sabato 31 dicembre 2016

Icore

A volte lo stesso termine indica due "sostanze" completamente agli antipodi. Come si può definire con la medesima sequenza di suoni qualcosa di puro e qualcosa di purulento? Non c'è bisogno di dirlo, ma io preferisco il primo significato, ed è quello che ho scelto per il racconto.

Icore [i-cò-re o ì-co-re] s.m. (pl -ri) 1. mitol. Il sangue limpido e trasparente degli dei. 2. med. raro Secrezione purulenta.

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Mi ero ripromessa di non usare nessuno dei personaggi del romanzo che ho completato e che ho intenzione di pubblicare, in un modo o nell'altro, per l'ovvio motivo di non rovinare il finale a chi lo leggerà con uno "spoiler". Ma non appena ho cominciato a immaginare questa scena, non ho resistito all'impulso di scriverla.


Alice reggeva la scala pieghevole e guardava in su. Il sole basso del tramonto gettava lunghe ombre sul cortile, ma Gabriele non aveva voluto uscire prima dalla sua stanza in penombra; e anche così, portava quegli stupidi occhiali da sole.
– Sei sicura? – le chiese dall'alto.
– A cosa serve un motto di famiglia senza una famiglia? Per favore, fallo e basta!
Alice appoggiò la fronte alla scala e rimase ad ascoltare i colpi dello scalpello sul frontone di pietra. Chiuse gli occhi. I frammenti le piovevano addosso e le s'incastravano tra i capelli. Avrebbe quasi potuto addormentarsi e non svegliarsi più.
Un gemito e un paio di tonfi secchi. Alice riaprì gli occhi.
Gabriele aveva lasciato martello e scalpello e teneva con la destra la sinistra stretta a pugno.
– Gabriele! Ti sei fatto male? Mi dispiace, non avrei dovuto chiederti... – Alice raccolse i lembi della gonna nera, ma mentre si accingeva a salire lo vide scendere e allontanarsi. Dietro di lui gocce più scure macchiavano le pietre del cortile.
– Dove vai, sei ferito! Lascia che ti aiuti.
Gabriele si fermò e si girò. Era difficile decifrare la sua espressione dietro le lenti scure. – Io non... – Abbassò il capo. – E va bene. Ma per favore, non spaventarti.
– Non mi conosci se pensi che sverrò alla vista di un po' di san... – Alice non terminò la frase.
Gabriele aveva dischiuso le mani: dalla ferita stillava un icore trasparente, limpido, con una traccia di iridescenza in superficie. Alice lo fissò a bocca aperta.
– Io sono diverso. Vengo da un altro posto – le rivelò Gabriele. Alzo il volto al cielo.
– T-tu sei un angelo? – balbettò Alice.
– Sì, se gli angeli viaggiano su navi stellari.
Alice si tappò la bocca con le mani e fissò l'icore che gli bagnava le dita. – Un marziano!
La risata di Gabriele fu preceduta da un gorgoglio in gola. – Direzione esatta, ma più lontano. Permettimi di andare nella mia stanza a medicarmi. Poi parleremo. Ho una proposta da farti… questa casa è troppo grande per noi due soltanto.

giovedì 29 dicembre 2016

Le incomprensioni e la commedia degli equivoci

Se provassi a registrare una conversazione per poi trascriverla esattamente come si è svolta, parola per parola, ti accorgeresti che è molto diversa dai dialoghi presenti nei libri o nei film. Interruzioni, cambi di argomento senza logica apparente, sovrapposizioni di voci, lunghe pause, frasi lasciate in sospeso o completate dal linguaggio non verbale, uso del dialetto o di espressioni sgrammaticate, ripetizioni di concetti o di interiezioni, mugolii e versi privi di significato fin troppo frequenti renderebbero un simile dialogo poco verosimile sulla pagina, poco scorrevole, e assai poco piacevole da leggere.

Perciò chi scrive semplifica. Riduce all'essenziale la conversazione, e fa in modo che ogni tic, ogni ripetizione, ogni pausa e ogni esclamazione sia significativa. Se è necessario mostrare a chi legge che un personaggio è in imbarazzo o nervoso, per esempio, si potrà aumentare la frequenza di una interiezione che quel personaggio usa come riempitivo, e che è già stata stabilita in precedenza in altri dialoghi. Così un arrabbiato "Insomma, non ne posso più di te, adesso basta!", diventerà un impacciato "Insomma, non ne posso più di te, insomma, adesso basta... insomma!". Stessa sorte tocca alle pause, o agli errori grammaticali, che possono essere usati per dimostrare che un personaggio non è colto o che non sta parlando nella sua lingua madre.

E poi ci sono le incomprensioni, che possono nascere da una frase estrapolata dal suo contesto, da un'interpretazione errata delle parole di qualcun altro, o dalla normale ambiguità del linguaggio. In ogni lingua sono presenti parole con più significati, o che combinate assieme in modi diversi prevedono un senso alterato o completamente stravolto. Basti pensare alla famosa predizione della Sibilla a un soldato romano: a seconda di dove veniva collocata la virgola, prima o dopo il non, la frase poteva significare "andrai, tornerai, non morirai in guerra", o il suo contrario "andrai, non tornerai, morirai in guerra".

C'è un genere che da sempre sfrutta questo tipo di errore, e che ha tra i suoi autori più famosi Boccaccio, Goldoni e Shakespeare: la commedia degli equivoci. In questo caso un'incomprensione, un gioco di parole, uno scambio di persona diventa significativo al punto da definire tutta la storia. E qui le possibilità sono due: se lo spettatore, o il lettore, non è consapevole dell'errore che è causa delle sventure del personaggio, può immedesimarsi e "soffrire" con lui o lei fino al colpo di scena finale; ma se ne è consapevole, allora potrà allontanarsi dal personaggio, godere dell'ironia della situazione e riderne.


Nel racconto di lunedì, La ragazza del capo, fondamentale è l'errore della protagonista nell'interpretare nel modo errato una frase volutamente ambigua: "ragazza" in quel contesto può avere il doppio significato di fidanzata e (figlia) adolescente. Se avessi scritto "la bambina del capo" non ci sarebbero stati dubbi che si tratta della figlia; così come "la donna del capo", indica in modo palese una compagna. La parola mancante nella frase sul gesso, "papà", è un altro termine che avrebbe chiarito una dichiarazione di amore che può essere letta in più di un modo.

Rileggendolo a distanza di anni, tra i racconti inviati al concorso questo è uno dei due che mi piacciono di meno. Forse per il contesto così normale e quotidiano (l'ho già detto che preferisco scrivere fantasy, o fantascienza, o favole, o qualunque altro genere in cui ci sia un elemento fuori dall'ordinario o impossibile nella vita di tutti i giorni?). Forse perché ho sperimentato il genere della commedia degli equivoci prima ancora di conoscerne tutti i meccanismi, e dunque la storia non mi sembra né divertente come avrei voluto, né coinvolgente. Il racconto rischia di lasciare chi lo legge in un limbo tra il sapere e il non sapere: se da un canto ci sono allusioni della protagonista/voce narrante all'equivoco, per cui si può intuire fin dall'inizio, dall'altro non è mai esplicitamente rivelato fino alla fine. Col senno di poi, lo avrei scritto rendendo più chiaro l'errore fin dal principio, magari con un maggiore coinvolgimento del personaggio di Giulia in un tentativo deliberato di stroncare sul nascere la pericolosa "cotta" della collega. Sarebbe stata una trama possibile dato che anche in questo caso la maggior parte del racconto è sotto forma di un lungo flashback da parte di un narratore che già sa come si sono svolti i fatti. Ma col senno di poi non si scrivono i racconti; al massimo, si riscrivono.


Termino con le tre frasi che salverei se mai dovessi riscriverlo... cosa che non è mia intenzione fare al momento. Ma non si sa mai.

