lunedì 30 gennaio 2017

Rinascere

Questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco il settimo tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Rinascere

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei.
E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là. Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.
(Prosegui a leggere il racconto.)  

Dopo un incipit da sogno realizzato, ecco il ritorno alla normalità. Emozioni e alcuni gesti quotidiani descritti con un linguaggio delicato. E la domanda con cui ti lascia il breve testo: che cosa è contenta di aver fatto?

Una domanda che può fornire un ottimo spunto per un racconto.
Non dico altro per ora, ti aspetto giovedì!

sabato 28 gennaio 2017

Oniromanzia

Come per le fobie, anche le parole composte con -manzia, ovvero divinazione, sono innumerevoli. In caso si legga o si scriva una storia che riguarda una predizione, è utile conoscere almeno le più comuni. Questa tra tutte è la più nota.

Oniromanzia [o-ni-ro-man-zì-a] s.f. Tecnica di divinazione basata sull'interpretazione dei sogni.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 

Quando ho scelto questa parola già sapevo di avere da qualche parte, nei miei appunti, un tempio in cui i miei personaggi si recano per ricevere aiuto in sogno, un po' come avveniva nell'antica Grecia. Ero pronta a descrivere immagini oniriche altamente simboliche, come una foresta in fiamme con il fuoco che la ricrea invece di bruciarla, un uomo che incatena un secchio alle braccia della sognatrice e cerca di convincerla a spegnere le fiamme... ma ho cancellato tutto in favore di un'idea più interessante.


Sbuffo, sdraiata nel buio del recinto sacro. Liri e le sue idee sull'Oniromanzia.
– Vai al tempio di Dorania! – mi aveva detto prima di partire in gran segreto, alla ricerca di chissà che cosa, seguendo il miraggio promesso da un sogno. – Lì sapranno risolvere tutti i tuoi problemi.
Io non ci credo, naturalmente. Non ci ho mai creduto. Ma qui la faccenda dei sogni viene presa piuttosto seriamente.
Dopo averne parlato col saggio, un vecchio cieco e bendato (ma a che serve la benda, se già non ci vede?), due ancelle del tempio mi avevano portato a fare un bagno (abluzioni sacre, le chiamano), dato una tunica leggerissima e tenuto per più di un'ora a recitare una lunga litania inginocchiate sulla roccia di fronte a una statua. Infine mi avevano abbandonata qui, tra una mezza dozzina di altri corpi, a cercare a tentoni, al buio, il mio spazio sul pavimento di pietra ricoperto di paglia.
Li sento russare. Uno dev'essere un uomo, ronfa così profondamente che quasi non distinguo il respiro degli altri. Una donna mugola, e un ragazzo giovane bofonchia nel sonno qualcosa che riguarda il suo cane, o il suo pane.
Mi giro dall'altra parte e mi tappo le orecchie con le mani. Dormire qui è ancora più difficile che altrove. La paglia mi punge la pelle attraverso la tunica di cotone. Del pavimento di pietra poi non ne parliamo, non sono certo una principessa, ma non sono mai stata più scomoda in tutta la mia vita.
La donna che prima mugolava caccia un urlo nel sonno. L'uomo che russa finalmente s'interrompe, forse s'è svegliato. Quanto a me, non dormivo, e già so che è tutto inutile, non dormirò.
Mi alzo in piedi, scavalco un paio di corpi e con le mani tese in avanti m'infilo nel corridoio e salgo le scale. Oltre la porta c'è la luce del tempio, alcuni sacerdoti, e il vecchio bendato.
– Oniromanzia un corno – borbotto. – Quante volte ve lo devo dire che il mio problema è che soffro d'insonnia?

giovedì 26 gennaio 2017

Errori da principianti, e un po' di sana ironia

Ci siamo passati tutti. Chiunque abbia preso in mano una penna e abbia cominciato a mettere sulla carta i propri pensieri e organizzarli in una storia, si sarà accorto rileggendo dopo tempo (o, se è stato fortunato, qualcuno glielo avrà fatto notare prima) di qualcosa che stona, di una imperfezione, di un errore a cui porre rimedio. E non mi riferisco a refusi ed errori di distrazione, o a castronerie di ortografia o di grammatica: perché i primi sono scusabili, mentre i secondi, specie se abbondanti, dovrebbero far considerare di riprendere in mano i testi scolastici e rimettersi a studiare.

No, io mi riferisco a quegli errori da principianti che non ti insegnano a evitare a scuola. Quelli di cui ho quaderni pieni, pagine e pagine di storie, racconti, abbozzi che sono i miei esperimenti falliti. Quelli che non mostrerei mai a nessuno, ma che tengo per capire quanta strada ho fatto e quanta ne posso ancora fare. Quelli per cui la cura è la pratica, i consigli di qualcuno che riesca a mettere da parte ogni remora e darti un'opinione onesta e, se serve, brutale, e soprattutto tanta lettura dei testi di chi questa prima fase l'ha oltrepassata, con un occhio critico per cercare di individuare cosa funziona e cosa no. Oltre, naturalmente, alle tante risorse che è possibile reperire adesso: libri, corsi, gruppi, articoli su blog che trattano di scrittura creativa.


Con il racconto di lunedì, Eroi di carta, mi sono divertita nell'inserire, prendendomi un po' in giro, alcuni di quei piccoli o grandi errori che nel corso del tempo ho scoperto e corretto nei miei racconti. Eccone alcuni.


Protagonista "Mary Sue"
"Non ti capisco. Se rappresento il tuo sogno divenuto realtà, non dovresti rendermi le cose facili?"

Come ho già accennato qui, scrivere di un personaggio troppo simile a te, in particolare se migliorato da una caratteristica che non hai e che vorresti (nel racconto, essere una scrittrice affermata), presenta più di un rischio. Oltre a indurre alla pigrizia perché non serve pensare troppo per capire come reagirebbe in una situazione (ovvio, come te!), rischia di trasformarsi in una specie di supereroe a cui va miracolosamente tutto bene. Perché, ammettiamolo: chi vorrebbe gettare se stesso nell'abisso di dolore, disperazione e pericoli mortali in cui uno scrittore invischia i suoi personaggi? Così, nell'universo che hai creato, tutti amano quella versione di te; lui o lei è affascinante, ricca, fortunata, brava in qualunque cosa faccia, e se per caso nella storia c'è qualcuno che non ci crede o critica il tuo specchio ingranditore fatto di inchiostro, ecco che viene osteggiato e deriso dal resto dei personaggi, o gli capita qualche disgrazia, calata dall'alto dalla penna di chi scrive, per punirlo di aver osato tanto.

