giovedì 30 aprile 2020

La Poesia in tasca

 
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Devo ammettere che avevo equivocato. Quando ci avevano detto, alla fine della lezione, di venire la prossima volta con la poesia in tasca, io non avevo capito che quello che l'insegnante intendeva era di portarsi dietro un foglietto con scritti sopra alcuni versi. Così io ero arrivata con in tasca La Poesia, e all'epoca non mi era ancora del tutto chiaro come non fosse una cosa normale essere in grado di farlo. Intendo, racchiudere un'idea astratta in uno spazio concreto e ristretto. Per me non era un compito così difficile, lo avevo già fatto altre volte: avevo tenuto stretto tra le mie mani il Coraggio, nascosto in una buca il Pregiudizio, messo da parte in un bauletto il Tempo per quando me ne sarebbe servito un po' in più; avevo persino afferrato il Pensiero per tenerlo al sicuro, ma ahimè, mi ero scordata dove lo avevo messo. Buffo, considerando che tutto ciò che ricordavo era di averlo accantonato assieme alla Memoria. La Vita era l'unico astratto che mi sfuggiva sempre, nonostante l'avessi rincorsa a lungo, ma quando si arrivava alla Poesia... oh, quello era proprio il mio elemento.
Così, quando l'insegnante cominciò a chiamarci uno per uno e a chiedere al resto della classe di fare delle domande per cercare di indovinare quale poesia avesse in tasca il nostro compagno, io iniziai a sentirmi a disagio, con tutta quella Poesia nella tasca sinistra dei pantaloni che batteva le ali del ritmo dei versi e fioriva in metafore argute per cercare di sprigionarsi nell'aula. Perché la Poesia è così, puoi anche chiuderla nello spazio di una pagina, ma lei cercherà sempre orizzonti più ampi.
E ogni volta che indovinavamo e il compagno di turno ci leggeva i versi che aveva scelto, io la sentivo mutare e adattarsi, farsi rovente e secca come il meriggiare di Montale, lieve e danzante con le giunchiglie di Wordsworth, tintinnare una melodia scrosciante alla pioggia di D'annunzio, abbattersi e lamentarsi assieme al vecchio marinaio di Coleridge, espandersi malinconica nell'infinito di Leopardi, finché non riuscii più a trattenerla e la Poesia si liberò e ci avvolse tutti. E allora riuscimmo a carpire la bellezza di quell'attimo, di quell'essere insieme, lì, ciascuno con le proprie esperienze, e il passato che prima ci opprimeva divenne fonte di meraviglia, e i sogni e gli obiettivi che ponevamo a distanza, negli anni futuri, ci parvero di colpo raggiungibili. D'improvviso parlavamo tutti in versi, come in un'opera di Shakespeare, e con quale padronanza di linguaggio!
I miei compagni frizzavano d'entusiasmo. Quel corso di scrittura creativa stava loro facendo un gran bene, dicevano, se in poche lezioni aveva già sbloccato la loro creatività al punto da saper declamare senza sforzo quelli che di sicuro erano capolavori d'immenso valore, pari forse ai poemi del passato. Nessuno, nel fervore scatenato dalla Poesia che li inebriava come un buon liquore invecchiato, si preoccupò di scrivere una sola quartina.
L'incanto durò finché l'insegnante, che era strabiliata più di tutti dall'improvvisa ispirazione poetica dato che quest'ultima non le faceva visita da un bel po', ebbe la bella idea di aprire la finestra per poter avere il piacere di descrivere a parole la freschezza dell'aria del mattino. Al primo spiraglio di luce la Poesia, allettata da un mondo più vasto della nostra piccola aula, vi s'infilò tutta e sparì senza voltarsi indietro.
Chi era rimasto, quando la Poesia se ne andò, perse ogni parola. Non solo quelle che stava per pronunciare, ma persino quelle già dette fuggirono dalla mente senza lasciare traccia su un foglio di carta.
I miei compagni erano tornati come prima, esseri smarriti alla disperata ricerca di un modo per esprimere il battito confuso della propria anima.
Mi affrettai a sgattaiolare via dalla porta, quatta quatta, prima che potessero rendersi conto che tutto quel trambusto era stato provocato da una musa in incognito tra loro.

