sabato 30 dicembre 2017

Tabarro

Questa parola un tempo era di uso comune, ma adesso con la scomparsa del capo d'abbigliamento si sta perdendo. Una curiosità: mi è stato raccontato di recente che a contribuire alla scomparsa dei tabarri siano state le automobili. Era un capo utile per tenersi al caldo a piedi, a cavallo o in bicicletta... ma un po' scomodo da usare guidando!

Tabarro [ta-bàr-ro] s.m. 1. Ampio e pesante mantello da uomo in uso nel passato. 2. scherz. Cappotto particolarmente pesante.

Hood, di Gerardofegan, licenza Creative Commons BY 2.0. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Ho pensato di dover andare indietro nel tempo per scrivere un brano con un tabarro (l'alternativa era ambientarlo in un universo fantasy, ma ho sfruttato troppo spesso questa possibilità, ultimamente). Da qualche parte tra l'800 e il 900... lo so, non molto preciso, ma la protagonista non mi ha ancora rivelato con esattezza dove e quando e è nata.


Una volta, tanto tempo fa, quand'ero una bambina umana, Nessa si sedeva accanto al mio letto e mi raccontava storie per farmi addormentare. Erano storie diverse da quelle dei libri. Mi raccontava di Padre Inverno che uccideva il Principe d'Autunno, e del Signore dei Cervi inseguito dai Cacciatori, e del Tabarro Nero che vagava nella notte. Mia madre non voleva che mi parlasse di queste cose, perché non erano storie da cristiani e perché mi facevano sempre venire gli incubi. Perciò, quando c'era lei, Nessa prendeva un libro dallo scaffale e mi leggeva una parabola, o una di quelle favole da bambini con gli anatroccoli e le principesse; ma quando non era in casa a controllarla, alla fiamma della candela, Nessa intesseva tra le ombre del soffitto le sue fiabe pagane.
La storia del Tabarro Nero era la più spaventosa, perché Nessa diceva che fosse accaduto davvero, proprio lì dove vivevamo. Diceva che ogni anno, proprio l'ultimo giorno dell'anno, era possibile vedere per le strade della città uno straniero vestito di un tabarro nero con un ampio cappuccio che gli nascondeva il volto, e che non lasciava impronta alcuna nella neve. Nella storia di Nessa, un nonno avvertiva il nipote di non seguirlo, se lo avesse visto; ma il bambino disobbediva, inseguiva l'uomo col tabarro nero fino a strappargli di dosso il mantello, scoprire che sotto non c'era nessuno, e morire di colpo per lo spavento.
Io pensavo di essere più coraggiosa di quel bambino. Quella sera del 31 dicembre, Nessa mi stava riportando a casa quando lo vidi: il Tabarro Nero sotto il lampione, e nessun volto all'ombra del cappuccio. Sfuggii di mano alla mia tata e lo seguii.
Lei seguì me.
Il Tabarro Nero si fermò in un vicolo ad attenderci, come se volesse essere scoperto e spaventarci a morte. Allungai la mia piccola mano, ma sotto non c'era il nulla, bensì qualcosa che metteva davvero paura: un fantasma dalla pelle di alabastro, i denti, la sete.
Dopo quella notte, non sono più stata una bambina umana.

giovedì 28 dicembre 2017

Dopo la pioggia

(racconto ispirato dall'esercizio Festeggiamenti speciali. Stavolta ho inventato una festa per caratterizzare una regione di uno dei miei mondi fantasy)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Nelle lunghe giornate della stagione bagnata sembrava che la pioggia non avrebbe mai smesso di inzuppare la terra e renderla una poltiglia appiccicosa che invadeva le strade. Ma ogni anno la pioggia finiva, il vento portava via le nuvole e Iljkshu, il dio dell'acqua, abbandonava il cielo con la sua corte di spiriti umidi per andare a tuffarsi nel mare.
E sotto il regno del sole e delle lune, tornavano i colori.
Erano tre giorni di festa, tre giorni in cui su Sljdzjell, la nostra Terra Oscura, si stendeva un velo variopinto. In ogni città e villaggio le donne legavano nastri colorati ai rami degli alberi e alle travi delle case; gli uomini accendevano lanterne colorate e le appendevano a illuminare le vie.
Sulle terrazze e nei cortili, i tessuti e gli abiti appesi ad asciugare danzavano nel vento assieme ai nastri.
Erano tre giorni in cui le comuni regole della società venivano sospese e anche le ragazze non sposate potevano uscire di casa senza un accompagnatore e parlare con gli estranei, con l'unico accorgimento di indossare una maschera. Una maschera che un tempo doveva coprire tutto il volto, ma che col passare degli anni si era sempre più ridotta fino a trasformarsi da un'imposizione a un semplice accessorio di moda.
Rimaelevi sfiorò la mascherina di pizzo bianco sul suo volto, non sufficiente a nascondere le sue fattezze, e allungò il passo in direzione delle bancarelle del mercato. La passerella di legno scricchiolava, ma il suo rumore fu presto coperto dalla musica dei flauti di pan e dal tintinnio delle campane a vento. L'aria sfrigolava del profumo caramellato dei nastri Zaitchu, il dolce tipico di quelle feste assieme alle più casalinghe "capanne di fango" fatte di cioccolato, farina d'alghe e frutta essiccata. Solo i migliori pasticceri erano in grado di creare i nastri Zaitchu più sottili, resistenti e morbidi, tanto da sembrare fatti di tessuto colorato finché non li si leccava; allora si scioglievano in bocca, lasciando sulla lingua la loro impronta zuccherina.
Rimaelevi si guardò attorno: ovunque era luce, colore e musica, risate e danze, ma non in lei. Certo, era contenta di rivedere le sue sorelle sposate, i loro figli, le zie e le rispettive famiglie che in quei tre giorni tornavano, come lei e sua madre, alla casa dei nonni materni. Ma quell'anno sarebbe stato diverso. Rimaelevi era ormai abbastanza grande da onorare un'altra tradizione della festa dei colori, alla fine della stagione delle piogge: posare per il suo ritratto, come ogni fanciulla in età da marito. Il ritratto che suo padre avrebbe usato per fare affari, presentandola ai pretendenti come una merce di scambio.
Presto gli uomini avrebbero ricominciato a coltivare i campi resi fertili dal fango limaccioso, a pescare in mare, o a cacciare le pericolose creature della palude di Greye. Tre giorni passavano in fretta e ogni cosa, ogni donna e bambino tornava infine al proprio posto.

lunedì 25 dicembre 2017

Perdersi a Natale

(racconto ispirato dall'esercizio Festeggiamenti speciali. Ho ripreso il personaggio di Patrizio Boscoscuro e ho cercato di capire come festeggia il Natale)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


– Non sarebbe una novità.
Patrizio aveva liquidato ogni mia proposta con una frase come quella. "Non sarebbe una novità. Noioso. Già fatto, già vissuto."
Era il primo Natale che passavamo assieme, e volevo che fosse speciale, ma lui era incontentabile. E nemmeno quella era una novità. Seduti al tavolino di un caffè diverso da quello in cui lavoravo, io con un cappuccino e una brioche e lui con un succo di mela caldo e speziato, fissavo i suoi occhi grigi senza più idee. Ormai le aveva bocciate tutte.
– Ti odio quando fai così – borbottai, spingendo indietro le spalle contro lo schienale della sedia.
– No, non è vero – replicò Patrizio con un sorrisino strafottente. – Quando è l'ira a muoverti, stringi di più gli occhi e ti protendi in avanti, come per attaccare.
Mi staccai dallo schienale. – Tu e le tue doti da osservatore...
– Sei prevedibile. Come chiunque altro – m'interruppe lui. Stringendo tra le mani il calore del bicchiere, Patrizio lasciò vagare lo sguardo tra i clienti del locale, prima di tornare a fissarmi intensamente. – La colpa è tua.
Lo guardai storto, ma affondai i denti nella brioche per impedirmi di pronunciare una replica piccata. Avevamo già litigato, e più di una volta, a causa del suo atteggiamento insolente. Ma quello non era uno dei giorni in cui gli avrei permesso di rovinare tutto.
– Insomma – biascicai con la bocca ancora piena. – Che cos'è che ti piace fare, a Natale?
Patrizio sfiorò la copertina nera del suo blocchetto per appunti. – Credevo che ormai lo avessi capito.
Scossi la testa. Fu il suo turno di sospirare e addossarsi allo schienale. – Scelgo una città in cui mi sembra di non essere mai stato, e ne percorro le strade finché non mi perdo. Senza mappa. Senza navigatore. – Patrizio assaporò un sorso del suo succo, troppo dolce e strano per me. – Mi regalo la sensazione di non sapere dove sono, né cosa farò dopo. A questo punto della mia esistenza è ciò che di più raro esista al mondo, e vale più di qualsiasi bene materiale. Ma è un dono che conservo per le occasioni speciali: se lo faccio troppo spesso, rischio di rendere immensamente noiosa la vita di chi verrà dopo di me.
– Ovviamente – borbottai. Nonostante lo conoscessi da mesi, mi sembrava ancora bizzarro pensare agli altri "lui" che erano venuti prima, e a quelli che lo avrebbero seguito. Patrizio mi aveva spiegato come non ne avesse una vera memoria, piuttosto, una sensazione di déjà vu che gli faceva riconoscere luoghi, schemi e sensazioni, anche se non li aveva mai incontrati prima. Finii il cappuccino e sorrisi: mi era venuta un'idea. – Sei mai stato a Fontanellato?
 – Il nome non mi sembra familiare. Dove si trova? Aspetta, provo a... – Patrizio sbloccò lo smartphone, ma io mi allungai sul tavolo e glielo sottrassi.
– No, niente informazioni. Altrimenti, che sorpresa sarebbe?
Patrizio si rilassò e rise. – Vedi? È per questo che ti ho rivelato chi e come sono. Oltre al fatto che non penso di averlo mai raccontato a nessuno... nessuno che mi abbia creduto. – Patrizio si protese e mi accarezzò la mano con cui coprivo il suo smartphone. – Puoi essere prevedibile, ma sai fare in modo che la mia vita non lo sia.
Infilai in bocca l'ultimo pezzetto di brioche e pregustai il momento in cui Patrizio Boscoscuro avrebbe scoperto che a Fontanellato, proprio qui in Italia, c'è il labirinto più grande del mondo: il posto perfetto in cui perdersi a Natale.

sabato 23 dicembre 2017

Salmodia

Tanti auguri di buon Natale ai miei tre lettori (uno in meno del Manzoni, non pecco di tale superbia da equipararmi a lui)! Anche quest'anno, come lo scorso con Halleluia, in prossimità delle feste ho scelto una parola del sabato che potesse prestarsi a ispirare un brano a tema natalizio.

