giovedì 29 giugno 2017

Reminiscenza estiva

(racconto ispirato dall'esercizio Tappeto sonoro, non potendo raggiungere un luogo appropriato per l'atmosfera che avevo in mente, ho scelto di scrivere con il sottofondo di On the beach, a cui ho tolto il suono del fischietto e abbassato il volume dei gabbiani)

Suoni che sento:
sciabordio delle onde
voci di bambini
passi sulla spiaggia
fruscio di stuoie e ombrelloni scossi
strida di gabbiani
tintinnio di una campana a vento

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

Il sole era calore sulla sua pelle. Solo quello, nulla più.
La ragazza sospirò e strinse le ginocchia con le braccia. Infilò l'alluce nella sabbia, scavando un solco più fresco e umido. Ma i suoi occhi erano fissi al cielo al di sopra delle onde, al di là dell'orizzonte. Dimra.
Un gruppetto di bambini le passò accanto, correndo verso l'acqua con un coro di gridolini che si fecero acuti quando sollevarono i primi spruzzi. Un paio di loro avevano braccioli verdi e blu infilati quasi fino alle ascelle; altri due ragazzini cercavano di rubarsi a vicenda un pallone da spiaggia, mentre una bambina, la più piccola del gruppo, arrancava con la vita circondata da una paperella gialla. Un adulto con un materassino sottobraccio li seguiva con aria rassegnata, gridando avvertimenti. Dedicò uno sguardo alla ragazza accoccolata sulla spiaggia, prima di passare oltre.
Lei chiuse gli occhi.
Ascolta, le aveva detto lui una volta.
Strida di un gabbiano che sorvolava una riva fin troppo affollata. Un lieve sbatacchiare della tela degli ombrelloni, e forse qualche stuoia o un asciugamano scosso da qualcuno per liberarlo dalla sabbia. Una campana a vento che tintinnava alle sue spalle, appesa al chiosco dei gelati.
Ora annusa, le ripeté il ricordo della sua voce.
La ragazza avvicinò le braccia al viso e inspirò il sale dalla pelle. L'odore rovente della sabbia. Le era rimasto addosso qualcos'altro, un'ombra di fragranza verde e calda, come di spezie, di resina e d'erba falciata? Non poteva esserne sicura.
Forse lo stava solo immaginando.
Riaprì gli occhi e fu accecata dalla gibigiana del sole che giocava sulle onde.
Il mare non sarebbe mai più stato lo stesso. Il mondo non sarebbe mai più stato lo stesso.
Lei non era più la stessa.
Con il vento che le soffiava nelle orecchie e spazzava via gli ultimi sprazzi di nuvole bianche dal temporale dei giorni scorsi, non sentì i suoi passi sulla sabbia.
– Allora, hai intenzione di passare il resto della vacanza a rimuginare qui da sola? – le chiese la rossa, china su di lei.
La ragazza trasalì, abbassò le braccia e accennò a un sorriso. – Fai davvero onore al tuo nome – le disse. Le dita afferrarono il pendente della collana, una specie di fiore d'argento stilizzato. – Ho così tante cose da chiedergli, e non posso. Vorrei averlo saputo prima.
La rossa le si sedette accanto. Si strinse nelle spalle. – Vero, non puoi chiedere a lui. Quel pessimo soggetto non è qui a farti impazzire ora. Però puoi chiedere a me. Che ne dici, ti va di scoprire quante imprecisioni ci sono qui dentro?
Le porse un libro. La ragazza sbirciò la copertina, ridacchiò e lo mise da parte. – Non voglio la fantasia, adesso. Voglio la realtà. Parlami del... posto, si dice così, vero? Parlami del posto da dove vieni.
La rossa cominciò a raccontare.

lunedì 26 giugno 2017

Nella palude, in salvo

(racconto ispirato dall'esercizio Tappeto sonoro, non potendo raggiungere un luogo appropriato per l'atmosfera che avevo in mente, ho scelto di scrivere con il sottofondo di Bowa's Swamp By Day)

Suoni che sento:
frinire dei grilli
gracidii di rane
tonfi liquidi
sciabordii
gracchiare dei corvi
martellare dei picchi sul legno
ronzii di insetti
richiamo ritmato del picchio