No, la parte più difficile è decifrare la complessa rete di relazioni che animano l’ufficio, scoprire i gruppi, le simpatie e le antipatie e scivolare in quel delicato equilibrio senza scossoni.
Mi trascinavo, come sotto anestesia, in un mondo che aveva perso ogni colore.
Però c’è stato un istante di buio, e in quell’istante mi sono reso conto di cosa mi stavo perdendo.
 
 
A lunedì per il quinto incipit, siamo a metà della serie di racconti, se vuoi lasciarmi un tuo parere nei commenti qui sotto sei il benvenuto, o benvenuta!

lunedì 26 dicembre 2016

La ragazza del capo

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.

      Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.

     Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere.

     
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura. La conosco e non ho bisogno di leggerla per sapere che dice. Mi sembra incredibile che qualcosa di così piccolo abbia potuto torturarmi così tanto. Lui si volta e mi dona uno dei suoi sorrisi sfrontati e affascinanti. C’è il sole oggi nel suo sguardo, e io ora so perché.

      È il nostro segreto.


      Non è sempre stato così. Come in ogni bella storia, c’è il tempo del dubbio e della sofferenza prima del lieto fine. E c’è un inizio: nel mio caso, un nuovo lavoro.

      Lasciate che ve lo dica, non è mai facile essere “quella nuova” in un ufficio. Ogni posto ha il suo modo di lavorare, ma per imparare quello bastano un paio di mesi. No, la parte più difficile è decifrare la complessa rete di relazioni che animano l’ufficio, scoprire i gruppi, le simpatie e le antipatie e scivolare in quel delicato equilibrio senza scossoni. Molti falliscono in questo. Io mi ero fatta voto di riuscirci; lui, a quanto avevo capito, di aiutarmi. Il flirt non era previsto.

      Eppure io provavo qualcosa. Ogni mattina al risveglio pensavo a lui, ed era il pensiero di incontrarlo, di poterlo rivedere ancora una volta che mi faceva amare tanto il mio lavoro. Non ne avevo mai parlato, in tre mesi non avevo mai nemmeno accennato a quanto mi facesse impazzire quel suo modo di guardarmi, a quanto trovassi seducente il tono morbido della sua voce. Ero consapevole di ciò che provavo: sarei stata ipocrita a negarlo a me stessa, ma ero altrettanto consapevole che non potevo aspettarmi nulla. Cavolo, lui era il mio capo, e non si era mai comportato in modo meno che professionale con me. No, non era proprio il caso di illudersi.

      Poi, in marzo, c’era stato l’incidente che lo aveva tenuto lontano dall’ufficio per un paio di settimane. In quel periodo ero diventata apatica, spenta. Non mi svegliavo più felice, non trovavo più alcun motivo di continuare a lavorare là. Mi trascinavo, come sotto anestesia, in un mondo che aveva perso ogni colore.

      Il giorno del suo ritorno lui era di ottimo umore, proprio come oggi, e lo ero anch’io. Se non fosse stato per il braccio sinistro ingessato e per l’ombra di un livido sulla tempia, avrei potuto scambiare quel suo periodo di assenza per una vacanza. Ne aveva tutta l’aria: lui sembrava, in un certo senso, migliore. Sembrava più bello, più allegro, più rilassato, più sexy. Se non l’avessi visto, non avrei potuto crederlo.

      Quella mattina era successa anche un’altra cosa, altrettanto incredibile: lui mi aveva guardata, aveva unito pollice ed indice e li aveva alzati alla bocca, come per invitarmi a prendere un caffè. Non l’aveva mai fatto. Ero rimasta sorpresa e mi ero girata, aspettandomi di vedere il capufficio di un altro reparto, o magari la signora del secondo piano, rispondere con un cenno d’intesa. E invece no, quel gesto era rivolto proprio a me.

      Avevo accettato, seppur con nervosismo. Nei primi dieci secondi c’era stato solo il rumore della macchinetta automatica e un silenzio teso, imbarazzante. Poi lui aveva riso, e non era la risata impostata di chi intende spezzare un momento di imbarazzo, ma quella genuina di chi si è appena ricordato qualcosa di divertente.

      “Diavolo, signorina Mara, si rilassi! Stiamo soltanto prendendo un caffè, non c’è niente di male. Anzi, avrei dovuto farlo prima.” Aveva detto. Poi, rivolgendomi quello sguardo: “E non è la sola cosa che avrei dovuto far prima. Meglio avere rimorsi che rimpianti, non crede?”

      Io avevo annuito, non sapendo che dire. Era stato allora che avevo notato la piccola scritta sul gesso, ma non avevo osato avvicinarmi abbastanza per leggerla. Però ero curiosa, e mi chiedevo se avesse qualcosa a che fare con il suo cambiamento. Per tutta la mattina avevo trovato mille scuse per avvicinarmi a lui. Ogni volta che c’era da portargli un faldone, un documento da firmare, un messaggio, ero io a farlo. E ogni volta, lo sguardo mi cadeva sulla sua ingessatura, su quella piccola scritta storta seminascosta dalla manica della camicia. Lui sembrava contento di vedermi tanto spesso, anzi, ne sembrava compiaciuto. Come se si beasse dell’effetto che le sue parole avevano avuto su di me.

      Ma erano altre le parole che mi avrebbero influenzato nel corso dei prossimi giorni; e me ne accorsi quando, nel portargli l’ennesimo documento da firmare e poi spedire via fax, riuscii finalmente a leggere quella scritta.

      “Guarisci presto.

      Ti voglio bene

      Linda”

      Non avevo mai saputo che lui avesse una moglie o qualcuno che lo attendesse a casa. Linda, che razza di nome. Me la immaginai, solo per un momento, con un vestito bianco e i capelli biondi, tagliati all’altezza delle spalle e curvati verso l’interno. Nella mia mente Linda aveva un sorriso ammiccante e falso come quello di una contorsionista, perfino durante i lavori domestici più faticosi; e forse non era l’unica dote da contorsionista che aveva, per tenerlo così legato a sé.

      Era un pensiero meschino, me ne rendevo conto; ma era meglio la rabbia che la tristezza. La sua felicità non mi apparteneva, non era mai stata merito mio, e quel barlume di speranza che avevo provato davanti al distributore di caffè era stato solo un’illusione. Mentre tornavo alla mia scrivania con il cuore a pezzi sentii il telefono che suonava e Giulia, la mia collega, che gli passava la telefonata dicendo semplicemente: “Linda”

      “Chi era?” le chiesi, fingendo indifferenza. Come se già non lo sapessi.

      “Linda, la ragazza del capo” rispose lei. “Che strano, però. Di solito non vuole che lo chiami al lavoro, e invece sentilo…”

      Lo sentivo, eccome. Lui non faceva niente per tenere privata la conversazione. E la sua voce, già suadente, era ancora più dolce mentre si profondeva in un mare di “tesoro”, “piccola” e “amore”. Ognuno era come uno spillone piantato nel mio cuore. Che stupida, io che non volevo illudermi c’ero cascata in pieno, e ora ne pagavo il prezzo.

      A pranzo la situazione divenne ancora più insostenibile. Di solito lui si sedeva di fronte a me, ad un tavolo di distanza. Lo avevo sempre apprezzato. Non mi piaceva parlare mentre mangiavo, dover ingoiare in fretta un boccone per rispondere oppure, dio che vergogna, sorridere con un pezzetto d’insalata tra i denti o macchie di sugo sulle labbra. No, molto meglio cosi, quel gioco di sguardi silenziosi e sapere di avere i suoi occhi su di me era molto, molto intrigante.

      Però quel giorno avrei voluto evitarlo. Tenni gli occhi bassi finché Giulia non venne a sedersi di fronte a me. L’avevo sempre odiata quando giungeva a separarci; quel giorno, invece, fu un sollievo.

