lunedì 29 maggio 2023

Tutto è possibile in un sogno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Serena Koi da Pexels


– Quello di cui ho bisogno, ora, è una mappa della città.
Il ragazzo che era uscito dal mio sogno di guardò intorno con circospezione nella luce della tarda mattinata che si rifletteva sulle vetrate dei palazzi. Ero riuscita a convincerlo a indossare un paio di occhiali da sole, dimenticati in casa nostra dal tizio che aveva frequentato una delle mie coinquiline, per nascondere agli sguardi dei passanti i suoi occhi color arcobaleno; ma non ero riuscita a convincerlo ad abbandonare il suo antiquato e formale costume di scena in favore di un abbigliamento con cui sarebbe potuto passare inosservato, né a lavarsi il viso dal trucco che ricreava due file di figure geometriche parallele, tracciate in nero sulla pelle, che intersecavano gli occhi e si allungavano sopra e sotto le palpebre, sulla fronte e sulle guance. E nemmeno mi aveva dato retta quando gli avevo detto di lasciare a casa guanti bianchi e cappello a cilindro, che perlomeno in quel momento tratteneva in mano invece di aver ben calcato in testa, tra spettinati ciuffi di un biondo platino così chiaro da parere bianco, come il più eloquente dei cartelli: "guardatemi, sono o non sono il tizio più strambo che abbiate mai visto?"
Certo che, per uno che era in fuga da uno stuolo di ombre assassine, si faceva notare fin troppo.
– Dunque – dissi, mostrandogli il cellulare su cui avevo impostato la nostra posizione su Google Maps. – Noi siamo...
– Non è quello che intendevo – replicò lui, lanciando occhiate ansiose a destra e a sinistra. – Una vera mappa. Di carta, di pergamena, di stoffa, o su un altro supporto fisico. Questo riquadro minuscolo e irreale non è la stessa cosa.
Non volle ascoltarmi quando gli dissi che poteva spostarsi, allargarla, restringerla, e farci tutto quel che gli serviva sullo schermo. Inoltre, proprio lui che veniva da un sogno parlava di cos'era reale e cosa no!
– Non posso trovare lì il luogo che sto cercando – tagliò corto lui. – E ti ricordo che dovremmo cominciare a muoverci: non è sicuro restare troppo a lungo nello stesso posto.
– Ehi, guarda che questa meraviglia è aggiornatissima! – protestai, agitando lo smartphone. Lui mi fissò inespressivo, senza parlare. Maledetti occhiali da sole. – E va bene, mi arrendo, andiamo a cercare la tua mappa!
Mi girai e allungai la mano come per prenderlo sottobraccio, ma all'ultimo ci ripensai e mi limitai a stendere il braccio per indicargli la direzione. Il ragazzo venuto da un sogno mi era già parso fin troppo bizzarro e fuori posto quando eravamo a casa, e per strada sembrava ancora di più un'allucinazione. Se altri non si fossero girati a fissarlo nel passargli accanto, avrei quasi potuto pensare che lo stavo immaginando.

Passammo ben sei cartolibrerie e due edicole prima di trovarne una che vendeva ancora cianfrusaglie da turista come cartoline, guide ai monumenti della città e soprattutto piantine pieghevoli, del tipo che, come rammentavo dai miei anni d'infanzia, erano un incubo da mettere via. Seguendo la filosofia del mio accompagnatore, secondo cui era meglio non stare fermi nello stesso posto per troppo tempo, dato che ci eravamo trattenuti un po' sul luogo dell'acquisto camminammo fino al parco prima di poter consultare la mappa. Risultò anche più comodo poterla spianare su un tavolo da pic-nic.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno individuò subito dove eravamo, poi puntò le dita su altri luoghi, e tracciò con le mani delle linee dritte lungo le vie della città, o in diagonale attraverso gli edifici. E intendo proprio tracciò, perché sulla carta i suoi polpastrelli lasciarono scie nere come se li avesse intinti nell'inchiostro.
Lo osservai attentamente, in silenzio perché sembrava estremamente concentrato su ciò che stava facendo e io non volevo distrarlo.
– Trovato – disse lui infine, indicando un punto dove diverse linee si incrociavano.
Lo riportai su Google Maps, ma l'applicazione non mi rivelò alcun esercizio commerciale o altro che valesse la pena di riportare, perciò non riuscii proprio a capire dove stavamo andando.
Le scie nere si fecero evanescenti fino a svanire mentre lui ripiegava la mappa, e ci riuscì perfettamente, al primo colpo. Se non era magia quella...
Non ebbi il tempo di chiedergli nulla perché a quel punto lui si mosse e io gli andai dietro, e anche se ero io quella con lo smartphone dotato di navigatore, fu lui a guidare me con sicurezza lungo le vie e attraverso gli incroci, come se avesse memorizzato la mappa che, una volta esaurito il suo compito, era finita nella mia borsa.
Gli chiesi in svariate occasioni, lungo la strada, di dirmi dove stavamo andando o che cosa aveva cercato sulla mappa, ma lui ogni singola volta glissò sull'argomento con la stessa lieve eleganza da acrobata con cui camminava. E più lo guardavo e più evitava di rispondermi, e meno io sapevo se in fondo in fondo lo ammiravo, o se mi faceva proprio imbestialire. Nel frattempo, andando verso la periferia, le strade si erano fatte meno affollate di turisti e studenti e più popolate di tizi loschi che bighellonavano sui marciapiedi, da soli o in gruppetti, fumando nell'aria impregnata dell'odore di cibo speziato e lingue straniere provenienti dai ristoranti etnici e dalle botteghe ingombre di merci di infima qualità che si affacciavano sulla via. E io iniziai a pensare che lui non aveva voluto dirmi niente, perché quello che eravamo venuti a cercare in quella parte della città non era poi tanto legale.
Rimasi molto sorpresa quando, imboccato un vicolo, il ragazzo dagli occhi arcobaleno si fermò di fronte alla porta a vetri di una libreria di testi usati.
Era impossibile sbagliarsi, perché la piccola vetrina che affiancava la porta era ingombra di libri male assortiti dalle pagine ingiallite. Ma se era solo un libro quello che gli occorreva, perché fare tutta questa strada?
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno si tolse gli occhiali da sole, li ripose nel cilindro e lo piazzò in testa prima di entrare.
Io ero talmente sorpresa che non protestai nemmeno. Lo seguii, e basta.
Tra gli scaffali ci venne incontro un vecchietto che camminava curvo, appoggiato a un bastone. La sommità della sua testa era calva, ma dietro le orecchie e sulla nuca resistevano ancora lunghi ciuffi di capelli bianchi.
– Cosa posso fare per lei, signore? – disse l'anziano proprietario, rivolgendosi direttamente, in tono ossequioso, al ragazzo dagli occhi arcobaleno, mentre ignorò totalmente me. – Cerca qualcosa in particolare?
– Sì. Avete un libro sull'arte circense? – chiese il ragazzo che avevo conosciuto come trapezista barra illusionista barra lanciatore di coltelli nei numerosi sogni di cui era stato protagonista. E io che credevo che il nostro viaggio avesse qualcosa a che fare con l'aiutarlo a tornare da dove era venuto, o almeno con l'evitare gli assassini che già una volta lo avevano attaccato mentre nel frattempo cercavamo di rimettere le cose a posto.
– No, sono spiacente, ma quel libro non ci è mai stato venduto – riferì il libraio in tono contrito, e seguendo i suoi sguardi di sottecchi, rivolti indietro, individuai la figuretta di un'anziana signora dai capelli altrettanto candidi, che ci sbirciava timida e silente da dietro uno scaffale ingombro di vecchi volumi. – Il suo proprietario ne è estremamente geloso, signore.
Il mio accompagnatore levò gli occhi al cielo. – Immaginavo che non poteva essere così semplice. Bene. Posso dare un'occhiata?
L'anziano si fece da parte e allungò un braccio a invitarlo a camminare liberamente tra gli scaffali. Il ragazzo dagli occhi arcobaleno si aggirò lento, con me che lo seguivo dappresso e mi chiedevo che cavolo ci fossimo venuti a fare lì. Non sembrava nemmeno più morso dalla frenesia di non stare troppo tempo in un posto solo, mentre pigramente leggeva i titoli di una profusione di testi male assortiti, che stonavano messi l'uno accanto all'altro senza alcuna logica, né per dimensioni e colori, che vedevano un libro basso e gonfio di pagine accanto a uno alto e sottile, una copertina dai toni vivaci e i caratteri sbarazzini del titolo infilata in mezzo a tomi seriosi rilegati in pelle e stampati in lettere dorate, né per argomento o per autore, dato che saggi e romanzi sembravano mescolati assieme e l'ordine alfabetico non era proprio di casa in quella libreria. Dopo aver preso, sfogliato e rimesso a posto più di un testo, il mio accompagnatore sembrò infine trovare ciò che cercava in un volume dedicato all'Egitto, protetto da una sovracopertina in carta lucida con un'enorme foto della Sfinge con le tre piramidi.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno si voltò e disse al libraio, che ci aveva seguito per tutto il tempo: – Prendo questo.
– Ottima scelta, signore – fece l'anziano con un sorriso sornione. – Per consultazione, o da portare via?
– Consultazione – replicò svelto il ragazzo, il che mi fece pensare che forse mi ero sbagliata, che non eravamo in una libreria ma in una biblioteca.
– Da questa parte, signore – lo invitò l'anziano libraio o più probabilmente bibliotecario, mentre ci conduceva più in profondità nel labirinto di scaffali. Dietro di noi, la figura femminile di quella che immaginai essere sua moglie ci tallonò restando in silenzio e al riparo oltre le schiere di libri.
Pensavo ci avrebbe portato in una sala di lettura, e invece l'ometto ci condusse a un'alcova dove stava incassato un divanetto ingombro di cuscini alle due estremità, abbastanza lungo da poterci stare comodamente sdraiati. Nessun tavolo dove appoggiare il libro. Piuttosto strana come sala di lettura, considerando anche che la vetrata istoriata alle spalle del divanetto e le stringhe di luci a forma di stelle appese sopra gettavano la zona in una penombra variopinta.
Il ragazzo fece per andare verso il divano, ma con un gesto imperioso l'anziano lo bloccò: – Ah-ha. Pagamento anticipato, signore.
Forse, dopotutto, quella non era una biblioteca.
Il mio accompagnatore sospirò e strinse la mano che il libraio gli tendeva. Rimasero qualche istante così, senza scuoterle, poi si lasciarono e il ragazzo si affrettò verso il divanetto, e il suo passo non mi parve più così elegante e leggero come prima. Quasi incespicò sui suoi piedi prima di lasciarsi cadere tra i cuscini.
Quando tentai di raggiungerlo, venni bloccata allo stesso modo.
– Se intendi consultare anche tu il testo, devi pagare. Ogni consultazione si paga personalmente.
Mi irritò che non ci fosse un "signora" e un tono ossequioso anche per me, ma feci spallucce e gli strinsi la mano. Che male poteva farmi una semplice stretta?
Troppo tardi rammentai che nel mondo del ragazzo dagli occhi arcobaleno, niente era quel che sembrava e i pagamenti non avvenivano mai in denaro. Non ci avevo fatto caso perché al contrario delle altre volte in cui lo avevo incontrato, lì eravamo svegli, nella realtà e non in un sogno, ma agli spettacoli del circo dove lui lavorava si accedeva cedendo un ricordo. In questo caso, sentii fin da subito la stanchezza invadermi il corpo e le spalle farsi pesanti.
Quando il libraio mi lasciò, andai a buttarmi anch'io sul divano.
– Avrei dovuto avvertirti. I Guardiani hanno bisogno di energia per continuare a esistere – spiegò il ragazzo in tono di scuse. – Ma pensavo si sarebbero accontentati della mia. Quel che possono ricavare da te è poca cosa in confronto, e non credevo avrebbero preteso anche le briciole.
Presuntuoso, pensai, scoccandogli un'occhiata. "E ora che si fa?" volevo dirgli, ma le parole si mescolarono in un mugolio confuso sulla mia lingua. – Eicrasfà?
Lui, in qualche modo, sembrò capire.
– Ti sei mai addormentata sul divano con un libro sulle ginocchia?
– Oh – mormorai io. In quel momento, finalmente, la nostra uscita a far compere, e tutto in quell'ambiente raccolto, assumeva un senso, e si ricollegava alla nostra incapacità di addormentarci, e quindi di riportarlo nel suo mondo, che ci aveva piagato quella mattina.
Forse fu l'aver ceduto parte della mia energia al libraio, o lo sfogliare lento e frusciante delle pagine del libro, zeppo di molte fotografie e di poche parole, o la scarsa luce liquida di quella penombra che variava in bagliori variopinti come se le figure nella vetrata fossero in movimento, ma non fu difficile prendere sonno. L'ultima cosa che ricordo prima di addormentarmi furono la coppia di anziani, ora vicini, che di fronte ai miei occhi si stringevano le mani, e pensai bizzarramente ma forse non a torto che quella non fosse una semplice dimostrazione d'amore, ma che stessero condividendo il pagamento.

