sabato 29 febbraio 2020

Durlindana


Durlindana [dur-lin-dà-na] o durindana s.f. In senso scherzoso, spada, sciabola.

Etimologia: dal francese Durandal, nome della spada di Orlando, paladino di Carlo Magno nel ciclo carolingio. Voce di origine sconosciuta, che si può forse riconnettere al latino durus, "duro, resistente".

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Il gigante e il nanerottolo si fronteggiavano, guardandosi in gattesco, che sarebbe un'occhiata molto più sprezzante, astuta e feroce di quella in cagnesco.
Il gigante brandiva con una mano sola una gran durlindana, che roteava con maestria e sprezzo del pericolo per le parti sporgenti del proprio corpo... e intendo il naso, l'altra mano e i piedi, malpensanti!
Il nanerottolo dal canto suo gli puntava contro uno spillo.
Tra di loro, un'enorme bottiglia.
– Ti sfido! – esclamò il nanerottolo. – E se non ci riesci, te lo faccio ingoiare quel tuo spadone.
Il gigante storse la bocca e afferrò la bottiglia per il collo così forte che il vino smise di respirare. Poi sollevò la durlindana sopra la testa.
Il nanerottolo lo fissò sogghignando.
Il gigante calò un poderossissimo colpo verso il tappo di sughero, così forte che il vento si sentì a chilometri di distanza. E dall'altra parte del mondo, un uragano si scatenò sulle coste di un continente sconosciuto, e fece volare via tutte le pergamene del cartografo che lo stava mappando.
Ma torniamo al gigante. O meglio, al nanerottolo. Che quando il gigante calò il suo colpo, scattò in avanti brandendo lo spillo, e punse l'alluce del gigante.
Ora, non so voi, ma io mi sono già fatto male all'alluce, e dunque so quale atroce dolore scateni anche solo andare a sbattere contro uno spigolo al buio.
Quindi non dovrebbe sorprendervi se gigante ululò di dolore e mancò il bersaglio. Quel che successe poi, è diventato leggenda.
Alcuni dicono che colpì così forte la terra da spaccarla in due, ed è per questo che si divide in due emisferi. Altri che tagliò persino il tempo stesso, creando un giorno che non esisteva e che non sarebbe più esistito per i tre anni successivi. Ma ogni tanto quel giorno in più rispunta fuori, e i vecchi dicono “tutta colpa del gigante Bisesto!”.
Morale della storia? Non provate ad aprire una bottiglia con una sciabolata, se non sapete esattamente come farlo. Soprattutto se siete un gigante.