      “Lascialo perdere,” mi disse, sempre prodiga di consigli. “Le storie tra colleghi non funzionano mai; quando si tratta del capo, poi, è ancora peggio.”

      Nei giorni successivi cercai di evitarlo, per quanto mi era possibile. Lasciavo che fosse Giulia a portargli i faldoni, i documenti, i comunicati; lo ignoravo quando non mi parlava di argomenti strettamente attinenti al lavoro e fingevo di non vedere quando, imitando una tazzina portata alle labbra, mi invitava a bere il caffè. Sapevo che prima o poi il mio atteggiamento ostile avrebbe potuto farmi perdere il lavoro, e non m’importava. Lavorare lì con lui, o meglio, per lui, era diventato troppo pesante.

      “Venga con me, signorina Mara” mi disse un giorno, con un’asprezza che non avevo mai sentito nella sua voce. “Ecco, ci siamo,” pensai. Stava per licenziarmi.

      E invece lui mi condusse di fronte ai distributori automatici.

      “Vuole qualcosa? Mi sembra che lei abbia bisogno di un caffè.”

      Stava cercando di addolcirmi la pillola. Scossi la testa.

      Lui schiacciò un paio di pulsanti. Poi si voltò. “Sa, ci sono dei momenti, nella vita, in cui la prospettiva cambia. In cui ci si rende conto di cosa, e chi, conta davvero.” La sua voce, dapprima incerta, divenne via via più sicura. Si toccò il gesso, sorrise. “Intendiamoci, non ho visto la luce. Non ci sono nemmeno lontanamente andato vicino. Però c’è stato un istante di buio, e in quell’istante mi sono reso conto di cosa mi stavo perdendo. Ho quasi rischiato di perdere una persona; e un’altra, non l’ho mai avuta. Meglio rimorsi che rimpianti, no? Pensavo fossimo d’accordo su questo.”

      Lui si avvicinò, avvolto nell’aroma di caffè. Io indietreggiai fino a trovarmi con le spalle al muro. Non potevo scappare, e quando mi accorsi che intendeva baciarmi, gli mollai uno schiaffo.

      “E non pensa a Linda?” gli domandai, tentando di farlo rinsavire.

      Lui sembrava sorpreso. Non si aspettava che lo capissi, con tutte quelle telefonate ad alta voce in ufficio?

      “Scusi, cosa c’entra adesso mia figlia?” E solo allora, mentre si massaggiava la guancia con la mano destra, tornai a guardare la scritta sull’arto ingessato.

      “Guarisci presto.

      Ti voglio bene papà

      Linda”

      Quella volta fui io a ridere, ma di sollievo. Non l’avevo proprio vista, quella semplice parola di quattro lettere. Quanti patimenti, quanti sospetti e frustrazione soltanto per un errore di lettura!

      “Ha ragione.” Gli dissi con un sorriso, aggirandolo e avvicinandomi al distributore. “Credo proprio di aver bisogno di un bel caffè.”


      Oggi so che Linda ha nove anni e sta da sua madre. Lui è divorziato, ma dall’incidente la va a trovare molto più spesso. Siamo le sue due ragazze, come ama dirmi qualche volta. Sul lavoro continua ad essere professionale e discreto, ma fuori è tutta un’altra storia. Usciamo spesso insieme. Ovviamente non è questo il nostro segreto, sarebbe impossibile tenere nascosta una cosa del genere in ufficio. Il nostro segreto è che oggi lui si toglie il gesso, e ce n’è un frammento che vorrebbe riuscire a conservare intero. Un frammento con due scritte storte e due firme che è bene leggere con attenzione, per non perdersi nemmeno una parola.

sabato 24 dicembre 2016

Halleluia

Va bene, stavolta ho imbrogliato un po'. Nessuna delle mie fonti serie e rispettabili la cita scritta così. Ma trovare una parola che inizi per acca in italiano e che non sia semplicemente presa in prestito da una lingua straniera è particolarmente difficile, e inoltre avevo voglia di scrivere una storia di Natale. Quindi ho scelto una delle varianti grafiche citate qui e qui.

Halleluia [hal-le-lù-ia] escl., s. 1. escl. Acclamazione liturgica che esprime gioia ed esultanza spirituale. 2. s.m. inv. lit. Formula liturgica, detta o cantata.

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Sapevo già che avrei scelto questi personaggi per mini racconto natalizio. In fondo, la loro è già, fin dall'inizio, una storia di Natale. Ma come in altri di questi frammenti, ho deciso di variare il punto di vista, di dar voce a un personaggio che non è il narratore della storia da cui è tratto.


Mayaselena cammina vicino a me col naso all'insù. Conta le luci sospese sopra la strada. Ogni tanto agita le dita che spuntano dai guanti tagliati. Mi guarda, sorride, e infila le mani nelle tasche della gonna blu. Questa sera ha il maglione con il paesaggio, uno dei pochi che le ho visto addosso. Vorrei regalargliene un altro, uno più bello, ma ho paura: e se poi si offende?
O una giacca. Non credo ce l'abbia, una giacca. Ma se mi dicesse che è perché non sente freddo, non mi stupirei. Non da quando ho scoperto che Mayaselena è magica.
Il portone di legno di una chiesa si apre e un coro di halleluia si mescola alle canzoncine di Natale dei negozi. Mayaselena si ferma e si gira verso i gradini.
– Vuoi entrare? – le chiedo. Spero che mi dica di no. La messa è una cosa noiosa, ed è già abbastanza starla a sentire quando mi ci porta mamma.
Le sue mani sono di nuovo fuori dalle tasche. Allungo le dita. Ma non ce la faccio a prenderla per mano, lei scuote la testa e mi fissa.
– Zia Cin dice che Maipe cantava per me quand'ero piccola. – La sua voce sembra un po' malinconica. Sfiora la cicatrice del graffio sulla guancia. – Dice che piangevo se lui non c'era. E che è per questo che adesso mi piacciono tanto le luci. E la musica. Ma prima pensavo che fossero mia madre, o zia Cin, o nonna Tamesi a, sai... chiamarlo.
Mi fa un mezzo sorriso, un po' imbarazzato. Adesso so che intende. Halleluia, canta ancora il coro, mentre la gente continua a entrare o uscire dal portone. E io mi ricordo che le ho promesso di mostrarle tutto quello che non ha ancora visto del Natale prima che se ne vada. Forse la messa per me è una cosa noiosa, ma per lei no. E dentro c'è tanta musica, e tanta luce.
Prendo coraggio, prendo la sua mano, e l'accompagno su per i gradini.

giovedì 22 dicembre 2016

Prendere spunto dal quotidiano... ma non troppo

Ancora una volta nessuna mappa è stata necessaria per condurmi nei meandri della storia che ho scritto. Nessuna domanda tra i miei appunti, nessun elenco di possibili trame da vagliare.

Forse perché gli elementi di quell'incipit ce li avevo davanti agli occhi.

Scrivendo in pausa pranzo, tra la mensa e la saletta in cui mi ritiro quando devo rileggere ad alta voce per la fase di correzione, li potevo persino indicare. Ecco lì la macchinetta del caffè. Per di qua c'è l'attaccapanni. E basta infilare la testa oltre la porta dell'ufficio per trovare fogli A4 stampati che possono benissimo diventare, nella mia mente, il comunicato dell'incipit.

È fin troppo facile guardarsi attorno e trovare ispirazione in quanto ti circonda. Metti le ali e ingigantisci una lucertola, ed ecco un drago. Aggiungi un corpicino umano a una farfalla e ti basta per immaginare una fata. Lo faccio anch'io, da sempre, anche con situazioni ben più normali. Un esempio? Nel periodo in cui stavo scrivendo il primo racconto, "Sentirsi", avevo cominciato a ridurre la quantità di zucchero nel caffè. Mai arrivata a ridurlo completamente, ma è da lì che proviene quel "La prima volta è stato per sfida; ora, da quando c’è lui, dello zucchero non ha più bisogno."