lunedì 27 aprile 2020

Raccontami una storia


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– Dai, raccontami una storia!
Ogni volta che sento pronunciare questa frase, magari in un film alla tivù, o che la leggo in un libro, il mio primo istinto è quello di scoppiare a ridere. Rido perché, immancabilmente, la storia che segue questa richiesta è una favoletta demenziale piena di animali parlanti, di principi e principesse che alla fine si sposano e di draghi malvagi che vengono uccisi: una storia inventata in cui alla fine il bene trionfa e con una morale stucchevole alla quale i bravi bambini dovrebbero prestare attenzione.
Io non ho mai avuto storie del genere.
Mio padre fin dall'inizio mi ha raccontato la verità, per quanto sgradevole e incredibile che fosse: i draghi sono reali, immensamente longevi, e la loro ira sopravvive altrettanto a lungo.
Ho la sventura di essere nata in una famiglia speciale, discendente da un drago ctonio, un signore della terra e del fuoco che come tutte le creature che si ritengono superiori non gradisce l'onta di avere per parenti degli ibridi, frutto di un errore di gioventù e di una scommessa, da quanto si racconta nella mia famiglia; in particolare ha in odio gli ibridi umani, il cui sangue, generazione dopo generazione, annacquava sempre di più la magia del fuoco che da lui avevamo ereditato. Figuriamoci poi io, che avevo per madre una Naiade, una ninfa dell'acqua, quanto potevo aver letteralmente annacquato quel potere.
Quindi, sapevo della furia del drago e di come avesse decimato i miei parenti fin da bambina, ma non avevo mai capito quanto grande fosse questo pericolo per me fino al giorno in cui non avevo cercato di andare da mia madre. Lei, al pari del nostro illustre antenato, proveniva da un altro mondo, un mondo che definire "del mito e delle favole" sarebbe stato un imperdonabile errore, un mondo dal quale per il nostro stesso bene eravamo esuli volontari. Se la mia famiglia non si era del tutto estinta secoli fa, lo dovevamo al fatto che i draghi non possono viaggiare tra i mondi, e dunque il nostro antenato si era limitato a mandare dei sicari a darci la caccia, creature letali ma non spaventose quanto lui, né infallibili. Ma se i draghi non possono viaggiare tra i mondi, le Naiadi sì, e per loro è facile quanto immergersi in un lago e riemergere dall'altra parte. Sfruttando la magia che avevo ereditato da lei, andai a cercare mia madre quando smise di tornare.
Se sono sopravvissuta a quel viaggio, lo devo a mio padre. Lo devo alle sue storie terrificanti, ma vere, su un altro mondo che è tutto fuorché un regno delle fiabe.
Mio padre mi ha raccontato la vera storia della mia famiglia perché solo la verità avrebbe potuto salvarmi la vita.

sabato 25 aprile 2020

Usta


Usta [ù-sta] s.f. Odore particolare che alcuni animali selvatici lasciano nei luoghi in cui passano, e che i cani fiutano nel cacciarli.

Etimologia: voce di origine incerta, forse dal latino ustulare, "bruchiacchiare", nel senso di "odore di bruciato"; oppure dal germanico nùstern, "narice", attraverso il vocabolo nusta che poi ha subito la perdita della enne.

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– E ci risiamo – brontolò il cacciatore quando la muta di segugi, lanciata sull'usta di una volpe, lo portò per l'ennesima volta alla casupola di Maria. – Furbacchioni, volete proprio farmi mettere con quella donna, eh? Buoni, buoni, aspettate qui, che vado a dare un saluto.
Pietro ebbe il suo bel da fare a tirar via i cani dallo spiraglio di una finestra accostata e a legarli a un albero vicino all'ingresso, mentre quelli ancora puntavano la casa abbaiando con furia. Alla fine, quando li ebbe sotto controllo quanto bastava per lasciarli di fuori da soli, Pietro entrò senza nemmeno bussare da quanto era di casa da Maria, e trovò la donna che si asciugava la fronte, appoggiata al tavolo col respiro in affanno.
– Disturbo, Maria? – chiese il cacciatore.
– No, tranquillo. Stavo solo spostando delle pentole, e sono pesanti. È quasi pronto il caffè, se ne vuoi – ribatté la donna, indicando la moka sui fornelli.
– Ah, bene! – Pietro si accomodò al tavolo. – Sembra che sai sempre quando sto per arrivare.
Maria rivolse un'occhiata alla porta d'ingresso, poi si accinse a tirare giù dalla credenza due tazzine. Anche Pietro si voltò, e fece caso al latrare dei cani. – Già, non è difficile immaginarlo, con quelli che fanno il diavolo a quattro. Fiutavano l'usta di una volpe, sai, ed era fresca stavolta perché penso di aver intravisto la coda... – Pietro allungò la mano, come se avesse potuto afferrare la sua preda, poi la strinse a vuoto. – E chissà come, ci siamo ritrovati qui. Come sempre. – Il cacciatore scrutò la donna armeggiare con la caffettiera, che nel frattempo si era messa a borbottare. – Dì, non è che per caso qui nascondi una volpe?
Maria si irrigidì, poi si voltò e con un ampio sorriso portò le tazzine in tavola. – Ti posso assicurare che in casa ci siamo solo io e te. Perciò, a meno che tu non mi voglia accusare di essere la tua volpe...
Pietro la fissò e scoppiò a ridere. Era la reazione che Maria si aspettava.
Ancora una volta, era scampata alla cattura per un pelo.