Quando ho riletto la storia di Mayaselena prima di scrivere il brano per la parola Halleluia, mi sono messa le mani nei capelli per la quantità di situazioni che lei, una bambina, riusciva a risolvere in fretta e senza troppi sforzi o aiuti; e allo stesso modo ho inorridito per la facilità con cui i suoi parenti, in teoria adulti e responsabili, acconsentivano alle sue richieste, nonostante tali richieste avessero come conseguenza pesanti svantaggi per loro, anche di natura economica. Mi occorrerà un attento lavoro di revisione, se mai riprenderò in mano quella storia, per renderla abbastanza decente da consentire a qualcuno di leggerla.


Problemi di coerenza nelle descrizioni
"Come quella sigaretta scomparsa. Poco professionale da parte sua. Io almeno sarei stata abbastanza attenta da cancellarla anche prima."

Succede anche nei film. In un'inquadratura è presente un oggetto, e in quella dopo, eccolo che scompare. Scrivendo un racconto, ti può capitare di dimenticare ad esempio che il protagonista afferra un martello, e l'istante successivo gesticola con tutte e due le mani libere. Oppure hai cambiato il colore dei capelli di un personaggio minore in corso d'opera, e ti sei dimenticato di aggiustare quel dettaglio in una precedente apparizione. Questioni che si possono aggiustare facilmente con un po' d'attenzione: in una storia che ho scritto, ad esempio, c'è un dialogo in cui le due persone che parlano si spostano di frequente nello spazio e l'uno rispetto all'altra. Ho dovuto leggere tutta la scena escludendo le parti di dialogo per essere sicura che i due fossero sempre esattamente dove dovevano essere.


 Problemi di coerenza nella trama
"Se inventi una regola, dev’essere valida sempre. Oppure devi far capire a me e ai lettori perché a volte non funziona."

In questo caso non si tratta soltanto di distrazione: qui c'è qualcosa che non va a livello della struttura della storia. In particolare per un romanzo o racconto fantasy, in cui tante delle regole che reggono quel mondo sono inventate a tavolino dall'autore, la coerenza è quell'equilibrio che consente al fragile castello di carte di stare in piedi invece di crollare su sé stesso. Non è una questione frivola, o marginale. Come ho spiegato qui, il lettore è intelligente, si pone domande, e se scopre che lo stai prendendo in giro, "accendendo e spegnendo" una determinata regola senza altro motivo del far proseguire la storia lungo il binario che hai scelto, può decidere, e ne ha tutto il diritto, di smettere di leggere.

Come lamentato dalla protagonista, l'intero racconto Eroi di carta è fondato su un problema di coerenza di trama: una "magia" che arbitrariamente, senza alcuna spiegazione, funziona ovunque tranne che nell'ufficio dell'editore. Ma in questo caso l'errore è voluto: in fondo è solo una scusa per ironizzare su simili incoerenze, una parodia senza alcuna pretesa che la "storia nella storia" venga presa sul serio. E la rivelazione che la scrittrice stessa sia un personaggio fittizio offre una spiegazione all'incoerenza, sistemando il tutto.


Nomi
Diada. Inconsu. Pertrafra. Regno di Areereire.

Questo non è esattamente un errore, o almeno non sempre. C'è una tendenza che ho notato negli aspiranti scrittori italiani, e anche in me: scegliere per i propri personaggi nomi inglesi, in particolare nomi che non abbiano un'ovvia versione italiana, nomi come Derek, Ethan, Megan, Sheila... Probabilmente, in questo caso, la tendenza è dovuta alle letture prevalentemente anglosassoni di cui ci nutriamo. Intendiamoci, non c'è nulla che vieta la scelta di tali nomi, se il personaggio è davvero di origini inglesi o americane, o se è chiaro che i suoi genitori, pur se italiani, lo hanno scelto ispirandosi a un attore, a un personaggio storico o letterario.

Diverso è il caso di un elfo che vive in una terra incantata in cui l'Inghilterra nemmeno sanno cosa sia. Dare un nome inglese a un tale personaggio, o alla città o al mondo in cui vive, solo perché ha un suono che ti sembra esotico, è una particolare forma di problema di coerenza nella trama. Come è possibile che una razza che parla l'alto elfico chiami la propria casa, ad esempio, "Dream Forest"? Più plausibile è che, dovendo tradurre tutto ciò che dice a un lettore italiano, l'elfo in questione esorterà un suo simile con un "Lasciamo questi sciocchi umani al loro destino, amico mio, e torniamo nella nostra verde Foresta dei Sogni". E non con un "Lasciamo questi sciocchi umani al loro destino, amico mio, e torniamo nella nostra verde Dream Forest". Quale delle due secondo te suona meglio?

Non sono immune dal fascino dei nomi anglofoni. Nel caso di Eroi di carta, ormai ero già abbastanza allenata da schivare la tentazione per scegliere, invece, di simulare nomi esotici con le italianissime preposizioni e le tre coniugazioni dei verbi imparate a memoria a scuola. Ma giusto per fare un esempio, prima di essere Jossintaur degli Erranti, il protagonista del brano collegato alla parola Gibigiana si chiamava Jonathan. Perlomeno, avevo avuto l'accortezza di non aggiungere un orrido "dei (o of the) Wandering".


Stereotipi abusati
"Paradossalmente s’intona con la sua tunica viola ricamata di glifi alchemici, la sua aria misteriosa e altera, la sua specializzazione in incantesimi dell’aria e dell’acqua."

Ci sono tipologie di personaggi talmente sfruttate da essere diventate ormai delle macchiette. Il possente guerriero in armatura, forte ma stupido, oppure ingenuo. La maga affascinante e misteriosa, sicura di sé, cinica e superba. L'animale da compagnia, o famiglio, che in buona parte dei casi è un lupo, o un corvo, o perché no, un drago. Quante storie fantasy riesci a ricordare che non contengono una di queste figure? Quante ne conosci che rovesciano lo stereotipo, creando personaggi diversi dai soliti archetipi che compiono le solite azioni?

Di principi che salvano principesse prigioniere ce ne sono a bizzeffe. Di orchi che fanno la stessa cosa, uno solo.

E scommetto che, al contrario di quei principi, di quest'ultimo ti ricordi il nome.


Salterò le tre frasi per stavolta, ne ho già citate abbastanza da aver quasi ricopiato l'intero racconto. Ah, dimenticavo, una curiosità. Tra gli errori da principiante inseriti volutamente nel testo per ironizzare su di essi, me ne è scappato uno di reale e non voluto. E lì è rimasto, a testimoniare al lettore più attento del tempo in cui non avevo ancora preso la patente e non ero del tutto consapevole di come funziona un'auto. Te n'eri accorto?

L'appuntamento è a lunedì per il prossimo incipit.

lunedì 23 gennaio 2017

Eroi di carta

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.

      “Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

      “Dunque, emh… non è… non è ancora…” Lui mi guarda severo, in una nuvola di fumo. Prendo coraggio e butto fuori l’intera frase: “Non è ancora finito.”