Scegliere di prendere spunto dalla realtà per ambientazione e piccoli dettagli modificati e romanzati è semplice, e risolve il problema principale che ha invece chi tratta di argomenti e luoghi molto lontani da quelli che ben conosce: la necessità di fare ricerche e informarsi in modo approfondito. Ma se risolve un problema, ne crea altri. Uno è che potresti dare per scontati elementi che ti sono fin troppo noti e quindi vivi come "normali", mentre per chi non conosce quel luogo, stile di vita, professione e cultura non lo sono affatto. Un altro, molto pericoloso e frequente nei giovani autori, è che potresti inavvertitamente "scriverti" nella storia. Ovvero identificarti troppo in un personaggio, al punto da farlo diventare una tua versione rivista e migliorata (più forte, più abile e capace, più popolare, carismatico, dotato di magia o di ascendenze nobili ecc.). Un tale personaggio, se non controllato e ridimensionato, finisce per offrire a chi lo scrive una rivalsa, sulla pagina, rispetto ai grandi o piccoli problemi della vita; mentre risulta noioso o persino irritante per chi legge. Perché non c'è nulla che lo metta davvero in difficoltà, non c'è problema che non riesca subito a risolvere con le sue mille doti, non c'è conflitto nella storia che lo riguarda.

Se ti interessa approfondire l'argomento, ti basta cercare "Mary Sue" come viene generalmente chiamato un personaggio di questo tipo, per trovare articoli dettagliati e persino test per comprendere se un tuo personaggio si avvicina al cliché.


Tornando all'incipit di lunedì, per evitare il rischio di avvicinare troppo la storia alla realtà, ricordo di aver usato tre accorgimenti.

Uno, non ho scritto di nulla che sia davvero accaduto nel mio ufficio (anche perché, in generale, schivo come la peste le storie autobiografiche...).

Due, seppure li avessi davanti agli occhi, ho immaginato una macchinetta del caffè diversa, una diversa mensa e attaccapanni, un ufficio organizzato in un altro modo e popolato da differenti persone.

Tre, ho analizzato gli elementi dell'incipit quasi fossi un'investigatrice, cercando di metterli insieme e ricostruire da quei pochi dettagli il perché di quella luminosità nello sguardo e di quel sorriso, la relazione tra i personaggi, l'incidente che ha portato all'ingessatura e soprattutto la più misteriosa delle questioni: che cosa diavolo dice la scritta storta sul gesso? Il tutto rapportato al "Segreto star bene" del tema/titolo.


Niente spoiler e trame multiple per stavolta. Lunedì prossimo, stando comodamente a casa, potrai entrare in ufficio e scoprire quale segreto ho immaginato.

lunedì 19 dicembre 2016

Un segreto star bene

Questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco il quarto tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Un segreto star bene

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.
Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere.
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura.
(Prosegui a leggere il racconto.)  


Un normale inizio di giornata in ufficio, a parte... ingessatura? E che cosa dice la scritta?
Non anticipo nulla, tu che ne pensi, cosa può essere accaduto nella storia che tu avresti potuto raccontare?

sabato 17 dicembre 2016

Gibigiana

Finora ho scelto parole che, seppure inconsuete e usate di rado anche da me, avevo comunque già sentito o letto in un contesto. Oggi invece ho preso spunto da una parola che non mi era nota, e che non ho mai visto usare in una frase. Un sentito grazie a Giulia per avermela fatta conoscere.

Gibigiana [gi-bi-già-na] o gibigianna s.f. region. Lampo di luce riflessa su una superficie da uno specchio, dall'acqua ecc.

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Leggerne il significato su un dizionario (in quello che ho a casa si faceva riferimento a una superficie di vetro), mi ha fatto venire in mente la descrizione di un paesaggio. Uno che fosse splendente, magico, unico. Benvenuto nel mondo di Oltreconfine.


La prima volta che vidi la città di Laeverth fu da lontano, oltre la lunga pianura, e la gibigiana del sole sulle sue torri mi ferì gli occhi. Piansi, perché mi ricordava il riflesso mutevole sui torrenti che scorrevano vicino a Escalona, e il gioco crudele dei miei compagni di sangue puro, che a differenza di me fin da bambini sapevano plasmare con la magia giochi di luce, lampi e illusioni, e non esitavano a mostrarmeli.
Ma Laeverth dalle bianche torri intarsiate di vetrate scintillanti come pietre preziose, dalle cupole rivestite d'oro, dalle eleganti statue di candido marmo che ornavano ogni palazzo non era stata edificata con la magia. Era opera dell'ingegno e delle mani dell'uomo, costruita con il tempo e con il sudore, e per questo era ai miei occhi ancora più preziosa. Cosa potevano saperne gli elfi della bellezza conquistata con la fatica, loro che ottenevano tutto con un semplice schiocco di dita?
Non mi stupì scoprire che gli esseri umani la chiamavano la città di cristallo, la meraviglia del mondo.
Sono passati anni da allora.
Adesso le vetrate infrante e sepolte nella polvere non rimandano più alcuna gibigiana ai raggi del sole, le torri crollate ostruiscono le strade, le cupole si sono spogliate dell'oro e le statue giacciono a terra, monche e sfregiate. Io sono l'ultimo abitante di una città morta, e mi nascondo dai demoni che vagano nella notte.
Potrei andarmene; ma rimango, perché ho fatto una promessa all'ultima regina di Laeverth.
Io sono Jossintaur degli Erranti, il Custode del Cristallo Spezzato.

giovedì 15 dicembre 2016

Il flashback e l'arte del ritorno

Non sempre la storia che stai raccontando, o leggendo, rispetta l'ordine in cui si sono svolti i fatti. Può partire da metà, tornare indietro, poi proseguire da dove si era interrotta. Può cominciare dalla fine prima di spiegare tutto ciò che ha portato a quel momento. Può saltare di tempo in tempo, ripetere più volte lo stesso istante visto da diverse prospettive, confondere il lettore pur di nascondere un dettaglio che svelerà solo al momento del colpo di scena.

L'ordine cronologico degli eventi in una storia si chiama fabula. La fabula è l'ordine naturale in cui sperimenti il tempo: passato, presente, futuro. La sequenza logica in cui ogni cosa avviene. Hai fame, mangi, sei sazio. Urti un vaso, il vaso cade, si rompe.

L'intreccio, invece, è il modo in cui chi scrive ha scelto di raccontare la storia. Può essere identico alla fabula, leggermente diverso, o completamente stravolto. Mangi; avevi fame, e ora sei sazio. Il vaso si è rotto perché è caduto, ed è caduto perché l'hai urtato.

Uno dei modi in cui fabula e intreccio si possono discostare è l'inserimento di un ricordo nella narrazione tramite la tecnica del flashback. Il personaggio o il narratore che ricorda quegli eventi non li sta semplicemente raccontando a qualcun altro: li sta rivivendo, come se fossero presenti in quel momento. E tu che leggi, li rivivi con lui o con lei, completamente immerso in quel tempo passato.

È stato il titolo, o tema di Giusi Marchetta, "Un dolce ritorno", che mi ha ispirato a scrivere una storia che si svolge nell'arco di pochi minuti, quasi completamente costituita da un lungo flashback. Così come con "Sentirsi", non ho resistito all'idea di giocare con le parole, e ho inserito nel racconto il ritorno in tutti i modi che riuscivo a immaginare. Ritorno nella trama, come il ritorno a casa del protagonista. Ritorno nella tecnica di narrazione, come flashback e rievocazione del passato. Ritorno nella struttura del racconto, come ripetizione dell'incipit alla fine, solo più ampliato, ogni frase spiegata da una breve digressione. Ritorno nella presenza di un simbolo, la torta, che viene ripresa più e più volte, costruendo un filo invisibile che collega ogni evento e tempo del racconto. Lo avevo già fatto nel racconto Piccole donne, solo che lì i simboli ricorrenti erano molti, ripetuti ciascuno per due o tre volte: il bianco e nero degli scacchi e della fotografia, la siepe di biancospino, i pedoni, il libro "Piccole donne" di Louisa May Alcott. Ma con un singolo simbolo, il ritorno mi pare ancora più efficace.

