lunedì 31 luglio 2023

Troppo realistico


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Vanessa Loring da Pexels


Quando Sergio mi aveva parlato di un gioco di ruolo "così realistico da far impallidire qualunque altro", in un primo momento non gli avevo creduto. Pensavo che esagerasse, anche perché quando gli chiedevo qualche dettaglio, lui restava nel vago. Parlava di sfide, e di combattimenti uno contro uno, di immersione totale e di poche semplici regole.
Mi ripeté più volte che dovevo essere davvero interessata, se volevo che lui mi dicesse di più. E che non dovevo ripetere a nessuno quello che lui mi stava rivelando, perché il gioco di cui parlava era davvero esclusivo e segreto. Pensavo che definirlo tale fosse solo un'operazione di marketing, ma su di me aveva funzionato: la mia curiosità era stata stuzzicata a dovere, e ormai volevo assolutamente sapere che cosa c'era dietro.
Insistetti finché Sergio non mi disse che voleva farmi conoscere qualcuno che lavorava in un certo posto, e dalla vaghezza delle sue parole capii che quell'incontro aveva a che fare con il gioco.
Feci finta di non saperlo, però, quando il tizio in giacca e cravatta che ci accolse in un ufficio qualunque si presentò come un impiegato di una società di somministrazione di sondaggi, e come prima cosa mi fece compilare una montagna moduli contenenti di test attitudinali e indagini riguardanti le mie abitudini. Alcune delle domande, mescolate ad altre più banali sulle marche di detersivo e sulle mete preferite per le vacanze, riguardavano i videogiochi e i giochi di ruolo: se li avevo mai provati, di che tipo, che personaggio preferivo interpretare e che genere di avventura mi attirava di più. Questo mi fece capire che, nonostante la facciata apparisse quella di una banale società di indagini di mercato come tante altre, io ero nel posto giusto. Mi rassicurò, e sulle prime non feci caso alle domande più inquietanti, quelle che chiedevano se ero spaventata alla vista del sangue e quanto ero in grado di sopportare il dolore. Pensavo fossero lì solo per confondere le acque, come riempitivo.
Poi fu la volta dei moduli di riservatezza. Il tizio elegante dietro la scrivania mi costrinse a leggerli prima di firmarli, mi chiese di ripetere quello che avevo capito e mi sottopose persino a un test con la macchina della verità. Non sto a ripetere tutta la procedura che dovetti seguire prima che si decidesse a spiegarmi qualcosa di questo fantomatico gioco, ma quello che compresi dai moduli di riservatezza era che impiegavano una tecnologia innovativa, e che erano parecchio preoccupati che la loro invenzione potesse essere rubata e replicata dalla concorrenza.
Pensai, allora, che si trattasse di un gioco che si svolgeva nella realtà virtuale, magari con un ambiente più dettagliato e realistico rispetto ad altri, ma di certo nulla di paragonabile a quello che si vede nei film di fantascienza. Mi sbagliavo.
Una volta terminato con tutta la procedura relativa alla segretezza, il tizio in giacca e cravatta si alzò dalla scrivania e scortò me e Sergio, che si era impegnato a farmi da garante e mentore per il mio periodo di prova, oltre un labirinto di uffici in cui la gente faceva solo finta di lavorare, e al di là di una porta che si apriva su un banale sgabuzzino, la cui parete di fondo si aprì una volta che ci fummo chiusi dentro.
Eravamo nella zona segreta di quello che il nostro accompagnatore definì checkpoint. A questo punto, lungo la strada verso il suo vero ufficio, il tizio iniziò a parlarmi del gioco. Come lo avevano chiamato, come si svolgeva, come si calcolavano i punti e come potevo usarli per acquistare miglioramenti per il mio personaggio. Alcuni dei termini che usava, come quado parlava del campo di distorsione, mi lasciarono perplessa, ma per il momento lasciai che parlasse senza fare domande, nemmeno quando, pieno di orgoglio, parlava di questo come di un gioco che davvero poteva essere fatto dovunque e in qualunque momento, e che chiunque avrebbe potuto essere il mio avversario.
Quando arrivai nel suo ufficio, in base alle informazioni che avevo fornito in precedenza con i questionari, lui e Sergio mi aiutarono nella creazione del mio personaggio, scegliendo nome, armi, vestiario e accessori. Nessuna opzione sull'aspetto che doveva avere, né sulle abilità o sulle statistiche che ogni buon giocatore di ruolo si sarebbe atteso di dover compilare alla creazione del personaggio.
Mi dissero, anzi, che dovevo partire da qualcosa che io sapevo già fare.
Avevo fatto danza, da bambina. Parecchi anni, prima di abbandonare quella strada.
Fu così che nacque Shariza, la danzatrice di spade.
Mi avevano proposto di creare il personaggio di un mago, dato che io non avevo alle spalle un corso di scherma medievale come quello che Sergio aveva fatto per poter partecipare alle rievocazioni storiche in veste di cavaliere, ma io non gioco mai un mago. Starmene al sicuro nelle retrovie a lanciare incantesimi e perdermi tutta l'azione, con la beffa di essere morta al primo colpo quando l'azione si spostava dalle mie parti? No, grazie.
Il tizio si assicurò comunque di darmi l'indirizzo di una palestra convenzionata dove avrei potuto seguire un ciclo di lezioni e fare pratica, anche se io non ne vedevo la necessità, per combattere in un gioco. Anche qui, mi sbagliavo.
A quel punto mi fornirono l'aggeggio tecnologico, simile a un videogioco portatile, programmato con il mio personaggio. Rimasi un po' delusa quando lo vidi: non sembrava poi questa grande novità. Niente visori per la realtà virtuale, niente occhialini per la realtà aumentata, niente di ipertecnologico e innovativo. Un banale videogioco portatile, con tasti e un piccolo schermo.
Il tizio in giacca e cravatta mi ripeté ancora una volta che dovevo averne cura, non parlarne a nessuno di esterno al gioco, e che in caso di smarrimento o furto avrei dovuto denunciare immediatamente la perdita, e che se fosse stato dimostrato che tale evento si era verificato per una mia negligenza, sarei stata estromessa per sempre dal gioco.
Poi mi disse che avremmo fatto una prova lì in sede, per vedere come mi sentivo nei panni del mio personaggio e se avevo qualche cambiamento da fare, e passò a elencarmi una serie di effetti collaterali, che includevano nausea, disorientamento e vertigini, che potevano capitare le prime volte che attivavo questo fantomatico campo di distorsione, ma che con il tempo e con l'abitudine si sarebbero attenuati fino a sparire.
Mi condussero in una stanza vuota, dove mi lasciarono da sola mentre Sergio e il tizio in giacca e cravatta si sistemarono nella stanza attigua assieme a un altro tizio che chiamavano "l'operatore", e che mi dava istruzioni parlando in un microfono collegato a un interfono. Potevo vederli, tutti e tre, in un riquadro di finestra rettangolare.
– ...il campo di distorsione del tuo Simpler si collegherà al campo di distorsione ambientale che verrà proiettato in entrambe le sale, così potremo vederti senza essere direttamente nel tuo campo di distorsione – ripeté meccanicamente in tono annoiato la voce dell'operatore. – Aggancia il Simpler alla cintura o a una tasca, dovunque ti consenta di tenere le mani libere, e quando sei pronta premi il pulsante start. Tieni le mani libere, e magari con le dita strette un po' verso il palmo, sì, così – disse l'operatore quando gli mostrai le mani per capire se lo stavo facendo bene. – Quando sei pronta.
Non vedevo alcun motivo per attendere. Non mi aspettavo che accadesse granché nel seguire le sue istruzioni, e invece accadde di tutto. D'improvviso non mi trovavo più in una stanza vuota, ma in una strada affollata, di notte, tra un viavai di gente che mi ignorava come se non esistessi e una confusione di neon variopinti e insegne pubblicitarie che non riuscivo a leggere, perché le scritte erano quasi tutte composte da ideogrammi.
Qualcosa di pensante mi sfuggì dalle mani e cadde a terra con un clangore metallico, e nel guardare giù scorsi l'esatto tipo di spade che avevo scelto per Shariza, e ancora peggio, i miei vestiti erano stati sostituiti da quelli che avrebbe dovuto indossare il mio personaggio.
Mi sfuggì un'imprecazione.
Dall'interfono, rimasto aperto, mi giunsero le voci del tizio in giacca e cravatta e dell'operatore, e la risata sguaiata di Sergio.
– Shinjuku? Di nuovo? Ti avevo detto di caricare Milano!
– Scusa, capo. Ma tanto non fa differenza, no? È solo una prova.
Alzai gli occhi e li vidi dentro una vetrina. Dunque non mi ero mai mossa dalla stanza vuota, e quelli che vedevo erano solo ologrammi. Ologrammi estremamente realistici.
– Chiedo scusa per l'inconveniente, volevo calarti in una situazione di gioco realistica – mi disse il tizio in giacca e cravatta attraverso l'interfono. Non fosse stata in una lingua diversa, avrei confuso la sua voce con il vociare della folla olografica, o con gli annunci e la musica che provenivano dai negozi o dai veicoli che passavano lungo la strada.
– Naturalmente il campo ambientale non ci sarà quando attiverai solo il tuo Simpler e il tuo sfidante il suo, verranno caricate solo le caratteristiche dei vostri personaggi – mi disse ancora. – Raccogli le spade. Prova a vedere se riesci a maneggiarle. E vedi di non lasciarle cadere quando giochi.
Alle ultime parole, Sergio rise ancora più forte. Mi chinai e toccai con un dito le else. Sembravano reali. Davvero reali.
Raccolsi una delle spade. Ne sentii il peso e percepii sotto le dita le pieghe del cuoio che ricopriva l'impugnatura. Osservai la lama e mi chiesi se fosse altrettanto realistica. Dovevo sapere, perciò passai un dito sul filo e subito lo tirai indietro con un gemito. Mi usciva sangue, e il dolore era reale.
– Attenzione, è affilata – mi avvertì con una cantilena monotona l'operatore, troppo tardi.
Sembrava così reale. Troppo reale. Per un attimo, uno soltanto, pensai di tirarmi indietro. Fu quando mi resi conto che avrei dovuto combattere davvero con quelle spade, ferire o addirittura uccidere il mio avversario, ed evitare che lui o lei lo facesse a me. Anche se l'uomo in giacca e cravatta mi aveva spiegato che era solo un gioco, che non si moriva davvero in quelle sfide e che una volta fuori dalla distorsione gli effetti residui erano minimi, non era facile abituarsi al pensiero che il confine tra il gioco e la realtà fosse così sottile.
Ecco il perché di tutti quei test psicologici. Dovevano assicurarsi che fossi una persona equilibrata prima di mettermi in mano una tecnologia del genere. Se ero lì, voleva dire che avevo superato tutti i loro test. Potevo almeno provare e vedere come andava, e avevo Sergio che mi avrebbe insegnato tutto quello che dovevo sapere per migliorare le mie probabilità di vittoria.
Lo credevo, ma Sergio non si rivelò l'amico che pensavo che fosse.