Salmodia [sal-mo-dì-a] s.f. 1. Nella liturgia ebraica e cristiana, il canto o la recita dei salmi. 2. estens. Canto lento e triste; discorso monotono, litania.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.



Per la sua etimologia il termine deriva dal greco col significato di "cantare al suono della cetra", tuttavia nel corso del tempo ha assunto l'accezione spregiativa di discorso noioso. Ho voluto provare a usare sia l'uno che l'altro dei significati, e l'ho fatto proseguendo il brano di Grottesco, più o meno da dove lo avevo lasciato.


Non è facile concentrarsi sul tuo presente, quando hai mille pensieri che ti ronzano in testa. Specie quando il tuo presente è il futuro per chiunque altro ti conosca da una vita. Centinaia di anni nel futuro, per la precisione.
Tutti quelli che conoscevo, la mia famiglia, i miei amici, erano polvere. Erano anche vivi, nel loro tempo, perché stavo iniziando a considerare il secolo che mi ero lasciato alle spalle, più che come un passato perduto, come un luogo che avrei potuto visitare, se solo non fossi diventato una specie di mostro.
Con la sua voce gentile, Kàli mi sussurrava una lagnosa salmodia nell'orecchio, ma io non capivo se fosse uno dei suoi incantesimi sciamanici o la spiegazione di quale rara Aberrazione fosse emersa dai miei geni. In realtà non m'importava. Tutto quel pensare al passato, al presente e al futuro mi faceva tornare in mente il Canto di Natale con i suoi tre fantasmi. Trovai stranamente appropriato che con il mio aspetto da mummia carbonizzata sarei potuto passare per quello più spaventoso, quello del futuro.
Quello che non potevo più fare era entrare in una chiesa del ventunesimo secolo. Me lo immaginai come avrebbero reagito, se alla messa di Natale io, un'anima dannata che aveva respirato le fiamme dell'inferno e ne era uscita cambiata, avesse varcato le porte di una chiesa. L'accorata salmodia del prete interrotta di colpo. Gli sguardi smarriti o spaventati. I bisbigli, preghiere o bestemmie, rivolte alle immagini sacre.
Nonostante la stucchevole bugia del Natale, che siamo tutti più buoni e cose del genere, chi avrebbe potuto accettarmi, se io stesso non riuscivo a guardarmi allo specchio?
Eppure di quella bugia, e di qualcosa che mi ricordasse casa, io avevo disperatamente bisogno.
– Il Natale. – Con un bisbiglio spezzato interruppi Kàli nel suo salmodiare. Mi schiarii la voce, mi alzai in piedi e chiesi, rivolto a tutti loro. – Esiste ancora, il Natale?

giovedì 21 dicembre 2017

Dimmi come festeggi... e ti dirò chi sei

Lunedì ti ho lasciato con l'esercizio Festeggiamenti speciali:

Scegli una festa esistente, o inventane una di fantasia. Mostrami come la celebra un tuo personaggio. Fa' che sia un modo unico e particolare.

Stavolta non ti darò alcun consiglio su come iniziare a svolgerlo. Ti dirò perché dovresti provarci.
Perché, a seconda di come ti approcci all'esercizio, ti può essere utile per due cose: la costruzione di un'ambientazione, o la definizione del carattere di un personaggio.


Ambientazione


Quando si tratta della costruzione dello scenario in cui si muovono i personaggi, in particolare nel caso della creazione di un mondo nuovo e diverso dal nostro, spesso in articoli e discussioni ho letto di persone che si concentrano sul quadro d'insieme: cronologia storica, situazione politica, la classica mappa e dunque geografia, che si tratti di monti, coste e fiumi o dei confini tra gli stati.

Non so tu, ma io ho sempre trovato noiosa la storia come mera successione di regnanti e di guerre, e inoltre dubito che il contadino del villaggio Taldeitali, nel tuo romanzo, sappia chi stava sul trono mille anni prima o cosa c'è oltre le Colline Boscose. A scuola, io volevo i dettagli: cosa mangiavano, come si vestivano, come vivevano le persone in una data epoca. E sono i dettagli che interessano al contadino del villaggio Taldeitali, e che distinguono un'ambientazione realistica e credibile, "viva", da una creata a tavolino seguendo i soliti tre o quattro schemi: storia, geografia, religione, leggi (mondane o magiche) e politica.

Una festa, e il modo di celebrarla, è molto più vicina alla vita quotidiana del contadino del villaggio Taldeitali, e dei personaggi della tua storia, chiunque essi siano. Rivela ciò che è importante per loro, racconta di tradizioni tramandate da una generazione all'altra, richiama miti e talvolta è accompagnata da canzoni, abiti, cibi, attività particolari e tipiche solo di quel momento di festa.

Se stai creando un mondo fantasy, o anche soltanto una città immaginaria pur se appartenente alla nostra realtà, penso che dovresti provare a immergere il lettore in un'atmosfera di festa per dargli un'idea di che cosa significhi vivere in un luogo del genere, piuttosto di tediarlo con un excursus storico-politico o una lunga descrizione della conformazione del paesaggio.


Personaggio


Nel caso tu scegliessi di dedicarti a una variante "personale" di una festa nota, sappi che questo rivelerà molto del tuo personaggio. Io trovo che le anomalie raccontino una storia più interessante rispetto alla normalità che conosciamo. Se il tuo personaggio sceglie un modo inconsueto di festeggiare potrebbe essere un ribelle, un originale, un fantasioso. Che significato ha per lui quel modo di fare, è una tradizione di famiglia, o lo ha inventato lui stesso? Oppure potrebbe rifiutare di celebrare la festa, o addirittura sabotarla, fare il guastafeste, fare il Grinch. Anche questo la dice lunga su di lui.

Ti farò un esempio. Ricordo di aver letto, da qualche parte, di un uomo che invitò gli amici a una cena di compleanno a sorpresa. Il compleanno era il suo, ma i commensali non sospettavano nulla riguardo al motivo dell'invito finché, al momento del brindisi, l'uomo si alzò e annunciò: "Sorpresa! Oggi è il mio compleanno, tanti auguri a me!". Potete immaginare il panico sui volti degli invitati: nessuno aveva portato un regalo, nemmeno un biglietto di auguri. L'uomo si godette per qualche istante il loro imbarazzo, poi rivelò un cesto di doni che aveva personalmente scelto e impacchettato. Agli invitati, a scatola chiusa, la scelta del pacchetto da "regalargli".

Non ti sembra di poter capire molto della sua personalità già da questo singolo episodio?

lunedì 18 dicembre 2017

Festeggiamenti speciali

Benvenuto, spirito delle feste!

Essendo in prossimità del Natale, ho deciso di rompere gli schemi che mi ero preparata e affidarti una missione... un po' particolare. Adatta al periodo verso il quale ci stiamo avviando.

Tieniti forte, sei pronto a scoprirla? Meno tre, due, uno... via!

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Scegli una festa esistente, o inventane una di fantasia.

Puoi scegliere il Natale o il Capodanno, ma perché limitarsi? La tua festa può essere qualunque cosa, da un Non-compleanno alla Giornata di Apprezzamento delle Porte alla Sagra della Scarogna. Tutto dipende da dove è ambientata la tua storia: il Natale in un mondo fantasy dove il cristianesimo non si è mai sviluppato sarebbe un po' fuori luogo, mentre una festività non canonica nel mondo che ben conosciamo... deve avere una motivazione per esistere, se non è ristretta a una cerchia di persone che si sono accordate per festeggiarla.


Mostrami come la celebra un tuo personaggio. Fa' che sia un modo unico e particolare.

Se hai scelto una festa esistente, dovrai spremerti le meningi per ideare un modo non convenzionale di osservarla. Pensa al carattere del tuo personaggio, lasciati guidare da lui o lei. Ricorda che le azioni e l'indole non sono mai slegate, e una bizzarria è sempre indicativa della personalità di chi la compie!
Se invece hai scelto di creare una festa ad hoc, considera il perché esiste, chi l'ha istituita e voluta, e come potrebbe reagire il tuo personaggio: si adegua o la rifiuta? Oppure è stato proprio lui a inventarla e a coinvolgere gli altri?

Qualunque sia la tua scelta, un consiglio: usa tutti i sensi nel descriverla (vista, udito, olfatto, gusto, tatto... e altri, se il tuo personaggio ne è provvisto) per coinvolgere il lettore nell'atmosfera della festa. Attendo i tuoi festeggiamenti speciali, che puoi postare qui sotto, e nel frattempo ti auguro un buon... qualunque cosa tu scelga di celebrare nella vita e tra le pagine!

sabato 16 dicembre 2017

Reminiscenza

Se hai visto i film o le puntate del telefilm Highlander, la parola di questo sabato ti suonerà familiare. In quel caso l'avevano usata per tradurre il termine inglese "quickening", che però non ha nulla a che fare con la memoria.