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

Da troppe albe non mi fermo, non dormo, non mangio qualcosa di più sostanzioso di qualche foglia amara, gonfia di linfa, o di una canna delle paludi aperte, rosicchiata il più in fretta possibile per evitare di far rumore. Perciò, quando lo sento, per prima cosa penso che sia la stanchezza, o la fame, a parlare alle mie orecchie.
Quel ritmo.
Impossibile da dimenticare.
Il ritmo di casa.
Corro, alzandomi sulle gambe, in direzione del martellare del picchio contro il legno. Senza preoccuparmi di inciampare nel fango o di essere visibile al di sopra delle canne palustri.
I miei occhi non vedono quando passo dalla torrida luce rivelatrice all'ombra delle fronde. Non vedono più niente, ormai.
Ma lo vede la mia pelle.
L'odore del legno umido, il sentore del muschio sui tronchi, il lezzo dell'acqua stagnante mi riempie le narici. Sì, è tutto vero. Non è solo nella mia testa. Sono a casa.
So di non essere ancora al sicuro. Quelle creature, se ancora mi stanno cercando, non si lasceranno spaventare dal chiasso dei grilli o da un po' d'ombra. Sono stata loro prigioniera per più di quattro stagioni, e ormai li conosco. Conosco le loro armi. I loro metodi.
Tendo l'orecchio. Un tonfo, alle mie spalle. Mi appiattisco contro un tronco, poi sento un coro di gracidii provenire dalla stessa direzione.
Non è uno di loro. Le rane sarebbero già scappate.
Mi aiuto con le mani mentre avanzo, spingendo contro le ruvide cortecce che mi circondano, sempre più strette attorno a me. I miei passi smuovono piccole onde in una bassa pozza, le sento tornare ad accarezzarmi le caviglie. Sopra di me, un corvo lancia il suo richiamo stridulo volando tra i rami. Da qualche parte, altri della sua famiglia gli rispondono.
Dove sarà la mia?
Qualcosa di lieve e umido mi sfiora una spalla. È una liana. Forse. O forse no? Mi giro di scatto, scivolo e finisco a terra. Cerco di ripulirmi le squame dal fango viscido, poi avverto la punta di una lancia pungermi la schiena, e l'asta di un'altra battere contro i miei artigli.
E le loro voci. Voci in una lingua che non sento da giorni, da quando le creature che si fanno chiamare umani sono riuscite a ricatturare mia sorella, fuggita con me.
Io sono a casa, tra la mia gente, in salvo. Ma non ho potuto portare lei fin qui, e lo rimpiangerò per il resto della mia vita.

sabato 24 giugno 2017

Ordito

Strano che non abbia pensato prima, essendo questa la Piuma Tramante, alle parole ordire, ordito, orditura... stavolta ho saltato l'occasione di aggiungere un verbo alla mia lista: forse è solo una mia impressione, ma quando ci penso mi sembra che in ordire uno dei significati oscuri gli altri.

Ordito [or-dì-to] agg., s.m. 1. agg. Tramato, architettato. 2. s.m. L'insieme dei fili, tesi in senso longitudinale sul telaio, che costituisce la parte iniziale della tessitura, poi completata con la trama. 3. s.m. fig. Disposizione ordinata di qualcosa.

Woman weaving, di Tydence Davis, licenza Creative Commons BY 2.0. Immagine ritagliata e modificata con l'aggiunta di scritte.


Mi sembrava ovvio che in questo brano doveva esserci una tessitrice per sfruttare il termine ordito, ma così su due piedi non me ne veniva in mente nessuna tra i miei personaggi. La prima frase è stata semplice, il problema in questo caso è stato: in quale mondo mi trovo, e quale dei miei personaggi incontrerà questa nuova arrivata?