sabato 29 luglio 2023

Moina

Moina [mo-ì-na] s.f. Azione, comportamento, frase affettuosa; in particolare, gesto affettato e leziosamente gentile fatto in segno di affetto o per blandire e commuovere qualcuno, allo scopo di ottenere ciò che si desidera; smanceria.

Etimologia: etimo incerto, forse dal francese mine, "cera" o "aspetto del volto, gesto" attraverso la forma dialettale moigne, che a sua volta si ricollega alla parola celto bretone min, "muso"; secondo altri proviene dal latino volgare movina, derivato di movere, "muovere"; oppure si tratta semplicemente di una voce onomatopeica che assomiglia a un miagolio.



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Foto Vlada Karpovich da Pexels


Il mostro sotto al Tabarro Nero non si perdeva in moine, mai.
Lo capii fin dalle prime notti nella mia nuova famiglia, se tale poteva essere chiamata. Gli altri bambini cattivi che aveva preso prima di me si erano aspettati che io piangessi, che mi lamentassi o che tentassi di scappare, ma per me quello non fu un gran cambiamento.
Mia madre, nel tentativo di fare di me una bambina buona, era stata anche più severa.
Nessa era stata gentile con me, ma Nessa non c'era più. Ne ero sicura perché Nessa era stata troppo buona per il mostro sotto al Tabarro Nero, e così lui l'aveva usata per placare la mia prima sete e poi l'aveva gettata via.
Ma la sete era tornata. Tornava sempre, per questo andavamo a caccia.
Le dimore isolate erano le migliori, perché lì non dovevamo fare piano, in silenzio, e nessuno sarebbe arrivato. Gli abitanti di quelle dimore, inoltre, non pensavano mai che potevamo essere il problema di qualcun altro. Il mostro sotto al Tabarro Nero si era circondato di bambini, perché i bambini non facevano paura a nessuno, per i bambini le porte delle case si aprivano e venivano invitati a entrare.
Agli adulti umani, anzi, piaceva che fossimo così educati da aspettare di essere invitati prima di varcare la soglia, e non si facevano domande, non si insospettivano per il nostro pallore o per le nostre occhiate bramose. Non finché non posavamo le nostre piccole mani fredde, e i nostri denti, su di loro.
Alcuni dei bambini cattivi che il mostro sotto al Tabarro Nero aveva preso dopo di me, e anche alcuni dei più vecchi, resistevano ostinatamente alla sete pur di ricevere da un estraneo l'affetto che non potevano avere dai propri compagni o da colui che ci aveva presi. Accoglievano con gioia ogni smanceria e ogni moina che quei corpi caldi potevano offrire, fosse stata una carezza, una parola gentile o addirittura un abbraccio.
Io li compativo, e se ero con loro, intervenivo presto per porre fine a quell'inganno che non ci avrebbe restituito la vita.

giovedì 27 luglio 2023

Audioracconto - Durlindana


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Foto di Daisa TJ da Pexels


Il guanto di sfida è stato lanciato. Chi avrà la meglio, il gigante o il nanerottolo?

Durlindana
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Durlindana: In senso scherzoso, spada, sciabola.


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/02/durlindana.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Friendly Day di Kevin MacLeod (http://incompetech.com/)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=SEQSwsm2q_w).