Aprii gli occhi sulla riva di un fiume che scorreva tra dune di sabbia. Sentivo i granelli caldi scivolare sotto ai miei piedi, il liquido scorrere del fiume, l'odore vegetale degli steli del papiro e la fragranza dei fiori di loto. Era tutto troppo reale per essere un sogno, tanto che in principio pensai che il libro ci avesse davvero, magicamente, trasportati in Egitto. Ma poi sparsi alle mie spalle e attorno a noi scorsi decine di piramidi, obelischi e templi dalle colonne decorate di geroglifici e affreschi dai colori vivaci, troppo belli, troppo perfetti, troppo nuovi rispetto alle foto che li ritraevano in rovina, erosi e sbiancati dal tempo.
Sulla riva del fiume, poco più in là, scorsi il cappello a cilindro calcato sulla testa del mio accompagnatore. Stava parlando con altre due figure, un uomo e una donna nel fiore degli anni, con gli occhi dipinti alla maniera egiziana, come si vedeva spesso nelle statue o nei sarcofagi, lunghi capelli neri, abiti discinti che lasciavano scoperta gran parte della loro pelle abbronzata, gioielli dorati al collo, sulle braccia e tra la chioma, e nella mano di ognuno, un'asta sormontata da un ankh, la croce egiziana. Ma la cosa più strana era che i due avevano, sulla sommità della testa, un paio di lunghe orecchie da sciacallo. Non appena li vidi seppi con certezza, come solo in un sogno è possibile ricordare senza ombra di dubbio eventi mai avvenuti, che nonostante apparissero tanto diversi, quei due erano il libraio e sua moglie.
– ...creati a difesa dello spazio tra i mondi, fatti per custodire l'accesso a ogni possibile universo, esistenti contemporaneamente in ogni luogo, eppure... siete rimasti a guardare – li stava accusando il ragazzo dagli occhi color arcobaleno, con freddezza, senza rabbia.
A rispondergli fu la donna, molto più loquace in questa forma e nel mondo, o sogno, in cui ci trovavamo. Ma quando parlò le sue labbra non si mossero, e la sua voce parve risuonare da tutto il suo corpo, riverberando nel vento caldo del deserto e nello sciabordio del fiume sulla riva.
– Generati per essere una forza neutrale, non per prendere le parti di alcuno, signore, neppure... quella di chi ci ha voluti – disse la donna, ricalcando con un'ombra di derisione il suo tono e la sua pausa.
– Che succede? – chiesi nel raggiungerli, ma tutti e tre mi ignorarono come se non esistessi. Tipico dei sogni, ma certe volte, anche della realtà.
– Ma non è per recriminare sul nostro operato che il signore è venuto in cerca del nostro ausilio – si intromise l'uomo, e anche la sua voce venne contemporaneamente da dentro e fuori di lui, più che dalla sua bocca.
Indicando il fiume con l'ankh sopra il suo bastone, la donna disse: – E che ha scelto, tra tutte le mete possibili, proprio queste sponde. Ha pagato, può prendere ciò che è venuto a prendere, se lo desidera. Non sta a noi giudicare la sua codardia, così come non sta a lui criticare la nostra saggia e onesta mancata intromissione in questioni che non ci riguardano.
Alla faccia del non giudicare. Sbirciai il ragazzo, che a quelle parole si era rabbuiato.
– Non sono ancora pronto ad affrontarli – borbottò lui.
I Guardiani, così lui li aveva chiamati, gli rivolsero un sorrisino sfrontato, poi l'uomo si appoggiò con un braccio sulla spalla della donna e replicò: – Se non è pronto ora, non lo sarà mai.
Il ragazzo dagli occhi color arcobaleno scosse la testa e sibilò: – Ci sono troppe cose che voi non sapete per sputare sentenze così alla leggera. Fatevi da parte, piuttosto, visto che è ciò che vi riesce meglio.
I guardiani si spostarono di lato, ma mentre gli lasciavano libero il passo, la donna mormorò divertita: – Curioso che proprio il signore parli di oblio.
Il mio accompagnatore non lo chiese, forse per orgoglio, ma io sì. Ero troppo curiosa, e volevo capirci qualcosa in quella serie di allusioni da cui mi avevano esclusa. – Che intendete dire?
Miracolosamente, questa volta, i due sembrarono accorgersi che avevo parlato, e si presero pure la briga di rispondermi. – Noi sappiamo più di quanto egli non sappia. Ricordiamo ciò che è stato dimenticato. In ogni luogo, e in ogni tempo.
Anche se mi avevano rivolto la parola, quei due non smettevano di essere criptici. Mi permisi di giudicarli, visto che sembravano tutti in vena di farlo, valutando che la loro mancanza di chiarezza li poneva ai miei occhi nella categoria dei tizi loschi e poco raccomandabili.
Nel frattempo il ragazzo dagli occhi arcobaleno se ne stava in piedi sulla sponda, immobile, la mano verso un fiore di loto che si ergeva dall'acqua. Era come se si sforzasse, bloccato da qualcosa di invisibile. Ma io, che avevo già visto fin troppe volte le scenette di un mino per non riconoscerne una, dopo un paio di minuti di smorfie e sforzi simulati persi la pazienza.
– Oh, insomma! – sbottai nell'affiancarlo, chinarmi verso il fiore e strapparlo dalla pianta. Lo ficcai nella mano tesa del ragazzo, che in quel momento si sbloccò e lo strinse. – Ci voleva tanto?
– Interessante – commentò il Guardiano dalle sembianze maschili, nell'avvicinarsi a noi.
E la donna disse: – Tu desideri che lui se ne vada più di quanto lui desideri correre a rintanarsi nel suo rifugio. Forse ci siamo sbagliati, una parte del signore ancora ricorda, e c'è ancora speranza.
– Che se ne vada? Certo che lo vogl...
Non feci in tempo a terminare la frase, che mi svegliai di soprassalto. Ero seduta nel vicolo tra cumuli di immondizia. Accanto a me, con la stessa faccia stralunata di sonno, il ragazzo dagli occhi arcobaleno mi fissava. Stringeva tra le mani non un fiore di loto, bensì un sacchettino di iuta gonfio e stretto da una cordicella. "Polvere di sogno" mi spiegò più tardi, estratta dal fiore di loto che cresceva solo in quell'universo bolla così simile a una versione onirica dell'antico Egitto, di enorme utilità per addormentarsi a comando e plasmare i sogni lucidi. Quello avrebbe risolto i nostri problemi, ma al momento ancora non lo sapevo: tutto quel che mi disse era che dovevamo muoverci, perché eravamo fermi lì da troppo tempo.
Passando accanto al negozietto che era stata la libreria di testi usati, la trovai completamente vuota, un negozio abbandonato con i vetri sporchi l'insegna scrostata e un vecchio cartello con scritto "vendesi", tanto che mi chiesi se anche quella parte non l'avessi vissuta in un sogno.
– Ora capisci perché non potevo trovare quello che cercavo con quel tuo arnese tecnologico? – mi rinfacciò il ragazzo venuto da un sogno, che pareva aver ritrovato la sua andatura leggiadra dopo il sonnellino ristoratore, così come io avevo ritrovato la voce. – Solo leggendo una vera mappa si può arrivare in certi posti.
– Nei posti che esistono per un momento soltanto e poi svaniscono, intendi? – indagai, trottandogli dietro. Si era rimesso gli occhiali, e aveva nascosto il sacchettino nel cilindro che aveva ripreso in mano, e non mi sarei sorpresa se avessi scoperto che aveva un doppio fondo come ogni bravo cappello da prestigiatore. – Oppure in quelli che non sono mai esistiti se non in un sogno?
Lui non mi rispose. Mi strinsi nelle spalle. Chissà, tutto era possibile in un sogno, ma da quando lo avevo involontariamente tirato fuori da uno di essi, non mi sembrava più un azzardo affermare che qualcosa di incredibile era possibile anche nella realtà.