La seconda idea con cui ho costruito Buon compleanno è stata l'accostamento di un mondo reale a un mondo fantastico, come può esserlo Alfheim, la terra degli elfi nella mitologia nordica; e il rovesciamento di questi due ai tuoi occhi. Perciò nel racconto la realtà è un "mondo di antiche rovine e castelli che ancora portano i segni di epiche battaglie", "verdi foreste, le macchine volanti e le città di altissime torri", "poco più che una leggenda, una favola in un libro per bambini". La madre umana, esperta in una "particolarissima magia", quella del ricordo, ha "sguardo liquido, da gatta", ed è "esile e fragile quanto un giunco; quasi un fantasma. Non gli pare reale". Di contro, ad Alfheim "non c’è avventura in quello che chiama “il mondo reale”, "fatto di eterno presente, nessuno festeggia i compleanni", e il padre elfo ha occhi "profondi, immutabili, normali".

Sono riuscita a creare quest'illusione, a farti credere nel rovesciamento dei due mondi per poi sorprenderti con la rivelazione finale? Non lo so. Quello che penso, nel rileggere il racconto a distanza di anni, è che sono stata fin troppo delicata, parca di dettagli, che avrei potuto calcare di più la mano per rendere molto più netta la distinzione tra i due mondi. Alfheim molto più concreta e reale, aggiungendo le storie del padre a cui ho solo accennato, rendendola banale nelle parole di un elfo che la vive come quotidiana normalità. La realtà che conosciamo ancora più evanescente e fiabesca nei ricordi del protagonista, che svaniscono mentre quella parte del suo cervello "si addormenta".

Oppure avrei potuto far prendere a questo racconto una piega diversa. C'è un punto, un punto esatto della storia, quello in cui il protagonista spiega che ha dovuto aggiungere particolari inventati per parlare ai suoi coetanei del mondo di suo padre. Adesso, ogni volta che lo rileggo e arrivo a quel punto, mi chiedo se non sarebbe stata una storia più interessante quella in cui uno dei due mondi sembra appartenere a un universo fantasy; fino alla rivelazione che li riporta entrambi sul piano della realtà, solo che è una realtà differente come può essere quella di due nazioni, culture e popoli umani molto distanti tra loro.

Per quanto tra un racconto fantasy e uno realistico io faccia il tifo per il primo, non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe stata quella storia non scritta.


Come al solito riporto dal racconto qualche frase che mi piace particolarmente. È stato più difficile rintracciarle in questo caso, mi pare che non ci siano delle "primedonne" che spiccano come significative e gradevoli in se stesse, quanto piuttosto un lavoro di squadra nell'incastro che forma ogni paragrafo.

Quella particolarissima magia in cui sua madre è esperta, l’arte di evocare ricordi con un suono, un profumo o un gusto.
Lui, suo padre, che l’ha amata, ma che tuttavia ama troppe cose per potersi soffermare su una soltanto.
Lei sorride, e le piccole rughe sul suo volto sono testimoni del tempo trascorso, di diciannove torte preparate e mai mangiate, della costanza di chi ama pochi al mondo, ma con tutta l’anima.

A lunedì per il prossimo incipit, il quarto della serie!
E come sempre, se vuoi dirmi quello che ti è piaciuto, non ti è piaciuto, avresti scritto in modo diverso o non hai capito del racconto, ti invito a lasciarmi un commento qui sotto.

lunedì 12 dicembre 2016

Buon compleanno

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      “Assaggia.”

      Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.

      Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.

      Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.

      Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.

      Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.

      “Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”

      “Dimmelo tu.” Lei incrocia le braccia sul tavolo, appoggia il mento sugli avambracci e lo osserva con quello sguardo liquido, da gatta. Non sa come ci riesce. Lui non c’era mai riuscito: ha gli stessi occhi di suo padre, profondi, immutabili, normali.

      Lui scuote la testa, non è più abituato ai colori e ai sapori di quella terra. È stato lontano troppo a lungo. Ha bisogno di un altro assaggio prima di capire, prima che la magia abbia effetto. Quella particolarissima magia in cui sua madre è esperta, l’arte di evocare ricordi con un suono, un profumo o un gusto.

      E all’improvviso ha cinque, sei, sette, otto anni. È a tavola davanti a una torta di compleanno, e c’è suo padre. Lui c’è sempre al suo compleanno. È l’unico giorno in cui si fa vivo, ormai.

      Suo padre è lì per infilare il cucchiaino nella parte bianca della farcitura e assaggiarla con lui.

      “Papà resta con me, per favore” gli chiede con angoscia prima di addormentarsi.

      “Mi dispiace. Non è il mio mondo, questo.”

      Lei, al suo fianco, è esile e fragile quanto un giunco; quasi un fantasma. Non gli pare reale, non gli pare mai reale quando c’è di mezzo lui. Lui, suo padre, che l’ha amata, ma che tuttavia ama troppe cose per potersi soffermare su una soltanto. Ha amato quel mondo di antiche rovine e castelli che ancora portano i segni di epiche battaglie, ha amato le sue verdi foreste, le macchine volanti e le città di altissime torri. Ha amato lui e sua madre, ma non abbastanza per restare.

      Ha nove anni ed è in volo con sua madre verso la grande città al di là del mare. Le sue torri di cristallo e d’argento sono le più alte che abbia mai visto e lo fanno sentire piccolo, una formichina in una terra di giganti.  È tanto vasta che ha rischiato di perdersi in quella terra, e ha paura; per consolarlo, sua madre lo accompagna in una bottega di dolci e gli compra una fetta di torta. Lui tuffa il cucchiaino nella parte bianca della farcitura, ma non ha lo stesso sapore senza suo padre.

      Lui c’è, compleanno dopo compleanno, a dieci, undici, dodici e tredici anni. In questo, almeno, non lo delude mai. A quattordici anni, mentre assapora la torta assieme a suo padre con i gesti di sempre, ancora non sa che quella sarà l’ultima volta. Lo scopre la sera, quando suo padre gli dice che non tornerà e lui litiga con sua madre. Vuole seguirlo in quel mondo che ha dovuto inventare per i suoi coetanei, per spiegare loro perché è diverso o perché suo padre si fa vivo solo ai compleanni. Quel poco che è riuscito a sapere gli sembra banale: a sentire suo padre, non c’è avventura in quello che chiama “il mondo reale”. Non gli crede, perciò ha dovuto inventare, aggiungere piccoli particolari qua e là per rendere le sue storie interessanti.

      Nessuno, ovviamente, aveva mai creduto a lui.

      A quattordici anni non gli bastano più i racconti, vuole sapere che cosa c’è di vero e se suo padre gli ha nascosto qualcosa. Più di tutto, però, non lo vuole perdere. Sua madre, invece, non vuole perdere lui.

      Litigano, tutti e tre; e lei, fragile com’è, non può fermarli. Gli infila però un biglietto nello zaino, svelta: “Ti aspetterò per il tuo compleanno. Torna. Ti preparo la torta.”

