occasione. Anche soltanto per un saluto, per provare che la magia della Remington, o qualunque cosa fosse quella che ci permetteva di comunicare attraverso il tempo, funzionava ancora.
Era un po' come chattare al pc con una donna dall'altra parte del mondo, solo che lo facevo con una tecnologia molto meno avanzata, fogli di carta e macchina da scrivere, e che non c'era alcuna speranza di prendere un aereo per incontrarsi e conoscersi di persona.
Ci sarebbe voluta una macchina del tempo, per quello. Peccato che io non fossi un ingegnere.
Oggi è un anno esatto dal giorno in cui io e Violante iniziammo a scriverci. Il nostro primo anniversario, in un certo senso. E così, anche se non posso condividerli con lei, ho preso una bottiglia di spumante, una torta, e un mazzo di rose rosse. Ce li ho qui, sulla scrivania, e sto cercando di descriverle il tutto il più precisamente possibile, il profumo inebriante delle rose e il sapore aspro e allo stesso tempo dolce, un po' frizzantino, del vino che ho già stappato e assaggiato, e la consistenza morbida del pan di spagna. Cerco di renderla partecipe, nel nostro modo speciale, della mia vita, come lei ha sempre fatto con me. Ci raccontiamo tutto, io e Violante.
Concludo con un "Buon anniversario, mia adorata Violante", e firmo con le mie iniziali per poi andare a capo riga, il segnale convenuto che la informava che io avevo finito e che lasciavo a lei i tasti, nel caso ci fossimo trovati alla scrivania nello stesso istante dei rispettivi tempi paralleli.
Era stato necessario trovare il modo di fare a turno, dopo il disastro di fine ottobre di quasi un anno fa, in cui avevamo cercato di scrivere entrambi nello stesso momento. Il nastro si era incastrato, e per liberarlo avevo dovuto romperlo, e poi cercare in fretta e furia un ricambio con il timore di perdermi un suo messaggio se non avessi sistemato la macchina da scrivere alla svelta.
Nell'attesa continuo la fetta di dolce che avevo a malapena iniziato, e centellino il vino nel bicchiere. La torta non è granché, troppo dolce e pastosa, ma il vino è ottimo, ed è un peccato non potergliene portare un bicchiere né condividere un brindisi. Come lo è non poterle infilare un bocciolo tra i capelli, oppure baciarla.
Ho la tentazione di scriverlo, di aggiungere quelle due righe, ma mi trattengo.
Già i tasti si mettono in movimento da soli, ma è diverso dalle altre volte. I tasti si abbassano uno alla volta, e il ritmo è lento, faticoso, come di qualcosa che si trascina stanco, pesante.
Strano.
Violante è sempre stata abile con la macchina da scrivere, sa battere sui tasti anche più velocemente di me. Mi chino sul testo e lo leggo man mano che si compone di fronte ai miei occhi.
– Lasciate... stare... mia... moglie?
Sono scioccato. Violante mi aveva sempre detto tutto, o almeno così credevo.
Non credo mi avesse mentito, quando mi aveva scritto di non essere "maritata". Non aveva motivo di farlo, eravamo due sconosciuti allora, all'inizio della nostra insolita relazione per corrispondenza, e sapevamo entrambi che non ci sarebbe potuto essere nient'altro che la parola scritta tra di noi.
Non mi aveva però detto di non essere promessa ad alcun uomo, come era probabile si facesse nella sua epoca. E mi aveva accennato una volta, quattro o cinque mesi fa, a una difficile decisione che doveva prendere, senza però specificare quale fosse. Si trattava forse di quel matrimonio? Perché non mi aveva scritto che la sua condizione nel frattempo era cambiata? Aveva forse paura che io avrei smesso di scriverle? Avrei potuto rassicurarla che non sarebbe cambiato nulla tra noi, a parte forse evitare di mandarle un messaggio compromettente come quello che mi era saltato in mente prima di ricevere l'avvertimento da suo marito.
Fortuna che alla fine non lo avevo battuto sui tasti, anche se fino a due minuti fa morivo dalla voglia di renderla partecipe di quel pensiero.
Nel frattempo, l'agonia dei tasti schiacciati a uno a uno è terminata. La frase intera consiste nell'avvertimento di non scrivere più a Violante, e la minaccia di distruggere la macchina da scrivere se l'avessi fatto.
Mi prende il panico, e per un minuto non riesco a ragionare. Ho un solo pensiero. Se la macchina da scrivere fosse stata distrutta nel passato, allora non sarebbe arrivata nelle mie mani e io non avrei mai conosciuto Violante. Non posso permettere che una cosa del genere accada.
Tolgo svelto il foglio dalla macchina da scrivere e la rimetto al suo posto nella teca. Resto a fissarla per cinque minuti buoni, temendo di vederla sparire da un momento all'altro. Poi mi viene in mente che anche se è troppo rischioso per me scriverle, non sapendo chi c'è dall'altra parte, forse Violante può mandarmi comunque un messaggio quando lui non la sorveglia, e quel messaggio senza un supporto in cui restare impresso sarebbe andato perso per sempre. Riapro la teca, infilo un foglio bianco, richiudo la teca.
Per precauzione, la serro con un lucchetto, così non mi viene la tentazione di provare a scriverle, e i mei inconsapevoli amici in visita non possono mettersi a giocare con la Remington.
Loro non sanno nulla di me e Violante. Non gliel'ho mai raccontato, e d'altra parte, non mi crederebbero. Ma i fogli con le nostre parole sono ancora lì, nell'armadio, racconti ordinatamente in file di faldoni, intere nottate passate a tirare tardi chattando con una sconosciuta di più di un secolo fa. Non ho più voglia di festeggiare questo anniversario, butto le rose nella spazzatura e metto lo spumante e la torta in frigo, forse domani li porterò a un barbone, almeno farò felice qualcuno.
Prima di addormentarmi, tristemente presto rispetto al mio solito, formulo un piano. Conosco il suo nome e cognome, conosco il suo anno di nascita e la città dove vive. Quanto sarà difficile reperire informazioni sul suo conto, scoprire se sia rimasta presto vedova o se suo marito se ne sia andato a fare lunghi viaggi per mare e quando?
– Non può finire così, Violante – mi dico. – Giuro che questo non sarà il nostro unico e ultimo anniversario.
Lo so che cosa potete pensare. Perché darsi tanta pena per una donna che in fin dei conti è già morta, e che comunque non potrò mai stringere tra le mie braccia?
Ho una sola risposta.
Amore.

sabato 27 luglio 2024

Abiura

Abiura [a-biù-ra] s.f. Ritrattazione pubblica di una fede, di una teoria, di un'ideologia; apostasia, rinnegamento.

Etimologia: dal verbo abiurare, che deriva dal latino ab-jurare, "negare con giuramento", composto dalla particella ab, che ha il senso di "separazione, allontanamento" e da jurare, "giurare".