Immagine di: Daisa TJ (https://www.pexels.com/photo/man-holding-sword-3408420/) da Pexels distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

lunedì 24 luglio 2023

Un giorno alla volta


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Foto di Victoria Rain da Pexels


Ogni giorno è diverso. Ogni giorno è la stessa storia.
Mi sveglio e non so chi sono finché non mi guardo allo specchio. Non che non me lo ricordi, sebbene, quando vedo il mio volto, mi torna tutto in mente: il mio nome, il mio passato, le quotidiane preoccupazioni che occuperanno la mia giornata.
È che quella vita, anche se la rammento, io non l'ho mai vissuta. È così, per me, da quando ho memoria. È un nuovo giorno, un nuovo mondo, una nuova me stessa o me stesso a ogni risveglio.
La mia vita è imprevedibile, ma non mi dispiace. Questa mia condizione, che ho scoperto non essere comune - una volta pensavo che fosse così per tutti, ma mi sbagliavo - mi ha insegnato a prendermela comoda e a godermi il viaggio. Apprezzare quel che di buono ogni mondo ha da offrire, e scoprire la meraviglia di un istante. Quanti di voi bloccati nella stessa vita possono dire di riuscire ad assaporarla sul serio?
Il mattino, con la sua promessa di un nuovo inizio, è il mio momento preferito. Mi sveglio presto e mi stiracchio nel letto, e intanto prendo confidenza con la mia nuova forma, conto gli arti, la coda quando c'è, saggio la forma della testa e metto alla prova i miei sensi.
Quando penso di riuscire a muovermi senza inciampare nei miei stessi piedi, o zoccoli, o tentacoli, mi alzo o scivolo giù dal mio rifugio notturno e cerco la più vicina superficie riflettente, o qualsiasi cosa ne sia l'equivalente in quel mondo. Non ho ancora trovato una terra in cui sia negata la possibilità di apprezzare sé stessi, sotto una qualche forma. A volte i miei sensi non percepiscono affatto le onde elettromagnetiche provenienti da una fonte luminosa, ma trovo comunque un ingegnoso strumento che possa rivelarmi il mio volto sfruttando una forma naturale di ecolocalizzazione, o uno strato gelatinoso in cui lasciare un'impronta che stimola la propriocezione tattile in un modo estremamente dettagliato.
Oggi il mio specchio è un ovaloide d'argento opaco appeso al soffitto in un angolo della stanza. Devo toccarlo affinché funzioni, ma non appena lo sfioro la superficie si fa lucida e mi restituisce la mia immagine. Ho un corno sulla sommità della testa, non è la prima volta, e ormai molti giorni fa mi sono svegliata che ne ero piena, dalla fronte alla nuca, un'intera selva di piccole corna ramificate come ramoscelli di un albero. Questo almeno è elegante, assottigliato e ritorto, come una conchiglia a spirale d'argento. Ho due occhi, un naso, una bocca con i denti, due orecchie. Ho i capelli, il che non è affatto scontato. Li avevo già sentiti quando li pettinavo con le mani stando a letto, ma ora posso anche vederli, candidi e corti, con una fila di fiori dai petali rossi tra la frangia e il resto della chioma. Sono parte di me, non un ornamento, perché riesco a sentire il mio tocco ogni volta che li sfioro con le dita, che sono cinque, tra parentesi, su entrambe le mani.
Non è la mia prima volta come forma di vita almeno in parte vegetale.
Mentre guardo il mio volto tondo, con formazioni cristalline sulla pelle della fronte e delle guance, mi sovviene il mio nome, Felideas Di Hehà, e piano piano riemergono i ricordi.
So chi sono, so dove mi trovo, so come muovermi nella mia casa e dove trovare tutto ciò che mi serve.
Non ho fretta di iniziare la giornata. Mi sposto in cucina e mi prendo tutto il tempo per una buona colazione. Il bricco è già sulla piastra termica, nell'attesa che la mia bevanda sia pronta mi siedo e mi guardo attorno. Le pareti sono fatte di lunghe assi di un qualche tipo di legno dalla lucentezza di alabastro. Grandi finestre, che danno su un giardino di piante bianche e rosa dai rami che formano graziose spirali, lasciano entrare molta luce che danzando sulla mia pelle la accende di riflessi iridescenti e mi invigorisce. Tra i rami, quelli che in altri mondi si chiamerebbero uccelli cantano melodie musicali in cui avverto talvolta tracce di parole. Una carezza setosa mi sfiora le gambe e guardando giù scorgo Lioth, il mio cucciolo di kipharen; quattro zampe filiformi e scattanti e lunghi peli che si agitano nell'aria, pare un batuffolo di cotone o la pianta acquatica di un altro mondo.
Verso il sui cibo, un liquido zuccherino, nella ciotola, e intanto un profumo che ho già avvertito con altri sensi, in altri mondi, si spande nell'aria dal bricco sulla piastra termica.
Caffè.
Oggi è una giornata fortunata.
Non esiste in tutti i mondi il caffè. Così come il cacao, laddove riesco a trovarlo ne approfitto, perché se preparato bene, ritengo che il caffè sia una delle meraviglie del creato. Sì, lo so, lo dico quasi di tutto, dai raggi di sole alla buona musica al più comune dei paesaggi naturali, ma per quanto riguarda caffè e cacao, lo penso in particolar modo. Le alternative offerte dai mondi dove queste bevande non esistono, e anche da alcuni in cui esistono assieme a dei surrogati che ne sono una pallida imitazione, non sono mai altrettanto soddisfacenti. Solo lo xayqe è ugualmente gustoso, ma lo xayqe è una bevanda dolce, fresca, leggera e frizzantina che pizzica la lingua, e che non ha mai preteso di essere caffè.
Verso il liquido caldo dal bricco, torno a sedermi e assaporo a piccoli sorsi la mia tazza amara, alternandoli a dolcetti color arcobaleno a forma di mandorla. E intanto penso a quali amici andrò a far visita oggi, al mio turno di servizio alla comunità, al viaggio verso la mia terra natale, Hehà, che non posso più rimandare. Penso a tutto quello che so, che farò, che sceglierò, perché sono Felideas oggi, e per un breve istante, un giorno soltanto, questa è la mia vita.
Non so se è una vita presa in prestito, se domani la vera Felideas riprenderà il suo posto e continuerà da dove io ho lasciato come nulla fosse, o se questa esistenza è nata con me, apparsa dal nulla, e al mio addormentarmi svanirà. Io so solo che domani non sarò più qui, e che questa forma, questa vita che ora sento appartenermi sarà solo un ricordo, presto sostituita dalla successiva. Qualcun altro, qualcuno meno coscienzioso, potrebbe approfittare di una vita vissuta un giorno alla volta, senza conseguenze, e causare danni enormi nei mondi che visita.
Non è il mio modo di fare.
Stasera, quando andrò a letto e chiuderò gli occhi su questa esistenza, abbandonandola per sempre, sarò contenta se potrò rammentare di aver assaporato le piccole gioie quotidiane che questo mondo può offrire, se avrò fatto la mia parte nel condurre questa vita come se non ne avessi altre, e, quando posso, se l'avrò lasciata migliore di come l'ho trovata, compiendo quelle ardue scelte che sono così facili quando si ha un giorno solo per prenderle, così difficili quando si pensa di avere tutta la vita davanti.

sabato 22 luglio 2023

Arcaico

Arcaico [ar-cài-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) 1. Che risale al periodo iniziale, più antico di un processo evolutivo, di un'era storica, ecc. 2. estens. Che imita uno stile primitivo, antico . 3. geol. era arcaica, archeozoico.

Etimologia: dal greco archaikos, "primitivo, antico", derivato da arché, "principio".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Dajana Reçi da Pexels


Kàli non si era aspettata di riuscire ad adattarsi così bene a uno stile di vita tanto arcaico. Era nata a Neon Anghels, e si era sempre considerata una Urbana, e la tecnologia era una parte imprescindibile della sua vita da che aveva memoria: per quanto non avesse mai considerato un impianto o un'iniezione di nanobot, non usciva di casa senza una delle ultime meraviglie create dalle industrie elfiche.
Perfino per quella scampagnata nella natura selvaggia, a esplorare caverne che in teoria avrebbero dovuto essere disabitate, lei e Tasha si erano portati una dronosfera e il solito set di gadget di sopravvivenza che finivano per non usare mai, se non per qualche registrazione olografica da condividere nella realtà virtuale.
Gli abitanti della Riserva illegale, quando li avevano "presi in ostaggio", avevano distrutto tutto.
Eppure Kàli non ne sentiva la mancanza. Forse perché da quando era arrivata e il vecchio garuda l'aveva presa sotto la sua ala, Kàli aveva avuto fin troppo da fare e da imparare. La sua famiglia veniva da quella riserva, e le storie che si raccontavano su sua bisnonna erano strabilianti.
Era stata una potente sciamana, e Kàli ne aveva ereditato il dono, oltre che il nome.
Tasha, di contro, non se la passava bene. Non c'era molto da fare per il goblin nella Riserva, e la perdita del suo regolatore d'umore, oltre alla sensazione di essere un ospite indesiderato e guardato con sospetto, non facevano che aumentare il suo nervosismo.
– Ci hanno praticamente rapito! – le disse un giorno che riuscì a prenderla da parte e allontanarla dai suoi nuovi amici. – Non capisco come fai tu a essere così tranquilla.
– Vieni con me. Ti mostro una cosa.
Kàli sapeva che se c'era qualcosa in grado di placare le proteste di Tasha, erano le caverne. Perciò lo portò nel labirinto dietro l'insediamento, che Arkeios il garuda le stava insegnando a percorrere senza perdersi. Sulle pareti, pitture e incisioni arcaiche raccontavano una storia che l'aveva affascinata e sorpresa.

giovedì 20 luglio 2023

Audioracconto - Al di là del cielo


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La prima volta in mongolfiera è un'esperienza speciale... o no?