      Quando lo scopre lui lo accartoccia con rabbia, però lo conserva. Non torna indietro, né per il quindicesimo compleanno, né per il successivo o quello dopo ancora. Nel mondo di suo padre, fatto di eterno presente, nessuno festeggia i compleanni. E anche lui, a poco a poco, dimentica. Dimentica i sapori, dimentica i colori dell’altra terra, e una parte di lui si addormenta. L’altro mondo diviene poco più che una leggenda, una favola in un libro per bambini. Le sue torri, le sue foreste, le sue rovine gli sembrano ora fantasie irreali. Gli sembra di aver immaginato anche lei, così diversa dalla gente di suo padre; eppure qualcosa di lei sopravvive nei suoi tratti delicati, nelle sue orecchie con appena un accenno di punta. Lì tutti possono vedere quanto sia diverso da loro, non solo i bambini.

      E niente è come lo aveva immaginato, ma non sa come tornare indietro. Almeno, non fino ad ora.

      Ha trentaquattro anni, ma non li dimostra: il vantaggio dell’essere figlio di due mondi. È seduto al tavolo della cucina di sua madre. Tra di loro, una torta.

      “Assaggia.”

      Il cuore gli batte forte come quand’era bambino e non sa cosa farsene delle sue braccia. Ha trascorso troppo tempo ad affinare la magia che gli scorre nelle vene, e la gente di suo padre ha modi di sentirsi che non implicano il tatto. Non sa che farsene, così le tiene incrociate sul tavolo.

      Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso, così tante che proprio non sa da dove iniziare.

      Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. “Sono tornato.” Invece sono stati zitti.

      Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso. Suo padre, che l’aveva lasciato senza morire. Non muore mai la gente di suo padre: semplicemente, un giorno decide che ha visto abbastanza, amato abbastanza, e sparisce dal mondo, così, senza salutare.

      Quando porta il cucchiaino alla bocca il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata. E lo era davvero, dopo vent’anni trascorsi nell’eterno presente di Alfheim.

      “Lo so perché sei venuto” dice lei. Lo sa. Sa che ha trovato la strada di casa soltanto quando si è spezzato il legame che lo teneva avvinto a quella terra; sa che suo padre non c’è più.

      Nello stesso momento lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”

      Un istante dopo, la magia tutta umana del ricordo fa il suo corso. Non ha bisogno di rispondere, ora sa. Panna e cioccolato, la sua preferita da bambino. Ricorda di avere un biglietto ingiallito da qualche parte, in tasca o nello zaino. Lascia il cucchiaino per cercarlo, lo trova e lo dispiega sul tavolo. Lei sorride, e le piccole rughe sul suo volto sono testimoni del tempo trascorso, di diciannove torte preparate e mai mangiate, della costanza di chi ama pochi al mondo, ma con tutta l’anima.

      “Buon compleanno” gli dice. “Bentornato nella terra degli uomini. Bentornato a casa.”

      E ora, lì dove il tempo scorre, ha tutto il tempo di raccontare e ricordare.

sabato 10 dicembre 2016

Fugace

Un'altra scelta difficile questa settimana. Non posso dire che mi piaccia il suono di questa parola, al contrario, mi fa venire in mente qualcosa di tozzo e goffo... ma mi piace il suo significato, e l'etimologia facilmente rintracciabile in qualcosa "che fugge".

Fugace [fu-gà-ce] agg. Di breve durata, passeggero. Effimero.

Diorama, di viviannedraper, licenza Creative Commons. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Un aggettivo così vago poteva dare origine a un'infinità di racconti con un'infinità di personaggi. Per mia fortuna, è bastata la radice della parola a togliermi dall'imbarazzo della scelta e ridurre le possibilità a una sola.


Avevo sempre saputo quale dei tre occhi della morte si sarebbe aperto per me. Solo, non avevo immaginato che lo avrebbe fatto così presto.
Mentre quei due energumeni di guardie mi scortavano verso il patibolo non potevo far altro che cercare di rallentarli il più possibile e godermi i miei ultimi istanti. Sapete, pensare a quanto fosse fugace la vita e idiozie del genere. Avevo già tentato tutti i trucchi che conoscevo, dallo "svicola e scappa finché non ti riprendono", al "colpisci e finisci massacrato di botte", al sempre classico "nega l'evidenza fino all'inverosimile".
Ma Torris Znar era una città di mercanti che non vedeva di buon occhio i ladri che non fossero quelli che mercanteggiavano in piazza, così nessuno si era bevuto la mia storia del "Quello è l'aeroscafo del governatore? Ma ne siete proprio sicuri? Io l'ho trovato abbandonato in mezzo al deserto, non ne avevo idea!"
Me ne andavo strascicando i piedi e lasciando che mi trascinassero a peso morto verso il mio destino, quando li vidi. L'ometto col turbante e la creatura in catene che stava spingendo sul palco, verso il banditore, pungolandola a ogni passo. Sotto gli stracci s'intravedevano lunghe cicatrici chiare e squame nere spezzate, testimoni di quante volte avesse provato i miei stessi trucchi senza riuscirci, eppure quella creatura conservava lo sguardo ferino, selvaggio, e la dignità di chi non era stato piegato. L'ometto si distrasse al passaggio dei miei forzuti accompagnatori che sbraitavano per aprirsi la strada tra la folla, e si unì al coro generale di "a morte il ladro!".
Fu una fortunata e benedetta coincidenza per entrambi. Al mutaforma serviva un diversivo, a me qualcuno che si avventasse sulle guardie con la ferocia di una tigre.
Ci guardammo, e non ci fu bisogno di parole. Passare da una vita fugace a una vita in fuga fu rapido quanto cancellare quelle due lettere da una scritta sulla sabbia.

giovedì 8 dicembre 2016

Bentornata ispirazione!

Ci sono volte in cui la mappa non serve. Volte in cui si conosce la strada, in cui le domande hanno già una risposta.

E la penna scivola rapida sul foglio, lasciando una traccia indelebile.

Scommetto che sono queste le volte a cui pensi quando immagini qualcuno che scrive. La magia, la libertà, la creatività senza freno, senza complicati stratagemmi o metodi tortuosi.

L'autore, la penna e la storia.

E a volte è davvero così, almeno nella fase della prima stesura, se riesci per un momento a far tacere quella parte critica in te che cerca la perfezione in ogni frase. Salvo poi rileggere a distanza anche di poche ore e scoprire che è tutto "orrendo, da rifare, ma come ho fatto a scrivere robaccia del genere?"

Il critico non tace mai a lungo.

Ma ci sono volte, dicevo, in cui scrivere è innamorarsi di un'idea, di una storia, così tanto che non si può sopportare di tenerla nella testa. E allora deve uscire fuori, deve essere messa su carta e trovare la sua strada nel mondo.

Quando ho letto la domanda che concludeva il terzo incipit, "Cos'è?", stavo già incominciando a scoprire la storia di quel ritorno, raccogliendo indizi tra le righe. La torta. Il padre. Le tante cose non dette. Lei.

Da quale lei si torna per mangiare una torta che fa pensare al padre? La risposta per me era più che ovvia.

E così avevo già i due protagonisti, lei e lui. Con un passato in comune da ricordare, e tante cose da dirsi, oppure no.

Più quella "parte del cervello che credeva addormentata", un elemento troppo intrigante per ignorarlo.

L'appuntamento è come al solito a lunedì per il racconto, ma se sei curioso, anche se in questo caso non ho fatto il solito elenco di trame possibili, ho ugualmente un indizio sul tipo di racconto che ho scelto.


lunedì 5 dicembre 2016

Un dolce ritorno

Come già scritto, questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco il terzo tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Un dolce ritorno

“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”
(Prosegui a leggere il racconto.)  

Arrivata a questo punto, ormai mi ero rassegnata al fatto che avrei trovato ogni singolo incipit svolto al tempo presente. Questo in particolare è composto da una sequenza di azioni, sensazioni e un inizio di dialogo. Nulla di eclatante, se non per quella domanda, “Cos'è?”, che apre un universo di possibilità

Solo che stavolta, io...