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Foto di Joshua Abner da Pexels


Prima di infliggerci questa punizione, all'inizio, quando i Divini si avvidero dell'amore proibito che legava me e il mio riflesso diverso, ci venne data una possibilità di redenzione. L'abiura del sentimento che provavamo così forte l'uno per l'altra, o la sopportazione di qualunque pena ci sarebbe stata inflitta.
Una scelta che non è mai stata una scelta, poiché tutti sanno che un Floràe non mente. Mai, nemmeno a sé stesso.
Non avremmo potuto soffocare il nostro amore, rinunciarvi, dimenticare. Non, almeno, con la sola forza della nostra volontà. Anche separati, avremmo comunque continuato a desiderarci l'un l'altro.
In ogni caso non ci avrebbero permesso di continuare a stare assieme, questo era fuori di dubbio. Ma non immaginavamo che i Divini avessero il potere di sradicare uno di noi dalla terra dov'era nato, dall'unico vero mondo, Mith, per gettarlo in uno dei tanti mondi che ne sono un riflesso distorto. Non immaginavamo che avessero il potere condannare all'oblio uno di noi, di fargli dimenticare tutto, il nostro amore, la mia esistenza, la sua natura di Floràe, persino il suo nome.
E così, quell'abiura che non siamo stati in grado di fare di nostra volontà, a Narcisa, il mio riflesso diverso, è stata imposta.

giovedì 25 luglio 2024

Audioracconto - Parole perdute


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Foto di Jimmy Chan da Pexels


Come si fa a farsi venire in mente una parola che sfugge, se questa è talmente importante da cambiarti la vita? E dove vanno a finire le parole che nessuno ricorda?

Parole perdute
(racconto breve di genere fantastico)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/05/parole-perdute.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Per Elisa di Ludwig van Beethoven
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=NeNwPvmNmA0);
Your Suggestions di Unicorn Heads (https://unicornheads.com/)
dal canale Unicorn Heads (https://www.youtube.com/watch?v=U66ixT2-mVw).

Immagini di: Jimmy Chan (https://www.pexels.com/it-it/foto/scarabocchi-sul-muro-1309899/), Andrea Piacquadio (https://www.pexels.com/it-it/foto/una-persona-di-umore-pensieroso-3772532/), (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-che-attacca-la-sua-lingua-fuori-3785842/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/l-uomo-in-camicia-di-polo-rossa-ha-pensato-ad-una-buona-idea-3779432/), leshkamal (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-notebook-foresta-parco-4238467/), KATRIN BOLOVTSOVA (https://www.pexels.com/it-it/foto/matita-graffette-penne-modello-6193144/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/paesaggio-natura-acqua-foresta-5849879/), Andrew Neel (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-in-camicia-a-maniche-lunghe-grigia-che-si-siede-sulla-sedia-di-legno-marrone-5255996/), Balazs Simon (https://www.pexels.com/it-it/foto/spiaggia-donna-in-piedi-bagnasciuga-9683768/), Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/mappa-di-occhiali-con-cornice-nera-nel-libro-159757/), Lalu Fatoni (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-che-indossa-la-felpa-con-cappuccio-nera-trasporta-zaino-in-spalla-nero-e-grigio-vicino-agli-alberi-durante-la-nebbia-732632/), David Selbert (https://www.pexels.com/it-it/foto/clima-natura-meteo-secco-8100784/), Umut Sarıalan (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-foresta-tronco-albero-23729952/), Mads Thomsen (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-che-si-nasconde-dietro-il-tronco-d-albero-1434310/), Ron Lach (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-mano-foresta-albero-10366915/), Furkan Films (https://www.pexels.com/it-it/foto/legno-natura-uomo-persona-5611055/), PNW Production (https://www.pexels.com/it-it/foto/mani-tronco-d-albero-abbaiare-corteccia-8980968/), Josh Hild (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-vestito-bianco-che-si-siede-sul-ramo-di-un-albero-durante-la-notte-4256852/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 22 luglio 2024

L'ultimo colpo


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Foto di Alina Rossoshanska da Pexels