La chiamavano la Tessitrice e viveva nella parte bassa della città.
Mentre papà e Mathias erano per mare io passavo quasi tutte le mie ore con lei. La Tessitrice non mi ha insegnato niente di ciò che si studia in un'Accademia del Sapere. Da lei, ho appreso tutto ciò che là non avrei mai potuto imparare.
Avevo sette anni quando scoprii che ai suoi clienti non vendeva solo stoffe variopinte. Un giovanotto dai capelli color paglia e un gilet a rombi era passato da lei una mattina con un sacchetto di denaro. Lo avevo già visto, qualche giorno prima, quando aveva parlato con lei e se n'era andato senza acquistare niente. Ero arrabbiata: che cosa ci faceva di nuovo lì?
Quando si ripresentò, la Tessitrice alzò gli occhi e gli disse: – Ogni sera, al rintocco della campana del tramonto, la troverai in piedi sul molo nord. Portale la stella marina del giallo più intenso che riesci a trovare, e lei si innamorerà di te.
Il giovane le lasciò tutto il sacchetto in cambio di poche parole di cui non aveva nessuna prova.
– Come hai fatto? – le chiesi, cercando di acchiappare la navetta che solcava il mare dell'ordito. – Sei forse una maga?
La Tessitrice rise e appoggiò la navetta lontano dalle mie grinfie. – No. Vieni qui, Leda. Li vedi questi fili?
Mi sollevai sulle ginocchia e guardai il telaio. Lei mi indicò l'arcobaleno di fili paralleli. – Questi fili sono come la vita delle persone. Ognuna è diversa, e pur essendo vicine, a malapena si toccano. Ma quando arrivo io... – La Tessitrice fece scorrere la navetta attraverso il passo e batté con il pettine per compattare la trama. – ...quando arrivo io, da quei fili divisi si forma un disegno. Secondo te, chi ha detto alla ragazza dove trovare il suo futuro sposo, e quale segno glielo avrebbe rivelato? Lei è di buona famiglia e ora ci deve un favore. Che è meglio del denaro, in certi casi. Adesso hai capito?
La Tessitrice era mia madre. Da lei ho imparato a intrecciare le vite delle persone con la mia come se fossero i fili di un ordito.

giovedì 22 giugno 2017

Sentire una descrizione

In Scrivere a ritmo di musica ho già riflettuto su come la colonna sonora cambia il ritmo della scrittura. E su come i suoni dell'ambiente siano, a loro volta, una specie di canzone che ti accompagna sempre.

Di solito li ignori. Non ti rendi conto di quanto sei circondato di rumori. Anche quando pensi di stare in un posto tranquillo, in silenzio. Magari a leggere o scrivere. Con il ticchettio della tastiera sotto le tue dita, o il fruscio delle pagine, lo scricchiolio della sedia mentre cambi posizione, un lieve sospiro che ti sfugge. Il ronzio discreto del climatizzatore, e quello ancor più impercettibile della ventola del pc. Lo scorrere della penna sul foglio, hai mai provato ad ascoltarlo? Senza dimenticare il tuo respiro, e il battito del tuo cuore. Se sei davvero in un posto tranquillo, uno che definiresti silenzioso, forse riuscirai a sentirlo.

E tutto questo ammettendo di non avere una finestra aperta su una strada trafficata, o su un bucolico angolo di mondo come capita a me mentre scrivo queste righe. C'è così tanto da ascoltare, là fuori.

Eppure, quando si parla di descrizioni, si pensa sempre a un'immagine. Lo stesso verbo "immaginare" si riferisce a qualcosa che si può vedere, anche se solo nella propria testa. Al livello della consapevolezza, gli occhi la fanno da padrone. E lo scrivere è un gesto consapevole: puoi percepire un suono o un profumo senza rendertene conto, ma affinché lo percepisca un personaggio, e dunque anche il lettore, devi scegliere volontariamente di tracciarne il ricordo a parole.

Ora, prova a rileggere una descrizione che hai scritto, o una di quelle che trovi nel libro che ti accompagna in questi giorni. Cerca di contare quante sono le frasi in cui puoi vedere la descrizione, e quante quelle in cui puoi sentirla.

Sentire è un verbo generico, e ammetto che potendo, gli andrebbe sempre preferito un suo sinonimo più specifico, ma fin dai tempi del concorso Blusubianco ho notato questo: sentire può essere riferito a uno qualunque dei restanti quattro sensi, con la totale esclusione della la vista. Puoi sentire una melodia, una carezza, il sapore di un dolce, la brezza di sale dell'oceano. Ma non puoi sentire nulla con gli occhi.

Perciò questa è la mia esortazione: la prossima volta che ti trovi a descrivere un ambiente, o a muovere i tuoi personaggi in esso, non limitarti a immaginarlo. Fai il buio. Chiudi idealmente gli occhi, escludendo tutto ciò che puoi vedere della scena nella tua testa. Sentila.