giovedì 23 aprile 2020

Il posto preferito per leggere


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Fin da bambina, il suo posto preferito per leggere era a letto. Sotto le coperte, con una torcia elettrica, mentre tutti gli altri dormivano. Il materasso era la sua personale zattera per affrontare il viaggio verso mondi inesplorati, o per tornare a visitare una seconda volta, o anche di più, le terre che le avevano rapito il cuore e la mente. Il lenzuolo sopra la sua testa era la tenda in cui accogliere gli amici di tante avventure, affrontate una pagina dopo l'altra. D'altra parte, se si chiamava "letto", e se le copertine non erano che delle coperte piccole, di sicuro un motivo doveva pur esserci. Non poteva essere una mera coincidenza.
C'erano altri posti, ovviamente, ma non erano speciali e tranquilli come il suo angolino e il suo tempo preferito. C'era il terrazzo, in cui nei pomeriggi di sole si sedeva sempre con la schiena rivolta al mondo per non essere distratta, un posto buono per le avventure fantastiche da dipingere con le macchie e le ombre sul muro del palazzo. Per i racconti spaventosi prediligeva la solitudine inquietante della soffitta, con i suoi angoli bui dai quali era facile immaginare di veder spuntare un mostro o un assassino. Le storie buffe, magari con un tocco di quella comicità che fa anche riflettere, le leggeva in salotto, ma non sul divano, no: sdraiata a terra, con le gambe in alto, appoggiate a una delle colonnine che incorniciavano la libreria, per un cambio di prospettiva. E se si ribaltava dalle risate, tanto meglio. Quando c'era di mezzo un tuffo nel passato, in un medioevo di cortigiani e cavalieri, sapeva di trovare sempre libera una vecchia sedia nell'angolo più remoto del giardino, dove potersi sistemare a cavalcioni; ma se era il futuro a chiamarla dalle pagine di un romanzo di fantascienza, allora si raggomitolava sui sedili posteriori dell'automobile, in viaggio o meglio ancora ferma dentro il garage, dove poteva immaginare di aver trovato posto a bordo di un'astronave.
A volte non si accorgeva del tempo che passava se non quando era ora di cena o quando, arrivata all'ultima pagina, sospirava o aggrottava la fronte chiudendo il libro.
Allora correva a tavola, e cenava con impazienza, pregustando già il suo tempo e il suo posto preferito. Bramosa di riprendere la lettura, o di cominciarne una nuova sotto le coperte, con una torcia elettrica, mentre tutti gli altri dormivano.

lunedì 20 aprile 2020

Il diario del caos


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La follia non era quello che mi aspettavo di trovare quando avevo scelto di imbarcarmi in quell'avventura. Era iniziato tutto con un diario, un vecchio quadernetto trovato nella soffitta della casa in cui mi ero trasferita. Fin dall'inizio, avevo avuto l'impressione che quella cosa volesse essere trovata. Insomma, chi lo aveva lasciato lì non si era nemmeno preso la briga di nasconderlo. Non lo aveva messo nell'intercapedine di un muro, sotto l'asse di un pavimento o in uno scomparto segreto di un cassetto, no: lo aveva lasciato in bella vista, sul ripiano della scrivania, a prendere polvere proprio di fronte alla sedia. Non sarebbe potuto essere più invitante nemmeno se lo avesse posto sotto un cartello con la scritta "leggimi".
Il contenuto in sé era un rompicapo, e quello era l'unica protezione e l'unico ostacolo che mi impediva di scoprire subito cosa ci fosse scritto. Chiamai il mio migliore amico, il mio compagno d'avventure come lo definivo, nella speranza che potesse darmi una mano a risolvere l'arcano, ma fu chiaro fin da subito che mi sarebbe stato utile come una spugna gettata nel mare per asciugarlo.
– Che roba è? Sembra una scritta in cinese – ipotizzò quando gli passai il diario sul tavolo del parco. Era intelligente, ma non certo un esperto di lingue e scrittura in codice.
– No, scemo, i caratteri cinesi li so leggere. Almeno, qualcuno. Questi sono completamente diversi e credo sia un alfabeto, solo... non il nostro.
E quello fu il suo unico contributo alla decifrazione del diario.
Pensavo di cavarmela in un pomeriggio, ma non fu così. Entro sera avevo solo capito che le righe non erano tutte nello stesso verso, il che complicava notevolmente il mio lavoro.
Ero sempre stata una persona metodica. Penne da un lato, in fila, divise per colore. Post-it in alto, allineati dal più grande al più piccolo, con il righello dietro e il blocchetto degli appunti alla mia destra. A mano a mano che proseguivo nei tentativi di tradurre le pagine misteriose, però, il caos dilagò sulla mia scrivania e nella mia vita.
Ossessionata da un compito che pareva insormontabile, declinai ogni invito e rimandai ogni appuntamento. Non avevo mai permesso, prima di allora, che qualcosa scombinasse la mia routine.
Forse fu per quello che divenni nervosa, e che litigai con tutti quelli che mi conoscevano. Perfino con il mio compagno di avventure, il giorno che gli rivelai che le pagine del diario cambiavano.
Non volle credermi.
Perché lo so che sembra folle, ma le scritte davvero erano diverse da un giorno all'altro. Ne avevo la prova: le avevo trascritte, simbolo per simbolo, nel mio blocchetto di appunti. Ma lui preferì pensare che avessi sbagliato la trascrizione, piuttosto che darmi ragione.
Non era rimasto sveglio assieme a me tutta la notte per guardare il mutamento scombinare le parole in codice. Ormai ero da sola in quell'avventura, e avevo una mia teoria.
Le parole cambiavano perché il futuro cambiava.
Se mai era esistito un libro che rivelava chiaramente e senza alcun errore gli eventi che ancora dovevano avvenire, era il diario che mi ero ritrovata fortuitamente tra le mani. A quel punto, nessuno avrebbe più potuto convincermi del contrario, e nessuno avrebbe potuto impedirmi di tradurlo e scoprire i suoi segreti.

sabato 18 aprile 2020

Guardafili


Guardafili [guar-da-fì-li] s.m. e f. inv. Addetto alla manutenzione delle linee telefoniche ed elettriche.