Lo so che nessuno, vedendomi adesso, lo crederebbe possibile, ma fino a non molto tempo fa io ero il più abile e inafferrabile ladro di gioielli che sia mai esistito nella nostra nazione, e forse, probabilmente, in tutto il mondo.
Non mi hanno mai preso, mai nemmeno una volta hanno sospettato che dietro tutti quei gioielli scomparsi direttamente dalle gole e dalle braccia e dalle dita e dalle orecchie dei legittimi proprietari ci fossi dietro proprio io, non vale forse questo già da solo come conferma?
Una sola persona, solo una, mi ha scoperto, ma non credo che tradirà mai il mio segreto. Avrebbe troppo da perdere, altrimenti.
Il mio terreno di caccia prediletto erano gli ascensori. Stretti cubicoli in cui nessuno si guarda negli occhi e nei quali la vicinanza con un estraneo che invade il tuo spazio fin quasi a sfiorarti è tollerata.
Ormai lo avevo fatto così tante volte da avere una tecnica ben collaudata. Facevo così: laddove era in funzione più di un ascensore, li bloccavo tutti tranne uno al piano interrato, lì dove i visitatori del palazzo raramente si recavano. Poi mi assicuravo di essere il primo a salire, in modo da restare dietro tutti gli altri, e premevo il pulsante per il piano più alto. Man mano che la gente entrava in ascensore memorizzavo il piano di destinazione di ciascuno di loro, e una volta individuata un rampollo dell'alta società con polsini ornati da gemelli o una facoltosa signora che sfoggiava collane, bracciali, anelli o orecchini d'oro e pietre preziose, calcolavo il momento in cui mi sarei trovato esattamente dietro di lui o di lei, senza nessuno sguardo puntato addosso dato che tutti fissavano l'uscita, e un attimo prima che raggiungesse il suo piano e uscisse dall'ascensore, zac! con la mia mano lesta sollevavo la persona in questione dal suo prezioso carico. Ho sempre trovato ironico che la sottrazione avvenisse dentro quello che in inglese si chiama "elevator".
Ho un tocco delicato, o per meglio dire, avevo un tocco delicato, che era il mio strumento di lavoro e il mio orgoglio. Nessuno sentiva mai la carezza delle mie dita, e quando le mie prede si accorgevano per caso di non avere più addosso i loro gioielli, ormai l'ascensore era passato oltre, e in ogni caso chi poteva dire di aver perso i preziosi proprio lì e non prima?
Al ritorno scendevo per le scale, per maggior sicurezza. Quasi nessuno fa caso agli estranei con cui condivide l'ascensore, e non saprebbe riconoscerli in un confronto all'americana, ma appunto io non potevo fidarmi di un quasi. Qualche volta avevo fatto anche il contrario, specie all'inizio della mia carriera o in rari casi in cui le scale erano impraticabili, prendendo l'ascensore dall'ultimo piano in direzione del piano terra. Avevo scoperto presto però che questa soluzione anche se sembrava più facile non avendo il ritorno da fare a piedi giù per le scale, risultava più rischiosa e meno remunerativa. Primo, perché quasi tutti andando in giù scendono al piano terra, e non potevo certo sgraffignare i gioielli di una preda che poi sarebbe scesa al mio stesso piano. Secondo, perché generalmente nei palazzi signorili e nei grattacieli brulicanti di uffici frequentati dalle signore facoltose e dai ricchi manager a cui io miravo, i piani più alti erano riservati agli appartamenti e ai luoghi di lavoro più esclusivi, il che mi consentiva di effettuare una scrematura e lasciar scendere scomodi testimoni che avrebbero reso la mia missione più pericolosa, prima di sottrarre i gioielli che avevo adocchiato.
Un ascensore pieno fino all'inverosimile di ricchi e poveri stipati assieme in attesa di sciamare fuori al piano terra era quanto di più lontano dal mio ambiente di lavoro ideale.
Frequentavo così tanto gli ascensori che il loro ronzio sommesso, quel senso di accelerazione, il lieve sobbalzo in fermata e il tono musicale che annunciava l'apertura delle porte mi erano diventati familiari, e ancora adesso riuscirei a distinguere a occhi chiusi l'ascensore di un Hilton da quello di un grattacielo del distretto finanziario, o l'ascensore del palazzo dove hanno la loro sede i club per ricchi gentiluomini dal quello della torre residenziale super lusso che svetta in centro città. E un po', a dire la verità, quei suoni e quelle sensazioni che consideravo parte del mio mondo mi mancano, ma non oso farmi vedere da quelle parti. Nemmeno mi farebbero entrare, conciato come sono ora.
È cambiato tutto in una singola corsa d'ascensore, l'ultima della mia vita in cui sono riuscito a mettere a segno un colpo. Avevo adocchiato una signora con una parure d'oro piuttosto voluminosa salita al piano terra, e già attendevo con trepidazione la sua discesa al piano 56, quando al tredicesimo piano entrò in ascensore una giovanissima ragazza con addosso il collier più bello che avessi mai visto. Doveva valere una fortuna, tutto incastonato di pietre preziose e antico d'aspetto, probabilmente ereditato da una nonna di nobili origini o donato da uno spasimante folle d'amore ed estremamente ricco.
Forse la giovinetta in questione nemmeno sapeva della fortuna che si portava addosso perché lo sfoggiava così, senza badarci, come si indossa un pezzo di bigiotteria. Ed era così sbadata che entrando in ascensore era finita addosso a un tizio in giacca e cravatta, e c'era mancato poco che mentre si scusava la porta dell'ascensore si chiudesse sulla sua gonna. Oh sì, sarebbe stato facile sottrarle la collana, valutai, e notai subito il piano a cui era diretta: 73, il penultimo, il che mi lasciava tre piani di tempo da solo con lei, se nessuno fosse salito. Era un rischio, con solo un piano di scale poi a dividerci, ma quello che lei si portava addosso era un premio troppo allettante per farmelo scappare.
Così lasciai scendere la signora con la parure d'oro al suo cinquantaseiesimo piano e mi preparai al colpo della mia vita. Non avevo mai, in tutta la mia carriera, puntato a un singolo gioiello così prezioso. Fu facile. Troppo, potrei dire con il senno di poi.
Quando le sfilai da collana dalla gola udii nel ronzio dell'ascensore il lieve sospiro della ragazza. Pensai di essere stato scoperto, ma lei non fece una piega, non almeno finché le porte non si aprirono al settantatreesimo piano. Allora, prima di scendere, lei si voltò e mi disse: – Grazie, e... goditi il tuo bel Talismano della Sfortuna finché non riuscirai a trovare un ladro abbastanza tonto da impossessarsene.
Quindi la ragazza uscì dall'ascensore e sparì dalla mia vista senza inciampare una sola volta, anzi, addirittura a passo di danza. Ma fui io che a quel punto faticavo a stare in piedi. Inciampai sulla soglia dell'ascensore uscendo all'ultimo piano, e rotolai giù dalle scale più di una volta, finché non mi decisi a riprendere l'ascensore per scendere al piano terra. Pensai che le mie sventure fossero finite quando rividi la signora con la parure d'oro, ma quando tentai di sottrarle un orecchino quella subito si girò e mi disse: – Ma che fa, tocca?
Ero rovinato. Cercare di vendere la collana a un ricettatore fu inutile, ogni volta che ci provavo me la ritrovavo misteriosamente in tasca o addosso, e l'accusa che stessi tentando di fregarli mi induceva a scappare a gambe levate prima che per me si mettesse male. Ho anche pesato di costituirmi, ragionando che se la ragazza ancora non aveva parlato era perché se la polizia mi avesse sottratto la collana per restituirgliela la sfortuna poi mi avrebbe lasciato e sarebbe tornata a tormentare lei. Qualche anno dentro valeva la pena pur di liberarsi di quella condanna, non fosse che avevo preso di mira con i miei colpi anche mogli di uomini poco raccomandabili, con agganci tra i criminali, che avrebbero probabilmente preferito la vendetta alla giustizia, se avessero scoperto la mia identità. Inoltre, non ero certo che con la collana sarebbe andata come immaginavo.
No, meglio non rischiare, avevo già abbastanza sfortuna così senza andare a provocarmela da me. Ho tentato in tutti i modi di farmi rubare la collana, ho passeggiato per le strade più malfamate muovendomi con tutta la goffaggine provocata da quel maledetto porta iella che ostentavo al collo, nemmeno avevo bisogno di fingermi il più pollo dei polli, eppure anche così non ho mai trovato qualcuno che provasse ad approfittarsene. Regalarla ha lo stesso effetto che tentare di venderla, non funziona, questo maledetto coso torna sempre nelle mie mani.
Tutta la fortuna che avevo accumulato nei miei anni migliori, quelli che ora rimpiango amaramente, se n'è andata ormai da un pezzo. È così che sono finito a parlare con i barboni, con un bel pezzo di gioielleria addosso che non posso nemmeno impegnare per comprarmi un tozzo di pane.
Ma dimmi, amico mio: non è che conosci qualche ladro interessato a un colpo facile facile?

sabato 20 luglio 2024

Lalofobia

Lalofobia [la-lo-fo-bì-a] s.f. (pl. -bie) psicol. Timore morboso di parlare.

