giovedì 2 gennaio 2020

I commensali silenti


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ormai la nostra vita non sembrava più un film di fantascienza: gli spazi enormi e asettici della nave generazionale stavano diventando familiari. Al limite, quando ci soffermavamo a pensarci, pareva di vivere nella più grande nave da crociera mai costruita, solo che non potevi uscire a guardare l'oceano.
Io ero stata fortunata. Ero salita al seguito del mio mentore, colui che era stato la mia motivazione di vita e la mia ispirazione e, a un solo anno dalla partenza, il mio ex ragazzo. Tutto di guadagnato, credimi.
I miei giorni si dividevano tra la cucina, la sala da pranzo del ponte D, e la mia cabina, dove ormai mi aspettava solo Volpe, la mia gatta. Lo so. Ero così inguaribilmente introversa.
Ma come tutti gli introversi, io avevo un superpotere: la capacità di osservazione.
Nella sala da pranzo del ponte D le tavole erano enormi, con molti più posti di quanti ne servissero a una singola famiglia, o a un gruppo di colleghi che lavoravano nella stessa sezione. Durante i primi mesi avevo assistito al fenomeno che io chiamavo scherzosamente "deriva linguistica". Se all'inizio il posto veniva scelto a caso, col passare del tempo i parlanti della stessa lingua tendevano a riunirsi a un unico tavolo, o se erano in troppi, a riempire le tavole vicine. Così c'era il tavolo dei francesi, quello dei russi, quello degli spagnoli, le tre tavolate di inglesi e americani, e un gruppo di quattro in cui probabilmente si parlava cinese, e questo solo per le lingue che ero riuscita a individuare... e poi, c'erano loro.
I silenti.
Non avevo ancora capito che lingua parlassero, perché raramente li avevo sentiti scambiarsi qualche parola, e in quei casi si trattava di convenevoli banali recitati come se fossero battute di un copione. Come stai, molto bene grazie e tu, non c'è male. Oppure: buono l'arrosto, dovresti assaggiare le patate, che cosa fai domani dopo il lavoro, non ho ancora deciso. In quelle occasioni, come con i camerieri, si esprimevano in inglese, ma io dubitavo che fossero anglofoni per nascita. Il loro tavolo era troppo lontano dai tre che avevo già individuato, e conoscere l'inglese come seconda lingua era un tratto comune di molti a bordo.
La maggior parte del tempo i commensali di quel tavolo si limitavano a scambiarsi sguardi, ed era come se quegli sguardi fossero la loro lingua. Quando si alzavano, non avevo affatto l'impressione che fossero rimasti in silenzio per tutto il pasto. Piuttosto mi pareva che, come ventriloqui, avessero tenuto una conversazione sottovoce, senza muovere le labbra. Ma per quanto cercassi di avvicinarmi di soppiatto, non ero mai riuscita a coglierli sul fatto.
Il mistero dei commensali silenti era un diversivo interessante alle mie giornate sempre uguali, ed ero certa che prima o poi sarei riuscita a scoprire da dove venivano, e dunque qual era la loro lingua. Lo so, avrei potuto chiedere, e il pensiero mi era passato per la testa. Ma come nel guardare la soluzione di un cruciverba, quel proposito aveva il sapore dell'imbroglio, e d'altra parte, che divertimento c'era a scoprirlo subito nel modo più semplice?

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