La tua capacità descrittiva, la tua abilità di coinvolgere il lettore e immergerlo nella storia ne gioverà, promesso!

lunedì 19 giugno 2017

Tappeto sonoro

La musica creata da uno o più esseri umani non è la sola colonna sonora che può ispirare e dirigere la tua voglia di scrivere.

Ogni luogo ha la sua "musica", basta prestare attenzione. Il cinguettio e lo stormire delle foglie in un parco. Il brusio e il tintinnio delle tazze in un bar affollato. Lo sciabordio delle onde, gli spruzzi, il vento e i richiami dei bagnanti sulla spiaggia. Oggi ti invito ad ascoltare prima di scrivere.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
 
Cerca un luogo all'aperto

Che sia un ambiente naturale o cittadino poco importa: ogni luogo ha il suo particolare tappeto sonoro, diverso da qualunque altro. L'importante è che non sia il luogo dove scrivi di solito.
Se proprio non hai la possibilità di spostarti o l'ambiente che vorresti non è raggiungibile, puoi usare questo sito: http://www.ambient-mixer.com/
Lì troverai un po' di tutto, dalla città alla giungla, passando per ambientazioni fantasy tratte da libri, film, videogiochi, fumetti...

Ascolta ogni suono che ti circonda

Prova a notare ogni suono che raggiunge le tue orecchie. Se ti è possibile, chiudi gli occhi e ascolta. Puoi annotarli per non dimenticartene. In questo modo, sarai anche costretto a tradurre ciò che hai ascoltato in una sequenza di parole, che ti serviranno per l'ultima fase dell'esercizio.

Scrivi una scena o una descrizione

Il modo più semplice per sfruttare un tappeto sonoro come ispirazione, è scrivere una descrizione del luogo in cui sei (o in cui immagini di trovarti, se hai scelto di usare il sito qui sopra) che si concentri sui suoni presenti oltre che sulle immagini. Oppure, ambientare lì una scena in cui si muovono uno o più personaggi.
Se invece prediligi un altro tipo di scrittura, puoi concentrarti sulle emozioni che ha risvegliato in te l'ascolto, o perché no, comporre una poesia...


Qualunque cosa tu scelga di scrivere, che ne dici di condividerla con gli altri nei commenti?
Un brano a mia scelta riceverà un post tutto suo giovedì della settimana prossima, con una breve presentazione dell'autore, a meno che lui o lei non preferisca mantenere il mistero!

sabato 17 giugno 2017

Ninfeo

Non mi ricordo, ma mi sembra sia da un po' che non uso una parola con riferimenti alla mitologia, vero? Di driadi ho già scritto, ora tocca alle ninfe.

Ninfeo [nin-fè-o] s.m. 1 Originariamente bosco, fonte o altro luogo sacro alle ninfe. 2 arch. Nelle ville rinascimentali e barocche, complesso di grandiose fontane, spesso scavate nella roccia o dotate di grotte artificiali, colonne, nicchie e altri elementi decorativi.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ero indecisa su quale dei due significati del termine usare per il brano che accompagna la parola Ninfeo. Il primo, che si presta maggiormente a un racconto fantasy? O il secondo, per un'ambientazione più moderna? O ancora, perché scegliere, quando li posso usare entrambi? Non ti rivelerò la mia decisione, per saperlo, devi leggere!