Reminiscenza [re-mi-ni-scèn-za] s.f. 1. Ricordo vago e impreciso di qualcosa; la cosa stessa ricordata. 2. In un'opera letteraria, teatrale, musicale ecc., ripresa, più o meno consapevole, di motivi propri di autori e opere precedenti.

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Mi viene da pensare che con tutte le storie, i mondi e i personaggi che ho, finisco sempre per scegliere i soliti due o tre. Li calo in tempi e luoghi diversi, ma... ahi ahi, ho anch'io i miei preferiti tra le mie "creature"! Per stavolta ho ceduto, ma la prossima devo trovare spazio anche per qualcuno che in queste pagine non l'ha mai avuto.


– A volte qualcuno me lo chiede. Com'è stato vivere due vite, intendo. La verità li delude sempre.
Distolsi lo sguardo dalla città oltre la finestra della torre. Laeverth. Laeverth era così bella da far male al cuore.
C'era voluta tutta una vita, la mia seconda vita, per farla tornare al suo antico splendore.
– La verità è che io non lo ricordo. Ho qualche vaga reminiscenza, sì; ma nulla più di questo. Qualche immagine. Qualche frase che mi riecheggia nelle orecchie. È come svegliarsi da un sogno, sapere che si ha sognato, ma non sapere cosa.
Chiusi gli occhi e ascoltai i suoi passi sulle tessere variopinte del mosaico. Non volevo guardarlo, perché sapevo che il tempo trascorso non l'aveva cambiato. Jossintaur era lo stesso di quando, da ragazzina, gli avevo scioccamente rivelato il mio amore. Una cotta che in realtà non aveva motivo di esistere. In retrospettiva, ero lieta che lui mi avesse respinta con tutto il tatto possibile.
Ed era lo stesso delle mie reminiscenze dall'altra vita, solo che in quel caso il sentimento che associavo al suo viso era un odio profondo e altrettanto ingiustificato.
Lo sentii posarmi le mani sulle spalle. Sollevai una delle mie vecchie mani a sfiorargli le dita. – Sei venuto a dirmi addio, mio buon amico?
– No. – Sentii la seta elfica dei suoi abiti sussurrare un canto ben diverso dal fruscio di qualunque altro tessuto. Aprii gli occhi e mi ritrovai di fronte il suo volto giovane, le orecchie dalla punta delicata tra le onde della sua chioma bionda. – Sono venuto a dirti che tu hai vissuto più di due vite. In più di due mondi. E che questa non deve essere la fine, se tu lo vuoi.

giovedì 14 dicembre 2017

Anche gli agenti segreti vanno in pensione

(racconto ispirato dall'esercizio Immagini per scrivere. Il lancio del dado mi ha dato un 2, che corrisponde alla foto qui sotto.)

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Ascoltami bene, Matteo. Se vuoi seguire le mie orme, puoi farlo, ma ti avverto che non sarà facile. La vita di un agente segreto è costellata di pericoli e scelte difficili. Ci saranno momenti in cui ti troverai in trappola, con le spalle al muro. Ma è in quei momenti, proprio allora, che non devi arrenderti. Devi pensare a tutto quello per cui stai lottando, la tua vita, la tua famiglia, il mondo. Se vuoi salvare il mondo, Matteo, devi trovare dentro di te il coraggio di guardare in faccia i tuoi nemici, puntargli contro la tua pistola e dirgli "mascalzoni, non mi avrete mai! Fatevi sotto, io non ho paura! Giù le mani, ehi, che fate, giù le mani ho detto..."

– Papà, papà, adesso smettila. Lo stai spaventando – disse la donna in abito rosso al gentiluomo brizzolato in completo grigio che l'aveva accompagnata, senza smettere un attimo di blaterare, fin nella hall dell'edificio. La donna strinse a sé un bambino di cinque anni e rivolse un'occhiata nervosa ai due robusti infermieri che stavano accerchiando l'anziano. Sul volto dell'uomo c'era un'espressione combattiva e disperata, ma uno dei due infermieri gli strappò di mano l'arma improvvisata mentre l'altro lo prese sottobraccio e lo condusse verso una sedia a rotelle.
– Andiamo, nonnetto, metti giù la banana. Ti chiami Giacomo Bondi, non James Bond!
– Quante storie per una casa di riposo. Neanche fosse il covo del dottor No in persona. Si rilassi, signora, d'ora in poi ci pensiamo noi. Suo padre è in ottime mani.
La donna in abito rosso guardò i due infermieri portare via un agitatissimo Giacomo Bondi, che aveva iniziato a strillare a lei e al figlioletto di mettersi in salvo e di chiamare i suoi amici della bocciofila, dicendole che loro avrebbero saputo cosa fare.
In un angolo, il direttore della casa di riposo osservava il tutto accarezzando soddisfatto un bel persiano bianco.

lunedì 11 dicembre 2017

Sfocature

(racconto ispirato dall'esercizio Immagini per scrivere. Il lancio del dado mi ha dato un 3, che corrisponde alla foto qui sotto.)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quando c'era lei, il mondo attorno spariva.
Non che fosse bella. O almeno, non bella di quella bellezza eccezionale, da perfezione da film o da copertina di rivista patinata. Ma Keiko era... speciale.
Fin dalla prima volta che la vidi, mi resi conto di non poter distogliere lo sguardo. Era come se la luce stessa curvasse attorno a lei, riflessa dal suo abito bianco in un turbinio candido che cancellava tutto, le case, le strade, gli alberi, le altre persone.
Il suo sguardo diretto, il suo sorriso appena accennato, quasi timido, mi indussero a scambiarla per un'aspirante modella; e invece, l'agenzia l'aveva mandata a farmi da assistente.
Io non avevo bisogno di un'assistente, avevo bisogno di un soggetto che mi ispirasse. Lei poteva essere la mia musa, le dissi, ma Keiko fu categorica: nessuna foto. Io, che ero praticamente cresciuto con una macchina fotografica in mano, la ritenni un'imposizione assurda, ma accettai.
Finché Keiko avesse lavorato per me, non le avrei scattato una sola foto.
Così iniziò il nostro incauto sodalizio. Non durò molto, ma non per colpa sua. O almeno, questo era ciò che io pensavo.
Nel lavoro, lei era tutto ciò che il suo sorriso prometteva: modesta, riservata, insostituibile. Nonostante calamitasse lo sguardo di ogni collega o modella con cui mi trovavo a lavorare, sembrava non bearsi mai di quelle attenzioni, e rifiutava con garbo qualunque tentativo di coinvolgerla in un servizio fotografico. "No, grazie, mi dispiace ma non sono fotogenica" era ciò che ripeteva, e dietro lo scudo della timidezza seguitava a tener nota dei miei appuntamenti e a rispondere al mio cellulare mentre ero impegnato.
Ma se lei svolgeva un lavoro impeccabile, il mio continuava a peggiorare. Ero distratto, svogliato. Costringermi a distogliere lo sguardo da lei per concentrarmi sulle modelle mi infastidiva fin quasi al punto da diventare una tortura, e a fine giornata gli occhi mi facevano male. E una volta sviluppate le foto, mi accorgevo che molti di quegli scatti erano da buttare, rovinati da sfocature o sovraesposti o attraversati da lampi bianchi. Non potevo continuare così.
Stavo perdendo un cliente dopo l'altro e Keiko, che teneva la mia agenda, se ne accorse.
Tre mesi dopo il nostro primo incontro, mi disse che si licenziava. Aveva trovato un altro posto da assistente, uno in cui la fotografia non fosse prevista. Mi disse che sarebbe stato meglio per tutti e due.
Dal momento che non lavorava più per me, le chiesi di poterla fotografare. Una foto, una soltanto, prima che sparisse per sempre dalla mia vita.
Keiko era così, non guardava al passato, e non intendeva lasciarmi alcun modo di mettermi in contatto con lei. Ma quella foto me la concesse.
Così avrei capito perché non potevamo lavorare insieme, mi disse.
E lo capii, una volta sviluppata la foto.
Ripensandoci, non credo che Keiko ne avesse il controllo. Forse era qualcosa che le succedeva e basta. A occhio nudo, era un'impressione indefinibile che spingeva lo sguardo su di lei, non avendo altro attorno su cui fermarsi.
La foto invece lo mostrava chiaramente. Non avevo usato un filtro, ma ciò che ritraeva era solo Keiko, nitida, in primo piano. Tutto il resto era molto più che sfocato. Era annullato da un chiarore più intenso quanto più i dettagli dello sfondo si trovavano vicino a lei.
Passai tutta la notte a riprendere in mano ogni foto sfocata degli ultimi tre mesi e a ricordare le volte in cui Keiko si era avvicinata a me per riferirmi un messaggio, per ricordarmi un appuntamento o per portarmi un caffè. E a questo punto, penso di non doverti riferire che coincidevano ogni singola, dannata volta.

sabato 9 dicembre 2017

Querimonia

Ci sono parole così formali e letterarie che sai già il tipo di personaggio o narratore che può pronunciarle. Questo è il caso di querimonia, che vedo bene in ambito giuridico o storico, un po' meno tra ragazzi comuni in un'ambientazione moderna!

Querimonia [que-ri-mò-nia] s.f. lett. Fastidioso lamento, lagnanza protratta.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La prima cosa che questa parola mi ha fatto venire in mente è un'udienza presso la corte di un re. Forse per l'assonanza con la parola cerimonia, mi ha ricordato una di quelle scene da film in cui una fila di persone porta le proprie richieste o lamentele al sovrano. Succedeva davvero così? Non lo so, ma intanto ci ho ricamato sopra per il brano di oggi.