Etimologia: parola composta da guarda, voce del verbo guardare e dal plurale di filo.

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Lo avevo visto fare centinaia di lavori ma nessuno mi affascinava e allo stesso tempo mi metteva in ansia più di quello. Yorosh che si arrampicava sui tralicci senza nemmeno un dannato moschettone attaccato a un cavo di sicurezza, e che armeggiava con attrezzi metallici più vicino a quei fili carichi di elettricità di quanto fosse umanamente possibile. Io mi torcevo le mani e dal basso gli gridavo di stare attento, ma lui si beava del mio terrore.
– Forse è meglio che ti sposti di lì – mi diceva alle volte. – Potrebbe cadermi qualcosa.
Oppure: – Sono solo sessantamila volt, cosa vuoi che sia!
Eppure, nonostante la tensione che mi suscitava guardarlo salire lassù, io sapevo che non c'era guardafili più al sicuro di lui, e che quelle cose, il cielo, l'elettricità, erano i suoi elementi.
Yorosh era il mio personale drago delle tempeste.
Dovevo solo sopportarlo quand'era in vena di scherzi, come la volta che aveva afferrato uno dei cavi. Io ero trasalita e mi ero messa a tremare come se quella attraversata dalla corrente elettrica fossi stata io, ma lui mi aveva rassicurato: – Tranquilla, tutto a posto, non succede niente se stai attento a non toccarne due...
Peccato che, subito dopo, Yorosh aveva alzato l'altra mano.
Non so dire chi abbia urlato più forte, se io sul serio o lui per finta, mentre le squame verdi lo ricoprivano e le ali si liberavano dalla sua schiena. Penso che abbia atteso di poterle estendere completamente prima di mollare la presa e planare poco distante. Lo avevo raggiunto, incerta se abbracciarlo o dargli uno schiaffo, ma Yorosh mi aveva avvertito: – Non toccarmi. Devo prima scaricare a terra... sai, la sicurezza innanzitutto.
A quel punto, ero decisamente più propensa allo schiaffo.
– Ci crederesti – mi aveva chiesto, allargando le braccia ricoperte di squame, – che da ragazzo avevo paura dell'altezza e... di questo?
Io avevo scosso la testa. – Meglio che la smetti, guardafili, prima che qualcuno, e intendo qualcuno che non sono io, si metta a guardare te.

giovedì 16 aprile 2020

Il giusto numero


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Quando hai dei figli, e loro diventano abbastanza grandi e loquaci, la casa si anima di un sacco di conversazioni interessanti. Come quella che mi è capitato di origliare mentre ero intenta alle mie faccende, e le mie figlie facevano i compiti.
– Perché si dice "battere il cinque"? – chiede Rugiada, un fagotto di curiosità e domande di appena sei anni.
– La tua mano ha cinque dita, no? – ribatte Luna, con l'impazienza tipica di una preadolescente che ha di meglio da fare che badare alla sorellina.
Rugiada annuisce, mordicchia la matita e subito dopo torna all'attacco. – Però... se le mani che si battono sono due, non si dovrebbe dire "battere il dieci"?
Luna mugola e pensa di tagliare corto quando afferma: – Si conta solo una mano. Perché è così e basta, Rugi.
Oh, quanto si sbaglia se pensa di aver placato in questo modo tutti i dubbi di Rugiada.
– E se sono due gatti a battere le mani insieme? Allora si dice "battere il quattro"?
Rugiada fissa la sorella, attendendo il suo responso. Luna alza gli occhi dal libro di algebra e aggrotta la fronte. – Intanto, i gatti hanno le zampe, e non le mani – la corregge. – Per il resto non lo so, puoi anche dire battere il quattro se ti fa piacere, anche se non ho mai visto due gatti che si battono le zampe per congratularsi tra loro.
– Io sì – sentenzia Rugiada. Sdraiata pancia in sotto sul pavimento, solleva i piedi e li agita in aria. – Ho visto il famiglio di zia Atena che lo faceva con il nostro.
Luna scrolla le spalle. – Ma perché un famiglio è più intelligente di un gatto comune. Questo lo sanno tutti. – Seduta alla scrivania, Luna assume la sua classica aria da saputella, e si bea del vantaggio di avere il doppio degli anni di sua sorella, finché può. Ovvio, la differenza non si ridurrà, ma diventerà molto meno importante, un giorno.
– Mmmhh... anche i delfini sono intelligenti, vero? E i cavalli, e gli elefanti. Se lo fanno due elefanti, si dice "battere l'uno"?
– Gli elefanti non si battono le zampe. Le usano per camminare e basta. Al massimo, lo fanno con la proboscide. – Luna incrocia le braccia. Ormai ha perso di vista i compiti, completamente assorbita dal mondo ipotetico di Rugiada.
Che ribatte: – Però, sempre uno è.
Luna annuisce. Stavolta non può che darle ragione.
– Lo stesso per i cavalli e i delfini, se non lo fanno con la pinna di dietro. Con la pinna di dietro, penso che si dice "battere il due". – Rugiada disegna nell'angolo della pagina la sagoma di un delfino. Lo fa spesso, e penso stia diventando un'ossessione, dopo aver visto un vecchio film su Flipper a casa di Atena. – Quindi, dire che si dice "battere il cinque" e basta, per me è ingiusto. – È risoluta, Rugiada, mentre alza gli occhi dal libro e fissa la sorella. – Quando divento grande, io lo voglio dire. È un'ingiustizia, e non va bene. Tutti gli animali devono poter battere le zampe con le dita che hanno. O la proboscide. O anche la pinna. Senza che nessuno gli possa dire che non si fa perché non è davvero battere il cinque se non hanno cinque dita.
Da lontano, scuoto la testa e sorrido. Quanto fervore e quanta convinzione nelle battaglie che scegliamo di combattere da bambini! Però, allo stesso tempo, non posso fare a meno di chiedermi dove sia finita tutta quell'energia quando, una volta adulti, vediamo più chiaramente che sono altre le cifre che definiscono un'ingiustizia.