sabato 27 maggio 2023

Zoilo

Zoilo [ẓòi-lo] s.m. lett. Critico severo, astioso e ingiusto.

Etimologia: deriva dal nome proprio di un antico critico greco, celebre per il suo accanimento contro i poemi omerici.



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Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


3° giorno di Ventoso, Piazza della Fontana del Canto, Torbenia

Quella sul cui bordo sono seduta a scrivere non è una fontana fortunata.
Lo credevo, quando Taliesin mi ha detto come si chiamava, ma ho scoperto che non lo è affatto.
No, nono ingiusta con la fontana, lei non c'entra. È solo che... ho pensato, scioccamente, che non c'era luogo migliore di questo per iniziare a seguire i passi di Taliesin.
Conosco ormai a memoria le sue ballate, e per tutto l'inverno, da quando gli avevo detto di questo mio desiderio, prima di coricarci nelle nostre stanze Taliesin mi faceva provare, spiegandomi dove sbagliavo e come migliorare e correggendo la posizione delle mie dita sulle corde.
Pensavo di essere pronta a cantare in pubblico. E pensavo anche di averlo fatto bene, nonostante dai sussurri capivo che la maggior parte dei passanti si era fermato per sbirciare le mie ali e non per ascoltare la mia voce.
Poi, d'un tratto, una signora si è fatta largo tra la folla, sbraitando: – Più voce, non si sente niente! Anzi, no, taci, sei gracchiante, stonata, fuori tempo, pacchiana, dove credi di andare con quelle alucce di stoffa, si vede lontano un miglio che sono finte, e la smetti di torturare quel liuto? Vogliamo un musicante vero, noi, non una fanciullina alle prime armi che farà prosciugare dalla vergogna la nostra fontana e riempire di cerume le nostre orecchie pur di smettere di ascoltare questa lagna!
Mi veniva da piangere, ma Taliesin mi ha toccato su una spalla e ha detto: – Lascia perdere, la conosco, quello Zoilo. Critica tutto solo per il gusto di lamentarsi. Prova a sentire che cosa dirà di me.
Gli ho ceduto il posto e mi sono messa a scrivere per sfogarmi. Taliesin ha quasi finito, ma per tutto il tempo la signora che lui ha definito Zoilo ha continuato a scuotere la testa e a borbottare tra sé.
Mi sa che Taliesin ha ragione, non le è piaciuta nemmeno la ballata che lui ha interpretato alla perfezione.
Ma saperlo, chissà perché, non basta a farmi stare meglio.

giovedì 25 maggio 2023

Audioracconto - Passeggiata artistica


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Foto di Valeria Ushakova da Pexels


Racconto di un fine marzo 2020.

Passeggiata artistica
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/03/passeggiata-artistica.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: B - Somber Ballads di Kevin MacLeod (http://incompetech.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=mPE0Whlt4nU).

Immagine di: Valeria Ushakova (https://www.pexels.com/photo/woman-painting-outdoors-3094218/), da Pexels, distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 22 maggio 2023

In treno con Arte


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Foto di Ivan Samkov da Pexels