giovedì 27 febbraio 2020

Fragole e supereroi


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– Fragole... sul serio?
Scoppiai a ridere, la schiena appoggiata al tronco della quercia e la spalla a contatto del calore della pelle di Mirto. Una parte di me era altrove, in profondità, intrecciata alle radici dell'albero assieme alla familiare essenza del mio compagno di gite nei boschi, come sempre quando appoggiavamo alla terra le mani o i piedi nudi. Ma ero ancora abbastanza presente nel mio corpo umano da riuscire a seguire la conversazione.
Mirto rise con me, poi riprese a raccontarmi della prima volta in cui aveva usato i suoi poteri di driade. – Che ci posso fare, mi piacevano. Ed ero stanco di aspettare che maturassero una alla volta. Così... non so nemmeno perché l'ho fatto. Istinto, forse. – Mirto si strinse nelle spalle e sollevò una mano a strofinarsi il mento, sporcandosi di terra. – Ho infilato le dita in uno dei vasi nella serra dietro casa. Ed è stato allora che l'ho sentito... mi sono sentito risucchiare in quella minuscola pianta, e sapevo cosa fare, sapevo come gonfiare quelle fragole, come renderle rosse, piene e bellissime. – Nel ricordare, la sua voce si accese d'entusiasmo, e io sorrisi. Poi mi rammaricai di non avere alcun ricordo della prima volta che avevo usato i miei poteri da condividere con lui... almeno finché non rammentai che una prima volta io l'avevo, e che l'avevamo vissuta insieme, quando lui mi aveva insegnato a gestire il mio dono.
– Il sapore, naturalmente, non era dei migliori, ma ho imparato. – proseguì Mirto. – Provando e riprovando, ed ero diventato talmente bravo da dare vita a nuove varietà, fragole dal sapore di caramella o di zucchero filato. Mia madre ha pensato di essere diventata all'improvviso una brava giardiniera. Non sapeva di avere una driade in casa. E nemmeno io lo sapevo.
Mirto s'interruppe e sospirò. Sotto i nostri corpi umani, nella terra, afferrai la sua essenza e la portai con me a risalire il tronco della quercia, fino a moltiplicare la nostra consapevolezza in decine di rami, e in centinaia di foglie, rinvigoriti dalla luce. A livello del suolo, lui mi afferrò la mano, s'inarcò all'indietro e chiuse gli occhi.
–  Per tanti anni ho pensato di essere un superoe, un mutante, come quelli dei fumetti – mormorò con voce roca. Aprì gli occhi e si girò a ricambiare il mio sguardo. – Certo, come potere non era granché, ma era comunque un potere in più rispetto a quelli che avevano i miei normali coetanei. Ma questo... – Mirto lasciò la mia mano e accarezzò con le dita il simbolo delle tre rose impresso sul dorso della sinistra, le cui linee in quel momento rifulgevano di luce. – Questo era un problema. Era comparso giorni prima che scoprissi il mio superpotere, una mattina, dopo una notte passata a tirare tardi con certi amici. Avevamo tutti bevuto, e non mi ricordavo niente, e lì per lì pensai che mi avessero convinto loro a farmi quel tatuaggio niente affatto virile. Insomma, fiori... per un maschio?
Mirto sbuffò e rise, tutto insieme. – I ragazzi a quell'età sanno essere crudeli. Dei veri bastardi, sai. E non hanno pietà per chi avvertono come diverso. Anche se non sapevano esattamente quanto lo fossi, col mio potere sulle piante. Fantasticai più volte sull'imparare a usarlo in modo molto più aggressivo che non far crescere le fragole, ma alla fine, non lo feci mai.
Mirto tacque, e io gli accarezzai la spalla con una mano. – È per questo che hai scelto di aiutare i bambini e i ragazzi con il tuo lavoro?
Mirto annuì. – E che ho imparato a usare i guanti per nasconderlo, questo piccolo segno rivelatore.
Mirto appoggiò la testa al tronco, e per qualche tempo ci perdemmo nell'intrico di radici e rami, di steli e di fiori che sbocciavano al nostro tocco. Ero ancora altrove a metà quando lui riprese a parlare, e non lo capii finché non mi staccai da un gruppetto di betulle e ripresi conoscenza nel mio corpo.
– ...non mi ricordo in che paesino eravamo finiti, ma che eravamo in gita con la scuola, questo sì. Dalle parti di Edimburgo, probabilmente. C'era questa libreria, e la signora che la gestiva sosteneva di saper abbinare a ogni persona il giusto libro, la lettura che gli avrebbe cambiato la vita. Molti dei miei compagni non furono contenti della sua scelta, tanti non finirono o nemmeno cominciarono il libro acquistato da lei, ma io...
Mirto mi fissò, e di nuovo mi afferrò la mano, e io ebbi un brivido quando disse. – Lo hai già visto, il libro che lei diede a me.
Sorrisi. Era quel Dryads are Alive che Mirto aveva preso dallo scaffale per spiegarmi cos'ero. Lui scrollò le spalle. – Forse ha sentito i miei compagni chiamarmi per nome, ha visto i miei guanti, e ha fatto due più due. Forse era anche lei una di noi. Non lo so, allora non ho pensato di guardare le sue mani. Quel che è certo è che quel libro davvero mi ha cambiato la vita. L'ha divisa in due. – Mirto chinò la testa, poi si allungò a recuperare le scarpe. Era tempo per noi di tornare. – Quando ho saputo la verità, avrei voluto ritirarmi nei boschi, vivere nella terra e negli alberi, fare solo questo per tutto il resto della mia esistenza. Ma dovevo ancora studiare, e lavorare, e avere contatti con il resto del mondo. E così, proprio come un supereroe, ho creato la mia identità segreta.
Annuii, mentre un'espressione cupa si faceva strada sul mio volto. Quando lo avevo conosciuto, Mirto usava solo il suo secondo nome, Saverio, e non aveva rivelato nemmeno a me quel segreto. Mi aveva fatto da mentore fingendo di essere solo un umano che ne sapeva più di altri. Quando avevo scoperto ciò che mi aveva tenuto nascosto, mi ero arrabbiata moltissimo.
Per fortuna, quello era un passato che avevamo superato assieme.