Al di là del cielo
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

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Grazie.

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/01/al-di-la-del-cielo.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Valzer dei fiori di Pyotr Ilyich Tchaikovsky 
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=s1W58UW-zhc).
Heartbreaking di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=-exOEpzus6U).

Immagini di: Andrea Piacquadio (https://www.pexels.com/it-it/foto/salutare-ragazza-letto-camera-3887644/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/salutare-luce-mano-ragazza-3887608/), Inga Seliverstova (https://www.pexels.com/it-it/foto/scatole-regalo-assortite-sul-pavimento-vicino-all-albero-di-natale-3394779/), Krisztina Papp (https://www.pexels.com/it-it/foto/gruppo-di-persone-in-un-mercato-di-strada-2276796/), Engin Akyurt (https://www.pexels.com/it-it/foto/gabbiani-svettanti-nel-cielo-1435849/), Sathyaprabha Rakkimuthu (https://www.pexels.com/it-it/foto/volo-viaggio-preparazione-fiamma-6302135/), Padli Pradana (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-che-salta-in-aria-con-sfondo-di-nuvole-1431088/), Magda Ehlers (https://www.pexels.com/it-it/foto/pappagallo-rosso-e-blu-1427447/), Dmitri Tarelkin (https://www.pexels.com/it-it/foto/volando-colorato-mongolfiera-ripresa-dal-basso-6936728/), mali maeder (https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-che-formano-la-linea-nelle-ore-notturne-219113/), Luna Lovegood (https://www.pexels.com/it-it/foto/ragazzo-che-indossa-un-maglione-a-strisce-rosse-marroni-e-bianche-in-esecuzione-foto-1104007/), da Pexels, distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 17 luglio 2023

Anche questa è arte


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Foto di Francesco Ungaro da Pexels


Dopo quello che era successo con il ragazzo di Angela, avevo bisogno di allontanarmi dalla casa di zia Alice per un po'. Anche se trovavo assurdo che Angela mi incolpasse per qualcosa su cui non avevo il controllo, e che infastidiva me per prima, non serviva essere una telepate per capire la necessità di non starle tra i piedi in quel momento. Lasciale sbollire la rabbia, mi dicevo, le passerà e poi sarete amiche come prima. Che ingenua.
Avevo sottovalutato la capacità di serbare rancore di una ragazza ferita.
Ma all'epoca ancora pensavo che il mio allontanamento fosse una situazione temporanea.
Chiamavo zia Alice una o due volte la settimana da una cabina telefonica per farle sapere che stavo bene. Il resto del tempo lo passavo a fare quello che sapevo fare meglio: vendere la mia arte.
Non è affatto difficile procurarsi dei clienti quando puoi leggere la mente di chiunque incontri. Qualcuno lo chiamerebbe barare; io lo chiamavo "velocizzare i tempi". Esponevo i miei disegni in qualche piazza di una località turistica e se qualcuno fermandosi a sbirciare pensava a una parete bianca da dipingere, o a un quadro che gli sarebbe piaciuto avere, io ero già pronta a entrare casualmente in argomento, chiedergli qualche dettaglio e fare uno schizzo dell'immagine che il potenziale cliente aveva in testa, esattamente com'era o anche meglio di come lo immaginava.
Il tutto con il cavalletto sistemato in modo che il mio interlocutore non potesse vedere che era la mia mano, passando, a imprimere sulla carta i tratti del disegno, e non la matita che agitavo invano.
Avevo concluso ottimi affari in questo modo, e reso felici parecchie persone con la mia capacità apparentemente magica di indovinare i loro desideri. Donne, soprattutto, perché buona parte degli uomini s'imbambolavano a guardare me e non s'accorgevano nemmeno dei miei disegni, e allora dovevo nascondermi dietro un pannello decorato che tenevo a portata di mano per quell'evenienza, e attendere qualche istante che si svegliassero e se ne andassero prima di lasciare il mio nascondiglio.
Ho già detto quanto mi infastidisce questa parte del dono del mio Shanekth, vero?
Non restavo mai troppo tempo nello stesso luogo, e per un buon motivo. Più lavori eseguivo nella stessa zona, e più la mia fama cresceva, forte di un passaparola che era l'equivalente dei moderni social network, ma con il limite delle distanze geografiche. E dato che non volevo attirare troppo l'attenzione sulle mie capacità miracolose, quando cominciavo a essere richiesta, sparivo.
Girai un po' tutta Italia quell'estate, ma il periodo e il lavoro che ricordo con più piacere fu quello alla sala giochi. Quei rumorosi, caotici e baluginanti luoghi di ritrovo per ragazzini e giovanotti stavano spuntando come funghi in ogni località balneare, e di tanto in tanto mi ero rifugiata in uno di essi per sfuggire agli sguardi degli uomini che affascinavo involontariamente alla prima occhiata.
In una sala giochi, ero sicura che non sarebbe accaduto. La maggior parte parte di chi la frequentava era troppo giovane per cadere vittima del mio potere, e quelli che invece erano già diventati adolescenti preda degli ormoni, in un luogo del genere non staccavano gli occhi dagli schermi nemmeno al passaggio di una bella ragazza.
Lì ero sicura di essere al sicuro.
Tanto di più al Pianeta del Gioco, che aveva finito per essere gestito, più che dal proprietario sulla carta, da sua moglie e dall'arcigna suocera. Quest'ultima disprezzava di tutto cuore le macchinette elettroniche che la popolavano, ma non avrebbe mai rinunciato ai guadagni facili che i gettoni portavano in cassa ogni giorno.
Era stata lei l'ostacolo principale da superare quando sua figlia mi aveva già mezzo ingaggiato per sistemare una parete vandalizzata dai graffiti. Avevo proposto un mosaico che richiamasse le creature e i paesaggi di pixel che lampeggiavano sugli schermi, e la donna più giovane ne era stata entusiasta, ma quella anziana aveva ribattuto: – A che ci serve un disegno sulla parete? Non è la parete che questi perditempo devono fissare tutto il giorno per portarci soldi.
Sarebbe stata dura convincerla se non avessi avuto un accesso diretto a ogni suo pensiero.
Per fortuna li udivo tanto chiaramente quanto il tintinnio dei gettoni infilati nelle macchinette alle mie spalle, le musichette ritmate e artificiali e le imprecazioni dei ragazzini che perdevano per l'ennesima volta.
Non sarebbe stato necessario chiudere la sala giochi per quella ristrutturazione, le dissi. Anzi, se ne poteva fare un evento che avrebbe attirato più clienti, con tanto di inaugurazione annunciata per la fine dei lavori. Non mi piaceva mettermi in mostra in quel modo, ma era l'unico che potesse soddisfare la sua mente avida, e inoltre ero certa che dopo l'entusiasmo iniziale la mia presenza sarebbe diventata una routine non più degna di nota. E per gli adolescenti che di tanto in tanto restavano imbambolati a guardarmi, trovai un alleato in Federico, il figlio del proprietario.
Non lo aveva mai ammesso con nessuno, nemmeno con sé stesso, ma Federico era attratto dagli uomini ed era per questo che su di lui il mio dono non aveva effetto. Fu semplice diventare amici, e convincerlo a portare altrove i "cretini che sembravano non aver mai visto una ragazza", come li chiamava lui, che con un braccio sulle loro spalle e un sottile segreto piacere li accompagnava in un angolo della sala da cui non potevano vedermi e in cui avrebbero speso fino all'ultimo gettone prima di tornare alle casse per cambiare altre monete.
Con Federico, nelle mie ore libere dal lavoro, giocavo ai videogame e chiacchieravo. Lui si stupì nello scoprire che i videogiochi mi interessavano, e che ero molto più brava dei ragazzi che frequentavano la sala giochi.
– Una ragazza che gioca ai videogame? E poi, pensavo fossi un'artista.
– Be', anche questa è arte – ribattei accennando allo schermo, mentre manovravo la leva del joystick e premevo freneticamente i pulsanti, forte dei miei riflessi alieni.
Federico scoppiò a ridere.
– Non hai mai visto un quadro impressionista da vicino – gli dissi. – O anche uno puntinista.
– No, mai. Dipingevano Pacman, i puntinisti?
Fu il mio turno di scoppiare a ridere. Non leggevo quasi mai la sua mente, non ne avevo bisogno, perciò le sue battute mi sorprendevano sempre. – No, ma credimi se ti dico che siamo solo all'inizio. Questa è una nuova forma d'arte, e un giorno il mondo lo capirà.
E no, non avevo viaggiato in avanti nel tempo, quella capacità non è compresa tra i doni del mio Shanekth, ma non serviva aver visto il futuro per poter fare quel pronostico. Ma Federico non mi credeva, non come mi aveva creduto rapidamente quando ci eravamo presentati e mi aveva chiesto: – Wen'Ilian? Che razza di cognome è?
– È orientale – gli avevo detto, e a volte dovevo essere un po' più specifica per supportare la mia menzogna, e dare dettagli come "dalla regione nord ovest della Cina", o "dall'isola più a sud delle Filippine", e funzionava, prima che tutti avessero in mano uno smartphone, ma con Federico non fu necessario. D'altra parte, nessuno avrebbe mai pensato che sul Pianeta del Gioco, tra mostriciattoli alieni invasori e minuscole astronavi stilizzate, era sbarcata una vera, autentica aliena.
Persino la scelta del mosaico era stata lungimirante, poiché mi consentiva di compiere la mia magia in piena vista. Di solito chiedevo spazio e solitudine ai miei clienti mentre "dipingevo", per poi farmi trovare con i pennelli sporchi e il lavoro finito dopo un ragionevole lasso di tempo, quando in realtà avevo fatto tutto già la prima ora, alterando con le mie mani la tinta della vernice bianca già stesa. Lì, invece, mi portai un unico sacco di tessere, con uno strato di quadratini colorati mischiati alla rinfusa in superficie, e il resto del sacco pieno di frammenti bianchi. Mentre lavoravo ho controllato, e anche se qualcuno lo notava, nessuno ha mai capito come pescassi sempre il colore che mi serviva, senza bisogno di guardare. E, soprattutto, come ci riuscissi nella penombra colorata dagli schermi dei videogiochi e dai neon intermittenti.
Solo l'ultimo giorno, a lavoro completato, nello spostare con Federico il sacco con le tessere rimaste prima di sparire per sempre dalla sua vita, il fondo si ruppe e tutte le tessere bianche piovvero sul pavimento e allora avvertii un vociare fortissimo di confusione e sospetto e incredulità nella sua mente.
Forse non avrei dovuto farlo, ma volevo dargli una risposta. Raccolsi una tessera bianca, la tenni nella mano e poi gliela porsi, rossa. Mi posi l'indice della sinistra sulle labbra.
– Sarà il nostro segreto – gli dissi. Ce n'era un altro, ma non glielo potevo rivelare, e probabilmente Federico lo avrebbe scoperto solo molti anni più tardi, con l'età e l'esperienza, e un mondo un po' più libero.
Non ne facemmo parola mentre raccoglievamo le tessere per metterle in un altro sacco, ma Federico sbirciava di tanto in tanto quello che da quel momento in poi, nella sua mente, avrebbe definito "il mosaico magico", e mi sorrideva contento come un bambino che abbia ricevuto il suo primo gettone.