Ero fortunato a non essere re. Lo pensavo, nell'osservare la processione infinita di cenciosi popolani per la consueta querimonia al tribunale di Lir, nonostante nella questione la fortuna o la mancanza di essa non contasse affatto. Non ero arrivato dov'ero con la fortuna, ma con le unghie, con i denti, e con la mente. E con una sufficiente dose di veleno, quando lo avevo ritenuto necessario.
Essere re era una formalità che toccava per nascita, e che comportava spiacevoli obblighi, come dover respirare la stessa aria della plebe nei giorni stabiliti dal calendario. Il lusso era un incentivo per sopportare il fetore, per una mente che cedeva a simili lusinghe, ma l'oro e il velluto non facevano per me.
A differenza di chiunque altro, io avevo l'unica cosa che importava davvero: il potere.
– Solemestis, che cosa devo fare?
Era a me che la principessina che avevo messo sul trono al posto del vecchio re aveva chiesto consiglio, ed era a me che lo avrebbe chiesto in futuro, sempre. Era una statua di cera, malleabile tra le mie dita, e io l'avevo plasmata ancora una volta.
– Lasciateli sfogare, maestà. Molti di loro non hanno un vero problema, hanno solo bisogno di lamentarsi delle proprie sventure. Date la vostra assoluzione quando chiedono perdono, e decidete chi abbia torto o ragione quando vi domandano una sentenza.
– E se non sapessi chi è nel giusto? E se sbagliassi?
– Non vi contraddiranno, maestà. Voi conoscete la legge meglio di loro.
Non le avevo detto che non faceva differenza chi avesse scelto, che la spartizione di un paio di capre non avrebbe mandato in rovina il regno. Non le avrei tolto l'illusione di avere il potere.
La regina Skalissa poteva trastullarsi ad ascoltare tutte le querimonie che voleva e sentirsi importante nel decidere la vita di un pezzente; quanto a me, una volta che avesse preso una tale confidenza da non richiedere di avermi al fianco, avrei disertato simili, noiose udienze per dedicarmi alle decisioni che influenzavano il corso della storia.

giovedì 7 dicembre 2017

Due chiacchiere per sbloccarsi

Non sai cosa scrivere. Hai davanti a te la foto, e la tua mente si rifiuta di fare il suo lavoro. Niente. Tabula rasa. Il vuoto più assoluto.

Sforzarsi di trovare una buona idea per scrivere la storia, a questo punto, potrebbe diventare controproducente. Più ti concentri sul cercare quel buon inizio, e meno ti viene. Se anche ti capita qualche idea passeggera, non è l'incipit strepitoso che ti aspettavi, e la elimini prima ancora di scriverla.

Rimane solo una cosa da fare: ingannare la tua mente, prenderla in contropiede. Iniziare a scrivere qualcosa riguardo all'immagine che sia tutto fuorché la storia che vuoi raccontare. È un po' come pensare, ma sulla carta (o sullo schermo del pc). Scrivi a ruota libera, senza censure, senza tagli. A quelli penserai dopo. Ma scrivere cosa? Ecco alcune idee.

Che cosa raffigura l'immagine?
Descrivi quello che vedi. Fisionomia, colori, azioni. Ambientazione, se esiste. Parti dalla vista e aggiungi gli altri sensi. Suoni, rumori, voci. Odori, profumi. Gusti. Calore o freddo, la solidità della terra sotto i piedi. Mettiti nella scena.

Che emozione ti evoca l'immagine?
Scrivi di come la foto che hai di fronte ti fa sentire. Ti mette allegria? Pace? Tristezza? Il personaggio ti pare antipatico, o vorresti conoscerlo?

Che ricordi associ all'immagine?
Scegli un dettaglio, e da quello, passa a scrivere gli episodi della tua vita che ti passano per la mente. Conta poco se si tratta di un evento importante o di un giorno qualunque. Abbandonati al tuo viaggio nella memoria. Forse il personaggio della foto ha vissuto un'esperienza simile. Oppure prova a immaginare come sarebbe andata se in quel momento lo avessi incontrato.

Se potessi intervistare il personaggio della foto, che domande gli faresti e quali potrebbero essere le sue risposte?
Non avere timore di lanciarti in un folle botta e risposta. Talvolta le classiche domande da intervista al personaggio non funzionano. Bando alla banalità, niente nome, età, lavoro. Chiedigli qualcosa di nuovo. Qual è l'ora del giorno che preferisce ad esempio, o se dovendo rinunciare per sempre a uno dei due, sceglierebbe di non mangiare più i formaggi o la cioccolata, o ancora se gli piace di più la pioggia o la nebbia.


Parti da uno di questi spunti, e prima che tu te ne renda conto, la storia inizierà a ingranare. Solo una volta che avrai terminato il brano che riguarda il tuo personaggio, torna all'inizio ed elimina tutto ciò che non fa parte del racconto.

Fammi sapere com'è andata, e se questo suggerimento ti ha aiutato a scrivere!

lunedì 4 dicembre 2017

Immagini per scrivere

Benvenuto, inventore di passati remoti!

Il tuo compito da detective non è ancora terminato. Adesso dovrai davvero osservare, e non basarti sulle descrizioni di qualcun altro. Mi auguro che questa variazione sul tema possa fornirti maggiori spunti e libertà per immaginare.

Ma ecco qui i dettagli della missione:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Hai a disposizione sei diverse immagini. Scegli quella che preferisci, o lancia un dado.



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 Immagini liberamente disponibili su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quale sia carattere, il lavoro, le abitudini, la storia, sarai tu a deciderlo. Scrivi un brano che illustri il personaggio.
Questa può essere considerata una variante, oltre che dell'esercizio precedente, anche di "Parti da un'immagine". Solo che stavolta ogni foto ha per protagonista una persona. Chi è, che cosa sta facendo, perché è raffigurata così? Queste sono domande a cui solo tu puoi dare una risposta.


Puoi fornirmi la risposta a cui hai pensato nei commenti qui sotto. Non importa se ti vengono in mente solo due righe o un intero racconto. L'importante è scrivere.
Se non sai come fare, giovedì ti spiegherò un trucco per partire dall'immagine e andare oltre (nel frattempo, se cerchi spunti immediati, c'è questo). E giovedì della settimana prossima darò spazio a uno dei racconti/descrizioni/pensieri sparsi e al suo autore.

sabato 2 dicembre 2017

Palindromo

Quando si arriva ai giochi di parole, questo è uno tra i più interessanti e difficili, se si riferisce a frasi intere. Io non ne sono capace, e tu? Però si può sempre scovare qualche frase su internet e meravigliarsi per quelle che suonano più naturali.

Palindromo [pa-lìn-dro-mo] agg., s. 1. agg., s.m. Di parola, frase, verso o cifra che possono essere letti da sinistra a destra e anche viceversa. 2. s.m. Gioco enigmistico consistente nel trovare parole palindrome, o parole che lette alla rovescia assumono un altro significato.

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Palindromo è una parola così specifica che difficilmente può tornare utile in una storia. Eppure, nonostante questo, mi sono venute ben due situazioni in mente, e non sapevo quale scegliere... perciò ho trovato un possibile punto di contatto.


Vera sorrise quando il decodificatore decifrò il codice. 8724071017034278. Era palindromo... quasi. Tipica del dottor Eastfield, una trovata del genere.
Chiunque altro si sarebbe fidato dei numeri forniti dal decodificatore, e avrebbe sbagliato. Ma lei lo conosceva meglio di così.
Robert Eastfield era stato l'unico a trattarla bene in quello che lei aveva creduto un ospedale. Era stato l'unico a trattarla come un essere umano. Vera aveva ancora nostalgia delle volte in cui il dottor Eastfield si era fermato a giocare a scacchi, a chiederle come stava, a insegnarle qualcosa di nuovo e curioso. Anche se col tempo aveva capito che quelli non erano altro che dei test, Vera rimpiangeva di non poter avere un altro di quei momenti. Il dottor Eastfield l'aveva fatta sentire come se gli importasse qualcosa di lei.
Vera ricordava la volta in cui aveva strappato un foglio dal suo taccuino, aveva scritto una frase e le aveva chiesto di leggerla. Era una frase breve ma complessa, artificiosa nella scelta delle parole e nella loro disposizione.
– Dimmi che cosa c'è di strano – le aveva chiesto il dottor Eastfield.
A Vera era occorso meno di un minuto per capire che, tolti gli spazi e la punteggiatura, le lettere erano le stesse, partendo dall'inizio o dalla fine.
– È una frase palindroma – le aveva detto il Dottor Eastfield. – Come il nome Anna, o la sequenza 123321. Io li trovo molto divertenti! – Come a sottolineare la sua affermazione, il dottor Eastfield aveva riso. – Ricordalo bene, Vera: se si legge alla stessa maniera da sinistra a destra e da destra a sinistra, è un palindromo.
Vera lo aveva ricordato, e di fronte a quella porta, fece ciò che nessun altro avrebbe fatto: digitò il codice saltando quel 3 traditore. Aveva una sola possibilità di fornire il codice esatto, prima che si attivasse il sistema di sicurezza.
E "sistema di sicurezza", in un posto del genere, significava morte.