No. Penso proprio che rimanderò ogni spiegazione a giovedì!

sabato 3 dicembre 2016

Elisio

Ho una predilezione per la mitologia, che spesso inserisco nei miei racconti. Così non potevo esimermi, arrivata alla E, di pensare a questa parola.

Elisio [e-lì-sio] agg., s. (pl. m. -si) 1. agg. lett. Dell'Elisio. 2. s.m. (iniziale maiusc.) Nella mitologia greca e romana, giardino di delizie dove dimorano dopo la morte gli uomini che sono stati pari agli dei, detto anche Campi Elisi o Elisi.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non è stato difficile immaginare a quali personaggi affidare questo frammento di racconto, visto che già c'era un riferimento, nella loro storia, a una figura mitologica greca, quella della driade.


Quando Lily sprofondava nella terra, non era più Lily. La sua consapevolezza, o il suo spirito, metteva radici, si espandeva, si diffondeva come acqua nel terreno, saliva con la linfa nei tronchi, fioriva nelle gemme. Sentiva file di formiche percorrerle la corteccia, i ragni tessere le loro tele tra i rami, il calore del sole sulle sue foglie. Più sotto, in profondità, cercava i semi, li accarezzava, e quando si schiudevano come forzieri, si intrecciava alla neonata piantina per aiutarla a crescere, rapida, più rapida.
Sempre, nel tornare nel suo corpo, si sentiva limitata, piccola, stretta. Eppure non era sempre stato così. C’era stato un tempo in cui ne aveva avuto paura, in cui nemmeno conosceva la parola Driade.
Di fronte a lei, oltre il cerchio di fiori che profumava la radura, Mirto Saverio Carrari ebbe un fremito e Lily capì che anche lui era tornato.
– Mi chiedo se esista davvero l’Elisio – mormorò Mirto, a occhi chiusi.
Lily sollevò le mani affondate nel terreno e le strofinò tra loro. – Elisio? – gli chiese.
– Sì. Il paradiso degli eroi dell’antica Grecia. – Mirto aprì gli occhi e li rivolse al cerchio variopinto di gigli, rose, tulipani e gerbere attorno a Lily. – Sai, pare fosse un giardino.
– Tu e i tuoi vecchi miti greci… – Lily scosse la testa.
Mirto avanzò a piedi nudi e superò la fila di fiori davanti a sé senza calpestarli. – Non denigrarli. I miei vecchi miti greci ti hanno aiutato con quel tuo problema, ricordi? Non sei pazza.
– Già. Non sono pazza – ripeté Lily, mentre Mirto si inginocchiava di fronte a lei. – In ogni caso, non ho voglia di morire per scoprire se esista davvero.
– Non credo ce ne sarà bisogno – ribatté Mirto con un sorriso. Le afferrò le mani, accarezzò col pollice il marchio delle tre rose che li accomunava e si protese a pretendere il suo assaggio di Elisio.

giovedì 1 dicembre 2016

Trasmettere emozioni

Edgar Allan Poe ha scritto i suoi racconti a partire dall'effetto, o emozione, che intendeva suscitare nel lettore (in genere, a giudicare dal risultato, una sfumatura di inquietudine, ansia, paura, terrore, o disperazione). Quando per la prima volta ho letto del suo metodo in un saggio, ricordo di aver pensato che era un modo di procedere estremamente difficile, e che io non ci sarei mai riuscita.

Ancora oggi è qualcosa che non riesco a fare.

Di solito, se non ho uno spunto esterno a cui sono obbligata ad appoggiarmi (come sono stati ad esempio gli incipit del concorso) comincio con una idea di trama, un personaggio, una situazione. O anche una singola frase. Solo dopo arrivo a riflettere che effetto può fare ciò che ho scritto a chi lo legge, modificare il racconto se non è ciò che avevo in mente, o amplificare quell'effetto se è ciò che volevo.

Il racconto di questo lunedì, Piccole donne, non è affatto facile  per me da valutare obiettivamente e da commentare. Ho cominciato più volte a scrivere queste righe, per poi cancellare tutto e ripartire da una prospettiva diversa. La scrittura come metodo per ricordare, perché è importante scrivere di ciò che si conosce, la mia ritrosia a mettere su carta qualcosa di molto vicino a essere autobiografico, come mai ho scelto, tra le varie trame fantasiose che avevo ideato, quella in apparenza più semplice e banale...

Ma niente di tutto questo spiega come mai, anche a distanza di anni e dopo che lo conosco ormai quasi a memoria, ogni volta che lo rileggo mi vengono almeno almeno gli occhi lucidi. Io posso dire che è perché quella persona, quella piccola grande donna, l'ho conosciuta davvero. E anche se tanti dettagli sono diversi, vuoi per rispettare l'incipit, vuoi per esigenze del racconto, mi è impossibile non notare quanto di lei ho messo in quel personaggio.

Ma questo non spiega come mai il racconto riesca a commuovere anche qualcuno che non ha mai conosciuto la nonna a cui mi sono ispirata per scriverlo. Posso razionalizzare, e ricordare che ci sono esperienze universali che tutti prima o poi facciamo. I dettagli di una specifica persona passano in secondo piano, se leggere il racconto ti riporta alla mente qualcuno a cui hai voluto bene, e che oggi non c'è più. Oppure posso ricordare le parole di Robert Frost:
Nessuna lacrima nello scrittore, nessuna lacrima nel lettore.
Questo sembra essere il caso diametralmente opposto.


Fammi sapere se sono riuscita a trasmetterti un'emozione con il mio racconto. Ti lascio con le mie tre frasi preferite, a lunedì per il prossimo incipit!

Caterina dice che allora, all’inizio, è tutto possibile; poi succede qualcosa, la storia si guasta, e non si può più tornare indietro.
Non c’è posto per il rosso, negli scacchi.
E dev’esserlo stato, non solo perché sorridono, ma anche perché la gente non vuole avere una fotografia di quando è triste.

lunedì 28 novembre 2016

Piccole donne

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose. Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scacchiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita dura un’ora o più.

      “Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta.

      “Si invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene. Le piace sentirsi buona, pura, pulita. Come una scacchiera con i pezzi ben allineati prima di giocare, o un foglio bianco su cui nessuno ha ancora scritto. Caterina dice che allora, all’inizio, è tutto possibile; poi succede qualcosa, la storia si guasta, e non si può più tornare indietro.

      Io protesto senza troppa convinzione, come ogni volta, poi come ogni volta cedo e prendo il nero. A me piace farla felice.

      Caterina sorride e si sdraia a pancia in giù sul pavimento, senza attendere che mi sieda muove uno dei suoi cavalli. Scuoto la testa. La giovinezza non ha pazienza, vuole subito entrare nel vivo delle cose. Io mi siedo sul cuscino, con le gambe allungate di lato, e sposto uno dei miei pedoni. Mi sono sempre stati simpatici, così piccoli e tutti uguali, eppure ognuno sulla sua riga, dritto per la sua strada. La gente tende a sottovalutarli, preferendo i pezzi più “importanti” e con più libertà di movimento sulla scacchiera. Per me invece, perdere anche soltanto uno di quei piccoli soldati è quasi doloroso.

      Caterina risponde alla mia mossa. Io non le bado, preparo la mia strategia con la saggezza degli anni, certa che perfino lei non oserà rischiare, non così presto. Infatti preferisce non rovinare la storia, o la partita.

      All’inizio giochiamo in silenzio, come al solito, godendo ciascuna della presenza dell’altra. Fuori dalla finestra la siepe di biancospino, coi fiori bianchi odorosi di maggio, ci protegge come le mura di un castello incantato, lasciandomi credere che questo sia davvero il suo – il nostro – piccolo momento di piacere. Fuori di qui, altrove, la vita guasta le storie. Qui no, non di mercoledì pomeriggio almeno.

      Caterina fa la sua mossa e poi mi guarda, fremendo d’impazienza. Si calmerà, più avanti, lo so; per ora, ogni mossa le sembra una scelta facile. Sposto uno dei miei alfieri per metterla un po’ in difficoltà.