lunedì 24 febbraio 2020

Dietro a un bancone


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Due caffè. Cinque spritz per i ragazzi al tavolo all'esterno. Un cappuccino e una brioche. Tre bicchieri di vino rosso agli anziani che vengono ogni mattina a commentare il giornale e a giocare a carte. Il quarto non beve, ma prima di uscire chiederà sempre un po' d'acqua per prendere la pastiglia. Poi, all'ora di pranzo, panini su panini, e tramezzini, e bruschette, e Coca-Cola e aranciate e birre e acque minerali. Dalla vicina università e dagli uffici chiusi per la pausa pranzo i clienti sciamano a gruppi, parlando tra loro, solo tra loro. A me si rivolgono soltanto per le ordinazioni, o i più gentili per dirmi grazie, ma nulla di più. Le conversazioni si smorzano quando mi avvicino con un vassoio carico di piatti e bicchieri, in altri casi proseguono imperterrite, ignorandomi. Ogni tanto, qualcuno dei solitari seduti al bancone mi rivolge la parola per farmi un complimento e provarci con me.
Non è affatto come me lo ero immaginato. Da quando sto dietro a un bancone ho rinunciato all'idea romantica del barista che serve un aperitivo mentre un affascinante sconosciuto gli racconta i suoi guai, che magari tu puoi risolvere con la frase giusta detta al momento giusto.
Questo è solo un lavoro, e qualche volta, neanche tanto gradevole.
Poi... poi, c'è Patrizio Boscoscuro. Da un paio di mesi, quando arriva e si siede al solito tavolo - sempre lo stesso, giorno dopo giorno - io scatto per raggiungerlo prima delle mie colleghe. Loro mi guardano stranite, dopo che mi sono tanto lamentata di lui nel corso delle mie prime settimane al Carpe Diem Cafè. Ma quello era prima della nostra chiacchierata chiarificatrice.
Il suo sguardo, così attento, così intenso, non mi disturba più.
Ogni giorno mi scopro a cercare di osservare il mondo attraverso i suoi occhi, a cogliere gli schemi che lui vede con tanta facilità, e nel frattempo mi chiedo quale strano intruglio - non alcolico e privo di caffeina - lui sceglierà dal menù questa volta nel tentativo di tenere a bada la noia con un nuovo gusto.
E chissà, un giorno o l'altro, potrei anche chiedergli un appuntamento.

sabato 22 febbraio 2020

Sicumera


Sicumera [si-cu-mè-ra] s.f. Ostentata esibizione di sicurezza o di una presunta superiorità.

Etimologia: l'etimo è incerto, probabilmente dall'arabo shevket mekrun, "congiunto a magnificenza", ovvero "magnifico".

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Quella non era Vivienne. Non poteva esserlo. Era identica a lei, indistinguibile nell'aspetto; ma si muoveva e parlava con una tale sfrontatezza... con una sicumera che non era mai appartenuta alla timida, dolce bibliotecaria Vivienne. Tutto ciò che amavo di Vivienne non esisteva in lei.
Come aveva potuto ingannarmi, la prima volta che l'avevo incontrata, ancora non lo capivo.
– Si può sapere chi sei? – le chiesi, indietreggiando.
A differenza della prima volta, la donna aveva un pugnale.
– La questione non è chi sono io, mio bel ragazzone – mormorò la donna con voce suadente. – La questione è chi sei tu. Non ti rendi affatto conto del tuo potenziale, vero?
La donna rise, e quella era una risata maligna che di sicuro non era mai uscita dalle labbra di Vivienne. Se mai avessi avuto bisogno di una prova.
Un altro passo, e mi ritrovai con le spalle al muro. La donna sollevò il pugnale.
– Che vuoi fare, uccidermi? E che cosa hai fatto a Vivienne, dimmelo!
Non ero nella posizione di minacciare, o di ordinarle alcunché; ma speravo che la sua sicumera la inducesse nell'errore di fermarsi a parlare, dandomi il tempo di trovare un modo per uscire da quella situazione.
La donna ridacchiò di nuovo. – Mio caro, se ti uccidessi, tutto il potere che hai dentro passerebbe a qualcun altro, e io dovrei affannarmi a cercare la sua nuova custodia.
Come da manuale. In stile perfetto malvagio da romanzo, la donna gongolò nell'enunciare il suo piano: – No. Non ho aspettato secoli per perderlo di nuovo. Ora, se farai come ti dico, la tua cara bibliotecaria vivrà. Vorrei poter dire lo stesso di te, ma ehi, non ho idea di cosa ti accadrà quando lascerai libero il mostro.