Il mio primo ricordo è una villa. Tutto quello che so è che ci lavorava mio padre.
Io trascorrevo le mie giornate all'aperto, da sola, nel giardino. C'erano tanti angoli nascosti che potevo eleggere a mio rifugio, ma il mio preferito rimaneva il ninfeo. Lo si raggiungeva oltrepassando un boschetto di pruni, aceri e pioppi: senza preavviso, sbucavi oltre le fronde per ritrovarti di fronte a un laghetto con un salice che si specchiava nell'acqua e, dall'altro lato, un complesso di colonne color avorio che delimitava un gazebo e un tempietto. A sinistra ricordo una parete di roccia da cui scendeva una cascata. In una nicchia scavata nella pietra, la statua di una fanciulla avvolta in veli tendeva verso l'acqua un'anfora; al suo fianco, un basso arco irregolare costituiva l'entrata di una grotta.
Qualche volta mia madre si univa a me e passavamo ogni minuto a nuotare e giocare nel laghetto, finché papà non mi trovava addormentata nel suo liquido abbraccio, entrambe in acqua, protette da una cortina di foglie di salice.
Mi manca quel posto. E mi manca lei.
Quando gli disse che l'altro mondo stava cambiando e che non poteva più tornare da noi, mio padre mi portò via dalla villa e per me cominciarono gli incubi.
Sognavo di essere dall'altra parte, nel luogo da dove lei veniva. Da dove venivamo anche noi, io e mio padre, gli Esiliati. L'altro mondo del mio sogno era così simile al ninfeo da farmi sentire una fitta al cuore.
La mia contemplazione del lago e delle colonne s'interrompeva bruscamente nell'udire le fronde spezzarsi alle mie spalle, e un poderoso ruggito che increspava l'acqua e sbriciolava le colonne.
Col cuore in tumulto correvo verso la grotta, solo per vederla crollare di fronte a me. Allora mi arrampicavo nella nicchia della statua, graffiandomi le dita sulla roccia, e m'infilavo dietro la fanciulla di marmo.
Zitta.
Immobile.
Le mani a coprire la bocca.
Finché un respiro caldo non sollevava i miei capelli, e gli artigli del drago mi ghermivano le gambe.

giovedì 15 giugno 2017

Chi ha il diritto di danzare con lei? - Chimera

Apriamo le danze di questa serie di esercizi che partono dalle orecchie e finiscono alla punta della penna, o ai polpastrelli sulla tastiera, con... la multiforme Chimera, che ha fatto il bis!
Stavolta Chimera ha scelto di provare l'esercizio Scrivere a ritmo di musica ispirandosi alla canzone Let's get loud di Jennifer Lopez. Seguiamo insieme il suo ballo sfrenato e una volta arrivati alla fine, ti devo avvertire... non chiederle nulla. Potresti sentirti rispondere, come me: è un segreto!

Ti ricordo che il prossimo ospite della Piuma potresti essere tu! Come si fa? Semplice: segui gli esercizi che propongo a lunedì alterni e prova a scrivere il tuo brano!
E ora, la parola a Chimera:


Lei lo venne a prendere atteggiandosi come fosse la cantante e muovendosi come se stesse già danzando...
Lo guardai: lui sorrideva e si levò teatralmente la giacca gettandomela sicuro che l'avrei afferrata...
Quindi si unì a lei nella danza...
E dire che era mia l'intenzione di invitarla... e invece... eccomi qui, con una giacca ripiegata sul braccio a guardarli...
Era un ballo dannatamente sensuale che rivelava tutta la loro complicità... tutto il tempo che avevano passato insieme...
Cos'è questa? Rabbia? Gelosia? Ma no perché dovrei?
Ovvio... perché a ballare con lei dovrei esserci io. Non lui.
Ma ne ho il diritto? Sono l'ultimo arrivato...
Si ma lui ne ha il diritto? Non è nemmeno umano!
La danza finisce: la sostiene nel casquè... e allora le dà un lieve bacio sul collo... si guardano e sorridono... ringraziano gli ospiti che applaudono... lui la guarda come se fosse la principessa della sala... e mi rendo conto che il suo è un sentimento sincero... non si cura di me, che muoio di gelosia, e nemmeno di tutti gli altri, che le spiavano sotto la gonna ad ogni giro... l'unica cosa importante era renderla felice per poterne ammirare la bellezza. Non c'era altro nei suoi occhi...
"Sei stanco?"
"Un po'... rendermi visibile è spossante..." le dice mentre tornavano da me.
"Allora mi concederai tu il prossimo ballo?" mi chiede raggiante...
Lo guardo: lui mi sorride. Ma certo: prima di tutto la sua felicità... e io che mi aspettavo un sguardo assassino!
"Volentieri... ma non so se sarò bravo quanto lui..." le rispondo.
"Tu impegnati e non prestarmi i piedi!" Mi prende il polso e ho appena il tempo di restituire la giacca...

lunedì 12 giugno 2017

Il momento perfetto

(racconto ispirato dall'esercizio Parole musicali, la canzone che ho scelto è Teardrop dei Massive Attack)