      So di stare mentendo, o meglio, di non aver ancora detto tutto. Il romanzo era finito, almeno sulla carta. Poi, prima di riuscire a trascriverlo al computer, era successa quella cosa.

      L’ometto dietro la scrivania inarca un sopracciglio e raddrizza la schiena. All’improvviso sembra più alto. Dà l’impressione di un cobra pronto a colpire: brutto segno.

      “Mi auguro per lei che ci sia una spiegazione. Il tempo scorre, e non ho bisogno di ricordarle che la consegna è tra due settimane” soffia fuori lui assieme a una voluta di fumo. Mi sembra di essere tornata a scuola, e di dover dire alla maestra che il cane ha mangiato i miei compiti. Spiegazione che sarebbe molto più plausibile di quella che stavo per dare.

      “Il romanzo ha preso vita” mormoro, con un filo di voce. Avessi potuto scriverlo sarebbe stato a grandi lettere, ma la mia voce non è forte quanto la mia penna.

      Sulla fronte gli si formano due rughe sottili. Segno molto brutto.

      “Posso dimostrarlo, mi dia solo un’occasione per…” La lingua va per conto suo mentre sono alla frenetica ricerca di un foglio di carta, fosse anche una salvietta stropicciata. Noto la fotocopiatrice in un angolo, mi avvicino, apro il cassetto e prendo un bel foglio A4, liscio e pulito.

      Quando mi volto la sigaretta tra le sue labbra è scomparsa. Evidentemente quel dettaglio non le piaceva.

      Mi protendo sulla scrivania e rovescio il portapenne nell’afferrare una biro blu.

      “Scusi” dico, più flebile del tonfo tintinnante che ne consegue. Mentre lui lo rimette in piedi con uno sbuffo, io mi appoggio su un angolo del ripiano e butto giù quattro righe, di getto. La prima cosa che mi è venuta in mente, complice la sigaretta di prima: un posacenere di cristallo. Descrivo la trasparenza del materiale, la simmetria delle forme arrotondate, la levigatezza della sua superficie e una lieve spirale azzurra sul fondo della conca. Un piccolo tocco di genio.

      Quando ho finito poso il foglio tra di noi e attendo. Il mio editore lo legge, poi mi scruta da sotto le folte sopracciglia.

      “E questo cos’è?” La sua voce, nella mia mente, ha il suono di un tuono lontano.

      “Dovrebbe, ecco…” Riprendo in mano il foglio ed abbozzo un origami a forma di ciotolina. Poi lo poso di nuovo sulla scrivania.

      Ci protendiamo entrambi sopra la forma di carta e la scrutiamo in silenzio, io con ansia e aspettativa, lui con nervosismo e impazienza.

      Non succede niente, assolutamente niente.

      Infine, con un gesto, è tutto finito. È il mio editore che protende un braccio, l’indice puntato alla porta.

     “Fuori di qui! E se il romanzo non è pronto tra due settimane, le consiglio di non tornare!”

      Mi affretto a seguire il suo consiglio.


       Dieci minuti più tardi sono imbottigliata nel traffico; ne approfitto per fare un esperimento. Prendo il moleskine che ho l’abitudine di tenere nel vano portaoggetti assieme ad una penna formato mignon, strappo un foglio, e comincio a scrivere.

      Si tratta di una farfalla stavolta, una di quelle piccole e bianche che si vedono spesso d’estate lungo le strade di campagna, ma la descrivo con una tale ricchezza di particolari che sembra quasi una monarca. Aggiungo perfino un punto nero sull’ala sinistra, come un singolo neo all’angolo della bocca di una dama. Lo so, a volte esagero coi particolari, ma non riesco a farne a meno.

      Metto via penna e moleskine, piego il foglio e lo poso sul palmo della mano. Non devo attendere a lungo: il foglio comincia a raggrinzirsi e crepitare, il centro della piega si tinge di nero, le righe e le scritte sbiadiscono, la carta si restringe e si assottiglia.

      Battendo le ali delicate la farfalla prende il volo, leggiadra come l’ho descritta.

      “Non è giusto!” strepito, battendo il piede destro in un moto di stizza. La macchina fa un balzo in avanti e mi affretto a frenare, mentre intorno a me si leva un coro di clacson. A macchina ferma alzo le mani dal volante, gettando occhiate a destra e a manca ai miei compagni di coda per assicurare loro che non l’avrei rifatto.

      Apro un po’ il finestrino per lasciare uscire la farfalla e mi metto l’auricolare del cellulare all’orecchio.

      “Non puoi fare così. È assolutamente ingiusto” ripeto al telefono. “Dovresti saperlo. Ci vuole coerenza quando si scrive, soprattutto quando si racconta un universo alternativo e fantastico.”

      Il traffico riprende a scorrere lentamente. Ingrano la prima e mi avvio.

      “Se inventi una regola, dev’essere valida sempre. Oppure devi far capire a me e ai lettori perché a volte non funziona. Si tratta per caso del luogo? Oppure non può funzionare se qualcun altro guarda? Insomma, rispondimi, dammi un segno!”

      Svolto a destra, dove la via è più libera. Lei non risponde, come al solito. La conversazione tra noi è sempre stata una strada a senso unico, io sono la sola a parlare. Eppure, da molti piccoli indizi io so che c’è, lei è reale. Come quella sigaretta scomparsa. Poco professionale da parte sua. Io almeno sarei stata abbastanza attenta da cancellarla anche prima.

      Parcheggio nei pressi di casa, spengo il motore e sbuffo. “Non ti capisco. Se rappresento il tuo sogno divenuto realtà, non dovresti rendermi le cose facili?”

      Mi tolgo l’auricolare e prendo il telefono, spento, dalla tasca della portiera.


       Appena apro la porta di casa Pertrafra trotta ad accogliermi. È il grosso spinone che compare all’inizio del quinto capitolo, e il cui pelo si tinge a seconda dell’umore di chi lo accarezza. Mentre gli faccio i grattini dietro la testa è grigio stanchezza, con lievi riflessi ramati di rabbia. Mi lecca la mano e si butta a terra, a pancia all’aria e le zampe che si dimenano come se fosse un cucciolo grande un quarto della sua stazza. Rido, e il suo pelo diviene color bianco-arancio. Lo avevo creato come elemento comico della storia, ma svolge la sua funzione egregiamente anche al di fuori del romanzo. Era anche un valido aiuto per i miei eroi: quando la situazione si faceva spinosa, lo spinone diventava un drago. Letteralmente.

      Non ho ancora avuto occasione di sperimentare questa sua qualità al di fuori del romanzo, e spero di non doverlo fare.