Avevamo un intero treno solo per noi.
Quando me lo dissero, ne fui scioccato. Non sapevo quanto costasse far muovere uno di quegli affari, intendo, un autentico antico treno a vapore su veri binari. Ormai solo il turismo di lusso li utilizzava ancora, mentre tutto il resto del mondo, i comuni mortali, se ne stavano pigiati come sardine nei convogli a levitazione magnetica delle intermetropolitane, che attraversavano a tempo di record i continenti in tunnel sotterranei pressurizzati.
Un intero treno per un singolo ospite d'onore e il suo entourage, che consisteva in una trentina di persone in tutto. Non conoscevo ancora ognuno di loro, non di persona, ma avevo visionato le loro schede e tutte le registrazioni disponibili in cerca di eventuali anomalie da segnalare al mio diretto superiore, nonché per essere in grado di riconoscere un infiltrato alla prima occhiata. E non importava che quella stessa operazione l'avesse già fatta il mio capo e ogni altro membro della scorta prima di me. Io avevo un talento speciale che nessun altro possedeva.
Anche se pensavo di essere sprecato per quella missione da babysitter.
Ero entrato a far parte del servizio di sicurezza senza nemmeno volerlo, quando al termine di una precedente missione pericolosissima e top secret avevo ricevuto un encomio, l'attenzione dei piani alti, e la raccomandazione di partire per una vacanza il più lontano possibile dal luogo della mia ultima missione. Quello, oppure accettare una missione della massima importanza dall'altra parte del mondo.
Avevo accettato la missione senza nemmeno sapere di che cosa si trattasse.
E così mi ero ritrovato alle dipendenze del capo della sicurezza Alfa, seduto comodamente a un tavolo del vagone ristorante dalle pareti adorne di quadri tra un finestrino e l'altro, finestrini rigorosamente schermati da pesanti tendaggi perché sia mai che la nostra ospite possa inavvertitamente vedere la bruttezza di una periferia urbana deturpata da rifiuti e graffiti, o una vecchia foresta malamente disboscata, col terreno perforato dagli scavi per le cave.
Il ritmico sferragliare del treno, le luci soffuse e le chiacchiere lievi degli altri membri del seguito mi metteva un po' di sonnolenza. Io e Alfa avevamo già controllato ogni persona e ogni centimetro delle 11 carrozze che costituivano il treno, e così non c'era molto da fare fino all'ingresso in scena dell'attrice principale. Arte, così chiamavano colei a cui dovevo fare da scorta, ci sarebbe stata consegnata dalla squadra Beta solo alla stazione successiva, perciò mi permisi di abbioccarmi finché non fossi stato ufficialmente in servizio.
Mi svegliò, prima ancora del fischio del treno che arrivava in stazione, la sensazione di pericolo che ormai mi era fin troppo nota. Feci appena in tempo a gettarmi di lato prima che un proiettile ultrasonico si conficcasse in un pannello sistemato alle mie spalle.
– Chiedo perdono – mormorò Alfa sogghignando sotto i baffi. – Ma volevo scoprire se era vero quello che si dice di te, che dormi con un occhio aperto.
Ovviamente Alfa sapeva che non era stato il mio modo di dormire ad avermi salvato. Nessun uomo avrebbe potuto schivare un proiettile ultrasonico. Nessun uomo privo del talento di percepirlo in anticipo.
L'improvviso rallentare del treno destabilizzò uno degli agenti di scorta che si era alzato in piedi in previsione dell'arrivo, e la cameriera che si aggirava tra i tavoli, ma non me. Come con il proiettile, anche quello lo avevo previsto. Prima di alzarsi a sua volta, Alfa si toccò l'auricolare, poi mormorò: – Hanno attaccato un altro Assoluto. La faccenda si fa seria.
– Nulla di grave, spero.
– Solo una lieve ferita, Amor guarirà. Guarisce sempre. Piuttosto... – Alfa si voltò e alzò la voce. – Tutti quanti, è ora di indossare gli occhiali schermanti. Non fatemi venire a raccogliervi dal pavimento in preda all'estasi mistica come novellini, andiamo!
Non c'era bisogno che lo dicesse: già la maggior parte dei presenti, abituati ad accompagnare Arte nei suoi viaggi, al primo rallentare del treno avevano indossato quella protezione che faceva assomigliare i loro volti a quelli di tante mosche dai grandi occhi. Il treno fischiò di nuovo, e i freni stridettero dando un altro contraccolpo al vagone. Mi affrettai ad agganciarmi i miei dietro la testa, subito imitato da Alfa.
Avevo sentito quello che si diceva di Arte, che la vista anche soltanto di una piccola parte del suo corpo era in grado di paralizzare un uomo che non fosse stato addestrato alla sua contemplazione. Solo gli Artisti potevano osservarla impunemente, e trarre da lei ispirazione. Non esistevano fotografie, era assolutamente proibito farne, e anche nei filmati che avevo visionato prima di quel viaggio, Arte era apparsa solo come un'ombra indistinta, tanto che era difficile persino per me leggere qualcosa dei suoi pensieri e delle sue intenzioni. Di lei sapevo solo quello che si diceva nei circoli degli Artisti, che il suo corpo fosse la somma di ogni opera pittorica mai realizzata, o che fosse quasi più simile a una statua che a un essere umano. Non mi era difficile crederlo, Arte era un Assoluto, uno di ultima generazione, tra i più perfetti mai creati. Un essere generato artificialmente a partire da DNA umano selezionato e migliorato, infuso per tutto il tempo della sua crescita con l'essenza di ciò che era chiamato a rappresentare. Non ero sicuro che Arte e gli altri Assoluti si potessero ancora definire umani, ma ero curioso di scoprire che impressione mi avrebbe fatto uno di loro.
Non avevo mai visto un Assoluto, non almeno uno che non mi guardasse da dietro la superficie di uno specchio. Un mio simile.
Non erano in molti a saperlo, perché all'epoca il progetto era ancora segreto, e mi era stato assegnato un nome comune e un passato plausibile, ma io sono uno dei primi Assoluti mai creati, Intuito. Assieme a me erano nate Logica, Conoscenza e Persuasione, ma non mi era mai stato permesso di incontrarle o di sapere chi o dove fossero. Sebbene, a differenza di Arte e degli altri come lei, noi primi apparissimo in tutto e per tutto umani, ero certo che con la mia dote le avrei riconosciute se le avessi incrociate per strada o anche solo viste in foto. Ma ciò non era mai avvenuto, e io non avevo usato il mio talento per rintracciarle.
E ora stavo per incontrare Arte. Solo perché qualcuno le aveva inviato lettere minatorie, così com'era avvenuto con altri Assoluti. E perché questo qualcuno aveva tentato di aggredire Verità ed era arrivato tanto vicino a Giustizia da cavarle un occhio. Un paio di membri di quella che ormai si poteva definire un'organizzazione ci avevano provato anche con Pace, ma non erano riusciti a raggiungerla prima di diventare innocui come agnellini.
Capivo che quei tre Assoluti, asserviti al governo multinazionale, potessero dare fastidio a delinquenti, ribelli e terroristi; ma perché attaccare Amor e Arte?
Perfino io non riuscivo a capire lo schema, non ancora, almeno. A meno che lo schema non fosse che ogni Assoluto, solo per il fatto di essere nato tale, era un bersaglio.
Il treno si fermò in un intenso stridore di freni, e la locomotiva sbuffò il suo disappunto. Le chiacchiere nel vagone si quietarono, tanto che in quell'attimo sospeso nel tempo era possibile udire ogni respiro, ogni goccia di vino versata nei bicchieri, ogni rintocco di posate che si appoggiavano piano sulle stoviglie.
Le porte si aprirono, e in fondo alla carrozza, il pianista accarezzò i tasti in una melodia vecchia di secoli. Spartiti che nessuno ascoltava più erano stati riesumati apposta per Arte, e un vagone più in là, nelle cucine, i suoi tre cuochi personali si stavano affaccendando a prepararle piatti dalla presentazione estremamente elaborata, studiata ad arte, perché Arte non poteva nutrirsi ed essere circondata da nient'altro che arte.
Per prime entrarono le sue ancelle, due fanciulle cieche che l'accompagnavano ovunque e che si occupavano di vestirla e di ogni altra necessità. Poi, con incedere solenne e preceduta da una mano che pareva tatuata da quanto era fitta di segni, giunse Arte.
Non appena posai gli occhi su di lei, vidi tutto. Non importava che fosse ricoperta da una vestaglia lunga fino ai piedi e portasse sul volto una maschera, non importava che io indossassi gli occhiali che proteggevano la vista altrui dalla bellezza inconoscibile.
Io intuii all'istante, in virtù dell'essenza instillata in me fin dalla mia creazione, ciò che le vesti e le lenti celavano. Non avevo mai visto un Assoluto, non sapevo che cosa fossimo davvero, e in quell'istante di riconoscimento seppi, e crollai in ginocchio. Alla periferia della mia consapevolezza intuii vagamente lo stupore di Alfa, il suo dubbio che avessi osato sbirciare per curiosità sotto agli occhiali schermanti o che non fossi stato abbastanza svelto a indossarli, e la sua derisione, la sua grassa risata interiore che si mutava in sdegno prima di raggiungere la superficie del suo volto.
Ma non mi importava che lui si stesse prendendo gioco di me, perché io ormai sapevo. Guardando Arte, avevo visto lo schema, e ora capivo contro chi stavo giocando.
La minaccia non veniva da un'organizzazione criminale o terroristica, bensì da uno di noi. Il nemico degli Assoluti era un altro Assoluto, ed era assai probabile che a dispetto del mio anonimato quest'ultimo sapesse chi ero, e mi avesse nel suo mirino.
Il treno fischiò, poi sferragliando, a fatica, si accinse a ripartire. Io mi alzai, mi tolsi gli occhiali schermanti e li posai sul tavolo, ignorando le proteste di Alfa.
Avevo intuito tutto quel che c'era da vedere di Arte, e molto di più, e la sua vista ormai non poteva più turbarmi. Lei mi sorrise da dietro la maschera prima di toglierla, e tra i suoi pensieri captai il riconoscimento di un suo simile, la sorpresa e la gioia nel trovarsi di fronte a qualcuno che non aveva paura di guardarla o che non la guardava per sfruttarla. Mi porse la mano, e fu come suo pari che la accompagnai al tavolo e iniziai quel viaggio in treno con Arte.

sabato 20 maggio 2023

Solecchio

Solecchio [so-léc-chio] s.m. (solo sing.) Usato solo nelle locuzioni fare, farsi solecchio: farsi schermo con la mano all'altezza delle sopracciglia per riparare gli occhi da una luce forte o abbagliante.