giovedì 20 febbraio 2020

Tesoruccio


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Coloro che sostengono che un gatto sia la migliore compagnia per un genio del male, non hanno mai incontrato Perfidia e il suo, emh... "animaletto" domestico.
– Tesoruccio?
Eccoli che arrivano. Perfidia è elegante nel suo abito nero da sera in stile anni 20 e un cappellino con la veletta inclinato di lato sulla chioma corvina, dal taglio a caschetto. Ai piedi un paio di scarpette lucide coi tacchi a spillo, e una sigaretta col bocchino tenuta mollemente in una mano. Sembra che vada a una serata di gala, invece di addentrarsi in una miniera, alla luce soffusa di una lanterna
La precede un ometto calvo, in pantaloni e canottiera, con le mani legate dietro la schiena e il ventre prominente stretto da un numero eccessivo di giri di corda.
No, quello non è Tesoruccio.
Tesoruccio è una scolopendra gigante, un mostro di quasi un metro e mezzo di diametro per una quindicina di lunghezza, che in questo momento gratta con le cento paia di zampe sulle rocce della miniera mentre procede con discreta velocità incontro a Perfidia e all'ometto legato come un salame.
L'uomo si blocca di colpo, tremante. Perfidia tira una boccata di fumo dalla sigaretta con aria annoiata, si abbassa per soffiarla in faccia all'uomo e mormora: – Per l'ultima volta, Grit, dimmi dove hai nascosto la valigetta con i miei malefici piani, o ti darò subito in pasto al mio Tesoruccio.
L'uomo sbircia la testa della scolopendra, che incombe su di lui dall'alto della galleria, e inizia a parlare. – A-a-al porto. L'agente 0014... d-d-deve consegnarla stanotte a M-M-Madame Zeta.
Perfidia si raddrizza, e sempre con aria annoiata commenta: – L'agente 0014... quell'idiota... molto bene. Sarà estremamente semplice riprendermi ciò che mi appartiene. Ti ringrazio, Grit. – S'interrompe per aspirare un'altra boccata di fumo, lasciando all'uomo legato il tempo di tirare un sospiro di sollievo, prima di concludere: – Ora non mi servi più. Tesoruccio?
L'uomo spalanca gli occhi e tenta di protestare: – M-m-ma come, a-a-avevi detto...
– ...che ti avrei dato in pasto subito al mio Tesoruccio, se non avessi parlato. Ma non ho mai affermato che non lo avrei fatto comunque. D'altra parte – Perfidia si abbassa, gli pone le mani sulle spalle e prosegue suadente: – che madre sarei se sottraessi al mio Tesoruccio un boccone così grasso e prelibato dopo averglielo fatto vedere? Dopotutto, ho anch'io un cuore.
Perfidia si raddrizza, e con uno spintone del piede  sulla schiena dell'uomo, lo consegna alle mandibole a chela del gigantesco artropode.
Sorvolerò sulla scena di Tesoruccio che pasteggia con il povero Grit. Le scolopendre giganti tendono a non apprendere le buone maniere a tavola, con il risultato che ogni loro cena si riduce a un pasticcio raccapricciante sparso sul loro muso, sul pavimento e, in caso si trovino all'interno di una miniera, persino sulle pareti.
Al termine, Perfidia si avvicina al suo Tesoruccio per fargli i grattini sulla testa e ripulirgli le mandibole con un vecchio lenzuolo, prima di prepararsi a incontrare l'agente 0014 per riprendersi il maltolto.
E adesso, provate ancora a dire che un gatto sarebbe stato un compagno migliore.

lunedì 17 febbraio 2020

Una sola volta


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Foto di Engin Akyurt da Pexels


Non sono una persona generosa.
Innanzitutto, non sono una persona. Io sono Thanatos, Ankou, Yama, Azrael, Xolotl, Anubi, Death, Morte. Sono la personificazione di un'idea astratta, e sì, sono esattamente come voi mi immaginate.
Quanto a me, non ho immaginazione.
La mia esistenza è scandita dalla necessità: fin da quando esiste la vita, io svolgo il mio compito, mai troppo tardi, né troppo presto. Al momento giusto, anche se voi potete non ritenerlo tale. In questo, non ho mai commesso errori, né fatto eccezioni.
Perciò avrei preso il ragazzo comunque. Non perché mi aveva visto, non perché mi aveva combattuto per sottrarmi una vita. O forse proprio per questo, ma non per punizione, né per premiarlo. Semplicemente perché, nel compiere quello sforzo, il suo cuore ha ceduto. Un cuore malato, per quanto coraggioso, resta sempre malato.
Ciò che ho fatto in seguito è stato l'eccezione. Un atto di gentilezza sebbene, con mio rammarico, il ragazzo non lo ha mai considerato tale.
Ho strappato la sua anima all'inevitabile oblio, gli ho dato una nuova forma, ho intriso la sua consapevolezza nella necessità della mia esistenza. Lui è me, nonostante la memoria della sua vita umana gli impedisca di riconoscerlo. E non l'ho fatto, come potreste pensare, perché mi serviva un aiutante, o per il desiderio di compagnia. Spazio e tempo non sono nulla per un'idea astratta, e non mi hanno mai impedito di svolgere il mio compito in maniera impeccabile.
Perché ho scelto lui tra i tanti di cui mi sono occupato nel corso dei millenni, non saprei dirlo. È stato un caso. Una gentilezza nei confronti di uno sconosciuto.
Questa è la storia dell'unica volta in cui ho fatto qualcosa che non era necessario.

sabato 15 febbraio 2020

Pangolino


Pangolino [pan-go-lì-no] s.m. Mammifero diffuso in Africa equatoriale e in Asia meridionale, con corpo allungato ricoperto di squame, coda lunghissima, bocca senza denti e lingua vischiosa con la quale cattura formiche e termiti.

Etimologia: il termine è la trascrizione dal malese pengguling che significa "cilindro", da gûling, "girare", per l'abitudine di questo animale di arrotolarsi come i ricci in caso di pericolo.