      “Bentornata” dice una voce maschile. Inconsu si sporge dalla porta della cucina. È un bello spettacolo, con il grembiule rappresentante il David di Michelangelo sopra l’armatura scintillante. Tiene in mano il coltello come fosse una spada, e mi fa pensare ancora una volta che ho fatto la scelta giusta a sistemarlo in cucina. Con la sua apparizione avevo perso un capitolo e mezzo, ma avevo guadagnato un bravissimo cuoco. Una scrittrice deve sempre trarre il meglio dai suoi personaggi.

      “Com’è andata?” chiede Inconsu, un sorriso cordiale sulle labbra.

      “Non bene” rispondo. Mi tolgo le scarpe e lascio cadere le chiavi sullo svuotatasche in corridoio.

      “Io te lo avevo detto” fa Diada, uscendo dal salotto. Fa una smorfia e agita lo spolverino a mo’ di bacchetta magica. Paradossalmente s’intona con la sua tunica viola ricamata di glifi alchemici, la sua aria misteriosa e altera, la sua specializzazione in incantesimi dell’aria e dell’acqua. Lei mi è costata due interi capitoli, ma la mia casa non è mai stata così pulita e in ordine.

      I miei eroi di carta.

      Vado in salotto e mi siedo di fronte al computer. Non ho tempo da perdere, devo riscrivere le loro avventure in due sole settimane, e stavolta non commetterò l’errore di usare la carta. La pagina bianca ha un po’ troppo potere per me. Me ne ricordo sempre quando vedo l’antica foresta del regno di Areereire nella mia camera da letto, con la vecchia quercia e i frassini dalle chiome che stormiscono al vento. Purtroppo le idee migliori mi vengono prima di addormentarmi. Alcune di quelle foglie, lo giuro, sono a quadretti.

      Adesso le mie dita danzano rapide sulla tastiera. Lo schermo però non ha lo stesso sapore della carta, non ha la stessa concretezza e non mi dà lo stesso piacere dello scorrere di una penna. Forse è per questo che la magia non funziona.

      Sono a buon punto, quasi alla fine del terzo capitolo, quando arriva la goccia che fa traboccare il vaso. Solo che nel mio caso è gialla, sa di aranciata, ed è una goccia da almeno due litri. Inconsu fa appena in tempo a tirarmi indietro, ma il computer e la scrivania sono ridotti a un’opera cubista. Pertrafra abbaia uno sbuffo di fumo al grumo giallo e nero che era fino a poco prima parte del mio arredamento, e che continua inesorabilmente a sciogliersi in un ammasso informe.

      “Qualcosa in meno da spolverare” commenta Diada, allegra una volta tanto.

      Io alzo gli occhi al soffitto. So che non posso vederla, la penna che sta scrivendo me; ma cerco il dialogo lo stesso, come ogni volta che s’inventa qualcosa di astruso per mettermi i bastoni tra le ruote. “Adesso basta!” le dico. “Sono stufa di sopportare i tuoi capricci, ma questo è troppo. Vuoi almeno fare attenzione quando fai uno spuntino mentre scrivi?”

      Ho deciso. Domani porterò Diada, Inconsu e Pertrafra dal mio editore. Se restano come sono ora, lui non potrà non credermi. Se si ritrasformano nelle pagine del romanzo, allora avrò qualcosa da presentargli. In ogni caso avrò vinto, e almeno una di noi due potrà dire di essere una scrittrice con la esse maiuscola.

sabato 21 gennaio 2017

Nictofobia

Esiste un numero altissimo di parole specifiche per definire ciascuna fobia, così tante che mi stupisce di non averne scelta una prima. Ho cominciato da una delle più semplici e comuni, soprattutto nei bambini.

Nictofobia [ni-cto-fo-bì-a] s.f. 1. med. Paura ossessiva dell'oscurità notturna.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Una curiosità: mentre cercavo questo termine, mi sono imbattuta nella parola "nictalopia", che a seconda delle fonti può significare l'aumento della capacità visiva al diminuire della luminosità, la difficoltà a vedere in condizioni di scarsa luce, o entrambi. E assieme a nictofobia mi ha influenzato nella stesura del brano.


Nyxi trema come una foglia, rannicchiata nell'angolo tra i cuscini. Stringe gli occhi quando scendo le scale con la lanterna accesa: la poso sull'ultimo gradino e la copro con un telo per attenuarne la luce.
– Ailey? – mugola la mia sorellina, tendendomi una mano pallida. Sorellastra per la verità, ma ormai non ci faccio più caso.
Sospiro. – Non dovresti avere paura del buio, Nyxi – replico e mi affretto a raggiungerla, mi inginocchio, la stringo. Non le dico che è del giorno che dovrebbe avere paura, e della gente che cammina nella luce. Mamma sostiene che ha la nictofobia e che le passerà crescendo, ma intanto devo essere paziente con lei.
– Voglio la mia mamma – protesta Nyxi.
Le sistemo i capelli scompigliati. Sono sempre in disordine, i miei e i suoi. Non ci sono specchi in casa nostra.
– La mamma è uscita. Tornerà presto.
– Ma ci sono i notturni là fuori! – Nyxi mi afferra il polso, lo stringe con una forza impensabile per la sua età. Io serro i denti, resisto, e la accarezzo con dolcezza finché non allenta la presa.
– Sono lontani, Nyxi. Giù al cimitero. Non porteranno via la mamma – la rassicuro. – E non porteranno via nemmeno te.
– Me lo prometti?
– Te lo prometto.
Nyxi mi lascia il polso, e alla fioca luce della lanterna lontana scopro sulla mia pelle il segno che hanno lasciato le sue dita bianche e fredde, dalle unghie nere. Alzo lo sguardo al suo viso emaciato, dagli occhi vitrei, guance scavate, e un sorriso a denti aguzzi.
Se non la conoscessi, potrei averne paura.
E invece abbraccio senza timore la mia sorellina.
Una notturna a metà, con la nictofobia. Che io proteggerei con la vita.

giovedì 19 gennaio 2017

Il potere della parola

Quando ho scritto "Sfuggenti motivazioni", tra i motivi per cui scrivo ne ho dimenticato uno.

Scrivo perché creare qualcosa che prima non esisteva è la cosa che più si avvicina alla magia.

Pensaci bene. La parola crea. Plasma il mondo in cui viviamo. Trasmette nozioni, emozioni, modifica e influenza le opinioni di chi legge o ascolta. E non si limita solo a far circolare le idee, ma addirittura a crearne di nuove dal nulla. Prima di J. K. Rowling, Hogwarts era una sequenza di lettere senza senso. Ora è un luogo, e se parlo di quel luogo, pur se immaginario, ci sono milioni di persone nel mondo che possono capire di cosa sto parlando, rispondere, e discuterne. E non solo: adesso esistono cibi che prima non esistevano (sto pensando a quelle infami gelatine tuttigusti+1... brrr!), esistono oggetti, abiti, e luoghi reali che prima non esistevano, se non nella mente di una sola persona.