Etimologia: dal latino soliculus, diminutivo di sol, "sole".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio da una foto di Daniel Kondrashin da Pexels


Quando Jashira mi indicò qualcosa tra le dune del deserto e con voce trionfante gongolò e mi derise, il tutto nella medesima frase, non potevo crederci. Fui costretto a farmi solecchio per scorgere la cupola della torre di Timing, dello stesso colore della sabbia; e anche così, in un primo momento, la pensai un miraggio.
Tuttavia seguii Jashira e mi trascinai dietro i suoi bagagli solo perché non avevo altro di meglio da fare, perché a restarmene seduto su una roccia in mezzo al deserto sarei quasi sicuramente morto, e perché Jashy sembrava ancora abbastanza in forze per "spronarmi" con uno dei suoi incantesimi, visto che i suoi elementali erano ormai ridotti ai minimi termini e non costituivano più una minaccia sufficientemente spaventosa. Almeno, quello del ghiaccio sì, essendo ormai alto quanto un palmo, mentre quello del fuoco conservava ancora qualche fiamma vera tra i guizzi di vetro in cui si era mutato parte del suo corpo dopo aver divorato un po' di sabbia.
Quando arrivammo alla città-oasi di Timing, dalla parte dei sobborghi, zona che in genere i turisti non frequentavano mai, trovammo ad accoglierci un vecchietto che si faceva solecchio scrutando il deserto nella nostra direzione.
– Ah, siete gente, meno male. Pensavo foste dei diavoli di sabbia – disse il vecchietto. – Ma perché non siete passati da Cortodeserto?
Rivolsi a Jashira un'occhiata eloquente ma evitai di aggiungere una battuta che avrebbe scatenato la sua ira.
Jashira si impettì. – La migliore maga di tutti i tempi non ha bisogno di straducole turistiche per arrivare dove vuole andare.
Il vecchio sogghigno. – La migliore maga di tutti i tempi, se non si sbriga, non parteciperà alla Sfida. Le iscrizioni chiudono oggi col sole allo zenit.
Mancava poco. Davvero poco. Jashira partii di corsa, ma dovetti richiamarla e precederla nella direzione opposta quando il vecchietto tese un braccio per indicarci la via da prendere.
Da parte mia, ero solo contento di essere arrivato alla meta sano e salvo.

giovedì 18 maggio 2023

Audioracconto - Il momento perfetto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Oleksandr Pidvalnyi da Pexels


Racconto scritto ascoltando la canzone Teardrop dei Massive Attack. Se non la conosci, puoi ascoltarla qui (https://www.youtube.com/watch?v=c2_k5GFn8to), magari anche in contemporanea al racconto!

Il momento perfetto
(racconto breve di narrativa non di genere)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/06/il-momento-perfetto.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Lexicon di Audionautix (http://audionautix.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=xj1yzSUpVRY) sotto licenza Creative Commons (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/).

Immagine di: Oleksandr Pidvalnyi (https://www.pexels.com/photo/woman-closing-her-eyes-against-sun-light-standing-near-purple-petaled-flower-plant-321576/), da Pexels, distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 15 maggio 2023

Il Faro della Fenice


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Rostislav Uzunov da Pexels


Non avevo mai raccontato a nessuno quella parte del mio viaggio, prima di parlarne a Sara.
Era semplicemente troppo doloroso da esprimere a parole.
Ero partito poco tempo dopo la morte di mia madre e il mio ingresso nel gruppetto eterogeneo degli ibridi che Julian aveva attirato attorno a sé e tenuto unito, sebbene il mio "poco tempo" sarebbe parso assai lungo in termini umani. Sapevo fin da bambino che lei mi avrebbe lasciato troppo presto, e che la nostra discrepanza nel percepire lo scorrere del tempo mi avrebbe causato dolore nel vederla invecchiare precocemente come non sarebbe mai accaduto a un elfo quale io ero per metà. Ero ancora poco più che un ragazzo quando Julian mi trovò, il giorno in cui i miei ex compagni di giochi, che sarebbero rimasti bambini ancor più a lungo di me, mi avevano denigrato e umiliato.
Allora fui felice di trovare in lei e nella compagnia degli Erranti una famiglia, ma con il tempo scoprii che nemmeno tra di loro ero davvero del tutto a mio agio, come non lo ero stato tra gli elfi e non lo ero stato tra gli umani.
Gli Erranti erano quasi tutti combattenti, addestrati nelle armi o nell'uso della magia che proveniva da una parte della loro ascendenza. Io, invece, non avevo mai preso in mano un arco o una spada prima di allora, e per quanto mi sforzassi, non ero mai riuscito a combinare granché con la magia degli elfi.
Per questo mi offrii volontario quando Julian chiese ad alcuni di noi di intraprendere un viaggio verso gli angoli remoti della terra per cercare altri come noi, solitari dal sangue misto, ripudiati dalle stirpi da cui discendevano.
Gente così ce n'era ovunque, disse Julian, a sud, a nord, a est e ad ovest.
Io scelsi di viaggiare incontro al sole.
Non dirò degli altri che ho incontrato lungo il mio cammino, ai quali parlai di Julian e di come raggiungerla, se lo avessero voluto. Julian aveva ragione, erano davvero in tanti coloro che si trovavano nella mia stessa situazione, e sapere che non eravamo soli rincuorò me e loro. A Sara non ne parlai, se non brevemente, citando coloro che avevo ritrovato tra gli Erranti al mio ritorno.
A lei dissi di quando raggiunsi l'Ultima Costa prima del Mare dell'Alba.
Sapevo del Faro della Fenice prima ancora di arrivarci, perché me ne avevano parlato nelle locande e nelle case contadine in cui mi era stato offerto rifugio durante la notte. Mi avevano avvertito che era meglio raggiungere il faro di giorno, e non fermarsi nei pressi dopo il tramonto del sole.
Ma io non diedi loro ascolto, e arrivai al promontorio su cui sorgeva il faro in piena notte. Compresi allora perché mi avevano avvertito di non farlo. Lo spettacolo che mi si parò davanti era di una bellezza sublime, incomparabile.
Sotto un cielo dipinto di scintille brillanti, alla luce effimera delle scie tracciate dalle stelle cadenti, rispondeva il bagliore di fuoco del faro. E quello che ardeva sulla sommità della torre non era un fuoco qualunque. Era un enorme volatile dalle ali di fiamma spalancate, e in quel fuoco splendeva l'eternità.
Caddi in ginocchio e piansi, e non credo che fu soltanto per la parte di elfo che era in me che percepii in quel modo l'immagine della Fenice. Credo che qualunque uomo mortale avrebbe avuto la mia stessa reazione.
Non mi accorsi nemmeno del sorgere del sole. Non so quando la fiamma del faro si spense. So solo che era giorno quando la guardiana del faro scese dal promontorio ad accogliermi.
E lì ebbi la mia seconda visione sconvolgente.
Con mia grande sorpresa, la guardiana del faro aveva lo stesso aspetto di mia madre per come io la ricordavo nei nostri anni migliori, quando lei era ancora giovane.
Per un istante pensai che fosse tornata dalla morte. La percezione di eternità che mi aveva sopraffatto nell'osservare la Fenice, mi prese di nuovo alla vista di quella donna che pareva appena riemersa dal passato.
Poi mi dissi che non poteva essere, che forse la guardiana del faro le somigliava soltanto, ma anche così non riuscii a tollerare di separarmi da lei. Rimasi per mesi al suo fianco, dimentico della mia missione, e accettai senza remore la sua unica regola di non seguirla quando di notte saliva sulla sommità del faro a occuparsi del fuoco.
Solo uno stupido non avrebbe compreso che lei era la Fenice che brillava nella notte.
Un giorno, molti mesi dopo il mio arrivo, la guardiana del faro mi chiese chi vedevo quando la guardavo. La domanda mi sorprese, finché non mi spiegò: – Ogni uomo o donna vede in me una persona diversa. Qualcuno che hanno perso, qualcuno caro al loro cuore strappato loro dalla morte: un'amante, una sorella, un'amica, una figlia. Tale è il potere della Fenice, la sua maledizione: il ritorno dalla morte, sebbene tale ritorno sia solo un'illusione. – La guardiana, nel rivelarmelo, si fece triste. Volse lo sguardo fuori dalla finestra del faro, verso l'oceano. – Solo uno non ha mai visto altri che me in me. E non perché non fosse stato toccato dalla morte dei suoi cari. Ma solo perché ha saputo guardarmi con occhi nuovi, puri, senza fardelli dal passato.
La guardiana sospirò, e io mi vergognai di non essere stato in grado di fare altrettanto, e di averle imposto una forma che non le apparteneva. Ma anche allora, anche sapendo quello che lei mi aveva detto, non ero in grado di lasciar andare mia madre.
– Gli è stato comandato di partire, e da allora non l'ho più visto. Non so nemmeno se mi raggiungerà in tempo per un ultimo abbraccio. I miei giorni stanno per scadere, lo sento.
La guardiana del faro mi disse che viveva da molto tempo, da migliaia di anni, da quando era stata scelta per quel ruolo e la precedente Fenice le aveva trasmesso la sua maledizione. Aveva guidato i marinai in porto secolo dopo secolo con la sua luce nella notte, ma ultimamente le era sempre più difficile riprendere la forma umana all'alba, e spesso il suo fuoco perdurava nelle prime ore del giorno. Presto, per lei, sarebbe giunto il tempo di morire e di scegliere un'altra fanciulla a cui passare la maledizione della Fenice e il suo ingrato compito, o di ribellarsi, gettarsi tra le onde del mare e spegnere per sempre il fuoco dell'eternità.
Era un'ardua scelta. Rimasi con lei fino al compimento di quell'ultimo atto, ma non riuscii mai a raccontare a Sara, né a nessun altro, quale fu la decisione della Fenice.

sabato 13 maggio 2023

Saliente

Saliente [sa-lièn-te] agg., s. 1. agg. Che sale; usato solo nelle locuzioni acque salienti, falde che emergono in superficie, e arco a sesto saliente, arco gotico. 2. agg. Che risalta, sporge. 3. agg. fig. Principale, essenziale. 4. s.m. Prominenza, sporgenza. 5. s.m. Elemento delle mura di fortificazione che sporge a triangolo per difesa delle mura stesse.