sabato 15 luglio 2023

Sordido

Sordido [sòr-di-do o sór-di-do] agg. 1. Così sporco da suscitare ribrezzo; sudicio. 2. fig. Abietto, spregevole. 3. fig. Caratterizzato da avarizia e grettezza.

Etimologia: dal latino sordidus, derivato da sordes, "sudiciume, sporcizia", e traslato vale anche come "grande avarizia, abiezione"; proviene dalla radice indo-germanica svard-, "essere nero".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di lil artsy da Pexels


Vivienne non aveva capito che razza di sordida vita aveva condotto Samasa per finire imprigionata nell'anello, finché non aveva sperimentato lei stessa quanto in basso poteva condurla condividere il suo tempo e il suo corpo con quella sgradevole presenza. Era vero che fin da subito non le aveva fatto una buona impressione, e che era partita col piede sbagliato mettendola in un sacco di guai nel lavoro che aveva a scuola, ma Vivienne era quel tipo di donna che dava sempre una seconda possibilità a tutti. E una terza. E una quarta. E, a volte, persino una quinta.
Ma Samasa aveva passato il segno troppe volte. Come si era permessa, si disse Vivienne nell'asciugarsi le lacrime, di ordire quello spregevole piano assieme a quel gattaccio diabolico, come si era permessa di liberarsi di lei in quel modo per correre da Mark?
E non importava che non fosse stato per sedurlo, che era solo un caso se era stato proprio Mark ad avere quello che lei cercava da tempo, un potere oscuro che andava oltre ogni immaginazione, talmente spaventoso che persino ad angeli e demoni era proibito sapere chi ne fosse il custode, ciò che quell'anima nera aveva bramato sopra ogni cosa nella sua prima vita e in questa, e che alla fine l'aveva condannata.
Vivienne aveva contribuito a fermarla, ma non si sentiva affatto riscattata dall'impresa. Tutte le volte in cui Samasa aveva camminato nella sua pelle, e lei era stata una spettatrice passiva, pesavano nella sua memoria e l'avevano fatta sentire tanto sordida che una volta tornata a casa si era lavata più volte, strofinandosi ossessivamente la pelle, come se l'acqua potesse toglierle di dosso il fango di quell'infamia.
Quando era tornata alla Biblioteca per quella che credeva l'ultima volta e il Custode le aveva offerto un medaglione con un'altra anima oscura per permetterle di continuare a lavorare là, Vivienne aveva quasi rifiutato.
Poi si era detta che stavolta sarebbe stato diverso, e che una seconda possibilità non si nega a nessuno.

giovedì 13 luglio 2023

Audioracconto - Pagine proibite


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


In un mondo buio dove la scrittura è proibita, una sola pagina può condannarti.