E tutto questo a causa di una storia di fantasia. Il potere della parola. Mette i brividi, non è vero?

Non sorprende che per tanti autori di fantasy la magia equivale a conoscere le parole giuste da pronunciare, le Parole di Potere, o il Vero Nome delle cose, come accade nel romanzo Il Mago di Ursula K. Le Guin.


L'incipit di lunedì mi sembrava la situazione ideale per inserire il tema del potere creativo della parola, tanto più che nel delineare la mia mappa mentale a partire dal titolo "Fondersi col foglio", la parola "creare" è spuntata per ben due volte:

 
Per questo incipit che mi ispirava parecchio sono tornata a fare un'indagine approfondita, frase per frase, in modo da non lasciarmi sfuggire nessuna suggestione. Come al solito, ho cominciato col pormi le cinque domande del giornalismo, Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché). O almeno, le prime quattro.
 
Chi? Due personaggi, la voce narrante/protagonista, e l'editore.
Dove? Non è indicato il luogo, forse l'ufficio dell'editore?
Quando? Nemmeno il tempo è specificato. Si sa solo che è il "momento giusto".
Cosa? L'incipit presenta una sequenza di pensieri e termina con il possibile inizio di un dialogo.

L'analisi frase per frase, che ti risparmio, mi ha portato a prendere in considerazione altre domande, come:

Momento giusto per cosa?
"Sporcare il foglio": quello che deve dire è spiacevole?
Potere della pagina bianca: metaforico o reale?
Possibile che non ci sia un foglio di carta nell'ufficio di un editore? Forse non si trovano lì?

Altre riflessioni mi hanno spinto a considerare il dualismo, la contrapposizione nel "ti risucchia e ti libera". Ovvero entrare nel foglio, fondersi, e allo stesso tempo uscirne, essere (ri)creato dalla pagina scritta. E la sensazione di attesa, di restare in sospeso che lascia quella domanda, "Allora?"

Era abbastanza per cominciare a tracciare il mio racconto.
Ma tu dovrai attendere fino a lunedì per leggerlo (e no, non pensare neanche per un istante di sbirciare qui sotto, lettore avvisato, lettore salvato dallo spoiler!)


lunedì 16 gennaio 2017

Fondersi col foglio

Questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco il sesto tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Fondersi col foglio

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
(Prosegui a leggere il racconto.) 


Dopo tanti incipit che delineano situazioni normali, quasi fin troppo stereotipate (storie d'ufficio, ritorni a casa, ordinaria amministrazione, in pratica), ecco qualcosa che potrei aver scritto io stessa. Il che è allo stesso tempo un vantaggio e uno svantaggio. La tentazione di mettermi al posto del narratore, di "fondermi col foglio" è fortissima e deleteria. Ma ne parlerò in maniera più approfondita giovedì.
Intanto, se mi hai seguito fin qui... indovina che fine farà quella sigaretta?

sabato 14 gennaio 2017

Meandro

Trovo interessante come alcune parole possano indicare contemporaneamente luoghi reali e metaforici. Come se non ci fosse differenza tra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro di noi, come se riportassimo all'interno della mente architetture e paesaggi visti attraverso i nostri occhi.

Meandro [me-àn-dro] s.m. 1. Ansa formata da un fiume.  2. estens. Tracciato, sviluppo tortuoso e intricato di strade, passaggi, luoghi, edifici in cui è difficile orientarsi. Labirinto. 3. fig. (al pl.) Parte impenetrabile dell'animo umano. Intrecci, complicazioni.

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E sono gli occhi a darmi spesso lo spunto per una storia. Una parola suggerisce un'immagine, un'immagine suggerisce domande: chi sono quelle persone? Che cosa stanno facendo? Perché mai quel tizio è legato e imbavagliato?
 
 
Ho perso il mio diario. E anche se lo avessi non riuscirei a scrivere nulla: sento le corde stritolarmi i polsi dietro la schiena, le caviglie e le gambe ripiegate scomodamente sotto di me avviluppate in un intreccio di nodi. Non so dove sono, ma so che devo cercare di ricordare ogni cosa. Ho sempre avuto problemi nel ricordare, in certe condizioni.
Devo partire dalle cose più semplici. Mi trovo su una stretta e lunga imbarcazione. Una canoa. A prua c'è una donna, in piedi, che la manovra con una pertica: non le serve per remare, bensì per tenerci al centro del fiume, lontano dalle rive ripide. L'acqua livida ci sospinge nei complicati meandri scavati nella roccia e turbina in mulinelli lamentosi attorno alle pietre che affiorano in superficie. È il vento che ulula così, sospingendosi tra le pareti del canyon?
La canoa sobbalza e s'inclina. Tra le onde, volti deformati, dalle orbite vuote e le bocche spalancate, come in quel quadro. Chiudo gli occhi. Non posso fidarmi di quello che vedo. Non posso.
Un mugolio mi sfugge attraverso il tessuto del bavaglio.
– Non ti agitare, cucciolo. – La voce della donna è stridente. – Presto sarà tutto finito.
Ho sempre cercato di non perdermi dentro di me, sempre, o almeno da quando ho iniziato a scrivere il diario. E adesso mi sono perso al di fuori.
C'è un'unica direzione in cui posso rivolgermi. Mordo il bavaglio, stringo forte con i denti e cerco. Cerco nei meandri della mente una di quelle volte di cui non ho memoria, cerco il sapore del sangue, cerco la furia.
Quando apro gli occhi sono ancora qui, legato, e la donna è ancora al suo posto. Non è successo niente. È la prima volta che mi ritrovo a maledire il mio guinzaglio fatto di chimica e pillole.
Sopra di noi due figure sorvolano il canyon. Sembrano avvoltoi, poi mi accorgo che le lunghe gambe, la testa, le braccia con cui reggono le lance non appartengono a dei volatili.
– Non così presto come pensavo. – La donna solleva la pertica e spalanca enormi ali da pipistrello.

giovedì 12 gennaio 2017

Il finale nell'incipit e altre briciole

Prova a pensare alle storie che ti sono piaciute di più. Le trame che ti hanno più coinvolto, stimolato, stupito e intrigato. Quelli che rileggi più e più volte. Che cosa hanno in comune?

Per quanto mi riguarda è perfettamente chiaro. Da lettrice sono giunta alla conclusione che sia questo: le storie che hanno già un velato suggerimento al finale nell'incipit, e che sono cosparse di indizi, forse ambigui e difficilmente individuabili alla prima lettura, ma che già a una seconda si possono raccogliere per seguirne il percorso, come briciole di pane lasciate cadere in un bosco. Sarà che amo rimuginare sulle trame, cercare di anticipare le scelte dell'autore, capire come avrei proseguito io la storia, sviscerare i meccanismi della narrazione. Io provo a rintracciarle già dalla prima lettura, anche se so che a volte mi porteranno fuori strada, facendomi immaginare tutt'altra storia, scene che mai avverranno e che a volte rimpiango di non poter leggere. Ma poi ripercorro la strada, trovo i giusti indizi, e capisco che non poteva andare in altro modo che così.