giovedì 30 novembre 2017

Una manciata di ricordi

(racconto ispirato dall'esercizio Guardare per conoscere. Il dado ha scelto per me la descrizione numero 4: Questa donna ricorda un tornado minaccioso. Ha grandi occhi, neri come ossidiana. Ha capelli folti, ondulati, verde berillo, tagliati a una lunghezza media e portati in uno stile semplice e casto. È molto bassa e snella. La pelle è pallida, ha la fronte larga e un naso elegante. Indossa abiti attraenti e misteriosi, completamente blu.)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non ero andata fin là per lei. Furono i suoi capelli a chiamarmi. Morbide onde di un verde berillo sparse su un cuscino candido. Zondra aveva sempre sostenuto che i suoi erano naturali, e quando la vidi ne ebbi la prova: tutti i chip-colore dei dormienti erano stati disattivati per non interferire con le apparecchiature che li mantenevano in vita.
Non eravamo mai state amiche, noi due. Eppure, Zondra mi mancava.
Il nostro era più quel tipo di rapporto che ti lega alla persona che gioisce di ogni tuo fallimento, che è pronta a rinfacciarti ogni errore, che ti sbatte in faccia il successo che ha ottenuto a tuo discapito. Qualcuno più debole di noi sarebbe stato spinto da un simile atteggiamento a rinunciare a tutto, forse persino alla vita. Per due come noi, col nostro spirito competitivo, l'altra era lo stimolo di cui avevamo bisogno per riuscire a fare di più, meglio, più in fretta.
Eravamo rivali. Non l'avevo mai sopportata, ma non riuscivo a credere che tutto ciò che era rimasto di lei fosse un guscio vuoto e una manciata di ricordi.
L'avevo vista in piedi per l'ultima volta nell'ufficio-prigione di Arend, quattro giorni prima. Io partivo per una missione e lei tornava, tronfia e soddisfatta. Ricordo che mi sventolò davanti due richieste di cattura e i rispettivi bolli. – Guarda e impara, pulce. – Zondra mi chiamava sempre così, anche se probabilmente era l'unica persona al mondo che non mi superasse in altezza. – I fratelli del Caos. L'ultima volta c'è voluta un'intera squadra per catturarli. Io invece ho fatto tutto da sola.
Si lisciò il lungo abito color zaffiro che le fasciava le curve, sogghignando. Era un'impresa notevole, ma io avevo un asso nella manica. Letteralmente.
Tirai fuori dal polsino della sinistra la richiesta di cattura che sapevo l'avrebbe mandata su tutte le furie: Amos l'Asso. L'avevo sentita più di una volta lamentarsi di essere nata nell'epoca sbagliata, e di come tutti i più grandi criminali della storia fossero già stati presi.
La grande fuga mi dava l'opportunità unica di soffiarle quella sfida da sotto il naso per la seconda volta.
Vidi la rabbia colmarle gli occhi di ossidiana. Quando Zondra si infuriava, l'aria attorno a lei sembrava elettrica. Era come avere a che fare con un tornado, solo che non c'era pace all'interno del suo centro: Zondra era solo vento, un vento implacabile e tremendo, capace di strapparti i capelli e stracciarti i vestiti e graffiarti la pelle. Voleva quella richiesta di cattura e non si sarebbe fermata finché non l'avesse ottenuta, in un modo o nell'altro.
In quell'occasione le sfuggii per un soffio.
Quattro giorni dopo, il vento si era placato per sempre. Zondra era lì, più pallida che mai, in un letto d'ospedale tra i tanti di una lunga fila.
Tutti duevite. Tutti Bollatori.
Nadir aveva ragione, stava accadendo qualcosa di strano, ma io non riuscivo a pensarci in quel momento. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare era che avevano commesso un errore, che non andava affatto bene, no, che c'era qualcosa di profondamente sbagliato perché quella camicia da notte rosa antico con i fiocchetti non poteva essere sua, no, Zondra avrebbe detestato vedersi addosso qualcosa di così pacchiano e non-blu.
Io non ero mai stata un eroe, o una paladina della giustizia. Facevo questo mestiere perché mi pagavano bene, e perché era divertente. Per resistere alla forza che ci stava abbattendo a uno a uno, catturarla addirittura, non potevo concentrarmi su decine di estranei. Ma potevo concentrarmi su Zondra. Su Hashum. Su me.
Ed era quello che avrei fatto.

lunedì 27 novembre 2017

Un mentore reticente

(racconto ispirato dall'esercizio Guardare per conoscere. Il dado ha scelto per me la descrizione numero 3: Questo gentiluomo fa venire in mente un lupo solitario. Ha occhi arancioni come il sole al tramonto. I suoi capelli castani, ricci e setosi, di media lunghezza, sono portati in uno stile semplice. È alto, magro, con pelle color cioccolata e un mento forte. Indossa abiti stretti, con molto grigio e verde.)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non fu difficile individuarlo, anche se avevo soltanto un nome e un luogo: Hashum il Lupo, Ritrovo del Ranger. Era uno di quei locali con il bancone in vero legno e le pareti di pietra, una trappola per nostalgici in vena di ricordi. Uno di quei posti in cui capivi che il mondo era andato avanti, ma non tutti si erano affrettati a seguirlo.
E Hashum il Lupo era tutto ciò che il suo nome prometteva che fosse.
Un individuo scuro, silenzioso, allampanato. Curvo sul suo bicchiere, ma con lo sguardo attento di un predatore negli occhi color ambra scura, come due piccoli soli al tramonto.
E lui al tramonto sembrava esserlo davvero. Gli abiti stretti addosso dimostravano che non mangiava bene da tempo. Per un attimo mi chiesi se era davvero lui l'uomo che poteva aiutarmi.
Se non altro, da qualche parte dovevo pur cominciare.
Mi sedetti sullo sgabello accanto al suo e ordinai un bicchierino di gin con una cannuccia.
Hashum mi fissò con quei suoi occhi strani, così intensi. – Non sei un po' troppo piccola per bere?
Scrollai le spalle. – Ho un altro posto dove stare mentre smaltisco la sbornia.
Pensavo non fosse male come primo contatto. Volevo apparire adulta, competente, sicura di me.
Ma Hashum esalò il fiato e tornò a curvarsi sul suo drink. – Senti, testablu, gira alla larga, che oggi non è giornata. E no, non prendo apprendisti, se è per questo che sei venuta. – Hashum tracannò il contenuto del suo bicchiere e scosse la testa. – Una duevite, dovevo immaginarlo – brontolò tra sé. – Solo quelli come noi sono così eccentrici.
Succhiai un sorso dalla cannuccia. L'alcol mi bruciò la gola e mi diede la sensazione di galleggiare sul bancone. Davanti ai miei occhi banchi di scuola, schiene di ragazzi, una lavagna. Lo stridio del gessetto, e una voce monotona di donna. No, devo restare qui, da questa parte, in questa vita. Ho bisogno di quell'uomo, mi dissi.
Quando tornai del tutto qui, vidi Hashum e la sua occhiata di sdegno. Mi vergognai, perché sapevo che aveva capito. Avevo quasi perso la presa su questa realtà a favore dell'altra.
– È per quanto è successo con Mereborn, vero? – gli chiesi. – È per quello che non vuoi apprendisti.
Non era un mistero ciò che Hashum era stato costretto a fare. Sapevano tutti che, dopo aver imparato da lui tutto quel che sapeva del mestiere, Mereborn era finito sulla lista nera e il suo maestro era stato mandato a catturarlo. Nessuno si era meravigliato del voltafaccia del signor Emme. D'altra parte, un duevite tendeva a diventare solo due cose: un criminale, o un Bollatore, ovvero un cacciatore di taglie. È la nostra maledizione. Abbiamo bisogno di emozioni forti. C'erano poche eccezioni a questa regola.
– Io non farò come Mereborn. Io sono diversa – gli assicurai. – Insegnami, e lo vedrai.
Lo sentii sbuffare. Non mi credeva.
– Dammi almeno una possibilità. Tu me lo devi. – Non avevo intenzione di giocarmi questa carta, di dirglielo. Non subito, almeno. Ma Hashum il Lupo non mi aveva lasciato altra scelta.
– Sono la figlia di Amya.
Hashum raddrizzò la testa. Si frugò in tasca e lasciò qualche moneta sul bancone, scivolò giù dallo sgabello e mi diede la schiena. – Sbrigati a bere il tuo gin, testablu, e vieni con me. Abbiamo del lavoro da fare.
Mi affrettai a buttare giù il liquido chiaro e a seguire il cappotto grigio del Lupo. E ancora oggi non saprei dire se il calore che sentii pervadermi quel giorno era dato dall'alcol, o dall'eccitazione per il mio primo passo da apprendista Bollatore.

sabato 25 novembre 2017

Ostracizzare/Ostracismo

Oggi una parola doppia! Volevo il verbo ma mi sono resa conto che da sola la definizione non spiegava molto, così ho dovuto aggiungere anche il sostantivo. Tra l'altro, questa è la prima parola di cui ho conosciuto l'etimologia, da ostrakon, il coccio su cui si scriveva il nome del cittadino da bandire. 

Ostracizzare [o-stra-ciz-zà-re] v.tr. lett. Bandire con l'ostracismo.

Ostracismo [o-stra-cì-smo] s.m. 1. Nell'antica Grecia, esilio comminato ai cittadini ritenuti pericolosi per la sicurezza dello stato; estens. bando. 2. fig. dare l'ostracismo a qualcuno, assumere un atteggiamento persecutorio nei confronti di qualcuno per impedirgli di affermarsi o di svolgere la propria attività.

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Di esiliati ne ho più d'uno nei miei racconti. Jasmen per esempio, o Vesta che pur non subendo un esilio vero e proprio, viene ostracizzata dai concittadini a causa del suo dono. Ma credo di voler approfittare di questo termine per raccontare qualcosa di più della storia di Julian.