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Com'ero finito in una di quelle situazioni assurde che deploravo con tutto me stesso è presto detto: fu una delle brillanti idee di Alcyone.
– Trevis, guarda qui! – Alcyone indicò una pergamena affissa in piazza. – Il pittore di corte cerca belle fanciulle e animali esotici per fargli da soggetto in un ritratto. Il compenso è di 100 reali d'oro per la fanciulla e 100 per il proprietario dell'animale. Ma è perfetto, io posso essere sia una bella fanciulla che una bestia rara!
Scossi la testa al suo entusiasmo. – No, no, no. Categoricamente no, non ci proveremo di nuovo. È finita male quando ho tentato di proporti come cigno, è finita male quando ti sei trasformata in un Bue Longicorna, e io non ho intenzione di ritrovarmi a scappare per l'ennesima volta. Senza contare che, a meno che tu non sappia sdoppiarti, puoi essere solo una bella fanciulla o una bestia rara, non tutt'e due assieme.
Alcyone, che già stava annodando il nastrino rosso al polso, mi guardò con un luccichio negli occhi che non presagiva nulla di buono. – Sì, io sono una sola, ma noi siamo in due – affermò, poco prima di iniziare a cantilenare una formula magica. È così, senza chiedermi nemmeno che bestia volessi diventare o se ero d'accordo, che Alcyone mi trasformò in un pangolino.
Il pittore fu talmente entusiasta della nostra accoppiata da congedare subito la dama con l'ermellino per iniziare un altro ritratto.
Alcyone si sedette con me in grembo stretto tra le braccia, e io me ne stavo lì con un prurito sotto le squame che non riuscivo a grattare, la lingua appiccicosa che mi pendeva fuori dalla bocca e uno strano appetito alla vista di una fila di formiche sul pavimento.
Non volevo essere un pangolino. Volevo tornare me stesso. O almeno, questo è ciò che pensavo finché il pittore non ha avuto la malaugurata idea di sciogliere il nastrino al polso di Alcyone, e di colpo sono diventato un uomo seduto sulle ginocchia di una bella fanciulla.
Inutile dire che anche quella volta non siamo stati pagati.

giovedì 13 febbraio 2020

Un nuovo nome


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Quando riemergo infrangendo la pelle del fiume e inghiotto finalmente una boccata d'aria, so che la parte più facile è compiuta. Ho lasciato il mio vecchio nome al fiume, e l'acqua che scorre se lo è portato via, e adesso sono indifeso, solo, e inconsistente come il cielo al di là del vento, al di sopra delle nuvole, oltre la luce abbagliante del sole e i frammenti sfavillanti in cui si frantuma nella notte.
Nessuno può chiamarmi. Nessuno può toccarmi. Non appartengo più al clan, e nemmeno a me stesso.
La corrente mi ostacola, cerca di trascinarmi via come ha fatto col mio nome. Sulla riva, Due montagne mi attende. Lui è la guida che ho scelto per riportarmi a casa, per tracciare la strada affinché non mi perda. Gli anziani hanno cercato di farmi cambiare idea quando ho indicato lui, l'estraneo, il bambino che ha camminato da solo, il senza clan. Ma la guida deve essere qualcuno di cui fidarsi, e io non ho molchst, non ho fratelli. Ho solo lui.
E, per il nome che ho deciso di prendere, la guida che nessun altro avrebbe scelto è perfetta.
Lo raggiungo tra gli spruzzi. Due montagne indietreggia: non mi può toccare, non deve, nemmeno la sua ombra può sfiorarmi la pelle. Quando esco dall'acqua mi affiancano le due cacciatrici che si sono offerte di proteggermi. Sono molchst loro, nate assieme, anche se non potrebbero essere più diverse. Acqua che scorre è più minuta, morbida e delicata nei lineamenti, gli occhi di un blu intenso e la chioma bruna trattenuta da un legaccio appesantito per evitare che il vento la sollevi e la intralci nel suo ruolo di guardiana. Lei mi piace e sono stato felice quando si è offerta volontaria per scortarmi lungo la strada del ritorno.
Coraggio della sabbia è più alta, silenziosa e attenta, i tratti più marcati, gli occhi viola e i capelli neri come i miei. Sono legati più in alto, con le punte che le frustano le spalle e la schiena. È severa con me, e a volte quando mi tocca sento tutta la sua disapprovazione, ma ricordo bene quando ha combattuto per respingere un rekrt, e aveva quasi la stessa età di me oggi. Non c'è nessun altro nel clan che potrebbe proteggermi meglio, se le cose andassero male.
Cammino lentamente, con le braccia protese in avanti e le dita allargate a respirare il sole, e nel frattempo l'aria che mi entra e mi esce dalla bocca fa uno strano rumore, un soffio più forte del vento che mi fischia nelle orecchie. Due montagne, Acqua che scorre e Coraggio della sabbia non mi guardano, ma finché lo sentiranno, sapranno che sono ancora vivo e che va tutto bene. Tengono il passo nella lenta, lentissima marcia che mi pare infinita.
Il clan mi attende appena fuori dalla caverna che conduce a casa, alle grotte e ai ponti tesi tra le due pareti del canyon. Aspettano lì fuori perché non posso immergermi nell'ombra del tunnel senza un nome, e io sono felice di poter accorciare un po' la strada. Quando mi fermo di fronte agli anziani, la mia guida e le due guardiane si separano da me e si riuniscono al clan. Due montagne è in mezzo a loro, non più ai margini dove è relegato di solito in quanto estraneo. Vorrei toccarlo e trasmettergli tutta la mia gioia, ma ancora non posso. Ne è valsa la pena, anche solo per questo.
Ora è tempo di parlare. Quando gli anziani mi chiedono chi sono, io rispondo: – Kaad Ntroem. Giovane ribelle, è questo il mio nome.
Il nome che ho scelto è una sfida. Ma è anche un'affermazione: io sono così. Io sono diverso, non seguo le regole, e non cambierò.
La prima che mi si avvicina è Lavren, Migliore nella caccia. Mi sfiora in viso e un senso di calore e di accettazione m'invade, scorrendo sottopelle da lei a me, e da me a lei.
– Giovane ribelle – pronuncia Migliore nella caccia. – Sei proprio tu.
Poi Due montagne, e Acqua che scorre, e Coraggio della sabbia, e man mano tutti gli altri si fanno avanti per toccarmi e darmi il loro benvenuto al suono del mio nuovo nome.