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È lì, tra un battito di cuore e l’altro. Non importa dove. Non importa quando. Posso essere ovunque, ma chiudo gli occhi e respiro. Solo questo. Respiro. Ascolto. È una sorta di pace. Tranquilla, mentre il tempo rallenta e la mente scivola altrove, senza ostacoli. Non c’è niente da afferrare, niente da fermare. La lascio andare dove vuole, libera, mentre respiro i profumi che non sono qui, e ascolto il vento parlare di storie lontane. E mi sento bene, in pace con me stessa e con il mondo. Sento che posso fare qualunque cosa, ma non adesso. Questo è il mio momento di serenità, tra un battito di cuore e l’altro. Il mio momento perfetto.

sabato 10 giugno 2017

Mossiere

Probabilmente conosci il termine inglese "starter", che è entrato nell'uso comune nella nostra lingua. Ma hai mai sentito la parola italiana corrispondente?

Mossiere [mos-siè-re] s.m. (f. -ra) In una corsa, chi è addetto al segnale di partenza.

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Personalmente ritengo che mossiere dia un sapore più antico, o più "classico" alla vicenda e alla voce narrante. Quindi lo userei per una corsa in un romanzo o racconto storico, in un fantasy medioevale con castelli e magie, magari anche in una favola o nel caso di un narratore di una certa età, anche quando la storia è ambientata nel presente. Invece nella fantascienza o in una storia moderna raccontata da un ragazzo, per quanto mi riguarda, via libera all'inglese starter.


Il mossiere si mise di fianco alla linea sulla sabbia e alzò il fazzoletto. Ci scambiammo uno sguardo. Mi schiarii la voce e ripetei le regole.
– Uno, si inizia dietro la linea di partenza. Non si mette un'unghia avanti prima che il fazzoletto abbia toccato terra. Due: vince chi oltrepassa la linea di arrivo con tutto il corpo. Non è valido arrivare e sdraiarsi di traverso sulla linea per non far passare gli altri. Dico a te, Maipe, non mi far fare brutta figura.
Sbirciai il felino iridescente con lunghe zanne che spuntavano dalle fauci. Pareva che avesse sempre sul muso un ghigno sardonico.
– Tre: qualunque forma o numero di zampe è valido, quindi Cin, non lamentarti con Kamila di quello che hai scelto.
La ragazza bruna accucciata dietro la scolopendra a strisce nere e arancio rise.
– Non l'ho scelto io! – si lamentò la bambina bionda al suo fianco, carezzando il carapace di un enorme granchio viola. – A Kera piace!
Posai l'indice sulle labbra: – Shhh! Non facciamo rumore. Se mamma Tamesi arriva, addio divertimento, quindi ecco la quarta regola: non si grida per far correre di più la propria Potenza, non la si spinge, non la si porta in braccio al traguardo. Cinque: è una gara di corsa, quindi è vietato volare!
Lavinia incrociò le braccia e mi guardò storto. Davanti a lei c'era Mokita sotto forma di un corvo nero con tre zampe e una cresta bianca ritta in testa. – Non è valido, te lo sei inventato adesso!
Puntai i pugni sui fianchi. – Ho sempre detto che era una gara di corsa. Corsa!
– Ehi! – fece il mossiere, Natiel, l'unico ragazzo. L'unico a quello spettacolo bizzarro che non fosse della nostra famiglia. Mi piaceva un sacco e un giorno l'avrei sposato, perciò tanto valeva che sapesse subito come eravamo, no?
– Mi si sta addormentando il braccio. Possiamo cominciare?
Annuii e andai dietro a Maipe. – So che sei il più veloce. Quindi non fare scherzi e vinci per me, ok?
Il felino dai denti a sciabola ridacchiò sotto i baffi.
Natiel mollò il fazzoletto e la gara ebbe inizio.

giovedì 8 giugno 2017

Scrivere a ritmo di musica

Fin da quando ho memoria, adoro scrivere (o inventare storie, prima di aver appreso l'arte di fissarle su carta). E adoro ascoltare la musica.

Eppure non avevo mai pensato di mettere queste due cose che amo assieme. Il massimo della vicinanza che concedevo loro consisteva nell'ascoltare ogni volta la stessa canzone prima di una sessione di revisione di un testo lungo, come ad esempio è un romanzo. Dovendo per forza spezzare il lavoro di rilettura nell'arco di più giorni, settimane o mesi, usavo questo piccolo stratagemma per trovare una sorta di continuità e rimettermi nello stato d'animo "giusto" a dispetto degli eventi della giornata. Lo stato d'animo che mi avrebbe consentito di mantenere uno stile coerente e fluido nonostante le necessarie interruzioni.