Etimologia: deriva dal greco, composto da lalein, "chiacchierare, parlare" e da phobos, "panico, paura".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Sasith Mawananehewa da Pexels


Il bambino non parlava. Non aveva mai parlato, da quando i suoi genitori erano morti e io e la Sentinella lo avevamo preso con noi.
Solo di notte udivo la sua voce quando gemeva e urlava nel sonno, preda di un incubo. Restavo sveglio a consolarlo quando piangeva, perché in fondo lo capivo: scoprire che i mostri erano reali spaventava me che ero un adulto, figuriamoci che effetto poteva fare alla sua età.
La Sentinella però non era altrettanto indulgente.
– Sono passati quasi due mesi, ormai. È ora che la smetta.
– Sii comprensiva, per favore – la pregai. – Crede di aver ucciso i suoi genitori con il suo potere, se gli è venuta la lalofobia è perché sta cercando a suo modo di non fare del male anche a noi...
– Non mi interessa la sua lalofobia! – sbottò la Sentinella. – Può anche fare il gioco del silenzio quanto vuole, per quanto mi riguarda. Ma non può tenerti sveglio. Tu devi dormire – Seduta alla penisola della mia cucina, la Sentinella prese a sbucciare una mela. – Non devo essere io a ricordarti che se non dormi, non sogni. E se non sogni...
– ...non ti posso avvertire su dove avverrà il prossimo attacco. Capito.
Pragmatica come sempre, la Sentinella. Sbadigliai, e poi udii i mormorii degli spiriti, che di solito formavano un ronzio indistinguibile alle mie orecchie, accordarsi nel ripetere all'unisono un'unica frase.
Il Suadente è qui, il Suadente è arrivato, il Suadente ha fame!
Mi girai e vidi il bambino entrare dalla porta, con il solito sguardo spento e le labbra cucite. Si strofinò gli occhi con una mano e mi fissò apatico.
– Per fortuna c'è qualcun altro in questa casa che si interessa davvero al suo benessere, oltre a me – bofonchiai rivolto alla Sentinella, poi scesi dallo sgabello e andai ad accoglierlo.
– Tutto bene, Ned?
Avevamo scoperto il suo nome dai documenti che avevamo trovato nella borsa di sua madre. Io gli avevo detto il mio, anche se ormai non mi aspettavo che lo usasse, ma la Sentinella ancora non si era sbottonata sul suo. Nemmeno con me.

giovedì 18 luglio 2024

Audioracconto - La trappola


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Gül Işık da Pexels


Una carrozza carica d'oro attraversa il bosco di notte. Sembra una preda troppo allettante per un gruppo di banditi, ma qualcuno ha in serbo una trappola. Anche se non tutti a bordo sono convinti che funzionerà...

La trappola
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/03/la-trappola.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Forest of Fear di Aakash Gandhi
dal canale LIMO Recording Studio (https://www.youtube.com/watch?v=UiafqGdk85c);
Monuments di Max Surla & Media Right Productions
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=QA2Dlgm4QXU);
Lord of the Land di Kevin MacLeod (https://incompetech.com/)
dal canale Kevin MacLeod (https://www.youtube.com/watch?v=mte_UwKvUq0);
Celtic Impulse di Kevin MacLeod (https://incompetech.com/)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=Juc-dbCTKM8);
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lunedì 15 luglio 2024