Da scrittrice semino le mie briciole perché altri possano seguirle. Piccoli riferimenti. Frasi perfettamente normali che sono in realtà metafore per qualcos'altro. Situazioni che ne rispecchiano altre di simili, più avanti nella storia. E oscillo spesso tra due opposte domande, nell'aggiustare il tutto. Avrò messo abbastanza indizi affinché si possa intuire, soltanto intuire, dove intendo dirigermi? Ho rivelato troppo e troppo presto, togliendo ogni possibilità di sorprendere chi legge?


Seminare indizi è quello che ho fatto in P.A.O.L.A., fin dal titolo. In questo tipo di concorso non potevo, ovviamente, modificare l'incipit per inserire un riferimento al finale del racconto, così ho scelto di sfruttare quell'impressione di perfetta irrealtà da cliché scontati per costruire su questa il racconto, che ho cosparso di briciole di pane come se non ci fosse un domani. Il gatto che il protagonista ha voluto e studiato pelo per pelo. Le sigarette che stanno per finire e di cui il protagonista dovrà fare a meno (lo ammetto, un mio personale messaggio-pubblicità antifumo, vezzo che ho scoperto recentemente di condividere con Asimov, che ha messo le sue opinioni al riguardo in un racconto dei Vedovi Neri). Il cibo che viene dalla serra. La televisione che trasmette solo repliche di programmi già visti. Paola come una perfetta geisha, che siede a tavola ma non mangia. E i dialoghi, quel “Ti manca mai la terra sotto i piedi?”

Non so se le briciole sono troppe, o troppo poche, per quella che è una rivelazione che sembra venir fuori dal nulla, all'improvviso: tutto è finto, il protagonista è uno psicologo in un'astronave, e il mondo è esploso. Te lo aspettavi, o è così istantaneo e immediato questo cambio di prospettiva da far perdere di credibilità alla storia?

Questo tra i racconti che ho scritto per il concorso, è assieme a quello che lo precede uno dei due che mi piacevano di meno (piacevano, perché a rileggerlo ora, lo sto rivalutando... forse mi sono ammorbidita). Uno dei motivi è questo finale un po' troppo affrettato, sbrigativo. Il secondo motivo è che si tratta di fantascienza... senza scienza. Nessuna spiegazione su come il mondo sia esploso. Nessuna per quanto riguarda l'astronave, la meta, la lunghezza del viaggio, il tipo di motore, quante e quali persone la abitano. Non un accenno al funzionamento della "sala ologrammi" in cui si svolge tutta la storia. Il perché è presto detto: io stessa non ne ho idea. Non ho sufficienti conoscenze in materia per poterlo immaginare. Ebbene sì, posso spiegare la "logica" secondo la quale funzionano i sistemi di magia dei miei universi fantasy, conosco la mitologia della creazione dei mondi, riesco a rintracciare le "parentele" tra le varie specie e creare plausibili meccanismi biologici. Ma quando si arriva alla tecnologia e alle leggi della fisica, la mia infarinatura in materia non è sufficiente a rendere realistico l'impossibile.

Una mancanza che un giorno o l'altro, forse, riuscirò a colmare.


Le tre frasi che riporto stavolta sono tutte riferite all'equilibrio, o indizi da seguire per giungere all'epilogo del racconto.

Non c’è niente come un gatto per insegnarti l’equilibrio.
Forse solo così si può contemplare l’immensità dell’universo e non uscirne cambiati; o almeno, lui lo spera.
Sa che non è reale, ma sa anche che a volte l’equilibrio non si può trovare; a volte, lo si può solo creare.

Arrivederci a lunedì per il prossimo incipit!

lunedì 9 gennaio 2017

P.A.O.L.A.

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      E’ il suo segreto, questa forma di terapia.

      Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona.

      Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace coccolarlo.

      Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.

      Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte.

      E’ un persiano bianco, di quelli di razza.

      Si guarda intorno, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

      Lo ha voluto lui il gatto. Lo ha studiato fin nel minimo dettaglio, pelo per pelo, eppure non si stanca mai di osservarlo quando, puntuale come sempre, percorre la sua personale passerella. Si pavoneggia, lento ed elegante su quella stretta striscia di pietra, quasi fosse una modella o un’attrice famosa.

      Lui sogghigna. “Non c’è niente come un gatto per insegnarti l’equilibrio.”

      Il persiano sparisce oltre l’angolo, lui spegne la sigaretta consumata fino al filtro e guarda quelle rimaste: due, ed è il suo ultimo pacchetto.

      “Dovrò smettere di fumare” considera tra sé. Un’altra piccola abitudine a cui deve rinunciare. Ma lo sa, il tabacco non è indispensabile.

      Sente un fruscio di seta, due braccia snelle che gli cingono il ventre e il lieve tocco di un corpo che aderisce alla sua schiena.

      “Vieni dentro, caro.”

      È Paola. Le piace coccolarlo. No, non è esatto: lei è nata per coccolarlo.

      Lui si volta e la fissa negli scuri occhi a mandorla, poi prende una ciocca di serici capelli neri tra le dita. Fa ancora uno strano effetto poterla toccare, anche se è passato molto tempo da quando è entrata nella sua vita. Paola. Lei ricambia lo sguardo, silenziosa e paziente. Oggi ha indosso un kimono rosa, con la silhouette di un ramo fiorito che le attraversa la gonna.

      Lui avrebbe potuto avere qualunque altra Paola, magari una massaia un po’ in carne per completare il quadretto familiare, e invece no. Ha preferito un tocco d’esotico accanto a sé, una geisha: l’unica concessione ai suoi bassi istinti maschili. Questa Paola è perfetta, quasi troppo, ma lui non riesce a rinunciare a lei. È la sua terapia, lei e tutto il resto.

      Lascia la sua ciocca e l’abbraccia. “Ti manca mai la terra sotto i piedi?” le chiede.

      Lei lo guarda, stupita. “Non capisco cosa intendi.”

      “No, certo” ammette lui. Paola è troppo giovane per ricordare com’era prima.

      “Sciocchino, torniamo dentro. La cena è pronta” gli dice lei. Si scioglie dall’abbraccio e lo precede, tenendolo per mano. Ha un sorriso raggiante quando lo fa sedere a tavola. Ha apparecchiato per lui soltanto.

      Mentre mangia gli spaghetti lei tiene le mani in grembo e lo osserva con attenzione, quasi curiosa, come se stesse guardando il suo programma preferito. La televisione è spenta: ormai fanno solo vecchi show e repliche di programmi già visti. Gli unici rumori sono quelli di lui che mangia, e il ticchettio di un orologio a muro che scandisce i secondi.