      “E ora che dici?” le chiedo con un sorriso sornione. Lei sbuffa, si puntella sui gomiti e appoggia il mento sul palmo della destra, scrutando la scacchiera. Mi pare quasi di vedere, dietro i suoi occhi chiari, tutte le mosse che sta considerando assieme alle mie possibili risposte. Distolgo lo sguardo con discrezione, voglio lasciarla pensare in pace. Sul comodino, accanto al letto, la copia di “Piccole donne” che le ho regalato per il suo compleanno sta prendendo polvere.

      “Sei ancora ferma a pagina novantasette?” le chiedo.

      Lei annuisce con un mugolio disperato. So cosa avviene a pagina novantasette: a casa ho una copia della stessa edizione. A pagina novantasette, Amy brucia il libro di Jo.

      Per Caterina, che si era innamorata a prima vista della parola scritta, che a poco più di sei anni aveva deciso di voler fare la scrittrice, per Caterina che era felice ogni volta che prendeva in mano la penna o che leggeva una storia, il gesto di Amy era stato un affronto imperdonabile. E come Jo si era arrabbiata molto con la piccola donna, di quella rabbia ostinata di cui sono capaci soltanto i bambini. Fosse stata una sua amica, Caterina avrebbe smesso di parlare con Amy; dato che era un personaggio in un libro, aveva semplicemente smesso di leggere.

      “Quanto tempo è passato? Dovresti fare la pace con lei” le dico. “Mi piacerebbe che lo finissi. Così potremmo parlarne.”

      Caterina non risponde. So di aver toccato un tasto dolente. Eppure è un peccato: le ho regalato quel libro perché ci unisse, non perché ci separasse.

      Siamo entrambe, in un certo senso, piccole donne. Anche se lei non lo rimarrà ancora a lungo.

      Caterina a dodici anni già sembra un’adulta in miniatura. Indossa sempre quei vestiti aderenti, moderni, che io alla sua età non avrei mai potuto immaginarmi addosso. Anzi, me ne sarei vergognata. Oggi ha una blusa bianca, scollata, e una minigonna in jeans. I piedi, fasciati in collant color pelle, dondolano nudi al di sopra della schiena. Sulla bocca imbronciata ha un velo di lucidalabbra rosa; il massimo che le sia permesso, per ora. La immagino guardare i trucchi di sua madre con desiderio e trepidazione, come tutte le bambine della sua età. Come facevo anch’io in un altro tempo, quando però i trucchi erano pochi e i soldi da spendere in simili lussi ancora meno. Guardavo mia madre, riflessa nello specchio, tingersi le labbra di rosso con parsimonia e indossare la collana di perle. Quel rossetto, quelle perle, erano tesori preziosi, da usare soltanto in occasioni speciali. Era bella, mia madre. Io la guardavo e mi immaginavo allo specchio come lei, bella e alta come non sarei mai stata. Dove è finito quel tocco di rosso? È sbiadito in una fotografia in bianco e nero, ma è vivo più del presente nella mia memoria.

      All’improvviso mi viene voglia di raccontarglielo, perché qualcuno dopo di me lo possa ricordare. Caterina ascolta, annuisce condiscendente; però, dopo poco, fa: “tocca a te, nonna.”

      Non c’è posto per il rosso, negli scacchi.

      Mi sono distratta. Le chiedo di mostrarmi la sua ultima mossa, lei me la indica con un dito. Mi sembra impossibile ma già ci sono dei pezzi fuori dalla scacchiera, sia neri che bianchi. Lei ha sacrificato quasi tutto l’esercito di pedoni a cui sembrava tenere così tanto, ma almeno ha ancora entrambi i cavalli, i suoi preferiti. Dei neri, mancano all’appello un cavallo, un alfiere, e – ahi – due dei miei piccoli, coraggiosi pedoni. Li accarezzo, vorrei quasi sussurrare loro: “siete stati bravi, non vi dimenticherò”.

      Caterina mi guarda, in attesa. Rifletto sulla mia prossima mossa e nel frattempo lei si rilassa, e come sempre a questo punto diventa ciarliera. Mi racconta della scuola, delle amiche, del fidanzato che ancora non ha ma che spera di conquistare, delle storie che ha scritto. Dice che vuole leggermene qualcuna, forse mercoledì prossimo, o quello dopo, quando riesce a finirle. Dice che mi piaceranno.

      Quando la partita termina con Caterina che dichiara “scacco matto”, mi sembra impossibile che sia già passata un’ora. Mi sembra impossibile che sia già passata una vita intera. Fino a pochi istanti fa, ero io ad avere dodici anni e a giocare a scacchi con mio padre. Il tempo scorre così in fretta.

      Lei si alza da terra prima di me e viene a darmi una mano. Io sgranchisco le mie gambe storte, poi mi faccio aiutare a rimettermi in piedi. Siamo entrambe piccole donne, ma lei ormai mi ha superata in altezza. Non posso che esserne orgogliosa. Caterina diventerà bella e alta come mia madre, come la donna di cui porta il nome, e il solo pensiero mi procura un piccolo brivido di piacere.

      “Già non vedo l’ora che sia mercoledì prossimo” mi confessa ansiosa. Un po’ la capisco: una settimana è un periodo di tempo molto lungo quando si ha la sua età. Per me invece non è che una manciata di momenti.

      Prima di congedarmi accenno al libro sul comodino. “Per favore, perdonala. Fallo per me.” Non le dico che è solo un personaggio in un libro, che succederanno cose più gravi nella sua vita per le quali varrà la pena arrabbiarsi. Lei lo sta prendendo molto sul serio, e va bene così, alla sua età.

      Caterina mordicchia il labbro inferiore velato di rosa. “Jo la perdona?” mi chiede.

      “Oh, furbetta! Devi scoprirlo da sola” faccio, mentre mi accompagna alla porta. La saluto, sperando ardentemente che la curiosità abbia il sopravvento e che lei riprenda a leggere.


      È mercoledì. Caterina è appena tornata dalla chiesa. È vestita di nero; sembra uno dei miei pedoni. Lei, che non ha mai sopportato il nero.

      Tira fuori dall’armadio la scacchiera, prepara i cuscini, dispone con cura ogni pezzo, lentamente, anche se già sa che stavolta non verrò. Accarezza i suoi pedoni bianchi, muta. Il suo piccolo esercito del bene. Poi inizia da sola, muove il cavallo, attende. Guarda il cuscino vuoto. Fuori dalla finestra, la siepe di biancospino non può più proteggerla. È successo qualcosa, la magia si è spezzata, la storia guastata. Con un gesto rabbioso Caterina butta all’aria tutto. Bianco e nero si confondono sulla scacchiera, entrambi gli eserciti abbattuti in una singola mossa.

      Non ha più voglia di giocare, va a sedersi sul letto. Sul comodino, la copia di “Piccole donne” sta prendendo polvere. Caterina l’afferra, passa una mano sulla copertina. La mano le si riempie di polvere e le ricorda una frase che ha sentito oggi, in chiesa. Si spaventa, la pulisce in fretta sull’abito nero e apre il libro. A pagina novantasette, per tenere il segno, c’è una fotografia in bianco e nero che ritrae una donna alta, bella, accanto a una bambina della sua età. Difficile indovinare i colori di un tempo negli abiti lunghi e sui loro volti. Difficile indovinare che cosa pensavano, cosa stavano facendo in quello che a lei sembra un loro piccolo momento di piacere. E dev’esserlo stato, non solo perché sorridono, ma anche perché la gente non vuole avere una fotografia di quando è triste.

      Caterina mette da parte la foto e comincia a leggere ad alta voce, come facevo io per lei quand’era piccola.
 
       Finalmente ha fatto pace con Amy.