Etimologia: dal latino saliens, participio presente di salire, "salire".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Dettaglio da una foto di Daniel Torobekov da Pexels


– Sei certo di quello che dici?
Il primo incontro con Glaucus mi aveva lasciato molto su cui riflettere. Un enigma, lo avevo definito, ricordando i giocattoli che costruiva l'uomo che era stato mio padre, prima di consegnarmi alla vita a cui appartenevo davvero.
Il secondo incontro con Glaucus mi portò cattive notizie. Non c'era più tempo per risolvere l'enigma, il giocattolo era rotto e i pezzi non si sarebbero incastrati al posto giusto mai più.
– Le acque salienti della nostra Sorgente Sacra non mentono – disse Glaucus nella sua voce liquida, e il suo passo sciaguattante lo avvicinò a me. – Qualcosa è passato attraverso il fuoco. La distruzione del nostro mondo è vicina, forse ormai inevitabile, se ciò che è passato è l'antica oscurità di cui gli elementi narrano il ricordo.
Non ero io quella madida da capo a piedi, eppure tremai a quelle parole. E desiderai ardentemente che Zefiro fosse lì con me.
– La sacerdotessa del Tempio del Fuoco... – iniziai, ma Glaucus scosse la testa.
– È troppo giovane.
Forse fu perché pensavo già a Zefiro, che era stato Sacerdote del Vento prima di me, ma le parole di Glaucus mi rammentarono che io avevo sentito la stessa obiezione pronunciata dal mio vecchio maestro.
Allora raccontai all'apprendista del Tempio dell'Acqua ciò che Zefiro mi aveva detto, e di come si era consegnato al vento "in cerca di stagioni migliori". Non avevo capito che cosa avesse inteso dirmi, ma ora comprendevo che forse il suo viaggio era collegato al nostro problema.
Dopo che mi ebbe ascoltato, Glaucus mi parve arrabbiato per la prima volta da che lo conoscevo.
– Perché hai taciuto un presagio così saliente?
Non ebbi il tempo di difendermi. Le gocce che aveva assorbito da ogni fonte a sua disposizione mi piovvero addosso come un acquazzone, e in breve tempo ci ritrovammo bagnati entrambi. – Scusa – disse lui. – Ma davvero, avresti dovuto parlarne con gli altri. Subito, non adesso. Ah, perché il Vento ha sempre il difetto di presumersi superiore e intoccabile?

giovedì 11 maggio 2023

Audioracconto - Cenerognola


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di suzukii xingfu da Pexels


Un finale alternativo per Cenerentola.

Cenerognola
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/09/cenerognola.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Village Consort di Kevin MacLeod (http://incompetech.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=-_n0ib4fA0g).

Immagine di: suzukii xingfu (https://www.pexels.com/photo/person-stepping-on-brown-stool-beside-person-wearing-blue-denim-jeans-239491/), da Pexels, distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori: Church Bells Ringing Sound Effect di SPANAC (https://www.freesoundslibrary.com/church-bells-ringing-sound-effect/), da freesoundslibrary.com, sotto licenza sotto licenza Creative Commons: By Attribution 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

lunedì 8 maggio 2023

La Valletta degli Agrumi e il terribile divoraossa


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Chris J Mitchell da Pexels


– Se ne sono andati?
Alla domanda, Robert rimase un istante interdetto. In fondo avevo interrotto n modo tanto brusco un litigio, ed era anche un bel litigio, solo per ricordargli la nostra situazione. Ovvero, catturati dai nativi, legati, imbavagliati, e abbandonati nella Foresta Infinita per terminare i nostri giorni smangiucchiati da chissà quale tra le tante fameliche creature che la abitavano. E in una Foresta Infinita, di simili schifezze potevano starcene a bizzeffe.
Restammo in ascolto, ma a parte i grugniti e gli ululati in lontananza, e lo stormire inquieto delle foglie sopra le nostre teste, non udimmo alcunché. Non le voci che parlavano la lingua incomprensibile e gutturale dei nostri sequestratori, e nemmeno i cinguettii che di solito sono normali in una comune foresta. In questa, le voraci creature del male dovevano essersi pappate tutti i volatili che non erano stati abbastanza furbi da andarsene prima.
– Credo di sì – fece Robert, in risposta alla mia domanda. – Anzi, no! Ce n'è ancora uno, lo sento toccarmi le corde che mi legano i polsi... a meno che non sia una di quelle creature, sciò, vattene via brutta bestia...
– Sono io – gli dissi mentre lo sbendavo dopo aver liberato i suoi polsi legati. Gli vidi la domanda negli occhi e prima ancora che potesse farci perdere tempo a chiederla, gli ricordai: – Non mi pare il caso di stare fermi qua mentre ti spiego come mi sono liberata. Andiamocene di qui e alla svelta, prima di fare la fine dei personaggi secondari sacrificabili. E, per inciso, come compagno di sventura fai schifo – conclusi, per tornare al litigio che ci aveva mantenuti in vita ed evitargli di pronunciare un pericoloso "grazie". La gratitudine, così come le dichiarazioni d'amore e le questioni in sospeso, risolte o sul punto di esserlo, sono le cause di morte prematura predominanti in una storia.
E noi, in una storia, ci eravamo dentro fino al collo.