      “Sono buoni?” gli chiede Paola con un pizzico d’ansia.

      “Sì” risponde lui. Poi alza la testa, la guarda e le dice: “Grazie.”

      Sa che per lei non ha importanza, ma sono questi piccoli gesti che lo mantengono sano. Lui lo sa meglio degli altri, perché è un professionista in materia di equilibrio.

      “I pomodori vengono dalla serra” commenta lei, allegra.

      “Che cosa non viene dalla serra, di questi tempi?” replica, contagiato dal suo sorriso.

      Dopo un po’ il fatto che lei lo guardi senza mangiare nulla lo mette a disagio. Non è normale. Glielo fa notare.

      “Carico il programma cena” propone Paola.

      Lui alza la mano per fermarla. “La prossima volta,” le dice. “E non parlare di programmi, per favore.”

      Preferisce pensare che lei sia a dieta, o che abbia già cenato.

      Paola annuisce. “Come vuoi, tesoro.”

      Dopo cena siedono sul divano. Lei gli massaggia i muscoli delle spalle, e ogni tanto gli sfiora la guancia con un bacio.

      Lui si sente in vena di confidenze. È bello poter parlare con qualcuno che non sia suo paziente. In fondo, Paola è lì per quello. Dopo aver parlato a lungo di lavoro, le chiede: “Non ti dispiace dover restare sempre a casa?”

      “Niente affatto, caro” replica lei con un sorriso. Non ha mai dato segno di essere infelice.

      “A me sì,” considera lui sottovoce. “Mi secca non poterti portare mai da nessuna parte, dover fare di te il mio segreto. Ma non posso permettere che capiscano quanto anch’io sono vicino alla follia. Siamo come gatti su uno stretto cornicione affacciato sull’abisso. Alcuni di noi hanno l’istinto per l’equilibrio; altri se lo devono inventare.”

      Le sfiora ancora una volta i capelli, poi li lascia ricadere, senza rumore, sulle sue spalle.

      “Per noi la vita è un viaggio senza meta né scopo, se non quello di sopravvivere. Ma tu uno scopo ce l’hai, Paola. Ce l’ha quel persiano bianco, e quando sono qui con voi mi sembra di averne uno anch’io.”

      Paola ride come una ragazzina e lo bacia sulle labbra. “Che discorsi seri fai stasera, amore” gli dice. “Rilassati, e non ci pensare.”

      L’orologio continua a scandire i secondi, fa da metronomo al duetto delle loro voci, alle risate e ai sospiri. Ma d’improvviso Paola si ritrae da lui, i tratti del suo volto si distendono in una maschera neutra, il suo sguardo di solito vivace e curioso si fa vacuo.

      “Dottore, la sua presenza è richiesta nell’alloggio 329. Il tenente De Luca ha avuto una crisi” dice, con una voce che non sembra nemmeno la sua.

      Subito dopo è di nuovo la sua Paola. Ma lui già impreca e cerca le scarpe.

      “Che cosa succede?” gli chiede lei con aria innocente.

      “Una chiamata di lavoro. Un’emergenza, devo scappare” le spiega. Trova le scarpe e le infila ai piedi. Guarda l’orologio a muro, la sua ora non è ancora scaduta. Non gli piace essere costretto a interrompere la terapia, ma non può farci niente. Non possono chiamare qualcun altro. Lui è l’unico psicologo rimasto abbastanza in salute per essere di qualche utilità ai suoi compagni di viaggio. Pur essendo professionisti, nessuno degli altri è riuscito a scoprire un segreto per l’equilibrio. Si rammarica, troppo tardi, di non aver voluto condividere il suo.

      “Spero che non sia un altro di quelli che si mettono a gridare: il mondo è esploso, il mondo è esploso!” borbotta tra sé. Non dice che qualche volta avrebbe voglia di gridarlo anche lui. A che servirebbe? Tutti sanno come stanno le cose.

      Si dirige alla porta d’ingresso, poi si volta. Emergenza o no, preferisce non dimenticare le buone maniere. Sono le piccole abitudini, i ritmi quotidiani che lo tengono sano. Forse solo così si può contemplare l’immensità dell’universo e non uscirne cambiati; o almeno, lui lo spera.

      “Buonanotte Paola” le dice.

      “Buonanotte caro. Sarò qui per te, quando vorrai tornare” replica lei. E sorride.

      Lui cerca a tentoni i due interruttori accanto alla porta. Spegne il primo, e Paola scompare. Spegne il secondo, e tutto diventa nero, poi bianco. Non c’è più il balcone, il gatto, il tavolo, l’orologio, il divano. Non c’è più niente, solo lui e un paio di interruttori identificati da due acronimi:

Camera
Astatica di
Simulazione
Ambientale

e

Programma
Antropomorfo
Olografico
Localizzato di
Assistenza

      Lui esce e si lascia quel sogno ad occhi aperti alle spalle. Sa che non è reale, ma sa anche che a volte l’equilibrio non si può trovare; a volte, lo si può solo creare.

sabato 7 gennaio 2017

Languore

Languidezza, languido, languire, languore, languoroso... la scelta non è stata semplice. Ero tentata dal verbo, finora ne ho "collezionato" solo uno, ma alla fine ho lasciato che fosse il suono delle parole a guidarmi e ho deciso di usare quella che a mio avviso è la più musicale.

Languore [lan-guó-re] s.m. 1. Spossatezza, abbattimento fisico o spirituale, debolezza, prostrazione.  2. estens. Atteggiamento di dolce abbandono, tenerezza svenevole e appassionata.

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Questo è un termine che si presta a descrivere molteplici situazioni, ma fin da quando l'ho scovato nel dizionario, non ho avuto in mente altro che una singola scena. Non mi ricordavo nemmeno i nomi dei personaggi, ma la situazione mi è rimasta talmente impressa da ritornarmi vivida in mente alla lettura di una sola parola.