Irrazionale


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Markus Spiske da Pexels


L'istante in cui i cancelli si aprivano e potevamo uscire nel cortile comune all'aria aperta era il migliore della giornata. Il suono stridente e prolungato della sirena che lo annunciava era la musica più bella del mondo. Potevo persino tollerare la presenza delle guardie armate che ci sorvegliavano dalle torrette, o i sorveglianti meccanici che ronzavano sopra le nostre teste.
In quel momento, io ero libero.
Ogni volta che potevo uscire dalle baracche, io ignoravo gli altri disperati che erano richiusi come me lontano dalla società civile, mi avvicinavo al centro del cortile e guardavo in su, guardavo il cielo, con un braccio a schermarmi gli occhi dal sole.
Attorno a me il cortile brulicava di voci, di contrattazioni, di scambi, dei rimbalzi secchi delle sfere lasciate a disposizione per sgranchirsi le gambe e le braccia in futili giochi senza vincitori né vinti. Avevo imparato a conoscerli, i miei compagni di prigionia, ed erano gente semplice, per nulla attratta dalla bellezza effimera delle nuvole, dall'indescrivibile senso di meraviglia dell'essere vivi. Io non ero come loro.
Il mio nome è Leeryan, e sono in grado di pronunciarlo quanto di scriverlo. Conosco l'alfabeto del mio mondo, e l'alfabeto del linguaggio interstellare, e posso scrivere con entrambi tutte le parole che so come pronunciare. Se sono finito nelle baracche degli Irrazionali non è perché non ho imparato a scrivere nell'età giusta, prima che quella finestra di tempo si chiudesse per sempre, impedendomi di proseguire nello sviluppo di una mente razionale. Se sono finito qui è perché la mia mente funziona nel modo sbagliato, e non sono stato in grado di passare l'esame finale.
Penso troppo spesso a cose non quantificabili, imprecise, inafferrabili. Cose come la forma delle nuvole, o il piacere che mi dà il calore del sole sulla pelle. So che un membro funzionale della società osserverebbe il moto delle nuvole per calcolare la velocità del vento, o userebbe uno strumento per rilevare la temperatura dell'aria invece di crogiolarsi in quel calore, ma io non posso farci niente.
Sono un Irrazionale, anche se non per lo stesso motivo che ha reso tali gli altri con cui condivido questo spazio.
All'inizio, quando ci incontravamo nel cortile, ho provato a insegnare a qualcuno degli altri a scrivere. Prendevo da parte uno di quelli con lo sguardo più vispo e la parlantina più sciolta, tracciavo le lettere nella sabbia del cortile e gli dicevo a quale suono corrispondevano, ma nessuno di quelli a cui ho provato a spiegarlo lo ha mai capito. Non si capacitavano di come le mie linee nella sabbia fossero equivalenti alle parole che venivano dalla loro bocca. Così, dopo molti tentativi, avevo rinunciato e accettato che quello che dicevano degli Irrazionali analfabeti era vero: la loro mente aveva perduto la plasticità necessaria per imparare, e non sarebbero mai potuti diventare membri produttivi della società. Tutto ciò che si poteva razionalmente fare per loro era rinchiuderli qui, nelle baracche, lontano dalla società civile.
Qui dove non avrebbero potuto far danni a sé stessi o ad altri, qui dove il resto del mondo si sarebbe potuto scordare della loro esistenza.
C'era persino di che essere grati che questa fosse la soluzione più razionale che fosse stata trovata da chi governava il nostro mondo. Che mantenere in vita e in salute così tante persone sostanzialmente inutili fosse stata ritenuta l'alternativa più sensata e intelligente tra le varie possibili. Io che almeno un po' ragionavo, sebbene il mio pensiero fosse viziato da quelle affascinanti idee prive di logica che di tanto in tanto mi occupano la mente, riuscivo a immaginare almeno tre o quattro alternative assai meno piacevoli.
Ma proprio come insegnare ai miei compagni a scrivere, quello di immaginare la realtà come non era e non sarebbe mai stata era un esercizio futile. Soprattutto quando mi metteva addosso un'irrazionale paura.
I miei compagni di prigionia non avevano paura di un'ipotesi. Nemmeno sapevano cosa fosse un'ipotesi. Aggirandomi per il cortile come un fantasma, io ascoltavo le loro chiacchiere mentre si scambiavano pettegolezzi o si passavano una delle sfere per gioco. Una volta, però, li scoprii spaventati davvero.
Fu quando misero tra di noi lo straniero. Veniva da un altro mondo, dicevano, ed era diverso. Chi lo aveva visto sosteneva che la sua bocca fosse strana, piena di denti appuntiti che potevano scattare per morderti in qualunque momento. Aveva lunghi fili che gli spuntavano dalla testa, e pelle di un colore cupo, e occhi troppo grandi. Era tanto magro da sembrare non reggersi in piedi, eppure era stato così forte da spezzare la porta di una baracca, e ci era mancato poco che uccidesse una delle guardie. Lo avevano dovuto legare, si diceva in giro, perché era feroce come un animale selvatico, e aggrediva chiunque lo avvicinasse, e lo mordeva con quella sua bocca irta di zanne affilate.
L'unica cosa che lo straniero aveva in comune con gli Irrazionali era che non sapeva leggere o scrivere, e per questo lo avevano portato qui da noi.
Più ne sentivo parlare, e più ero curioso di vedere lo straniero. Non fu difficile trovarlo. Se ne stava da solo in un angolo del cortile, a godersi il sole quasi completamente nudo.
Non sapevo se quello che si diceva su di lui era vero, ma almeno sapevo che gli piaceva sentire il tepore della luce sulla pelle almeno quanto piaceva a me. Era qualcosa che avevamo in comune.
Andai a sedermi sul pavimento sabbioso del cortile a distanza di sicurezza dalle sue lunghe braccia.
– Mi chiamo Leeryan – gli dissi nel linguaggio interstellare. Non sapevo se poteva capirmi, ma era una deduzione sensata pensare che conoscesse quell'idioma, piuttosto che la lingua parlata sul mio pianeta.
Lo straniero si girò e così vidi i suoi occhi. Era vero quello che si diceva, erano occhi grandi, selvaggi, ma anche intelligenti, molto più degli sguardi stolidi che mi rivolgevano gli analfabeti mentre mi aggiravo nel cortile.
– Kaad Ntroem – rispose lo straniero, e subito chiese, scoprendo le labbra sui denti a ogni parola: – Non hai paura di me?
Sbuffai in segno di dissenso. Almeno ora sapevo per certo che conosceva il linguaggio interstellare, e che sapesse o no la nostra lingua, era ovvio che avesse capito che opinione si erano fatti gli altri su di lui. Non li biasimavo: i suoi denti erano davvero spaventosi. Grossi pungiglioni che formavano una corona di spine appena dietro le labbra, sembrava quasi un miracolo che non si fosse ancora morso da solo nel parlare. Non mi avrebbe stupito scoprire che quelle zanne erano pure velenose. Ma non lo chiesi.
– Io non sono come gli altri – dissi, e abbassai le dita sulla sabbia. Non avevo mai sentito un nome come il suo, ma provai a trascriverne i suoni con le forme geometriche dell'alfabeto che accompagnava la lingua che stavamo parlando.
– Sai scrivere? – chiese lo straniero, e anche se non traspariva nel suo tono di voce, immaginai che fosse sorpreso. Probabilmente gli avevano detto che solo gli Irrazionali analfabeti finivano qui, nelle baracche. Era una semplificazione necessaria, ma pur sempre una semplificazione. Gli Irrazionali emotivi come me erano rari, ma ce n'erano stati altri nel corso della storia.
Sapevo che il mio tipo di irrazionalità era tollerata negli stranieri che visitavano o si stabilivano sul pianeta. Ogni tanto qualcuno dei miei conterranei si assumeva volontariamente il compito di rieducare questi estranei incapaci di controllo o raziocinio, ma finché quel modo di pensare illogico non induceva lo straniero a compiere azioni illecite, non poteva essere sanzionato.
L'incapacità di leggere e scrivere una volta superata una certa età era tuttavia di per sé illegale, e conduceva direttamente qui chiunque l'avesse esibita, non importava di che specie fosse l'individuo in questione. Per quel difetto non c'era possibilità alcuna di rieducazione, come avevo scoperto con i miei compagni di prigionia.
Invece di rispondere alla sua domanda, ripetei il suo nome, e per ogni suono tracciai man mano la lettera corrispondente. Lo straniero seguì ogni mia mossa poi portò una mano strana, dalle dita che sembravano unite da veli di pelle, alla sabbia e ripeté come meglio riusciva i simboli che aveva di fronte agli occhi. Erano lettere dai tratti incerti, imprecisi, e dal suo punto di vista, a rovescio, ma nessuno degli altri era mai arrivato a tanto.
– Tu puoi imparare! – esultai, incredulo. Qualcosa di bellissimo era appena avvenuto, qualcosa di non razionalmente quantificabile, ma non di meno, ne ero sicuro, bellissimo. – Si sono sbagliati su di te, tu puoi imparare!
Non sapevo se chi lo aveva esaminato avesse calcolato in modo errato la sua età nell'equipararla alla nostra, errore che dubitavo avrebbe potuto compiere un essere totalmente razionale, o se la mente della sua specie fosse diversa dalla nostra, se per loro quella finestra non si sarebbe mai chiusa, permettendogli di sviluppare scrittura e pensiero razionale a qualunque età, o per chissà che altro motivo. Quello che contava era che lo straniero non aveva ragione di stare lì con noi, e me lo dimostrò definitivamente quando tracciai nella sabbia di fronte a lui altre parole senza dirgli come si pronunciavano, e lui riuscì a compararle al suo nome e a identificare le lettere in comune, e a chiedermi come leggere le altre.
Sì, lo straniero era in grado di capire come funzionava un alfabeto.
Peccato che nessuno avrebbe dato retta a me, un Irrazionale emotivo. Se avessi provato a spiegarlo alle guardie, avrebbero semplicemente risposto che me lo ero immaginato, e che non avevo alcun mezzo per quantificare in modo razionale la capacità di apprendimento di chicchessia. Quella era la prerogativa di un esaminatore, e lo straniero era già stato esaminato da qualcuno certamente più competente di me nel valutarlo.
Insomma, la mia voce non contava.
Almeno, non finché non giunse l'Ena Catera per occuparsi del caso dello straniero, e finalmente qualcuno si degnò di ascoltarmi.

sabato 13 luglio 2024

Rintuzzare

Rintuzzare [rin-tuz-zà-re] v.tr. [sogg-v-arg] Respingere, ribattere qualcosa con decisione; soffocare un istinto, una passione; reprimere.