Avrei dovuto immaginarlo, e cercare di non essere troppo ottimista. Le speranze di riuscire a levare presto le tende da una foresta che per definizione era infinita erano pressoché zero. Perciò, quando trovammo la valletta, io e Robert avremmo potuto giurare di essere a zonzo tra gli alberi da giorni, se non da settimane. All'epoca non ne ero certa, perché era la nostra prima transizione non narrata, e fu piuttosto spiazzante ritrovarsi con vaghi ricordi di qualcosa che sapevamo di non aver fatto. Però, dopo esserci ricordati di aver vagato nella Foresta Infinita per tanto tanto tempo senza fare incontri degni di nota, nel bene o nel male, ci accorgemmo che stavamo costeggiando un'altissima siepe quando udimmo la risate acute di due diverse voci fanciullesche provenire da dietro il fogliame.
– C'è qualcuno di vivo oltre a noi, e sono dei bambini!
Robert fece per voltarsi e infilarsi nella siepe per raggiungerli, ma io lo afferrai per un braccio.
– Ma dico, vorresti cadere nella trappola più vecchia del mondo? – sbottai io, fissandolo negli occhi con un cipiglio severo mentre le risate si ripetevano. – Vai là, bello bello, pensando di salvare dei mocciosi indifesi, e invece ti accorgi troppo tardi che è un mostro mangiauomini che sa imitare le voci.
– Sì, ma però... – protestò debolmente Robert.
Evitai di dirgli che se non ci fossi stata io, lui sarebbe già morto da un bel pezzo in quella storia. Meglio non sfidare la sorte.
– Però un corno, andiamo.
Non dissi nemmeno che ero certa che, seguendo quella specie di confine tracciato dalla siepe, prima o poi avremmo trovato un altro lato che delimitava la Foresta Infinita, ovvero la sua fine. Anche se quello era un ossimoro bello e buono.
Evidentemente però la storia voleva a tutti i costi farci passare attraverso la siepe, perché poco più avanti mise sulla nostra strada un varco in quell'apparente mare di foglie. Era solo un buco ovale in cui ci si poteva infilare uno alla volta, scavalcando la parte intatta di siepe a terra alta quasi fino alle ginocchia, ma nondimeno era un modo sicuro per vedere al di là. E quello che c'era al di là era nettamente diverso da quello che c'era al di qua.
Dalla nostra parte, grandi alberi contorti, ombra, foglie verdi quasi nere, ululati e altri versi spaventosi in lontananza, un lezzo mefitico da palude e decomposizione, e un generale senso di angoscia e terrore; oltre la siepe, gentili arbusti e alberelli di limoni, arance e altri agrumi, tiepidi raggi di sole, risate di bimbi e cinguettar di fringuelli, e un'invitante fragranza di zagara che già al solo sentirla metteva l'animo in pace e favoriva il buonumore.
– Trappola – brontolai ancora una volta. Era ovvio che era troppo bello per essere vero.
Ma in questo caso l'ovvio e il mio avvertimento non trattennero Robert dall'infilarsi nel buco nella siepe.
Lo seguii, giusto perché senza di me sarebbe certamente morto.
– Tu sei prevenuta – mi rimproverò Robert, aggirandosi tra gli alberi di agrumi, da cui colse un'arancia e cominciò a sbucciarla. Mi indicò con il frutto un tordo che saltellava tra i rami, poi un merlo che raspava a terra. – Qui ci sono ancora dei pennuti, quindi vuol dire che questa parte della Foresta Infinita è al sicuro dai mostri, giusto?
Stavo per concordare con lui, sebbene di malavoglia perché avere torto non mi piace affatto, quando nell'aggirare un gruppetto di piante di cedro e pompelmo ci ritrovammo di fronte a una grande roccia piatta, e sopra la roccia, una gabbia toracica. Totalmente priva di carne.
Non ero abbastanza esperta di ossa per capire se era umana oppure no, ma certo le dimensioni erano quelle. Ci bloccammo, e dopo qualche istante di puro orrore, dissi a Robert: – Andiamocene via.
Lui fu d'accordo con me.
Avevamo appena fatto in tempo a voltarci, però, che dalla nostra destra, oltre un boschetto d'alberelli di chinotto, giunse una voce maschile.
– Magda, credo di averla trovata! L'hai di nuovo lasciata alla roccia, incredibile, se non avessi la mandibola attaccata al teschio ti perderesti anche quella... oh. – La voce si interruppe per un istante durante il quale afferrai il polso di Robert, pronta a tirarmelo dietro in una fuga precipitosa, ma poi la voce disse qualcosa che ci indusse a voltarci. – Hanno preso anche voi, eh? Incredibile, questi Grungnok o come si chiamano catturano ogni singolo straniero che passa nel loro territorio per sacrificarlo ai loro cosiddetti "dei della Foresta Infinita" e placare la loro fame. Magda, vieni, abbiamo gente nuova!
– Il classico personaggio che spiega la situazione – mormorai a Robert, e rassicurati ci voltammo solo per trovarci di fronte a uno scheletro che ci tendeva la mano.
– Magda! – chiamò ancora lo scheletro, girandosi verso il punto da cui era venuto. Poi scosse la testa, o meglio, il cranio. – Scusatela, è timida, e si rifiuta di farsi vedere se non ha tutte le ossa al proprio posto. Comunque, io sono Osvaldo, e vi do ufficialmente il benvenuto qui nella Valletta degli Agrumi. Non temete, il peggio è passato, avete superato indenni la Foresta Infinita senza finire nelle fauci del terribile Divoraossa, e qui sarete al sicuro.
– Come fa a parlare senza corde vocali? – mi bisbigliò Robert.
Gli diedi una gomitata e chiesi invece al nostro servizievole informatore: – Vuoi dire che da questa parte c'è l'uscita?
– Uscita? – ripeté lo scheletro.
– Sì, dalla Foresta infinita.
Lo scheletro replicò con un "ah" che non mi piacque per niente, poi spiegò: – No, no. Qui siamo nel cuore della Foresta Infinita. Ma non temete, come vi ho detto qui siete al sicuro e vi ambienterete benissimo. Certo, siete ancora un po' troppo grassi, Ma sono certo che seguendo la nostra dieta vi rimetterete in forma in men che non si dica – concluse lo scheletro, indicando l'arancia che Robert stava mangiando.
Robert inarcò un sopracciglio, poi mollò l'arancia con un sussulto e sputò anche la fetta che aveva infilato in bocca come se fosse stata avvelenata, e probabilmente lo era, a giudicare l'effetto che quella dieta aveva fatto a Osvaldo.
– Oh, vuoi saltare la fase fruttariana e passare direttamente a quella respiriana? Ottima scelta! – si congratulò lo scheletro.
– Ma non c'è nessuno, proprio nessuno che abbia provato a lasciare questo posto e ad andarsene dalla Foresta Infinita? – mi informai.
Con voce incrinata dal timore, lo scheletro Osvaldo replicò: – No, là fuori c'è il terribile Divoraossa, è una bestia spaventosa e quando ti punta non puoi sfuggirgli... inoltre, perché dovremmo andarcene? Qui si sta tanto bene, e vedrete che vi troverete bene anche voi. Ma ora scusatemi, devo riportare a Magda la sua gabbia toracica, datele solo un momento per sistemarsi e poi potete venire a conoscerla.
Dopo che gli avemmo assicurato che avremmo atteso che fosse tutto a posto e che poteva pure fare con comodo, lo scheletro afferrò le ossa che giacevano sulla pietra e si inoltrò tra gli alberi di chinotto da cui era venuto.
– Andiamocene – sussurrai a Robert, e lui fu d'accordo.
Anche se qualche volta ce ne eravamo lamentati, ci tenevamo alla nostra carne, e nessuno di noi aveva tutta quella voglia di dimagrire così tanto.

Eravamo tornati da non molto tempo nell'oscurità cupa e tenebrosa della Foresta infinita, che dopo la nostra gita nella Valletta degli Agrumi ci pareva ancora più deprimente, quando lo incontrammo.
D'altra parte, visto che il signor vi-spiego-tutto-io Osvaldo aveva nominato proprio quella tra tutte le bestie che popolavano la Foresta Infinita, sarebbe stato impossibile non incontrarla.
Avvenne mentre stavo spiegando la geniale idea che mi era venuta per sopravvivere a tutti i pericoli che naturalmente avvengono nel corso di una storia, e possibilmente, alla fine di essa, uscire dal libro che ci aveva risucchiato tra le pagine.
– Massì, pensaci bene, Robert: qual è il personaggio di un libro che non muore mai?
– Il preferito dell'autore? Quello che lo rappresenta? – replicò lui, impegnato ad aiutarmi a scavalcare un albero caduto.
– Anche. Ma da qui non possiamo sapere quale piace all'autore o qual è il suo alter ego. Molto più facile è riconoscere il protagonista, e il protagonista è al 99, 9% immune alla morte per esigenze di trama, quindi...
– ...diventiamo i protagonisti! – concluse Robert, quindi abbassò la voce in un sussurro nervoso, guardandosi attorno nella penombra minacciosa e puzzolente della Foresta Infinita. – Certo è molto più facile a dirsi che a farsi, e inoltre finché non saremo i protagonisti, come facciamo a sop...
Gli tappai la bocca prima che potesse porre la domanda fatale che tentava la sorte. Ma era già troppo tardi.
Un ululato spaventoso risuonò alle nostre spalle, vicinissimo. Un'ombra più oscura di quelle della Foresta Infinita ci sovrastava, facendoci accapponare la pelle. Tremammo da capo a piedi, e poi sentimmo una voce. Che per nostra sfortuna non era quella dello scheletro Osvaldo, perché era molto più profonda e cavernosa, e per nulla amichevole.
– Vi ho trovato...
Mi voltai per prima, perché tanto valeva vederlo, già che c'ero.
Il terribile Divoraossa aveva la forma di un gigantesco cane, completamente nero, occhi e zanne acuminate comprese, e attorno a un nucleo solido che costituiva il suo corpo pareva emanare un'aura d'ombra o gas di colore scuro che si agitava incessantemente.
Era davvero terribile come dicevano, tanto che quando Robert si girò, gli sfuggì un breve urlo in falsetto. Pensavamo di essere spacciati, o almeno io lo pensavo, quando il terribile Divoraossa chiese, con una strana nota d'incertezza nella voce cavernosa: – Ma dove sono le vostre ossa?
– Noi non abbiamo ossa – replicai alla svelta, colta da un'idea geniale che forse avrebbe potuto salvarci.
– Già, niente ossa – mi venne dietro Robert. – Siamo creature gelatinose, solo questo, assolutamente schifose da mangiare.
Il terribile Divoraossa avvicinò l'enorme muso dal fiato pestilenziale e ci annusò più volte. Pensai per un attimo che Robert, al contrario di me, fosse suonato poco convincente, e che nonostante tutto il mostro ci avrebbe divorato, quando invece la bestia disse: – Se non avete ossa, che cosa me ne faccio di voi?
– Vuoi le ossa? – chiese Robert, prendendo l'iniziativa nel modo e nel momento che giudicai il peggiore. Qualunque idea gli fosse saltata per la mente, poteva finire assai male se non mi dava retta. – Posso dirti dove trovare tante deliziose e succulente ossa, le ho viste appena adesso...
Diedi un pizzicotto a Robert prima che potesse indicare al terribile Divoraossa la direzione della Valletta degli Agrumi, e non appena si fu zittito sibilai: – Tradire gli amici non è affatto eroico, vuoi o non vuoi diventare il protagonista?
– Amici? – ribatté Robert. – Ma se li abbiamo incontrati appena qualche minuto fa!
– Non importa, è lo stesso! – sbottai. Stavamo di nuovo litigando, e in modo sufficientemente comico da garantirci la sopravvivenza. Come ho già detto, nelle storie la gente non muore mentre sta litigando su questioni triviali. Sulle cose serie sì, può succedere, ma su delle sciocchezze, mai.
Il terribile Divoraossa ringhiò, spettinandosi i capelli con un soffio dal lezzo insopportabile. Resistetti a stento all'impulso di tapparmi il naso.
– Dove sono le ossa? – chiese in tono minaccioso il bestione dall'aspetto vagamente canino.
– Di là! – rispondemmo all'unisono, e indicammo fortunatamente entrambi la direzione opposta alla Valletta.
Il terribile Divoraossa girò il muso a guardare la direzione verso cui puntavano le nostre dita. Non ci avrebbe creduto, probabilmente, se gli avessimo indicato due zone diverse della Foresta Infinita; ma dato che sembravamo tanto sicuri, e che concordavamo, il bestione ci cascò.
– Mh, vado a prendere queste ossa – bofonchiò la creatura, e nell'adocchiarci soggiunse: – Ma voi non muovetevi da qui. Se per caso mi avete mentito e dove mi avete detto non troverò le ossa che mi avete promesso, al mio ritorno faremo i conti. Anche se non avete ossa e non siete buoni da mangiare, scommetto che posso sempre uccidervi.
– Sì, certo, stiamo qui – gli assicurammo, e: – Non muoveremo nessuno dei nostri muscoli gelatinosi, promesso!
Quest'ultima frase, se non si era capito, era di Robert.
Attesi che il terribile Divoraossa si fosse allontanato a sufficienza, poi dissi a Robert: – Andiamo.
E ce la filammo alla svelta.
– Non abbiamo ossa... come sapevi che avrebbe funzionato? – mi chiese Robert una volta messo una ragionevole distanza tra noi e il posto dove avevamo incontrato il terribile Divoraossa.
– È un mostro del primo capitolo, non poteva essere così intelligente – replicai con una scrollata di spalle. – Noi non siamo ancora diventati i protagonisti, perciò combatterlo era fuori discussione, quindi gabbarlo restava l'unico modo per sfuggirgli sani e salvi.
E questo è il racconto di come superammo i primi ostacoli sul nostro cammino, la trappola della Valletta degli Agrumi e il mostro chiamato il terribile Divoraossa.
Uscire dalla Foresta Infinita, però, si rivelò una questione più lunga e complicata di quanto avessi previsto.