Pagine proibite
(racconto breve di genere fantascienza distopica)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/01/pagine-proibite.html

*******

Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Architecture di Savfk (https://soundcloud.com/savfk)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=99jU0hb21S4);
Extinction Level Event di Jingle Punks
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=LW_qhqJ0-og);

Immagini di: furkanfdemir (https://www.pexels.com/photo/anonymous-woman-writing-with-feather-7080726/), Igor Mashkov (https://www.pexels.com/photo/radio-telescope-under-bright-starry-sky-6325003/), Chris F (https://www.pexels.com/photo/a-broken-wooden-door-3714194/), Vickie Intili (https://www.pexels.com/photo/anonymous-woman-burning-paper-with-inscription-5323293/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori: Crash Door Crush di FeliUsers (https://freesound.org/people/FeliUsers/sounds/682381/), da freesound, sotto licenza Creative Commons: By Attribution 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/).

lunedì 10 luglio 2023

Dopo la battaglia


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Mateusz Dach da Pexels


Mentre mi guardavo attorno quella notte, tra la folla che si aggirava fra le giostre e i banchetti del Luna Park, riuscivo solo a pensare a quanto fossero fortunate tutte quelle persone, ignare di che schifo di giornata avevamo passato io e i miei amici. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo nel vederci passeggiare lungo il vialetto illuminato da una fantasmagoria di luci al neon, un gruppetto di quattro ragazzi che si divertivano alle giostre come ce n'erano tanti. Anna si era un po' ripresa, perlomeno non era così pallida e tremante come quando avevo dovuto aiutarla a farsi una doccia nel bagno della camera d'albergo che la cugina di Alex ci aveva messo a disposizione per darci una sistemata. Aveva mangiato poco alla cena offerta dai due cugini americani, la cosiddetta festa segreta per il salvataggio del mondo, ma nell'ultima ora le era venuta abbastanza fame da accettare di dividere con me un sacchetto di patatine, poi uno di popcorn, che aveva mangiato quasi per intero, e infine si era scelta un cono doppia pallina tutto per lei.
Io non avevo commentato, se aveva bisogno di zuccheri dopo quella brutta esperienza, che facesse pure, Anna era la mia migliore amica e avrei fatto tutto il possibile per farle dimenticare quello che ci era capitato. Quello che lei era stata costretta a fare.
Ma Ariele, la cugina di Alex che sicuramente aveva un altro nome ma che non ci aveva mai detto come chiamarla al di là del suo personaggio nel gioco, all'ennesimo boccone di cibo spazzatura ingurgitato dalla mia amica scosse la testa e disse: – E insomma, ti porto in un ristorante esclusivo e non mangi niente, poi ti porto in un comunissimo Luna Park e ti divori ogni schifezza su cui riesci a mettere gli occhi? Certo che voi italiani siete proprio strani!
Alex a quelle parole scoppiò a ridere. Non tanto perché erano state pronunciate da una ragazzina quattordicenne, la più giovane nel nostro gruppo, e nemmeno perché Ariele stessa, fedele al suo personaggio di maga dei ghiacci, si era concessa un ghiacciolo per concludere la serata. Alex non aveva smesso di avere di tanto in tanto delle esplosioni di ilarità casuale in tutta la serata. Ognuno di noi affrontava lo stress di essere stato preso di mira da uno psicopatico, e di averlo dovuto combattere, a modo suo.
Ma per Alex si trattava di qualcosa di più. Era diverso, da quella battaglia. Più vivo di quanto non fosse mai stato. Il vecchio Alex, così freddo, controllato e quasi incapace di toccare un altro essere umano, non si sarebbe mai sporcato le mani con una soffice nuvola di zucchero filato, che non esitava a offrirmi direttamente dalle sue dita appiccicose di fili candidi.
Ci sedemmo su una panchina, a guardare i vagoni percorrere i binari sferraglianti di un ottovolante, illuminati da dietro dall'ampio cerchio di raggi lampeggianti di una ruota panoramica.
Alex e la cugina avevano già fatto tutti i giri che volevano, come due ragazzi normali. Ora che li conoscevo meglio, avevo il sospetto che quella fosse un'attività in cui non indulgevano spesso, perché loro normali non lo erano affatto.
Io e Anna, invece, ci eravamo tenute lontane dalle giostre. Lei non era tipo da montagne russe, e per quella sera nemmeno la giostra cavalli l'attirava troppo. Da campionessa qual era, di solito in un posto del genere si fermava sempre alla bancarella del tiro a segno, e si divertiva a fingere di non aver mai maneggiato un arco per poi sorprendere l'addetta al gioco e i curiosi di passaggio con una serie di centri perfetti, ma stavolta di fronte ai bersagli aveva tirato dritto, e io non le avevo proposto di provarci.
Ero là quando era successo. Il ricordo dell'ultima freccia che aveva scoccato era ancora troppo fresco.
– Allora, che cosa farete adesso? – chiese Ariele che non aveva mai smesso, mai nemmeno per un istante di sembrare una ragazzina qualunque, frizzante di allegria.
Diversamente da me, che cercavo di mostrarmi forte, per Anna soprattutto, ma che non avevo mai smesso di vedere ovunque andassimo l'orribile volto perfidamente compiaciuto di Dhamantin, quando aveva preso Alex in ostaggio, e che saltavo per ogni urlo delle persone sulle giostre e per ogni scoppio di popcorn o palloncino. Ero talmente tesa e guardinga, che probabilmente ero stata la sola a notare che Sellit ci aveva seguito e ci teneva d'occhio fin da quando eravamo usciti dal ristorante.
Aveva tentato di avvicinarsi al nostro tavolo a metà della cena, ma la mia occhiata ostile lo aveva convinto a desistere e a cenare da solo. Non gli avrei più permesso di avvicinarsi ad Anna, non dopo averla usata come un'arma. Lui avrebbe dovuto essere l'adulto responsabile e trovare un modo migliore di risolvere il problema.
Anna emise un mugolio e s'incurvò su sé stessa. – Io... non credo che giocherò mai più a Duel – bisbigliò in tono flebile.
– Non devi decidere adesso, hai tutto il tempo per... – fece per dire Alex, ma io lo afferrai per un braccio e scossi la testa.
– No, va bene – replicò Ariele. – Se vuole smettere può smettere, può farlo quando vuole, lei non ce l'ha nel sangue.
Mi diede fastidio sentirla parlare come se Anna non fosse lì con noi, perciò sbottai: – Puoi smettere anche tu, se è per questo.
Ariele scoppiò a ridere. – Io? Ma io vincerò il premio, perché mai dovrei smettere?
Per un istante, mi sembrò tornare l'irritante ragazzina piena di sé che mi aveva sfidato all'aeroporto.
– Se non ci arrivo prima io – ribatté Alex, con la sicurezza ritrovata dopo essere sopravvissuto a una battaglia in cui aveva perso tutto, ed era stato pronto persino a sacrificare sé stesso. Ricordarlo in quello stato mi faceva male. – Dimentichi che adesso posso offrirti una vera concorrenza.
E, quasi a volerglielo dimostrare, Alex sparì per una frazione di secondo e poi riapparve. Si divertiva troppo a sfruttare il suo potere sulla distorsione da quando aveva scoperto di averlo, ma immaginai che fosse così quando si avevano parecchi anni da recuperare.
– E tu, Shariza, che cosa farai... – iniziò a dire Ariele, chiamandomi con il mio nome nel gioco, ma si zittì alla voce di Anna che biascicava qualcosa, coperta dagli annunci di ultimo giro e dalla musica da discoteca dei vicini autoscontri.
Ci chinammo verso di lei e Anna ripeté: – Ma che cos'è questo premio di cui parlate tanto?
Alex e Ariele si fissarono negli occhi, poi quest'ultima sbirciò nell'angolo in penombra in cui avevo intravisto Sellit prima, quando ci eravamo seduti sulla panchina. Lui non c'era più, ma dal cenno di Ariele immaginai che il bastardo si fosse avvicinato a noi nella distorsione per ascoltare non visto i nostri discorsi e in qualche modo avesse consegnato un messaggio alla ragazzina.
– Avete rischiato la vita per proteggerlo, perciò suppongo che...
– Ne avremmo fatto volentieri a meno – la interruppi. Stavolta fu Alex a toccarmi un braccio e a scuotere la testa per zittirmi.
Ariele si guardò attorno prima di proseguire. – Ecco, questo è il segreto meglio custodito di tutta l'umanità, perciò non andate a dirlo in giro, d'accordo? Il gioco in realtà è antichissimo, da molto prima dell'invenzione dei Simpler con cui giocate voi, ed è stato ideato per decidere di volta in volta il custode di una cosa chiamata Chiave di Agarthi.
Io e Anna fissammo Ariele senza capire. "E allora?" stavo per chiedere, ma prima che potessi farlo, Alex si affrettò a chiarire.
– È un oggetto, o un potere che si tramanda, nessuno sa di preciso che forma abbia, ma quello che sappiamo è che consente di fare nella realtà ciò che possiamo fare nella distorsione.
– Intendi anche le variazioni di campo che hanno a disposizione i giocatori Pro? – chiese Anna, che nelle mille regole di Duel era anche più ferrata di me.
– Intendo tutto – ribatté Alex. – Manipolazione totale del tessuto della realtà a livello globale. Di solito il custode mantiene la promessa di non usarlo...
– Di solito – gli fece eco Ariele. – C'è stato qualche piccolo incidente nel corso della storia, ma nulla di veramente preoccupante.
– Nulla a confronto di cosa sarebbe successo se quel genere di potere fosse caduto nelle mani di uno come Dhamantin – concluse Alex, serio come non era mai stato in tutta la serata. Non era il momento per gli scoppi di riso, quello. – E ci era vicino, molto vicino. Sellit aveva ragione, andava fermato. Con ogni mezzo.
Anna, che si era coperta la bocca con le mani a quella rivelazione, le scostò per domandare: – Ma allora... allora abbiamo davvero salvato il mondo?
Quello fu il momento in cui cominciò ad accettare come inevitabile, e giusto, ciò che aveva dovuto fare. Ovvio, non lo rendeva meno terribile, ma si era trovata senza volerlo nel bel mezzo di una battaglia, non in un gioco di ruolo, ma una battaglia vera e propria, e aveva dovuto scegliere.
– Certo, non l'ho detto mica così a caso, eh! – esclamò Ariele, esibendosi in una smorfietta comica. – Non avrai creduto di aver partecipato a una finta festa segreta per il salvataggio del mondo, vero?
Anna non riuscì a resistere e scoppiò a ridere, seguita da Alex. Al contrario di quella del ragazzo, quella della mia amica era una risata ancora un po' incerta, con un che di amaro e di forzato.
– Allora non so se toccherò mai più un arco, ma ne è valsa la pena – mi disse Anna, sedendosi più rilassata contro lo schienale della panchina. – Tenkaya sarebbe fiera di me, vero? – mi chiese, riferendosi al suo personaggio nel gioco.
– Io sono fiera di te, Anna – le bisbigliai all'orecchio, e poi sedemmo zitti, tutti e quattro, gli occhi al cielo a goderci i fuochi d'artificio appena iniziati i cui scoppi, oltre a farmi trasalire a ogni colpo, rendevano impossibile ogni ulteriore conversazione.
Avevamo vinto. La battaglia era finita. Io e Anna, che continuassimo o meno a giocare a Duel, ci saremmo guardate bene dal lasciarci coinvolgere di nuovo in una situazione simile.
Per Alex e Ariele, invece, la guerra era appena iniziata. Ma per loro non mi preoccupavo, perché non era solo qualcosa che avevano nel sangue, l'eredità della loro famiglia.
Quella era la vita che avevano scelto.