Etimologia: deriva dal latino, composto da re, "indietro", in, "in", e tuditare, "spingere fortemente, cacciare dentro", intensivo di tudere o tundere, "battere, pestare".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Timur Weber da Pexels


Non era la prima volta che Denis e Vanessa litigavano da quando la bambina aveva passato i tre anni, e lui l'aveva persuasa che sarebbe stata una buona idea iscriverla alla scuola materna, abituarla a frequentare altri bambini e più in generale le persone "normali". Al contrario di Dimitri, che aveva sempre sostenuto l'ovvia differenza e la naturale distanza tra loro e le prede, Vanessa all'inizio era stata d'accordo con Denis, poiché ricordava come l'aveva resa ingorda e crudele nei primi anni della sua vita l'isolamento in cui l'aveva cresciuta suo padre, dopo la morte di sua madre. Lo era stata, almeno, fino all'incidente più grave di tutti, quello che aveva coinvolto una delle insegnanti della scuola.
– Lo so che ero d'accordo – sbottò Vanessa. – Ma lo vedi anche tu che non può funzionare. Forse con l'età può arrivare controllarsi, ma ora...
Denis rintuzzò quell'idea con la stessa frase che aveva ripetuto dopo ogni pericolosa intemperanza della figlia: – Non imparerà mai se non sta in mezzo alla gente! Se solo quel pazzo di tuo padre non le avesse insegnato a fare del male prima di insegnarle a ragionare e a trattenersi!
– Non coinvolgere Dimitri. Non ti conviene – sibilò Vanessa. In realtà, a insaputa di Denis, il padre di Vanessa era già coinvolto. Era lì con lei, nella sua mente, ed era sua la brama di sangue che Vanessa faticava a rintuzzare in quel momento.
Denis non gli era mai piaciuto, ma per amore della figlia, lo sopportava.
Attendeva solo che quell'omuncolo gli fornisse una scusa, cosa che aveva già fatto ripetutamente, e che Vanessa si stancasse di lui. A quel punto, ciò che era accaduto all'insegnante della bambina sarebbe stato ben poca cosa rispetto a ciò che attendeva quell'essere indegno.

giovedì 11 luglio 2024

Audioracconto - La famiglia della strega


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Anna Shvets da Pexels


Tra le pagine di un diario, una bambina rapita dalle streghe si interroga sulla sua sorte. Le streghe la mangeranno come dicono le leggende? La trasformeranno in un rospo? Oppure è un altro il destino che hanno in serbo per lei?

La famiglia della strega
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/01/la-famiglia-della-strega.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Identity Crisis di myuu (https://soundcloud.com/myuu)
da YouTube Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=iaGGs28HSdg);
Getting There di Silent Partner
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=OJ9hmLbNY_Q);
Wigs di Riot
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=lS8viz_EltE);
Go to Sleep My Little One di Doug Maxwell & Media Right Productions
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=EvO6uk6BqEU);

Immagini di: Anna Shvets (https://www.pexels.com/it-it/foto/mare-spiaggia-amore-persone-4672228/), Andrea Piacquadio (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-premurosa-che-scrive-in-taccuino-a-casa-3769013/), (https://www.pexels.com/it-it/foto/salutare-ragazza-letto-camera-3887644/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/salutare-luce-leggero-ragazza-3887605/), Thirdman (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-camicia-nera-a-maniche-lunghe-che-tiene-mela-rossa-5415418/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/strega-che-tiene-porte-in-legno-5407936/), Moses Machunga (https://www.pexels.com/it-it/foto/fuoco-cucinando-contenitore-falo-20094197/), Christina Petsos (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-piedi-ritratto-costume-14017283/), Monstera Production (https://www.pexels.com/it-it/foto/ragazze-allegre-che-combattono-con-i-cuscini-sul-letto-5063311/), cottonbro studio (https://www.pexels.com/it-it/foto/ragazza-carino-biondo-ritratto-6073833/), Dave Bishop (https://www.pexels.com/it-it/foto/animale-occhio-selvaggio-fauna-selvatica-7399534/), Adrienn (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-di-donna-dietro-la-porta-1459558/), Kampus Production (https://www.pexels.com/it-it/foto/ragazza-cappello-grotta-bambino-7965861/), RDNE Stock project (https://www.pexels.com/it-it/foto/cibo-ristorante-natura-uomo-7978032/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/mani-scrittura-scrivendo-harry-potter-7978242/), ArtHouse Studio (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-libri-ritratto-tenendo-4646033/), Kindel Media (https://www.pexels.com/it-it/foto/colorato-colori-laboratorio-medicina-8325976/), Mario Rodriguez (https://www.pexels.com/it-it/foto/zucca-sopra-le-mani-3389775/), Amanda Linn (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-che-indossa-vestito-bianco-dalla-cinghia-di-spaghetti-973326/), Tú Nguyễn (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-abito-bianco-e-ali-1545589/), Bayram Musayev (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-foresta-costume-magia-15022114/), furkanfdemir (https://www.pexels.com/it-it/foto/luce-leggero-donna-scrittura-7080728/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

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lunedì 8 luglio 2024

Guastafeste


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di cottonbro studio da Pexels