lunedì 13 aprile 2020

Insieme per caso


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Mi ero rifugiata al caffè all'angolo, quello con il gruppo di studenti che improvvisavano musica jazz abbarbicati su una pedana troppo stretta per contenerli tutti, ed ero seduta al mio tavolino solitario con una tazza di tè e un libro di poesie che parevano uscite da una partita di scarabeo, quando il fatto avvenne. Che sia chiaro, ero lì per rimandare le responsabilità che sembravano addensarsi nella mia vita come nubi in un cielo in tempesta, oscurando ogni traccia d'azzurro: non avevo voglia di ridipingere o ristrutturare casa, né di impegnarmi nel giardinaggio, nonostante ormai il mio cortile paresse più una giungla che un prato all'inglese, e di sicuro potevo procrastinare di qualche giorno il cambio stagionale degli pneumatici del mio vecchio macinino. Dunque, l'ultima cosa che cercavo era compagnia, e le coppiette che amoreggiavano agli altri tavoli mi facevano storcere il naso.
Ma il destino aveva altri piani per me.
Non so cosa sarebbe accaduto se non avessi deciso di cedere alla pigrizia per quel giorno, o se avessi scelto un tavolo all'interno, piuttosto che sotto il tendone che dava sulla strada. Del senno di poi sono piene le teste di chi è più bravo di me a rimuginare. Il fatto che avvenne, e che ormai non avrebbe potuto svolgersi in modo diverso, fu che dall'incrocio vennero verso il bar, di corsa e in fila, per primo un furetto, per secondo un cane di taglia media e di razza probabilmente meticcia, e per terzo un ragazzino che gridava in continuazione: – Thomas Jefferson! Thomas Jefferson, fermo! Torna qui! Da bravo!
Non mi soffermai sul fatto che quello fosse un nome assai strano per un cane. Mi preoccupai piuttosto del furetto che raggiunto il mio tavolo, saltò su una sedia, saltò sulla tovaglia, e nella sua frenesia rovesciò il tè sul libro di poesie - non una gran perdita, a mio avviso, almeno per quanto riguarda il libro - prima di zomparmi addosso e arrampicarsi sulla mia testa. Non riuscendo a liberarmene, perché la bestiola tentava di graffiare e mordere ogni volta che avvicinavo le mani, non trovai altra soluzione che calcarmi in testa il cappello di paglia che avevo in grembo prima che il cane mi raggiungesse, tallonato dal bambino.
Il cane non doveva essere di quelli più furbi, perché continuò a girare attorno al tavolo con il naso premuto a terra, tra guaiti e qualche latrato, ignorando la bestia tremebonda con la coda che pendeva fuori dal cappello, e che ogni tanto mi affannavo a ricacciare sotto la falda. Il tutto finì dieci lunghissimi minuti più tardi, con il bambino che riuscì ad agganciare il guinzaglio al cane e a distoglierlo dalla caccia con qualche strattone.
– Aspetta... e il tuo furetto? – gli chiesi, prima che si allontanasse.
Il bimbo fece spallucce. – Non è mio, signora. Se lo può tenere se vuole. Basta che aspetta che siamo lontani prima di tirarlo fuori da lì sotto.
Sospirai e attesi ancora un po', e alla fine dovetti lottare per convincere la bestia a scendere dal suo trespolo. Pensando che qualunque lavoro stessi rimandando fosse meglio di un altro imprevisto come quello, mi accinsi a pagare e a dirigermi a casa, ma dopo pochi passi mi vidi tallonata dalla bestiola a cui avevo dato temporaneo asilo.
– Via... sciò... vattene a casa tua, ragazzaccio dispettoso! – gli intimai, con qualche gesto della mano e del libro fradicio, all'aroma di tè. Agitai persino il cappello, ma niente, quello non mollava. Nonostante le mie continue esortazioni a lasciarmi in pace, per quanto affrettassi il passo fino a risolvermi a correre, non c'era verso: il furetto mi stava sempre dietro, a tre o quattro passi di distanza.
Dovevo avergli fatto una gran bella impressione con quel salvataggio.
Arrivata a casa, una volta aperto la porta, la bestiola mi passò tra le gambe e si accomodò all'interno prima di me, e fu allora che capii che per quanto ci provassi, non mi sarei mai più liberata di quell'impiastro.
E fu così che adottai un furetto. O meglio, che un furetto adottò me.