– Chi devo uccidere stavolta?
Mi affacciai sulla soglia del salotto: Katrina era abbandonata sul divano in uno stato di languore rancoroso, le palpebre socchiuse, le labbra serrate e un pugno mollemente stretto. La destra la teneva alla fronte.
– Non lo conosci – rispose in tono fiacco. – Viene da fuori. Lascia stare, non importa.
La borsa del ghiaccio mi stava gelando le dita, perciò mi affrettai a raggiungerla, mi sedetti e le scostai la mano dalla fronte. Esaminai il grosso livido violaceo che proseguiva sotto l'attaccatura dei capelli. Sembrava molto più vecchio di quanto lei volesse farmi credere. Tastai la pelle attorno e la vidi trasalire.
– Ti fa male?
– Solo nell'orgoglio. – Katrina serrò le palpebre e mugolò: – Odio perdere.
– Non ti posso lasciar sola un momento che vai a infilarti in una rissa? – scherzai, tirandole indietro i capelli. per guardare fin dove si estendeva il livido. Le sistemai la borsa del ghiaccio sulla fronte e  le passai le mani sui fianchi coperti dalla camicetta. Volevo scoprire se mi stava nascondendo altre botte, ma lei lo interpretò in tutt'altro senso.
Aprì le palpebre e sorrise. – M-M-M-My Sharona! – canticchiò, preda di un languore malizioso. Trasalì quando le feci scivolare le dita sullo stomaco.
Katrina allungò le mani, io le afferrai i polsi. – Adesso basta, questa storia finisce qui. Si va all'ospedale.
Se lei non voleva prendersi cura di sé, lo avrei fatto io.
– No! – protestò Katrina mentre la strattonavo per farla alzare. – Niente ospedali, niente medici, io sono una guerriera!
– Sarai anche una guerriera, ma sei una guerriera ferita. Perciò adesso o ce ne andiamo all'ospedale o ti decidi a dirmi chi è stato.
– No! – Katrina puntò i piedi. Faceva più capricci di una bambina. – No, tu non capisci, ho firmato un contratto, non posso, lasciami, Sharona... Sharona, è un gioco!
Le mollai i polsi. Katrina cadde scomposta sul divano. Ci osservammo, poi lei schiuse le labbra e capii che era finalmente pronta a parlare.

giovedì 5 gennaio 2017

La sospensione dell'incredulità

In narrativa esiste una cosa chiamata "sospensione dell'incredulità". La prima volta che ne sentii parlare fu in una introduzione scritta da Asimov a una serie di racconti per ragazzi, di autori vari. Avevo quattordici anni.

La sospensione dell'incredulità è una specie di contratto tra l'autore di una storia e chi la legge, guarda o ascolta. Detto in parole povere: io lettore/spettatore accetto come realistico e plausibile quanto narrato all'interno della storia purché tu autore non tiri troppo la corda. Quando esattamente si arriva a quel punto di rottura in cui non è più possibile la sospensione dell'incredulità è in parte soggettivo, e in parte dipende dal tipo di storia. Tanto per fare un esempio: difficile continuare a credere alle vicende presentate in una commedia romantica se di punto in bianco, senza nessun indizio nelle scene o capitoli precedenti, spuntasse un elfo o un alieno o un vampiro. Al contrario, è possibile sospendere il giudizio di fronte a eventi che nella realtà non sono possibili se sono coerenti e spiegabili all'interno della storia, fosse anche con la semplicissima spiegazione "magia!".

Qualunque sia la spiegazione, deve però avere regole (ed eccezioni) precise e infallibili, spiegate a un personaggio che non le conosce o deducibili dal lettore/spettatore se implicite. Se la magia in una storia richiede sempre l'uso di bacchette e ingredienti, non può esistere un personaggio in grado di lanciare un incantesimo se privato della bacchetta. Crearlo significa dover creare un'eccezione, sotto forma ad esempio di un "prescelto", che però va preparata in anticipo con indizi inseriti nella storia capitoli prima della "rivelazione" che il prescelto è proprio quel personaggio. Ci vuole coerenza, innanzitutto. Non è possibile sospendere le regole quando si vuole per togliere dai guai un determinato personaggio, e pretendere che la storia venga ancora seguita con la medesima, volontaria, sospensione dell'incredulità da parte di chi legge o guarda!

La sospensione dell'incredulità, se è fondamentale in caso di storie di genere come fantasy e fantascienza, è comunque utile anche in caso di storie in cui non avvenga niente di fisicamente impossibile. In queste storie, alcune volte è necessario alla trama che un personaggio compia un atto stupido, che faccia un errore banale, o che se ne esca con un'idea campata in aria e irrealizzabile. Per poterlo fare senza perdere la fiducia del lettore nella storia, due sono i metodi che uso: primo, la personalità, le esperienze e la situazione in cui il personaggio si trova devono essere coerenti con l'atto o discorso oggettivamente sciocchi; secondo, un altro personaggio deve esprimere, o almeno pensare, la realizzazione che sicuramente avrà colpito anche il lettore, ovvero quel "ma perché diamine lo hai fatto?" o quel "non funzionerà mai!".


Cosa ha a che fare tutto questo con l'incipit di lunedì? Presto detto.
L'incipit presentava una situazione che sapeva troppo da cliché per essere vera. Questa impressione, per poter rendere credibile la storia, doveva entrarci e influenzarla in qualche modo. Prima ancora di sapere che tipo di storia volevo raccontare, di quest'unico punto almeno ero certa.

Per capire come volevo sviluppare la storia, ho fatto ricorso a una semplice mappa mentale a partire dal titolo/tema proposto, Questione di equilibrio:


Molto poco articolata rispetto alle prime, lo ammetto, ma già sufficiente a offrire spunti interessanti, in particolare quel "terapia" (per cosa?) e il fatto che equilibrio può riferirsi al fisico o alla mente.

Sono passata ad analizzare gli elementi dell'incipit, il tempo verbale è come al solito al presente in terza persona singolare (ovvero, il personaggio presentato non è il narratore), descrive una sequenza di azioni senza dialogo. Ho cercato tra le righe le risposte alle cinque W del giornalismo, Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché).

Chi? Due persone, un uomo presente nella scena, e Paola, assente. Più un animale, il persiano bianco.
Dove? Una stanza, il balcone, il terrazzo e il cornicione del palazzo di fronte.
Quando? Ci sono due orari, cinque e sei e mezzo. Più probabilmente di sera, ma non escludo che possa essere di mattina (turno di notte?).
Cosa? Una "forma di terapia", riposo e ozio, una sequenza di azioni quotidiane.

La risposta al perché, e agli altri interrogativi rimasti in sospeso, spetta alla storia fornirli. Per ora mi fermo qui, a lunedì per il racconto che l'incipit mi ha ispirato, ma se sei curioso (allerta spoiler! Non proseguire se non vuoi rovinarti la sorpresa!) qui sotto ho raccolto le idee di trama che mi erano venute in mente.

lunedì 2 gennaio 2017

Questione di equilibrio

Questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco il quinto tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Questione di equilibrio

E’ il suo segreto, questa forma di terapia.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona.
Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte.
E’ un persiano bianco, di quelli di razza.
Si guarda intorno, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.
(Prosegui a leggere il racconto.)   


Quinto incipit, la metà è superata, da qui in avanti è tutta discesa... forse. Poche righe per definire i dettagli di un'altra situazione apparentemente normale e quotidiana, ma non sembra anche a te che ci sia qualcosa di falso, di troppo perfetto e scontato per essere vero? Questa è stata la mia prima impressione leggendo l'incipit.
Ancora una volta, le ultime parole ti lasciano con una domanda: quale cosa?
L'appuntamento è come al solito a giovedì per provare a rispondere a queste e altre domande.