Ma ascoltare musica mentre scrivo? Non ci avevo mai pensato.

Almeno finché non ho scoperto autori che lo facevano, citando pure i brani che li avevano ispirati nei ringraziamenti. Finché non ho scoperto scrittori che creano addirittura le proprie playlist, le sequenze musicali più adatte a far da sottofondo ai vari passaggi delle loro storie. E finché non sono stata spronata a provarci, prima nel corso di un laboratorio di scrittura creativa, poi con gli esercizi della Virtual Writing Academy di Max Kirin.

Cosa cambia nello scrivere ascoltando musica?

La prosa, al pari della poesia, ha già di per sé un suo ritmo. Le parole forniscono gli accenti. Lunghissime, oppure brevi, insegnano quanto tenere una nota. La punteggiatura offre pause più... o meno lunghe, ma non solo. Hai mai notato come basta una domanda per creare una sequenza ascendente? Per poi concludere, proprio come in musica, sulle note gravi di un punto fermo.

Quando scrivi, tu segui il tuo particolarissimo ritmo. Io, il mio. Ma quando c'è di mezzo la musica... senza volerlo, batti il piede a tempo, la testa ondeggia e le tue frasi si adeguano. Finisci per esserne influenzato, senza nemmeno rendertene conto. E questo è il motivo per cui quella canzone che legava ogni sessione di editing l'ascoltavo prima, e non durante: per non contaminare il mio stile con uno che mi fosse estraneo.

Mi ci è voluto del tempo per capire che non è necessariamente un male. Che può essere bello provare sonorità nuove, sperimentare, giocare con il ritmo della propria scrittura. E che, con o senza musica, mentre scrivi non sei in una bolla, che il suono c'è sempre, e ti circonda, e ti influenza. Che il tuo ritmo non è comunque tuo, e allo stesso tempo lo è, perché qualunque cosa tu stia ascoltando, che sia una canzone, le voci dei vicini, o come nel mio caso mentre scrivo queste righe, cinguettii e cicale, verrà in ogni caso filtrato da te, dalla tua sensibilità, che sarà diversa da quella di chiunque altro al mondo.

Perciò scrivi, con o senza musica. Semplicemente, scrivi.


E se vorrai farmi sapere cosa ne pensi, o con quale sottofondo ti dedichi alle tue storie, che ne dici di lasciarmi un commento? Il discorso vale anche se hai preferenze durante la lettura!

lunedì 5 giugno 2017

Parole musicali

Lasciamo da parte le immagini. La vista non è l'unico senso che può ispirare a scrivere.

Ora è il momento di prestare attenzione al proprio orecchio. Prova con questo esercizio:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
 
Scegli una canzone.

Può essere la tua preferita di sempre o quella che senti ovunque in questo momento, fino a non riuscire a togliertela dalla testa. Poco importa se ha una voce che canta o se è soltanto strumentale, se dura pochi minuti o se si tratta di una lunga sinfonia. Scegli la musica che vuoi.

Ascoltala.

Assicurati di avere a portata di mano carta e penna, o di avere il pc acceso e un nuovo documento del tuo programma di scrittura aperto prima di dare l'avvio alla musica. Non vorrai perderti le prime note, vero?

Mentre la ascolti, scrivi ciò che ti fa venire in mente.

Non pensarci troppo, scrivi e basta. Dai parola alle emozioni, o tratteggia una scena a cui la musica che hai scelto potrebbe fare da colonna sonora. Qualunque cosa va bene per iniziare a scrivere.

Continua a scrivere finché la musica non finisce.

...oppure: almeno finché non finisce. Se ti senti ispirato, continua pure fino a portare a termine il brano. Con o senza musica: ormai la canzone ha fatto il suo dovere, ti ha dato il la per iniziare. Dove arrivare da questo punto spetta solo a te deciderlo.


Fammi sapere come è andata, e se vuoi condividerlo, posta pure il tuo brano nei commenti!

sabato 3 giugno 2017

Lattescenza

Nel dizionario esistono molte parole riguardanti i colori che sono difficili da associare alla tinta che definiscono, se già non le si conosce. Ma questa non è tra quelle.