sabato 11 aprile 2020

Batiscafo


Batiscafo [ba-ti-scà-fo] s.m. Piccolo sommergibile per l'esplorazione subacquea.

Etimologia: composto da bati, dal greco bathýs, "profondo", e scafo, dal greco skáphos "fossa, alveo, nave, cisterna", derivato di skáptō, "scavo".

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Il batiscafo era messo male. Quello che avevo di fronte era un vecchio, minuscolo sommergibile giallo, che di colpo mi fece capire come mai il capitano si fosse messo a fischiettare Yellow submarine per tutto il viaggio da casa a qui. Guardandolo non sapevo se piangere o ridere. L'intera fiancata era ricoperta da graffiti e polvere, entrambi sintomo di una vita passata troppo tempo all'asciutto, e la vernice era scrostata in molti punti nella parte più bassa, segno che più che fluttuare ultimamente era stato trascinato. Se non aveva toccato il fondo, poco ci mancava.
Avrei anche potuto sorvolare sul suo aspetto poco rassicurante, ma quello che mi preoccupava di più erano i difetti invisibili, i problemi al motore o le microscopiche falle nello scafo che si sarebbero rivelate solo una volta messo in acqua quella cosa, che chiamare sommergibile sembrava un'offesa agli esemplari rispettabili della sua specie. Non avrei affidato la mia vita a quel batiscafo per nessuna cifra al mondo.
Eppure il capitano non batté ciglio, non discusse con il venditore le riparazioni necessarie, e dopo una breve contrattazione sul prezzo, quel relitto giallo era infine nostro.
Supponevo che sarebbe toccato a me rimboccarmi le maniche per riuscire a farlo funzionare, e che ci sarebbero voluti mesi prima di renderlo operativo, ma il capitano era impaziente, e io avevo sottovalutato la sua follia.
– Ragazzo mio, preparati: domani si va a caccia di sirene!

giovedì 9 aprile 2020

Gli unicorni non esistono


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– Gli unicorni non esistono – era solita ripetere Merry a tutti gli adulti che la interrogavano sull'argomento. Avevo notato quella stranezza perché Merry era disposta ad ammettere, seppure con qualche dubbio, l'esistenza di fate, sirene, draghi, folletti, o persino di cose spaventose come fantasmi e lupi mannari. – Forse, da qualche parte, ci sono – diceva lei, – ma io non li ho mai visti.
Il che rendeva ancora più interessante la sua assoluta certezza sugli unicorni.
Un altro dettaglio che cozzava con la sua affermazione era il suo cane, che Merry amava alla follia e che si portava sempre appresso. Estate o inverno, non lo avevo mai visto privo di una tutina candida, con tanto di cappuccio da cui spuntava un cornino dorato. Mi era sembrato bizzarro che Merry lo avesse chiamato Nuvola Rosa e che insistesse nel farlo vestire così, dato che non credeva agli unicorni. Ma quando glielo avevo chiesto, lei si era limitata a farmi un sorriso furbetto e a rispondere: – Appunto, non è un travestimento perfetto?
Avevo archiviato la questione sotto l'etichetta "logica da bambini" e per un po' avevo lasciato perdere l'incoerenza di Merry, considerando che quella fosse solo una fase e che le sarebbe passato. Poi io mi ero trasferito e la vita mi aveva portato altrove, e non avevo più pensato a Merry che non credeva agli unicorni e al suo cane travestito come uno di loro.