lunedì 10 febbraio 2020

L'ombrello d'autunno


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Sento trillare i campanellini di Evangeline prima ancora di vederla. Mi rassegno: già so che non riuscirò ad allontanarla, come non sono riuscito a farla smettere di parlare in treno, o indurla a scegliere un altro posto in classe quando è venuta a sedersi proprio al mio fianco.
Mi raggiunge e aggancia il suo braccio al mio con una confidenza disarmante, come se mi conoscesse da sempre. Nonostante l'assoluta mancanza di pioggia, Evangeline se ne sta al riparo di un ombrello color grafite, uno strano contrasto con le tinte sempre solari dei suoi abiti. Inizia a parlare e a farmi domande come al solito, a un ritmo talmente serrato da non lasciarmi il tempo di rispondere. Non che io intenda farlo, nemmeno se lei si fermasse a riprendere fiato di tanto in tanto, ma forse Evangeline già l'ha compreso al nostro incontro sul treno ed è per questo che ad alcune di quelle domande risponde lei stessa.
Non passa molto prima che ci raggiunga un altro dei ragazzi che frequenta la nostra classe.
– Evalina! – l'apostrofa, mettendole un braccio sopra le spalle, appena l'affianca dall'altro lato. – Ancora con questo ombrello d'autunno? Allora è proprio vero che non sei cambiata per niente!
Lei gli rivolge una linguaccia, poi scoppiano a ridere assieme. Ho origliato quanto basta dei loro bisbigli durante le lezioni da capire che i due erano compagni di banco e amici durante le elementari, che si sono persi di vista per i tre anni delle medie e si sono ritrovati oggi, al loro primo giorno in una nuova scuola.
Un ragazzo normale avrebbe invidiato il rapporto tra loro. Io volevo solo essere lasciato in pace.
– Ma lui non sorride mai? – chiede il ragazzo, Claudio, sporgendosi verso di me.
Evangeline scuote la testa. – Finora no, ma prima della fine dell'anno sicuro che ci riesco, a farlo sorridere.
Un'altra risata. Sospiro e guardo avanti.
– Diglielo anche tu, a Evalina qua, che può chiudere l'ombrello.
– Nooo! – replica Evangeline, stringendo di più il manico con la mano libera.
– Sì! – esclama lui, e da lì ha inizio una serie di no e di sì tra loro che pare non aver fine, finché Claudio non spezza il ciclo dicendo: – Ma non piove!
– Sì che piove! – è la replica di Evangeline. – Piovono foglie!
Scuote appena l'ombrello, facendone cadere due o tre foglie gialle che nel frattempo hanno macchiato la cupezza del telo grigio.
– Fifona. Per un po' di foglie, cosa vuoi che sia...
– Ma ci sono gli insetti! – sbotta Evangeline in tono lamentoso. – Ci sono i bruchi e i ragni e le cimici e tutte quelle altre bestioline schifose sulle foglie. Tu non lo sai, ma loro lo fanno apposta. Si mettono apposta sulle foglie che stanno per cadere, così poi se finiscono addosso alle persone loro ci camminano sopra, sui capelli e sui vestiti e dappertutto...
Al limite del mio campo visivo, scorgo Evangeline rabbrividire.
– Ma dai! – Il ragazzo scoppia a ridere. – C'è una cospirazione degli insetti e l'umanità non ne sa nulla? Chiamate i giornalisti! Meglio, la polizia! Meglio, l'esercito! Sterminiamo i malvagi insetti che vogliono camminarci addosso!
Mentre Claudio la punzecchia, Evangeline mette il broncio e gonfia le guance, ma all'ultima frase lui fa scivolare giù il braccio dalle sue spalle e usa entrambe le mani per farle il solletico.
Evangeline è costretta a sciogliere il braccio dal mio per difendersi. Indietreggia e mi urta con la schiena, e per fortuna nessuno dei due presta troppa attenzione a me, perché sono certo di aver perso in quel momento almeno un po' il controllo della mia maschera impassibile. Approfitto del fatto che sono libero e di un cancelletto aperto a pochi passi da me per uscire di scena.
– Sono arrivato – mormoro, e già mi avvio verso quel portone sconosciuto, senza attendere che i due amici d'infanzia ritrovati si ricompongano e mi salutino. Il loro commiato è comunque una serie di "ciao" distratti. Non mi rivolgono più di un'occhiata prima di correre via, Evangeline tintinnante di campanellini in fuga con l'ombrello e Claudio all'inseguimento.
Mi apparto tra la casa e la siepe, al riparo degli sguardi dalle finestre e dalla strada, prima di prendere il cellulare e telefonare a casa dei parenti di zia Clara, dove sono ospitato. Al primo che risponde, ho intenzione di chiedere di pronunciare il mio nome ad alta voce, come se mi stesse chiamando dalla stanza vicina. Rispondere a un'evocazione e apparire lì dove sono richiesto è sempre stato facile, per me.
Lo so che dovrei prendere l'autobus come una persona normale, ma oggi non ne ho proprio voglia.