Quando dico che le fate sono crudeli, nessuno mi crede. Come possono essere crudeli le eterne fanciulle, bellissime e delicate, che vengono da oltre le nebbie per scacciare con il loro fulgore i demoni... per una sola notte l'anno? Quale dono generoso ci fanno!
Gli esseri umani non hanno idea di quale sia il prezzo della loro immortalità. Io lo so perché, esattamente come loro, sento il peso dei miei anni e le mie ferite gravare colei che hanno eletto a regina, e gli sforzi che la sua corte fa per mantenerla in vita il più a lungo possibile.
C'è stato un tempo in cui ho desiderato ardentemente di essere accettata tra loro. Un tempo in cui le ho cercate nella Notte di Ebion, smaniosa di unirmi alla processione per svanire con loro in un regno incantato. Non capivo perché mi avessero ostracizzato. Non poteva essere a causa del mio padre umano: tutte le fate ne avevano uno. A meno che non li tenessero nascosti oltre le nebbie, non c'erano uomini tra loro.
Le pregai di prendermi e di portarmi via.
– Perché dovremmo? – mi chiese una di loro. – Tu non sei come noi.
Tentai di protestare, ma lei indicò con un gesto aggraziato la sua pelle luminosa, poi la lanterna che reggevo.
– Non avresti bisogno di quella se lo fossi. Non c'è una briciola di potere in te.
Non avevo fatto tanta strada per ricevere un altro ostracismo. – Non sono umana, è evidente. – Le mostrai il pugnale che mio nonno aveva creato per me, e che era una parte di me perché da me veniva. Era l'unico che potessi maneggiare. Il ferro e l'acciaio mi bruciavano la pelle. – Ma se non sono umana, e non sono una fata, allora cosa sono?
La fanciulla, con un sorriso crudele, replicò: – Niente.
Caddi in ginocchio e piansi nella Notte di Ebion.
Anni dopo le dimostrai che si sbagliava. Io sono qualcuno. Avevo inventato un nome per me, per tutti noi, gli sbagliati, i diversi, i vagabondi della terra.
Noi siamo gli Erranti.
Da soli eravamo niente. Uniti, siamo una forza che nessun popolo o nazione può più permettersi di ignorare.

giovedì 23 novembre 2017

Giudicare dalla copertina

Non so se ti è mai capitato. Sei alla fermata ad aspettare l'autobus. In fila alle poste. A fare la spesa tra le corsie di un supermercato. In treno con un libro aperto e il mondo che corre fuori dal finestrino. Dovunque, ma in mezzo a estranei di cui non sai che quello che vedi. Tra tutti c'è una persona, qualcuno che spicca in mezzo agli altri, qualcuno che colpisce la tua immaginazione. Forse ha un colore di capelli inconsueto. Un dettaglio bizzarro nella sua fisionomia. Un vestito eccentrico. Oppure, è per quello che sta facendo. Non importa: quello che conta è che lo hai notato, e adesso non puoi fare a meno di chiederti chi sia, come si chiami, quale sia la sua storia. E cominci a inventare basandoti su ciò che vedi. Forse è una storia che scriverai, forse no; ma intanto, la stai pensando.

Non so se ti è mai capitato. Ma ciò che so è che di sicuro, almeno una volta nella vita e probabilmente anche più di una, hai giudicato un libro dalla copertina, una persona dal suo aspetto. È normale. È umano. Ed è un meccanismo psicologico che puoi sfruttare in entrambi i sensi quando scrivi. Ovvero partire dall'aspetto e abbinargli il carattere che gli si addice, o partire dal carattere o dal ruolo nella storia e dargli la forma che quel ruolo richiede. Esiste, in letteratura, fin dai tempi dei miti e delle fiabe: i buoni, principesse ed eroi, sono belli, giovani, riccamente abbigliati e di sovente biondi; i cattivi, streghe e orchi, sono brutti, vecchi, vestiti di stracci e in molti casi hanno la pelle di un colore innaturale, ad esempio verde. Si può obiettare che siano stereotipi superati, ma allora come mai gli eroi e le eroine dei film sono sempre interpretati da attori e attrici affascinanti?

Puoi rompere il cliché. Sorprendere chi legge, e questa è una cosa che adoro fare. Creare un antagonista che appare avere tutte le caratteristiche fisiche associate di solito a un personaggio buono e innocuo: uno sguardo dolce, un sorriso innocente, vesti bianche, riccioli biondi. Un angelo, che si rivela essere un diavolo nelle sue azioni. O anche un protagonista bruttino e anonimo, che sale alla ribalta per i suoi atti eroici. Ma nell'invertirli li stai comunque usando, quei cliché. Stai giocando con le aspettative del lettore, ma quelle aspettative non le elimini.

Da qualche parte, non mi ricordo dove, ho letto: "La strada che si allontana da Roma, porta lo stesso a Roma".

È normale. È umano. Finché ci saranno occhi per guardare, e aspettative create da tutta una vita, non smetteremo di giudicare dalla copertina.

lunedì 20 novembre 2017

Guardare per conoscere

Benvenuto, osservatore di persone inesistenti!

Oggi la tua missione assomiglia un po' a quella di un detective. Ti sarà chiesto di prestare attenzione e di dedurre a partire da quello che vedono i tuoi occhi. Come un novello Sherlock Holmes, avrai a disposizione degli indizi per costruire un quadro più completo.

Ma ecco qui i dettagli della missione:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Hai a disposizione sei diverse descrizioni. Scegli quella che preferisci, o lancia un dado.
Le descrizioni sono le seguenti, ottenute tramite un generatore casuale di personaggi.

1 Questa ragazza fa pensare a una mortale anguilla elettrica. Ha gli occhi viola, una coppia di ametiste con una pupilla verticale. I capelli setosi, ricci, di media lunghezza sono di un ricco color crema, e li porta in una acconciatura affascinante e bizzarra. È molto alta, ha i fianchi larghi e la pelle scura. Ha la bocca piccola e mani dalle lunghe dita. Indossa capi d'abbigliamento casti ma attraenti, principalmente nei colori del giallo e del blu.

2 Questo giovane nobile ha occhi tondi e gialli come pepite di oro falso. I suoi capelli lisci, color della ruggine, sono lunghi e acconciati in uno stile attraente. La sua pelle è pallida. Ha la fronte ampia e il naso all'insù. Le sue vesti sono professionali ed eleganti, sui toni del marrone e del grigio.

3 Questo gentiluomo fa venire in mente un lupo solitario. Ha occhi arancioni come il sole al tramonto. I suoi capelli castani, ricci e setosi, di media lunghezza, sono portati in uno stile semplice. È alto, magro, con pelle color cioccolata e un mento forte. Indossa abiti stretti, con molto grigio e verde.

4 Questa donna ricorda un tornado minaccioso. Ha grandi occhi, neri come ossidiana. Ha capelli folti, ondulati, verde berillo, tagliati a una lunghezza media e portati in uno stile semplice e casto. È molto bassa e snella. La pelle è pallida, ha la fronte larga e un naso elegante. Indossa abiti attraenti e misteriosi, completamente blu.

5 Quest'uomo ricorda un avvoltoio in attesa. Ha occhi stretti, verdi. I suoi capelli rossi sono setosi e lisci, ma portati in modo da sembrare una balla di fieno. Ha i mustacchi. È alto e muscoloso. Ha pelle rossastra e la fronte larga. Indossa abiti dignitosi, perlopiù neri o blu.

6 Questa giovane nobile ha occhi stretti, dello stesso blu delle acque tropicali. Ha ciocche castane, spesse e dritte, acconciate in uno stile gradevole. È alta e formosa. Ha pelle rosea, sopracciglia quasi inesistenti e il mento largo. Porta solo vestiti di classe.


Quale sia carattere, il lavoro, le abitudini, la storia, sarai tu a deciderlo. Scrivi un brano che illustri il personaggio.
Mostra le caratteristiche che hai inventato, assieme ai tratti già presenti nella descrizione. Per rendere il brano più dinamico, puoi far interagire due dei personaggi che trovi qui sopra, oppure fare interagire quello che hai scelto con un tuo personaggio originale.


Come al solito, puoi mandarmi il risultato della tua investigazione nel commento a questa pagina. Non vedo l'ora di scoprire dove ti ha portato la tua fantasia! A presto, osservatore!

sabato 18 novembre 2017

Naiade

Mi sembra sia da un po' che non scelgo una parola che identifica una creatura mitologica, o sbaglio? Quindi è il momento di rimediare. Eccola qui.

Naiade [nà-ia-de] s.f. Nella mitologia classica, ninfa delle acque sorgive, dei fiumi, dei laghi, protettrice del matrimonio.

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Se penso alla mitologia e alle creature fantastiche, so già dove trovarle tra i mondi di cui ho scritto. In più, avevo già accennato a questa in particolare nel brano ispirato alla parola Ninfeo. Caso strano, e me ne rendo conto solo ora, torno a parlare di lei alla lettera N!