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Fu solo quando tornai al mio vecchio appartamento per mostrarlo a una coppia di affittuari, anni più tardi, che scorsi Merry uscire di casa accompagnata dal suo cagnolino. Lei si era fatta grande, era diventata una ragazzina ormai, e io non l'avrei riconosciuta se non fosse stato per Nuvola Rosa, sempre avvolto in quel ridicolo completino, proprio come lo ricordavo.
Lei non mi vide nemmeno.
Volevo salutarla, così la seguii, ma Merry camminava svelta e poi s'infilò in un dedalo di vicoli, dalla parte della città vecchia, e lì la persi. Stavo per rinunciare, quando sentii uno scalpitare di zoccoli sul selciato, e la sua voce sussurrante, dolce, frammista alle risate. Allora lasciai che la sua voce mi guidasse, e quando svoltai in un vicolo cieco la vidi di spalle, che tendeva la mano verso il muso di quello che pareva un maestoso cavallo bianco, solo che era più snello di un cavallo, più grazioso, e la coda e la criniera erano rosa, e sulla sua fronte svettava un corno ritorto e dorato.
La creatura nitrì e Merry si voltò e spalancò occhi e bocca in un'espressione spaventata, poi allargò le braccia, con fare protettivo, tra me e quella cosa.
Io... non ero del tutto certo di quello che avevo visto. Perché quando mi strofinai gli occhi, incredulo, e li riaprii, dietro Merry c'era solo un cagnetto in un completino da unicorno. Anche se mi sentivo sciocco, lo indicai e provai a chiedere lo stesso.
– Quello era... quello era... un vero unicorno, giusto?
– Ma certo che no – rispose prontamente Merry, incrociando le braccia. – Gli unicorni non esistono!
Non provai a insistere, tanto ero sicuro che non sarei riuscito a farglielo ammettere. La salutai, che in fondo era il motivo per cui l'avevo seguita, ma nel guardarla andar via con il cagnolino che le trotterellava appresso, mi tornò in mente la sua frase di tanti anni prima, e non potei fare a meno di pensare che sì, Merry aveva ragione: un cane con addosso quel buffo costume era il travestimento perfetto per un unicorno.

lunedì 6 aprile 2020

"Morirai per l'acqua"


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Nel retro del magazzino dove c'incontravamo, nascosti da cataste di casse, quel giorno stesi le dita tra noi e mi lamentai: – Guarda, ho già le mani di una vecchietta!
Kiirillin mi accarezzò con la punta delle dita, quelle dita così candide e perfette, e sussurrò nella sua voce dagli accenti melodiosi: – No, hai solo la pelle raggrinzita per averle tenute troppo in acqua. Hai lavato i panni, tra poco passerà.
Quella voce che sapeva di canti e di vento mi sorprese, ancor di più delle sue parole, sebbene l'avessi già sentita così come già altre volte lui era riuscito a indovinare cose del passato e del futuro.
– Ecco – sbuffai, sottraendo le mie mani al suo tocco. – La Voce del Drago aveva ragione, l'acqua sarà la mia fine. E dunque il mio epitaffio sarà "Qui giace Meilian Leifleghaist, figlia degli Adoratori dei Draghi, che morì consumata dal troppo bucato."
Gli sorrisi e poi mi concessi di ridere in sua compagnia quando Kiirillin iniziò. Era ridicolo, davvero. Ero in fuga dall'acqua da quando avevo ricevuto la profezia, e per quelle parole mio padre mi aveva trascinata in una città cinta da altissime mura ai confini del deserto e mi faceva sorvegliare ogni volta che lavavo qualcosa, fosse anche un solo piatto. Non potevo mettere un piede fuori di casa nei rarissimi giorni di pioggia, non potevo fare il bagno senza la compagnia di un'ancella, e non potevo nemmeno bere un sorso d'acqua senza sentire i suoi occhi addosso, e il peso di tutta la sua preoccupazione, come se fosse bastata una sola goccia a farmi annegare.
Le visite di Kiirillin erano il mio unico segreto. E io ero il segreto che lui manteneva con la sua gente: agli elfi non era permesso interferire nelle faccende umane, mi aveva detto lui una volta. Se lo avessero scoperto, non sarebbe mai più potuto tornare da me.
– La Voce del Drago non si è mai sbagliata? – mi chiese Kiirillin quando il nostro riso si fu placato.
Chinai la testa. A volte, quelle profezie di morte si avveravano in un modo che nessuno avrebbe immaginato, ma nondimeno si avveravano. – Quando guardi qualcuno, e sai ciò che è stato e ciò che sarà, tu ti sei mai sbagliato? – glielo chiesi a bassa voce, con timidezza, e sbirciai la sua reazione da sotto le ciglia. Kiirillin sospirò e non mi diede alcuna speranza, ma subito dopo intrecciò le sue dita alle mie. – Non vale la pena preoccuparsi per ciò che non si può evitare. Tutte le creature hanno un inizio e una fine nel loro viaggio in questo mondo.
– Facile da dire, per qualcuno che misura questo viaggio in millenni.
Ero più triste che arrabbiata, e lui lo sapeva. Sentii il tocco delicato delle sue braccia che mi stringevano, e il soffio delle sue labbra sulla fronte. – A volte, penso che vorrei essere nata elfo.
Sarebbe stato tutto più facile. Non solo quella profezia non avrebbe gravato come una scure sul mio collo, ma io e Kiirillin saremmo potuti stare insieme alla luce del sole, e non in segreto.
Avvertii il suo abbraccio farsi più stretto e il suo respiro accelerare. Alzai gli occhi.
– Che cosa succede?
Kiirillin mi lasciò andare e fece un passo indietro. – Nulla – disse, e per la prima volta fui certa che stesse nascondendo qualcosa a me. – È solo un pensiero. Un pensiero molto strano.
Solo qualche mese più tardi Kiirillin mi rivelò che i suoi antenati non erano nati elfi, bensì lo erano diventati bevendo da una fonte prodigiosa nel cuore della montagna, e quel pensiero strano mi condusse all'acqua che avrebbe segnato la mia fine.

sabato 4 aprile 2020

Temerario

Temerario [te-me-rà-rio] agg., s. (pl.m. -ri) 1. agg. Di persona, che affronta i pericoli senza calcolo, sconsiderato o ardimentoso. 2. agg. Riferito a comportamento o atto, imprudente, che comporta dei rischi; avventato, non fondato su validi motivi. 3. s.m. (f. -ria) Nell'accezione 1 dell'aggettivo.