sabato 8 febbraio 2020

Lirico

Lirico [lì-ri-co] agg., s. (pl.m. -ci, f. -che) 1. agg. In epoca classica, destinato a essere recitato con l'accompagnamento della lira. 2. agg. Caratterizzato dall'espressione dell'interiorità del poeta o dell'artista; che presceglie la lirica come forma di espressione. 3. agg. estens. Che manifesta una sensibilità soggettiva, toni affettivi e sentimentali. 4. agg. Che riguarda il melodramma. 5. s.m. (f. -ca) Poeta lirico.

Etimologia: il termine proviene dal latino lyrĭcus, attraverso il greco lyrikós, derivato di lýra, "lira".


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Quand'ero bambino, nessuno aveva mai pensato che io potessi diventare un lirico. Nessuno, nemmeno io, aveva mai creduto che potessi essere qualcosa di più di ciò che già ero fin dal momento della mia nascita: uno schiavo, un siaht, proprietà dei sovrani che avevano conquistato il regno di mia madre. I bracciali del serpente non potevano essere tolti dalle mie braccia: sarebbero cresciuti con me, mai troppo stretti, né larghi abbastanza da poterli sfilare.
Quando divenni abbastanza grande da poter servire a qualcosa, avrei potuto essere inviato nelle cucine, o a soddisfare i capricci di qualche nobile marmocchio e a essere punito in sua vece. Né l'una né l'altra fu la mia sorte: l'attendente decise invece che le mie mani piccole sarebbero state più utili nell'auditorum, a ripulire e mantenere in buono stato strumenti che di rado venivano usati, e a svolgere commissioni per il maestro di musica.
Fu lì, nella sala del canto, che avvenne il momento più lirico della mia intera vita. Fu lì che incontrai la principessa Skalyssa. O meglio, io la vidi, ma lei non vide me: ero invisibile agli occhi dei nobili, come tutti i siahta.
Non potevo fare altro che guardarla, e ammirare la sua delicatezza di pergamena, e la sua luce variopinta come il sole attraverso una vetrata. Ascoltavo in segreto la musica della sua voce e la melodia dei suoi passi ogni volta che si recava dal maestro di musica per una lezione. Lei non apparteneva al mio mondo, non al buio e all'odore stantio della camera comune dei siahta, e di sicuro non era mai rimasta sveglia alla salmodia di lamenti degli schiavi frustati.
Mai avrei osato sperare che un giorno avremmo vagato liberi per il mondo, a cantare la storia delle nostre vite come se fosse una fiaba antica.

giovedì 6 febbraio 2020

Vivienne e La Biblioteca


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Foto di Ivo Rainha da Pexels