Mio padre era morto da poco in quelle che si definiscono circostanze misteriose, perciò era comprensibile il mio desiderio di isolarmi dal resto del mondo. O almeno, così mi dicevo.
In realtà sapevo che andando a spasso nei boschi, risalendo i torrenti montani, infilandomi nelle caverne avevo più probabilità di attirare l'attenzione delle creature che mi volevano uccidere. E forse, ora lo riconosco, il mio era un desiderio di morte, o di vendetta.
Ero l'ultimo della mia linea di sangue e nessuno, in questo mondo o nell'altro, era come me.
La creatura che mi trovò non era affatto ciò che mi aspettavo.
Emerse da una sorgente una mattina. L'acqua le risaliva le gambe e le braccia in gocce distinte, come file di perle che splendevano sulla sua pelle sfumata d'azzurro.
La riconobbi: una Naiade delle fonti. Il solo fatto che venisse dall'Oltre mi rese nervoso. Sentii pizzicare le piante dei piedi e i sassi più vicini si misero a tremare.
Le gocce si raccolsero in una veste di spuma che scese a ricoprirla dalle spalle alle ginocchia. La parte inferiore delle gambe era ancora immersa nell'acqua. Sembrava una creatura innocua, aggraziata, ma io sapevo che l'acqua poteva lasciare senza fiato chi viveva d'aria.
Le storie si tramandavano nella mia famiglia di generazione in generazione. Sapevo tutto dell'altro mondo, pur non essendoci mai stato.
Sfilai dalla tasca dei pantaloni l'accendino e lo tenni pronto nella mano destra.
– Fuoco contro acqua – disse la Naiade con voce musicale, quasi liquida. – Una pessima scelta, se volessi il tuo male.
Le rivolsi un sorriso scaltro. – Anche l'acqua può scaldarsi. Bollire. Evaporare.
– Se volessi il mio male – replicò lei. – Ma non sono qui per combattere, figlio del drago. Mi vuoi sposare?
La sua domanda mi spiazzò.
La Naiade mi spiegò che cercava un altro matrimonio per evitare un pretendente sgradito. Ma tenne per sé che per averla avrei dovuto battermi contro il mio rivale.
Quello lo seppi solo dopo averla conosciuta meglio e aver accettato.

giovedì 16 novembre 2017

Malcolm Millipedegutter

(racconto ispirato dall'esercizio Piacere di conoscerti, mi chiamo.... Il nome che ho scelto lanciando un dado tra i sei che avevo proposto è Malcolm Millipedegutter)

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Malcolm Millipedegutter non esiste. Se lo era inventato mio fratello, quando eravamo bambini.
Era il suo amico immaginario e la sua scusa quando mangiava di nascosto i biscotti e voleva addossare a qualcun altro la colpa.
– Non sono stato io! – diceva. – È stato Malcolm Millipedegutter, lo giuro!
Poi correva ad appoggiare l'orecchio al muro. – È ancora qui, lo sento masticare. Venite a sentirlo, venite, è vero!
Io una volta ci avevo provato, ad ascoltare. Gli avevo dato retta. Com'era prevedibile, però, non c'era niente, nessun rumore, e mi ero sentita una stupida con l'orecchio incollato alla parete.
Mio fratello, col dito sulle labbra, aveva già la scusa pronta. – Ssshhh! Ha capito che lo stiamo ascoltando. Dobbiamo fare piano piano, aspettare un po', così ricomincia a mangiare...
Ma io a quel punto mi ero già stufata.
Mio fratello non faceva che parlare di Malcolm Millipedegutter, così nel tempo avevo imparato tutto su di lui. Avevo imparato che viveva nelle pareti di casa nostra. Che era vecchissimo, con la pelle marrone come quella degli alberi e tante rughe. Che sapeva parlare con i topolini e con le lucertole. Che non gli piacevano i gatti. Che aveva un cappello verde a punta, pantaloni di muschio e un gilet color giallo sporco. Che preferiva i biscotti con le gocce di cioccolato.
Alla fine avevo imparato a evitare mio fratello quando cominciava con la sua tiritera.
Lo evitavo anche quando lo scoprivo a bussare sulle pareti e parlare fitto fitto con il nulla. Era il suo momento di follia privata.
Lui ci credeva davvero. Ma credeva ancora a tante cose a quell'età: anche a Babbo Natale e alla Fatina dei Denti. Io, che avevo quattro anni di vantaggio su di lui, sapevo come stavano davvero le cose. E ne so ancora di più ora che sono adulta.
Malcolm Millipedegutter non esiste.
E allora che cos'è questa creaturina bruna che mi fissa con occhi neri e tondi come capocchie di spilli sotto un cappello verde a punta, si toglie dalle labbra il pezzetto di biscotto con gocce di cioccolato, lo indica con l'altra mano dalle dita lunghe, sottili e nodose come ramoscelli e mi chiede, con una vocina gracchiante: – Di questi, ne hai ancora?

lunedì 13 novembre 2017

Patrizio Boscoscuro

(racconto ispirato dall'esercizio Piacere di conoscerti, mi chiamo.... Il nome che ho scelto è Patrizio Boscoscuro)

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Quando cominciai a lavorare al Carpe Diem Café, Patrizio Boscoscuro lo frequentava già da molto tempo. Questo, ovviamente, lo seppi solo più avanti. Nei miei primi giorni come cameriera sapevo solo che era un individuo sgradevole, diverso dal resto dei nostri clienti. Erano quasi tutti studenti universitari, ciarlieri e allegri, o impiegati che si fermavano per un caffè e sparivano in fretta.
Lui no, non era così.
Sedeva sempre allo stesso tavolo vicino alla finestra. Veniva da solo, ordinava qualcosa (di solito, niente che contenesse caffeina o alcool, e anche questo era bizzarro per uno dei nostri clienti) e restava lì anche una mezza giornata, con la sola compagnia del suo smartphone e di un blocchetto per gli appunti dalla copertina nera. Era più vecchio degli studenti che passavano da noi il tempo tra una lezione e l'altra. Mi sembrò sulla trentina, perciò all'inizio pensai che fosse un qualche tipo di professionista, uno di quelli dal nome inglese e complicato. Pensai che stesse lavorando.
Ma quando sbirciai il blocchetto, nel portargli un tè al ginseng, scoprii che aveva diviso la pagina in due colonne, "vecchio" e "nuovo". La prima colonna era quasi piena, nella seconda aveva scritto a malapena due righe.
Non riuscii a leggere il contenuto delle colonne, perché lui alzò gli occhi dallo smartphone, chiuse il blocchetto e mi liquidò con un affettato: – Puoi andare.
Quella fu la prima volta che mi diede sui nervi. Ma non fu l'unica.
Ogni tanto lo sorprendevo a fissarmi. Patrizio ha occhi scuri, di una sfumatura troppo fredda per essere definita marrone. Sono quasi più sul grigio, in realtà. Questo, unito al suo modo di fissare così intenso, senza quasi battere ciglio, come se ti stesse valutando, rendeva la cosa estremamente inquietante.
Lo riferii a una delle cameriere che lavoravano al café da più tempo, chiedendole se dovevo preoccuparmi, se per caso non si trattasse di un maniaco o qualcosa del genere.
– Sei proprio sicura che stia guardando te? Forse ti sei sbagliata, io non l'ho mai visto alzare gli occhi dal cellulare. Ad ogni modo, stai tranquilla, è del tutto innocuo.
Non mi fidai della sua rassicurazione. Parlando con le altre, venni a sapere il suo nome e pensai che fosse appropriato. Aveva proprio l'aria da Patrizio, quel fare snob, da nobile che il suo nome suggeriva. Era biondo, sempre perfettamente rasato, e indossava spesso un completo da uomo d'affari, camicia bianca, giacca e cravatta. Qualche volta, molto raramente, passava da noi con un paio di jeans e un maglione color crema, ma anche vestito così l'impressione era la stessa di sempre: un'eleganza altezzosa che traspariva da ogni gesto, da ogni occhiata, e dalle poche frasi che gli occorrevano per ordinare qualcosa con un tono di voce sgarbato, con un leggero rotacismo.
Continuai a sorprenderlo a fissarmi. Non sapevo perché lo facesse, che cosa volesse da me o quali pensieri sul mio conto nascondesse dietro i suoi occhi grigi.
Un giorno presi coraggio, mi sedetti di fronte a lui e sbottai: – Ora basta. Si può sapere che cavolo hai da fissare?
Lui mi rivolse lo sguardo indagatore di sempre e mi chiese, con un candore che giudicai fasullo: – Lo hai notato?
– L'ho notato sì, l'ho notato! E sarebbe meglio se tu la smettessi...
Patrizio scoppiò a ridere. Lo scrutai a occhi socchiusi, sentendo montare la rabbia. Quello che disse dopo mi sorprese.
– Scusa, non mi capita spesso. Questa è una novità. Gli altri non vedono mai quando li guardo.
Quello fu il giorno in cui capii che la mia prima impressione su di lui era completamente errata. Che la sua facciata di arroganza era solo questo: una facciata. Che conoscendolo meglio, il suo nome sembrava non descriverlo affatto. Scoprii il suo senso dell'umorismo, e compresi che, come la sua freddezza, aveva dovuto svilupparlo per affrontare il mondo sapendo quello che lui sapeva.
Patrizio e io parlammo a lungo, sia in quell'occasione, che in altre. Mi spiegò il senso delle due colonne, e il perché della prima quasi piena. Faticò a convincermi che non stava mentendo, che le assurdità che mi diceva erano vere. Mi spiegò da dove gli veniva la sensazione che tutto fosse già stato visto, fatto, vissuto.
Patrizio Boscoscuro ha un segreto. Ma sarei pazza a rivelartelo. E, tanto, se te lo dicessi, non mi crederesti.

sabato 11 novembre 2017

Madrigale

La parola di oggi mi è stata suggerita da Marina (Grazie Marina! Ottima scelta!) sul gruppo "Non solo scrittura - Le storie della Piuma Tramante" (https://www.facebook.com/groups/525191217825250/). Vuoi suggerire la parola per il prossimo sabato, condividere consigli su libri, film, musica e artisti che ti piacciono, partecipare a giornate a tema e provare a immedesimarti in un personaggio? Iscriviti al gruppo!

Madrigale [ma-dri-gà-le] s.m. 1. mus. Composizione polifonica, talvolta con accompagnamento strumentale, sviluppatasi tra il secolo XIV e il XVII. 2. Componimento poetico, generalmente breve, di tema amoroso e bucolico, tipico dei secoli XIV-XVII.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non è facile trovare un'ambientazione in cui la parola madrigale non suoni usata a sproposito, o fuori contesto. Fortunatamente il romanzo che sto scrivendo per il NaNoWriMo mescola tecnologia e famiglie nobili tradizionaliste perciò... ho colto l'occasione per approfondire il passato di uno dei protagonisti.