Il cortile era un viavai di studenti chiassosi quando Mark avvicinò colei che non era Vivienne per la prima volta dopo quel fatidico pomeriggio. La afferrò per un braccio e la costrinse a voltarsi, poi la squadrò da capo a piedi con un'occhiata critica. Mark non poteva immaginare di non avere di fronte Vivienne, poiché la donna che stava trattenendo aveva lo stesso identico volto della timida bibliotecaria che aveva imparato a conoscere, e a cui si stava suo malgrado affezionando, almeno, aveva pensato di provare qualcosa prima di quella crudele presa in giro mascherata da appuntamento. Le labbra della donna, di un rosso deciso, erano piegate in un sorriso sprezzante che Vivienne non gli aveva mai rivolto prima di quel pomeriggio, e la postura e lo sguardo diretto erano quelli di una donna carismatica e sicura di sé, e l'abito nero dalla profonda scollatura e lo spacco che lasciava in evidenza la gamba destra era volgare e inappropriato per qualcuno che faceva parte del personale scolastico, e non importava che a Vivienne fosse stato negato il contatto con gli studenti in attesa di ulteriori decisioni. L'avevano vista tutti lì nel cortile, e alcuni dei ragazzi le avevano fischiato dietro, fatto commenti e scattato foto senza che lei facesse nulla per fermarli o cercare di farli smettere.
– Ma guardati – sibilò Mark, mollando la presa come se il solo toccarla lo disgustasse. – Sei indecente.
Colei che non era Vivienne gli rivolse uno sguardo lascivo e replicò: – Grazie.
Avanzò di un passo verso di lui, cercando di addossarsi al suo corpo, ma Mark scattò indietro.
Colei che non era Vivienne rise. – Sei un uomo molto represso, Mark. Dovresti divertirti un po'.
Al suo orecchio giunsero i commenti dei ragazzi che avevano assistito alla scena. I nomignoli che le davano le ragazze, i propositi dei ragazzi se si fossero trovati al suo posto. Mark si rese conto che stavano attirando troppi sguardi, ma non poteva farci niente. Doveva sapere perché lei si stava comportando in quel modo.
– Prenderci in giro tutti. Terrorizzare un'intera classe. Fingere che ti importi qualcosa di... – Mark si morse un labbro prima di pronunciare la parola successiva. "Me". No, non voleva renderlo personale, anche se in fondo già lo era. – ...di qualcuno che non sia te stessa. È questa la tua idea di divertimento, Vivienne?
– Mh, Mark. – La donna si passò la lingua sulle labbra dopo aver pronunciato il suo nome. – Sei tanto arrabbiato per qualche studentello a cui ho mostrato la verità, o perché non ero sola quando sei venuto a casa mia? Saresti potuto restare, sai. Tu, io, e l'aitante vicino di casa. Ci saremmo potuti divertire moltissimo, ma no, tu hai voluto fare il guastafeste e andartene... sì, proprio con la stessa espressione schifata che hai adesso.
Il capannello di studenti che ronzava loro intorno si stava ampliando, notò Mark, e il solo pensiero dell'esempio che doveva dare ai ragazzi lo trattenne dal rivolgersi alla donna che aveva di fronte con uno degli epiteti che aveva udito prima dal gruppetto di studentesse in cerca di gossip.
– Non si tratta di me – replicò Mark, anche se sapeva che era una bugia. Cercò di vincere il ribrezzo che provava, la afferrò per un braccio e disse: – Dobbiamo parlare, ma... non qui. Non ti permetterò di dare spettacolo...
Colei che non era Vivienne però fece resistenza e si mantenne salda al suo posto, nonostante i tacchi alti. – Io sono esattamente dove voglio essere. Se devi dirmi qualcosa, lo farai qui e ora.
– Non mi sembra il caso di... – Mark s'interruppe. Qualcosa, nelle parole di Vivienne, aveva fatto breccia. Si scostò da lei.
Nessuno degli studenti della classe in cui Vivienne aveva fatto supplenza aveva voluto o potuto parlare dell'accaduto, eppure mostravano tutti gli stessi sintomi, a detta delle famiglie. Incubi, crisi di panico, tutti gli effetti di una sindrome da stress post traumatico. – Quale verità? – mormorò Mark, cauto. – Che verità hai mostrato agli studenti?
Sperava che anche lei gli rispondesse a bassa voce, poiché non intendeva rendere di pubblico dominio quel dettaglio, nel caso in cui come sospettava si fosse rivelato qualcosa di scabroso. Anche se non riusciva proprio a immaginare che cosa mai potesse aver turbato tanto i ragazzi di quella generazione, abituati com'erano a scoprire di tutto e di più da internet.
– Vedi, Mark, avrei dovuto leggere Dante – esordì la donna, alzando invece il tono di voce per farsi udire tra il cicaleccio del pubblico che avevano attirato. – ...ma quel poetucolo da strapazzo non è riuscito a rendere nemmeno la decima parte degli orrori che gli ho mostrato, perciò ho dato una dimostrazione diretta inviando ciascuno di loro, temporaneamente purtroppo, e solo in spirito, nel luogo a cui appartiene se continua la sua vita come ha sempre fatto. Dubito che lo faranno, dopo averne avuto un assaggio, perciò, grazie me – concluse la donna, portando le mani a incrociarsi sulla scollatura.
Mark sbuffò e distolse lo sguardo. Non si era aspettato da lei una totale onestà, ma nemmeno una presa in giro così plateale. – Gli orrori che che gli hai mostrato. A Dante – le rinfacciò Mark.
Colei che non era Vivienne fece una risatina maliziosa. – Ma no, sciocchino, è nato almeno un paio di secoli troppo presto. Mi stavo solo prendendo gioco di te. Però mi sarebbe piaciuto, essere la sua musa infernale. Se la sarebbe totalmente scordata quella Beatrice, se avesse avuto me.
La donna si protese e gli allacciò le braccia al collo, in un coro di mormorii dagli studenti che li circondavano. La campanella suonò, ma la maggior parte non scattò subito per tornare in classe. Erano troppo curiosi di vedere come sarebbe finita quella tresca. Mark scosse la testa, le afferrò le braccia e la respinse con delicatezza. Forse era la sua educazione, forse perché comprendeva la paura e la violenza meglio di chiunque altro, ma non riusciva a mostrarsi duro con lei, anche se Vivienne gli aveva spezzato il cuore. – Non intendo sorbirmi queste farneticazioni. Dimmi la verità, oppure non farlo, tieniti i tuoi segreti. Ma smettila di prendermi in giro, Vivienne.
– Oh, se sapessi... la tua testa esploderebbe, se solo sapessi... – alluse colei che non era Vivienne. Mark non poteva sapere, ma per un istante, per un solo istante, era stata sul punto di raccontargli tutto. Così, solo per vedere la sua faccia, solo per scoprire se le avrebbe creduto o se avrebbe continuato a negare l'evidenza. Ma poi si era ricordata che quella rivelazione non autorizzata avrebbe rovinato i suoi piani, e che poteva tirare la corda soltanto finché non fosse stata scoperta, e che d'altra parte era più divertente se lui avesse continuato a credere di avere a che fare con quella patetica nullità di Vivienne, quella buona e cara bibliotecaria troppo timida per ribellarsi quando veniva trattata come uno zerbino da tutti. Sì, era troppo divertente fingere che le fosse venuta abbastanza spina dorsale da prendersi finalmente una rivincita su tutti, anche su colui che l'aveva sempre relegata al ruolo di amica, che non l'aveva mai davvero vista.
– Guastafeste – concluse colei che non era Vivienne. Ora che sembrava che niente sarebbe accaduto, il loro pubblico si stava diradando. – Be' quando hai voglia di una cosa a tre, sai dove trovarmi.
Mark fece una faccia schifata e lei rise, prima di dargli la schiena e lasciarsi il cortile della scuola alle spalle.

sabato 6 luglio 2024

Lapalissiano

Lapalissiano [la-pa-lis-sià-no] agg. Di cosa o fatto, del tutto evidente, scontato.

Etimologia: deriva dal nome del maresciallo francese Jacques de Chabannes, signore di La Palice, per alcuni canti ingenui composti dai soldati per celebrarlo dopo la sua morte.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Dobromir Hristov da Pexels


Il giorno in cui mi sorpresi a pensarlo per la prima volta fu straordinario. E anche un po' sconvolgente, dal momento che fino ad allora mi ero sempre considerato un estraneo, qualcuno che era lì solo di passaggio, e che ci sarei rimasto soltanto finché non fossi del tutto guarito.
Ero da solo con Demi, a fare qualche lavoretto di routine come riempire le mangiatoie degli animali e riparare le tettoie delle baracche, o meglio, io facevo e Demi stava a guardare, passandomi solo di tanto in tanto il martello o le chiavi di una gabbia. Ma non mi lamentavo della sua scarsa partecipazione, perché potevo solo immaginare che usare un campo telecinetico a una distanza così grande da dove lei si trovava realmente le costasse un gran dispendio di energia, oltre a quella che già impiegava per proiettare un'immagine di sé con cui interagire.
– Insomma, è lapalissiano che alcuni di noi non potrebbero avere una vita normale, al di fuori del circo di Antares – le dissi, riprendendo un discorso iniziato poco prima, non appena mi tolsi l'ultimo chiodo stretto tra le labbra. Demi non parlò, ma probabilmente già si era accorta di come avevo formulato la frase. – Amaltea può anche riuscire a nascondere i suoi piedi, ma Talìa con quelle mani non passerebbe inosservata, e Sally che ancora non si controlla ogni volta che c'è un cane in giro avrebbe seri problemi... Riesce a malapena a sopportare Tom! Quanto a Magnus... due braccia in più si notano di sicuro, non può sempre tenerle fasciate e far finta di essere grasso! Probabilmente solo io e te non attireremmo gli sguardi, anche se non capisco perché a te quelli nuovi non chiedono mai perché sei qui.
Non appena scesi dalla scala, le vidi quell'espressione buffa in volto, e aggrottai la fronte. – Che ho detto di tanto strano?
– Noi – rispose Demi, con uno dei suoi sorrisi sfrontati. – Hai detto noi. È lapalissiano: ormai non sei più un ospite. Benvenuto nella nostra famiglia di mostri.

giovedì 4 luglio 2024

Audioracconto - Croste di focaccia e unicorni


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


La radura degli unicorni. Non cercatela, non c'è niente qui che valga la pena di essere trovato. Non esiste nemmeno, questo posto.