Da quando aveva iniziato a lavorare lì, la Biblioteca era diventata la sua seconda casa. Ogni volta che varcava la soglia della villa, Vivienne perdeva il conto delle ore che trascorreva in quel luogo al di fuori del tempo, una terra di mezzo in cui Paradiso e Inferno s'incontravano. Non le era permesso toccare o leggere i volumi antichi che conteneva mentre guidava angeli e demoni alla loro meta in quel labirinto, salvo che per porgerli a chi glieli aveva chiesti, eppure Vivienne la considerava la sua personale Caverna delle Meraviglie, custodia di tutto il sapere del mondo, perfino di quello ritenuto perso per sempre come i testi dell'antica biblioteca di Alessandria. Ne era così affascinata da aver rifiutato ogni altra forma di pagamento per quel lavoro, ricchezza, magia, tempo, per il privilegio di poter prendere in prestito i suoi libri al pari delle creature ultraterrene che la frequentavano.
Nella Biblioteca, mentre svolgeva il suo compito di guida, Vivienne non poteva leggerli.
A casa, sospesa tra la realtà del suo lavoro mondano nella scuola e la fiaba che era quello segreto nella Biblioteca, Vivienne consumava le sue notti sulle pagine di un libro.

lunedì 3 febbraio 2020

Lingua lunga


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Foto di Helena Lopes da Pexels


Non sono il dottor Dolittle. Non ho mai capito i miagolii della gatta pingue della mia vicina, né interpretato i cinguettii che i passerotti si scambiano tra un ramo e l'altro in giardino, e di sicuro non riesco a farmi intendere dalla lucertola che puntualmente perde la strada di casa, infila la mia porta e se ne sta rintanata sotto l'armadio per un bel pezzo prima che io riesca a cacciarla. Eppure, fin dal giorno in cui l'ho portato a casa sotto forma di un cucciolo goffo e giocherellone, io riesco a capire lui, il mio biondo coinquilino peloso.
Il che mi fa supporre che tra noi quello strano non sia io, bensì il mio amico lingua lunga.
Benny ha parecchio da dire. Ci sono giornate in cui non sta mai zitto, guastando la tranquillità che avevo raggiunto quando avevo scelto di non condividere la casa con un altro chiassoso esemplare umano. L'apice della loquacità però lo raggiunge quando si lamenta del cibo che gli servo nella ciotola. Come la sera che ho provato a condividere con lui gli avanzi di torta alla carota che la mia vicina, quella con la gatta grassa, ha preparato in quantità industriale per poi farne omaggio a tutto il quartiere.
Benny ha annusato, si è tirato indietro, mi ha fissato e ha sbottato: – Ti sembro  forse un dannato coniglio?
Per le due ore successive non ha smesso di rimproverarmi, brontolando tra un boccone e l'altro perfino quando ho sostituito la fetta di torta con le sue crocchette preferite.

sabato 1 febbraio 2020

Erpetologia


Erpetologia [er-pe-to-lo-gì-a] s.f. Branca della zoologia che studia i rettili e gli anfibi.


Etimologia: composto dal termine greco herpetón, "rettile", derivato di hérpo, "strisciare", e da -logia, "discorso".

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Ma certo. Quando Jossintaur aveva detto che ci serviva un esperto di erpetologia, avrei dovuto capire che stavamo andando nella tana di una Gorgone. Non ne avevo mai vista una e pensavo fosse meglio non vederla, con quello che si raccontava nei libri del mio mondo. Ma Jossintaur mi rassicurò.
– Non pietrificano con lo sguardo. Hanno solo un... aspetto particolare. Non tutti sono in grado di sopportarlo, e loro sono piuttosto sensibili in proposito.
– Particolare in che senso? – domandai a Jossintaur, mentre arrancavo dietro al suo passo agile sulla pietraia sdrucciolevole. – Intendo, serpenti a parte. Su quello sono già stata avvertita e non mi crea problemi. Ho visto di peggio in questi anni.
Tentai di fargli l'occhiolino, ma scivolai su una roccia instabile e mi sbilanciai in avanti. Jossintaur fu lesto a girarsi e afferrarmi per le braccia. Nel sostenermi, replicò: – Non ne sono sicuro. Se non sei in grado di mantenere la compostezza mentre la guardi, forse è meglio che tu indossi una benda.
Feci una smorfia e scossi la testa. Non avevo più bisogno del suo aiuto, perciò mi sottrassi alla presa con un po' della mia antica testardaggine. – Ho affrontato i demoni. Due volte, in due vite diverse. È solo una Gorgone.
Come al solito, avrei dovuto dargli retta. Nessuna immagine tratta dai libri avrebbe potuto prepararmi a quella vista. C'erano i serpenti, ovvio, centinaia di specie diverse che sembravano uscirle dal cranio e avvinghiarsi attorno al collo e alle braccia, Ma nel volto della nostra esperta di erpetologia non c'era traccia del fascino con cui la si raffigurava nel mio mondo. Piuttosto era un comico amalgama di tutti gli animali su cui vantava una conoscenza: una larga bocca da rana con zanne di coccodrillo, pelle umida e maculata come le salamandre ma butterata al pari dei rospi, occhi tondi con la pupilla verticale sopra un naso a becco di tartaruga e un sottogola cadente che ricordava il collo di un'iguana.
Era difficile non restarne orripilati, o non ridere.