sabato 8 luglio 2023

Eccidio

Eccidio [ec-cì-dio] s.m. (pl. -di) Sterminio, strage.

Etimologia: da latino excidium, composto dal prefisso ex e dal tema di scindere, "tagliare, lacerare".



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Foto Pixabay da Pexels


Quando il fuoco aveva bruciato il quartiere spagnolo invaso dalle spore del fungo, non era stata una decontaminazione, era stato un eccidio.
Nina non lo aveva capito quando il fatto era accaduto. All'epoca, il dolore per la morte di sua madre e dei nonni era troppo forte, e chi o cosa ne fosse stato l'artefice non era importante. A differenza dei tanti che avevano accusato Dora, sua madre, di aver portato nel quartiere la polvere gialla che aveva ucciso così tante persone, Nina non aveva mai cercato un colpevole.
Ma quelle persone non erano morte, ora Nina lo sapeva. Erano ancora vive quando le case erano state date alle fiamme: immobili, ricoperte dalla polvere gialla come in un bozzolo, ma ancora vive.
Quindi era stato il fuoco usato dai soccorritori a compiere l'eccidio, e non una mancanza di cautela da parte di sua madre nel laboratorio dove lavorava.
La polvere gialla, le spore di quel fungo così antico, non uccideva i suoi ospiti: li cambiava.
Nina lo sapeva perché era ciò che stava accadendo a lei. Seduta immobile accanto al guidatore dopo l'incidente, e dopo che si era arresa alla polvere gialla che l'aveva cercata fin dal giorno dell'incendio.
Nina lo sapeva anche perché sua madre lo sapeva. Quando le fiamme avevano distrutto tutti quei corpi in divenire, Dora era stata quella più vicina alla sua nuova forma, ed era per questo che le spore sopravvissute all'incendio avevano conservato una parte di lei, di quello che era stata la sua mente. Un residuo, un fantasma.
Ma un fantasma intelligente, che si evolveva e imparava dai suoi errori. Aveva eliminato i suoi nemici, quelli che l'avevano già distrutta, e in maniera preventiva aveva tolto di mezzo i nemici di Nina, tutti coloro che infastidivano la sua futura ospite. E si era assicurata di non lasciare tracce di sé all'esterno del corpo mentre lo cambiava dall'interno.
Quando fossero giunti i soccorsi, richiamati dall'incidente, nessuno stavolta avrebbe notato qualcosa di anomalo.
Nessuno avrebbe interferito.

giovedì 6 luglio 2023

Audioracconto - Sfocature


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La misteriosa Keiko è l'assistente perfetta... se non sei un fotografo.

Sfocature
(racconto breve di genere fantastico)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/12/sfocature.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Long way to go di Miguel Johnson (https://soundcloud.com/migueljohnsonmjmusic)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=NooKR7PAHXw).

Immagini di: Flickr (https://www.pexels.com/photo/woman-in-white-v-neck-shirt-in-selective-focus-photography-157023/), Steve Johnson (https://www.pexels.com/photo/close-up-photography-of-brickwall-858076/), Craig Adderley (https://www.pexels.com/photo/asphalt-road-between-trees-1546901/), Anastasiia Chaikovska (https://www.pexels.com/photo/blurred-woman-face-reflection-15385906/), Min An (https://www.pexels.com/photo/woman-wearing-white-long-sleeve-scoop-neck-top-while-holding-brown-leaf-715821/), Yelena Odintsova (https://www.pexels.com/photo/crop-person-with-analog-photo-camera-7162526/), Azra Tuba Demir (https://www.pexels.com/photo/a-woman-wearing-red-dress-in-blur-16787076/) Lübna Abdullah (https://www.pexels.com/photo/close-up-of-cameras-16784621/), Lisa Fotios (https://www.pexels.com/photo/collage-photo-collage-3024995/), da Pexels, distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 3 luglio 2023