Mio fratello mi aveva convinto a comporre madrigali sulle musiche che il nostro mentore insisteva a farci studiare. La delegazione da Aldaque'en sarebbe arrivata a breve, e si diceva che le figlie dell'ambasciatrice fossero bellissime.
Naturalmente, Josiac non poteva toccarle.
Si sarebbe accontentato delle dame da compagnia, con le quali aveva intenzione di riciclare le poesie sconce che gli avevo passato per la cameriera bionda della Locanda De' Viaggiatori Stanchi.
Ma, più che convinto, sarebbe meglio dire che mi aveva ricattato.
– Andiamo, Jasmen. E dammi una mano, no? Io ci sono sempre per le tue scorribande notturne. – Guardandosi le unghie, mio fratello sussurrò la sua minaccia. – E a proposito di quelle scorribande... lo sai che nostro padre sarebbe molto felice di conoscere il delinquente che scrive quei manifesti, vero? Lo fanno tanto arrabbiare...
– Non oseresti...
Josiac rise. – Dammi un modo migliore per impiegare la bocca, e me ne starò zitto. O forse non tanto zitto, ma tutto quello che ne uscirà sarà...
Lo spinsi indietro prima che potesse esibirsi nella sua migliore imitazione di una serie di gemiti di piacere e oscenità varie.
– Va bene, va bene, mi metto subito a scrivere, sei contento?
Josiac fu contento, e lo fu anche nostro padre quando vide il volto dell'ambasciatrice illuminarsi al suono dei liuti e delle più belle voci che il denaro aveva potuto portare a palazzo. Un'ambasciatrice felice era un'ambasciatrice più propensa a concludere affari. Penso di poter dire che lei, il marito e le figlie, non tanto belle quanto le descrivevano, gradirono molto i testi amorosi, più lieti e ritmati. Io invece ero orgoglioso delle poche composizioni drammatiche che ero riuscito a infilarci dentro senza destare i sospetti di mio padre.
Lo sentii nominare me e Josiac come autori dei madrigali. Non provai a correggerlo, a dire che Josiac aveva soltanto avuto l'idea. Mi bastava sapere che, per una volta, era fiero di noi.
Questo, naturalmente, prima della rissa.

giovedì 9 novembre 2017

Nomen omen

Il tuo nome è la parola che sentirai pronunciare di più nel corso della tua vita.

Pensa al tuo nome: non lo hai scelto tu, eppure, che ti piaccia o meno, è diventato una parte fondamentale della tua identità. Forse conosci il suo significato, forse no. E se lo conosci, forse ti sembra appropriato alla persona che sei diventato, o forse ti sembra completamente sbagliato, al punto da provarne repulsione. Forse preferisci usare un soprannome, soprattutto con gli amici.

Ma in ogni documento ufficiale, in ogni occasione formale e ogni volta che guardi la tua carta d'identità, eccolo lì, che rispunta fuori come a volersi far beffe di te. Sì, non mi hai scelto. Ma io ci sono, esisto, e siamo legati per la vita.

Non mi capita spesso di creare un personaggio partendo dal suo nome. Ma ho voluto sfidare te e me a provarci. I rari casi in cui mi è capitato, è stato per due motivi:

  • Mi piaceva il suono di una parola. Non necessariamente un nome, quella parola lo è diventata nel momento in cui ho immaginato di associarla a una persona. È nato così il primo racconto che ho scritto in inglese, "Serenely". Nella sua versione originale, per la mia insegnante di inglese, l'ho fatto precedere da una nota in cui spiegavo: "Stavamo leggendo Mrs Dalloway, e al suono di quella parola ho immaginato una fanciulla su uno scoglio, circondata dal mare, come una sirena. Forse era inverno, perché non c'era nessuno sulla spiaggia. Cosa sarebbe accaduto se qualcuno l'avesse vista e chiamata?" Quella storia è stata la mia risposta alla domanda.
  • Ho bisogno in velocità di un nome per un personaggio secondario che magari compare solo di passaggio, o in un dialogo tra altri. Più tardi, invece, mi rendo conto che quel personaggio entra a far parte della storia. E a quel punto dal nome devo creare tutto il resto. Questo è il caso di Evangeline di Glissare. La prima volta l'ho nominata in un esercizio (non presente nel blog). Solo nominata. Quando ho scelto di approfondire il suo personaggio nel brano, ho fatto una rapida ricerca sul nome... e ho trovato qualche riferimento interessante.

Se devo iniziare dal solo nome, per me è fondamentale conoscere il suo significato, o se come nel caso di Evangeline ha dei precedenti letterari. Se il nome è molto particolare, mi chiedo che cosa possa aver influito nella scelta di chi lo ha voluto (i genitori, la società, una persona influente o il personaggio stesso, a seconda dei casi). Il suo significato è benaugurante? È casuale, o scelto con cura? A volte, soprattutto nei casi più difficili da ricostruire, scelgo di inserire dei piccoli indizi. Come nel caso di Nyxi (dal greco Nyx, "notte") e Ailey (di origine irlandese, il significato è "luce") di Nictofobia. Ma come utilizzare quello che sai sul nome del tuo futuro personaggio? Questi sono solo alcuni suggerimenti:

  • Affidati al tuo intuito. Fa ciò che non faresti con uno sconosciuto reale, ovvero abbandonarsi alla tua prima impressione. Solo sulla base di un nome. Ti piace, ti sembra il nome adatto a una persona simpatica, o a qualcuno con cui non riusciresti ad andare d'accordo? Dove ti aspetti di incontrare il proprietario di quel nome? Come te lo immagini?
  • Usa il significato del nome in modo creativo. Certo, Bruno potrebbe essere, come dice il suo nome, una persona castana. Ma che accadrebbe se a portarlo fosse un uomo biondo? Forse sarebbe stanco delle battute che gli rivolge chi, dopo averlo sentito al telefono, lo incontra per la prima volta? O la prenderebbe con spirito? Sceglierà di adattarsi al suo significato tingendosi i capelli, o lo combatterà con tutte le sue forze? Lo stesso discorso che qua ho portato su un piano ovvio e fisico, potrebbe essere fatto sul significato di un nome che si riferisce al carattere.
  • Ogni nome ha origini storiche e geografiche. Alcuni sono facilmente riconoscibili. E non mi riferisco solo ai nomi inglesi associati a un cognome italiano. Anche solo restando in Italia, alcuni nomi sono più usati al sud, altri al nord. Un cognome sardo salta subito all'orecchio. E alcuni nomi, che un tempo erano frequenti, ora sono caduti in disuso, denunciando l'età di chi li porta, o l'atteggiamento tradizionalista di una famiglia che ancora li tramanda di generazione in generazione.

Di sicuro ho trascurato tante altre considerazioni sui nomi, ma spero che queste ti diamo già una base di partenza per cominciare a riflettere. Hai già pensato a quale nome avrà il tuo personaggio? Io ho fatto la mia scelta: Patrizio Boscoscuro. Una scelta casuale, infatti il nome l'ho preso da William Patrick Corgan, di cui ho sentito la canzone Aeronaut tornando a casa dal lavoro (William già l'ho usato per un personaggio, quindi ho italianizzato il secondo nome), mentre il cognome l'ho sentito citare da qualcuno lo stesso giorno. Essendo molto evocativo e non conoscendo nessuno che lo porta... l'ho preso!

Scrivi pure qui sotto il nome del personaggio che ti piacerebbe descrivere, o il tuo testo se già hai svolto l'esercizio di lunedì!

lunedì 6 novembre 2017

Piacere di conoscerti, mi chiamo...

Buongiorno creatore di mondi!

Ci siamo. Si ricomincia. Pronto per una nuova avventura?

Oggi incontrerai uno sconosciuto. Di lui, o di lei, sai solo il nome. Ecco i dettagli della missione di questa settimana:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Scegli un nome. Assicurati che non appartenga a qualcuno che conosci.
Chiedi a un parente o a un amico di suggerirtene uno. Sceglilo tra quelli presenti in un sito come Nomix (con il bonus di sapere anche il significato, che potrebbe ispirarti). Per qualcosa di più fantasioso, puoi provare un generatore casuale di nomi.
Per una decisione rapida puoi sempre lanciare un dado e usare il nome corrispondente, creato tramite i generatori di nomi usando le parole "Piuma Tramante" (o scegliere semplicemente il tuo preferito):
1 Maria Crawford
2 Stella Marina
3 Lilia Lombardi
4 Malcolm Millipedegutter
5 Feather Winddancer
6 Gianni Gallo

Chiudi gli occhi e prova a immaginare la persona che porta quel nome.
Dove si trova? Che aspetto ha? Com'è vestita? Che cosa sta facendo?
C'è qualcosa in particolare del suo aspetto che ti ha colpito, che spicca fra il resto?
Prova a immaginare di avvicinarti e di presentarti, com'è la sua voce? Che cosa ti dice? Come usa le parole e il linguaggio del corpo?
E giusto per coinvolgere anche un altro dei cinque sensi, indossa un profumo?

Scrivi un breve brano che la riguarda.
Usa le informazioni che hai immaginato. Scegli le più significative, se pensi che siano troppe. E che si tratti di una semplice descrizione o di un brano più elaborato, non importa: ciò che conta è cominciare.


Per ogni commento, domanda, o per leggere il resoconto della tua missione, mi puoi trovare qui. Giovedì scriverò qualcosa in più sulla creazione di un personaggio a partire dal nome. Nel frattempo, ti ricordo solo che il personaggio che avrà stuzzicato di più la mia curiosità riceverà un posto in prima fila tra le pagine della Piuma Tramante, assieme all'autore che me lo ha presentato.