Croste di focaccia e unicorni
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/05/croste-di-focaccia-e-unicorni.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Music Box di Brian Bolger
da YouTube Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=UiafqGdk85c);
Retreat di Jason Farnham
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=XRcItI3W7ZQ);
Enchanted Journey di Kevin MacLeod (https://incompetech.com/)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=Jsrd_abKOPM).

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lunedì 1 luglio 2024

I segreti del Castello di Arundia


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Foto di Ilo Frey da Pexels


Nel cortile interno dell'antico castello, appartenuto un tempo remoto ai principi di Arundia, si affollava un viavai di comitive chiassose al seguito di ombrellini rossi e pompon gialli tenuti ben alti sopra le teste per essere visibili a distanza anche dai dispersi che si attardavano a contemplare il leggendario pozzo senza fondo al centro del cortile o a farsi un selfie davanti alla statua di Arcimberto il Conquistatore. Un'unica guida se ne stava invisibile al centro di un cerchio più nutrito di persone, composto oltre che dai suoi anche da qualcuno che s'era staccato da un'altra comitiva ed era rimasto incantato ad ascoltare gli aneddoti del bizzarro cicerone.
– Al centro del cortile, il pozzo che fu dichiarato "senza fondo" deve questa sua nomea a un errore che perdura tuttora fin dal lontano 1458, quando il principe Osvaldo il Senzorecchio dopo aver ascoltato attentamente per svariate ore disse che non c'era stato tonfo del sasso che vi aveva lasciato cadere, e che pertanto non c'era fine alla profondità del pozzo, e nessuno dei cortigiani presenti osò contraddirlo – gracchiava un pappagallo giallo e blu al centro dell'assembramento. Poi indicò con l'ala la più grande delle statue che ornavano il cortile. – Alla vostra sinistra, ammirate l'effigie di Arcimberto il Conquistatore, che nonostante si sia fatto immortalare con l'elmo e l'armatura e un nemico morente ai suoi piedi, il campo di battaglia in realtà non l'ha visto mai. Era più noto come frequentatore di letti di fanciulle, e a questa sua pratica è dovuto il suo nome, almeno finché non gli toccò di prendersi in moglie una delle figlie del rivale Ducato di Sigismondia, e allora cercò di salvarsi la faccia... così, con questa statua. Ma tutti ad Arundia sapevano della fama del Conquistatore, e quando lo venne a sapere anche la sua novella sposa, gli intimò di dare un taglio a queste sue pratiche, o il taglio lo avrebbe dato lei, non so se mi spiego...
E così, di aneddoto in aneddoto, il pappagallo andava avanti a svelare i più reconditi e imbarazzanti segreti di tutta la dinastia di Arundia, storie che non si trovavano nei libri di storia, ricche di dettagli che solo in parte gli studiosi avevano decifrato da antiche cronache dell'epoca. E la gente che lo ascoltava andava dicendo "ma che bravo questo pappagallo ammaestrato, sa ripetere un discorso così lungo senza sbagliare una sola sillaba", oppure "è come sentire qualcuno che era lì centinaia di anni fa, ti fa proprio rivivere la storia!", e alla fine del tour dell'antico castello di Arundia se ne andavano soddisfatti, pronti a consigliare ad amici e parenti di farci un giro, sì, ma "solo se capitate con la guida pappagallo, che ne sa più di tutte le altre messe assieme!"
Le sue spiegazioni erano così coinvolgenti e ricche di particolari su ogni singolo principe o principessa che aveva abitato il castello, che raramente qualcuno si accorgeva che due delle statue più piccole ed erose dal tempo, un uomo e una donna a grandezza naturale avvolti da lunghi mantelli e con bizzarri cappelli in testa, non ricevevano alcuna attenzione da parte del pennuto. E se qualcuno chiedeva di raccontare loro chi fossero, il pappagallo rispondeva: – Quelli? Oh, quelli non sono nessuno, due presi a caso dalla strada giusto per riempire un po' di spazio vuoto.
E conduceva altrove la comitiva prima che potessero leggere i nomi sul piedistallo delle statue: Benvogius Strambus e Maliarda Strambus, fratello e sorella, maghi di corte.
Alla sera, quando le voci dei turisti si smorzavano in lontananza e i loro passi si dirigevano verso i migliori ristoranti della zona, due sole figure sostavano nel cortile interno del castello appartenuto un tempo remoto ai principi di Arundia, preso ora d'assalto ogni giorno da orde su orde di turisti che avrebbero fatto rivoltare i suddetti principi nelle cripte avite, se solo avessero saputo: un pappagallo che non era ammaestrato affatto, e una donna del tutto identica a una delle statue del cortile.
– Benvogius – diceva sempre la donna, nell'avvicinarsi al pappagallo.
– Maliarda – rispondeva quest'ultimo, sospirando. – Sorella mia, non ti sembra giunta l'ora di lasciar perdere questo piccolo screzio tra noi e togliere la tua maledizione? Quanti anni sono passati, ormai... quattrocento?
– Quattrocentododici anni, tre mesi e diciotto giorni – rispose la donna quella sera – Uno più di ieri e uno meno di domani.
– Appunto. Un periodo molto lungo per portar ancora rancore, sorella mia – le faceva sempre notare il pappagallo. – Sii ragionevole, Maliarda...
– Ti sei deciso a chiedermi scusa, fratello? – suggeriva la donna quella sera, come ogni altra sera. – Due semplici parole, mi dispiace, avevi ragione, dovevo darti retta...
– Sono più di due parole – s'impuntava il pappagallo, con la sua voce gracchiante, mentre la notte calava riempiendo di ombre il cortile. – Inoltre, non vedo perché devo scusarmi, avevo ragione io e tu torto!
– Goditi la tua maledizione, Benvogius – tagliava corto la donna nel girargli le spalle. – Ci vediamo domani, o magari chissà, fra un secolo. Forse per allora avrai riflettuto abbastanza su quello che hai combinato, signor Pappagallo Strambus.
Al povero Benvogius, ex mago di corte e precettore di svariate generazioni di principi di Arundia, riciclato nelle sue nuove vesti in qualità di guida turistica, non restava che scrollare spalle, ops, le ali e andare a cercarsi un trespolo per la notte.