Etimologia: dal latino temerarius, derivato dall'avverbio temĕre, "a caso, alla cieca",  con probabile provenienza dal tema sanscrito tamrà, "oscurità, tenebra".


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Arden è l'uomo più temerario che io abbia mai conosciuto. Al nostro primo appuntamento mi portò a fare una passeggiata sui carboni ardenti. Io avevo paura, ma lui mi spiegò che c'era un trucco. Anche se sembrava che lui non ne avesse bisogno.
Lo avevo visto stringere tra le dita uno di quei pezzetti neri dai bordi roventi, quando pensava che nessuno lo stesse guardando. Era come se il fuoco fosse il suo elemento. Io ero più sospesa tra la terra e il vento, e non sapevo se la mia aria avrebbe alimentato la sua fiamma, o se piuttosto avrei finito col restare bruciata.
Gli avevo detto quanto fosse stato avventato a scegliere di portarmi a un evento del genere al nostro primo appuntamento, quando ancora non mi conosceva, e per tutta risposta lui mi aveva baciato la mano e aveva replicato: – Resta con me, e vedrai, che farò di te una temeraria.
Avrei accettato quell'invito, se avessi saputo fin dall'inizio che in realtà Arden era in fuga da una vita intera? Non posso saperlo.
Quel che so è che Arden aveva ragione. E non solo perché al nostro terzo appuntamento presi coraggio e lo invitai a salire nel mio appartamento, dove crollammo esausti nel letto, sfiniti dalle risate dopo una lotta con i cuscini. Ma perché, ora che abbiamo dei figli, io so con assoluta certezza che non c'è impresa temeraria, né drago spaventoso, che non affronterei pur di proteggerli.

giovedì 2 aprile 2020

Un incipit per due personaggi


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Foto di Helena Lopes da Pexels

 
Come sono arrivata qui dove sono ora? La risposta è in una sola parola: mentendo.
E non intendo le piccole, innocenti bugie che inventano tutti i duevite, "ero distratto", "no, scusa, stavo pensando, dicevi?", quelle frasi che usiamo per coprire i nostri momenti di assenza, perlomeno nella realtà in cui la nostra esistenza non è un fatto risaputo. E nemmeno mi riferisco alla tinta dei miei capelli, un azzurro non naturale ma frutto di un chip-colore, il primo di una lunga serie di lussi che mi sono guadagnata con le mie forze.
No, io sto parlando di quell'unica, enorme bugia detta a me stessa quando ancora non ero nessuno, quella che mi ha aperto le porte di un'avventurosa e remunerativa carriera tra i Bollatori, i cacciatori di taglie di Hetra. Quella che le persone come me, con la stessa anima divisa tra due corpi in due mondi separati, non dovrebbe nemmeno osare pensare: "Chi se ne frega di quell'altra vita, di là potrei anche morire, io voglio questa".
Be', era stato bello, finché era durato. Finché non ho perso tutto anche in questa, finché non sono passata da una vita da eroe a un'esistenza da rinnegata.
Ora sappiamo che morire in una vita equivale a non svegliarsi più nell'altra.
E io mi sono ritrovata da sola, braccata, in fuga, e nella vita sbagliata. 
 
 
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Come sono arrivata qui dove sono ora? La risposta è in una sola parola: mentendo.
Anche se le mie, più che vere e proprie bugie, si potrebbero definire un adattamento della realtà al modo in cui io preferisco vederla. A mio vantaggio, s'intende. Per divertimento, o per profitto.
D'altra parte, la sincerità è sopravvalutata, e a dire la verità sono capaci tutti. Anche il più stupido tra gli stupidi può riuscirci. Ma per mentire, oh sì, e soprattutto per saperlo fare bene, ci vuole tanta fantasia, intelligenza e memoria.
Mentire è un'arte.
Un'arte che so padroneggiare alla perfezione, e diventare qualcun altro per me è facile e naturale quanto respirare. Ho avuto il migliore tra i maestri, ma finora non avevo capito che il Corvaccio non aveva saputo prepararmi a una sola cosa: un uomo che non desiderava niente per sé.
È così che è riuscito a mettermi in trappola.
E ora mi trovo a servire come mozzo sulla sua nave, ma se crede di aver vinto, si inganna. Lui pensa che io abbia barattato la libertà per la mia vita. Ma io qui sono solo di passaggio, e lo capirà il giorno in cui io scoprirò cosa lui non desidera avvenga.
È la solita vecchia storia del bastone e della carota. Quell'uomo può non volere nulla, ma di sicuro deve esistere qualcosa che lui non vuole.