Lattescenza [lat-te-scèn-za] s.f. Colorazione, opacità simile a quella del latte.

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Se ben ricordo, la prima volta che l'ho sentita è stato nella descrizione di un minerale. E dal momento che quando penso alle creature del Seleeriewn mi vengono in mente le pietre dure del gruppo dei quarzi, l'associazione è stata facile. Anche se Kathy ha già avuto la sua storia in Aneddoche - Da lontano, in silenzio, non ha mai figurato in uno dei brani del sabato... e allora, eccola qui.


Le immagini del corpo umano, nei libri di scuola che avevo sulla Terra, mi avevano sempre spaventato. Vedere teschi, ossa, vene e organi interni esposti come se gli uomini disegnati fossero stati squartati mi metteva a disagio.
In un certo senso era stato un sollievo scoprire che io, dentro, non ero così.
Almeno fin quando non ho incontrato la vysia.
Era più alta, ma simile a noi nell'aspetto: arti longilinei, testa a lampadina, bocca sottile, occhi tondi e nessun naso, bensì fori tappati da una membrana mobile. A differenza di noi, però, la sua pelle liscia come un ciottolo levigato era priva di colore, come se il mare da cui proveniva lo avesse lavato via dalle sue carni, lasciandola trasparente come il quarzo. Vedere attraverso di lei non era meno spaventoso che vedere uno di quei disegni, solo che era tutto nel posto sbagliato.
Sacche, bulbi, globi e sottili strie lattescenti, con appena una lieve traccia azzurrina, galleggiavano al suo interno, pulsavano, si gonfiavano e si sgonfiavano.
Non capivo come potessero gli altri, che erano nati e cresciuti su un diverso pianeta, avvicinarsi senza repulsione, accarezzarla, abbracciarla e appoggiare la testa sul suo addome gonfio, che custodiva un uovo lattescente, sotto il cui guscio s'indovinavano un paio di forme fluttuanti.
Noi che venivamo dalla Terra ci tenevamo in disparte. Il più giovane di noi, il cui nome presso il Seleeriewn era stato distorto in "Ameyhios", aveva gli occhi chiusi, incapace perfino di guardare.
Io la confrontai da lontano con il mio braccio di ametista, la cui trasparenza era interrotta poco al di sotto della pelle da uno strato corneo, ed emisi un gorgoglio disgustato. Non c'era forza nell'universo che avrebbe potuto costringermi a passare il resto della vita in fondo al mare, con l'unico scopo di figliare per il Seleeriewn.
– Non so che cosa voglio diventare. Ma di certo, non una di quelle.
Sentii gli altri trillare il proprio assenso. Finalmente avevamo trovato qualcosa su cui eravamo d'accordo.

giovedì 1 giugno 2017

Cassiopea! Guarda che ore sono! - Chimera

Oggi ospito un racconto della misteriosa Chimera, ispirato dall'esercizio Fantasia astratta.
Chimera è al suo debutto non solo su queste pagine, ma sull'intera rete. Perciò, se vuoi leggere qualcosa che ha scritto, la trovi solo qui.
Che altro dire, che adoro le sue esclamazioni... stellari? Ma ora basta, lascio spazio a lei e al suo ricordo astratto:


Quando ero bambina in cima alle scale che portano alla mansarda c'era una corridoio tappezzato di vecchi quadri.
Erano strani e indecifrabili, talvolta inquietanti in quell'angolo in ombra... ma a perdersi tra le linee, i cerchi e i colori improponibili che portavano ti apriva uno spettacolo di somiglianze contorte... ricordo un quadro lungo con curve e spigoli... lì vedevo un treno che arrivava in città... se non fosse che era per metà fuso con la città... e le persone dov'erano? Ma certo dietro a quei quadrati arancioni che sembrano finestre! O in quel tunnel lì in basso... e cosa ci faceva un'enorme temperamatite lassù in alto?
E qui? Perché quell'uomo blu è così spaventato? Sarà per quel mostro marrone che cola dal soffitto?
E lì? È una spada quella? Non ha la punta... non penso farà così male messa così! Ma no! È posata su dei tessuti non può essere una spada... forse è un oggetto che usa il sarto... mah... Cassiopea! Guarda che ore sono! Si mangia!