Piccoli amici


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Foto di Pixabay da Pexels


Suré è una bambina, la mia bambina. Ma è ancora una bambina, e non dovrebbe esserlo.
Ha ventidue anni, ormai dovrebbe essere una donna, prendere marito, se mai ne trovasse uno che non si spaventi di fronte alle squame sul suo volto e sul suo corpo, avere dei figli se le sarà possibile, so che raramente lo è per un sanguemisto come lei ma quando l'ho portata qui per tenerla al sicuro io lo speravo.
Speravo tanto che potesse avere una vita normale, lei che normale non è mai stata.
E invece sembra ancora una bambina di non più di sette anni. Una bambina dalla mente di donna e i poteri di un drago. Era sempre stata piccola per la sua età, ma non immaginavo che lo sarebbe rimasta così a lungo.
A volte maledico il giorno in cui mi sono lasciata sedurre da suo padre quando si è presentato sotto le spoglie di un affascinante straniero. Ma non posso rinnegare quella notte, non posso immaginare che Suré non sia mai venuta al mondo.
Anche se da allora il drago ci ha dato la caccia e abbiamo abbandonato la terra che conoscevamo per questa realtà diversa, dove i draghi non possono giungere e dove le storie su di loro sono solo visioni di un ubriaco, o favole inventate da un vecchio monaco, o al massimo il ricordo distorto, tramandato di bocca in bocca, di ciò che ha scorto qualcuno che ha il dono di guardare oltre il confine tra i mondi.
Da allora siamo esuli, doppiamente tali, poiché non possiamo restare per troppo tempo in un posto, non con la lunga e innaturale infanzia di Suré a suscitare chiacchiere.
E le chiacchiere, qui, fanno troppo in fretta a diventare accuse di aver venduto l'anima al diavolo per avere da lui una figlia.
Ma quello arriva verso la fine, quando è tempo per noi di andarcene. Di norma al nostro arrivo, il primo ostacolo da superare quando chiedo ospitalità in cambio del lavoro delle mie braccia in una nuova fattoria è convincere la famiglia del fattore che Suré non ha la lebbra, che il male che le ha deturpato il volto non è contagioso. Molte volte la porta mi è stata sbattuta in faccia perché non mi credevano.
Ma anche laddove mi davano fiducia, come nella fattoria in cui mi trovo ora, io e Suré non eravamo al di fuori di ogni sospetto. Le altre madri, pur se dicevano con pietà che Suré sarebbe stata una bella bambina se non avesse avuto il volto rovinato, raramente permettevano ai loro figli di giocare con lei, e i bambini stessi tendevano a girarle al largo.
Per questo, e perché ci spostavamo spesso, Suré non aveva mai avuto amici. E più passava il tempo, più le diventava difficile averne.
Perciò, quando la mattina Suré mi raggiungeva nel pollaio facendo scappare tutte le galline, o mi correva dietro tra la stalla e il recinto dei maiali, e alle mie domande su dove fosse stata rispondeva con un "sono stata a giocare con i miei piccoli amici", io sapevo che non era agli altri bambini che si riferiva. Qualche volta, quand'ero in vena, fingevo di non saperlo, mi fermavo a riposare sotto un albero e girandomi a guardare i fanciulli che correvano in giro per l'aia con passi leggeri e un concerto di gridolini e risate, le chiedevo: – Ah sì? E chi di loro ti ha sporcato di fango l'orlo della veste, o ti ha infilato foglie tra i capelli?
Un tempo, all'inizio, mia figlia rispondeva in modo scherzoso, indicandomi il più mite e timoroso del gruppo, o replicando che se qualcuno ci avesse provato si sarebbe ritrovato con gli abiti tutti bruciacchiati, o ancora suggerendo che il responsabile era altrove a farsi un bagno da quant'era ricoperto di fango e di foglie a seguito dell'impresa.
Ma sempre più spesso la sua risposta era un indignato: – Mamma, ma quelli sono bambini! Non perdo più il mio tempo con i bambini, e tu lo sai.
Sì, lo sapevo. Lo sapevo, anche se mi faceva male sentirlo pronunciare da quella vocetta infantile, eppure così seria.
Lo sapevo perché qualche volta l'avevo seguita oltre i pascoli, lontano dalla fattoria, nei boschi. L'avevo vista sdraiarsi a terra per lunghe ore e attendere paziente, con un boccone di pane nella mano allungata, finché uno scoiattolo, o un uccellino, o un topo, o un coniglio, o anche una biscia di passaggio, per nulla interessata alla sua esca ma sfortunata abbastanza da trovarsi nei paraggi, non le arrivava abbastanza vicino. Allora Suré, con gli occhi che luccicavano, spalancava la bocca e soffiava le fiamme sulla sventurata creatura, o le balzava addosso e stringeva forte con le piccole mani, e poi giocava con la sua preda come fanno i gatti, finché non si stancava e non la divorava.
Ci avevo provato, ma non ero riuscita a spegnere l'istinto del drago che era dentro di lei. Almeno le avevo insegnato a non farlo di fronte ad altri occhi che non fossero i miei, perché stranamente Suré sembrava sempre consapevole di quando la seguivo, e non dubitavo che avrebbe riconosciuto dai passi o dall'odore o da chissà che altro la vicinanza di uno sconosciuto.
Ma questo non mi impediva di chiederle, ogni volta che tornava dopo essere stata a "giocare con i suoi piccoli amici", se era stata prudente.

sabato 1 luglio 2023

Tergiversare

Tergiversare [ter-gi-ver-sà-re] v.intr. (aus. avere; tergivèrso ecc) [sogg-v] Eludere una domanda con risposte vaghe; perdere tempo evitando di manifestare il proprio pensiero; rinviare una decisione; temporeggiare.

Etimologia: dal latino tergiversari, "temporeggiare", composto da tergum, "schiena", e da versare, "volgere, girare": propriamente "dare la schiena, girarsi di spalle".



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Quando tornai, mi scoprii appoggiata con la schiena sul suo petto, la fronte contro il suo collo e il braccio sinistro allungato per intrecciare le nostre mani, sul cui dorso il simboli gemelli delle tre rose, rifulgenti di luce, stavano lentamente diventando opachi, fino ad assumere l'aspetto di comuni tatuaggi.
Non ricordavo di avergli stretto la mano quando avevamo iniziato. A volte, quando le nostre anime affondavano nella terra e risalivano i tronchi, intrecciate assieme al riparo di una solida corteccia, i nostri corpi si cercavano come per istinto.
Dopo tanti mesi mi ero abituata all'idea di essere una driade, ma la sorpresa del risveglio nel mio limitato corpo umano probabilmente non mi avrebbe mai abbandonato. Quando non avevamo impegni, eravamo entrambi grati di poter avere una scusa per prolungare quei momenti e rimandare il nostro rientro nella società umana, e la reciproca compagnia era un'ottima scusa per tergiversare. Non era sempre stato così, però, tra me e Mirto.
– Spiegami una cosa – gli dissi, mentre mi sistemavo meglio contro la sua spalla e Mirto si chinava per darmi un bacio in fronte. – Quando ho cominciato la terapia con il dottor Carrari, l'altro dottor Carrari... tu mi hai vista andare e venire dallo studio, giusto?
Mirto mormorò in assenso.
Sollevai la mano sinistra, marchiata da un simbolo identico al suo. – E lo sapevi cos'ero, fin dall'inizio, vero?
Di nuovo un mormorio di assenso, ma nessuna vera risposta. Sospirai.
– E allora perché hai aspettato tanto per parlarmi, per aiutarmi come alla fine hai fatto?
– Avevi paura – mormorò Mirto, troppo alla svelta. – Paura di te stessa, e non sapevo come avresti reagito...
– La verità, per favore.
Era ovvio che stava tergiversando, che preferiva concentrarsi sul mio problema pur di non dirmi il suo.
Mirto sbuffò, si passò una mano tra i capelli e infine rivelò a fatica: – Avevo paura io di te. Sei la prima driade che conosco, e non avevo idea di come parlartene mi avrebbe cambiato la vita.