sabato 6 maggio 2023

Indenne

Indenne [in-dèn-ne] agg. 1. Che non ha riportato alcun danno; illeso, integro. 2. Immune da malattie.

Etimologia: dal latino indennem, composto da in, prefisso con funzione negativa, e da demnem, derivato da damnum, "danno".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Rudolf Kirchner da Pexels


Da quando aveva lasciato andare Maia, Lamia non faceva che ripensare a lei. Era la prima persona di cui aveva desiderato tanto il sangue, e che tuttavia aveva superato indenne un incontro con lei.
Di certo non era stato per mancanza di occasioni. Avrebbe potuto, e più di una volta, convincerla a lasciare la sala da pranzo per una passeggiata, o per parlare un po' da sole, soltanto loro due. Ma l'occasione migliore era stata quando, al momento di lasciare il ristorante e fare un pezzo di strada assieme, Lamia verso la stazione, le due sorelle conosciute alle nozze dei rispettivi parenti verso l'albergo, la sorella maggiore si era accorta di aver dimenticato la borsa ed era tornata dentro, lasciandole sole.
Sarebbe stato facile, allora, far sparire Maia, sottrarla per sempre alla sua famiglia, attirarla nel suo mondo.
Quello che Lamia sapeva, quello che la voce dentro di lei le aveva ripetuto per tutto il tempo di quel lungo pomeriggio, era che non la voleva solo per il suo sangue, solo per soddisfare un bisogno che avrebbe lasciato dietro di sé l'ennesimo guscio svuotato del rosso nettare. Lamia l'avrebbe voluta accanto a sé, un desiderio indescrivibile da quanto era potente, ma quando ne aveva avuto l'occasione, invece di prenderla, era fuggita. La voce aveva urlato per giorni la sua frustrazione dopo che Lamia vi aveva bruscamente rinunciato per lasciarla vivere.
Vivere davvero, non un'ombra com'era lei.
Quando la malattia aveva fermato il mondo, Lamia lo aveva considerato solo uno spiacevole fastidio. Non c'era malattia da cui lei non fosse indenne, perciò la questione non la impensieriva.
Fu solo più tardi, quando per vie traverse scoprì che il male di cui tutti avevano paura si era preso la dolce Maia, che Lamia pianse scarlatte lacrime amare. Ma la cosa peggiore fu udire la voce dentro di lei che ruggiva: avresti potuto salvarla... avresti potuto prenderla e tenerla con noi, al sicuro da ogni malattia... ma tu... non hai... voluto... salvarla!

giovedì 4 maggio 2023

Audioracconto - Nebbia


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Pixabay da Pexels


Ci sono profezie troppo nebulose per essere comprese.

Nebbia
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/05/nebbia.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Tenebrous Brothers Carnival - Mermaid di Kevin MacLeod (incompetech.com)
Myst di Kevin MacLeod (incompetech.com)
sotto licenza Creative Commons: By Attribution 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

Effetti sonori da freesound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

Immagini di:
Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/fumo-bianco-52732/ e https://www.pexels.com/it-it/foto/deserto-459319/),
e Gustavo Fring (https://www.pexels.com/photo/woman-in-black-long-sleeves-sitting-near-table-with-playing-cards-8770835/),
da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Video di:
cottonbro studio (https://www.pexels.com/it-it/video/astratto-bianco-fumare-vapore-9694240/),
Pressmaster (https://www.pexels.com/it-it/video/riprese-video-di-volare-sopra-e-sopra-le-nuvole-3129752/),
Engin Akyurt (https://www.pexels.com/it-it/video/l-acqua-calma-del-mare-2498966/),
Matthias Groeneveld (https://www.pexels.com/it-it/video/natura-tramonto-sole-foresta-12635448/),
Oleg Gamulinskii (https://www.pexels.com/it-it/video/fuoco-ardente-2715412/).

lunedì 1 maggio 2023

L'emporio dell'Incanto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di RODNAE Productions da Pexels


L'idea fu di Atena, ma io la trovai magnifica. Era anche un azzardo, intendiamoci, però era magnifica.
D'altra parte sapevo che con le consulenze, gli oroscopi e la cartomanzia non sarei riuscita a sostentarmi, e i casi in cui veramente le mie speciali competenze erano di una qualche utilità erano rarissimi.
Perciò aprire un negozietto di articoli dell'occulto era la cosa migliore che potessimo fare. Sarebbe stato come accedere un faro in una notte di tempesta. Io e Atena ci eravamo incontrate per caso, ma con un luogo simile a nostra disposizione sarebbe stato più facile trovare altri come noi, o altri che avevano bisogno di noi. Per il resto del mondo, il nostro negozio sarebbe stato solo l'ennesima bottega pittoresca in cui entrare per guardarsi attorno tra file di candele e ciotole di cristalli, respirare il profumo della salvia e dell'incenso, sfogliare un libro sulla simbologia dei segni zodiacali e magari acquistare un acchiappasogni, o una tartarughina di giada da regalare a un'amica.
Lo spazio che eravamo riuscite ad affittare era piccolo, con l'ingresso che si affacciava su una strada secondaria, ma una vetrina graziosa come una finestra su una via principale e piuttosto frequentata. Avevamo cercato, per quanto possibile, di arredare il poco spazio a nostra disposizione in modo confortevole, con file di scaffali lungo le pareti, qualche tavolino su cui mettere in mostra i pezzi in offerta e i libri consigliati, un paio di poltroncine e un salottino in un angolo riparato dove potevo offrire in privato le mie consulenze. Non mancava il bancone, ovviamente, e il registratore di cassa, ma era sistemato in modo da non essere subito evidente. Il risultato era che più che un negozio, quello sembrava un ambiente domestico, una stanza di casa in cui accogliere gli ospiti.
Sia io che Atena avevamo visitato più di un negozio o libreria dell'occulto nel corso degli anni, e ciò che avevamo sempre notato, oltre al fatto che nessuno dei proprietari o commessi che vi lavoravano aveva il benché minimo segno di un incantesimo che tingeva la loro aura, era che l'atmosfera prevalente che vi si respirava era di una certa cupezza, di mistero, di Halloween. Come se la magia non potesse prescindere dai teschi di cristallo, dai tappetini di velluto nero con i pentacoli in argento, e dalle bacchette magiche di plastica.
Quando ne avevamo parlato, nel progettare il nostro emporio, io e Atena avevamo riso di quelle trappole per creduloni. E avevamo deciso, fin da allora, che non volevamo aprire l'ennesima rivendita di souvenir di provenienza industriale, e che seguire gli stereotipi associati alla magia non ci avrebbe giovato.
Certo, sarebbe stato facile seguire la massa, ci avrebbe reso subito riconoscibili agli occhi dei curiosi, mentre l'aspetto arioso e luminoso della nostra bottega la accomunava più a un negozio di bomboniere o oggetti d'artigianato. L'insegna, tuttavia, con la scritta "L'emporio dell'Incanto" affiancata dai nostri simboli, una civetta e una luna, ci sembrò un'indicazione sufficiente per far comprendere il genere di articoli che trattavamo.
Pioveva, il giorno dell'inaugurazione. Lungi dall'essere una seccatura, per noi fu una benedizione. Altrimenti Maris non si sarebbe mai rifugiata nel nostro negozio trascinandosi dietro suo padre.
Appena li guardammo Atena e io capimmo subito che, a differenza del gruppetto di ragazze capitate nel mattino a curiosare e chiedere ciondoli del loro segno zodiacale, o in assenza di questi, con la pietra associata ai loro segni, Maris e John erano arrivati nel posto giusto.
Lo avrebbe capito anche un profano, anche senza vedere le venature scure che si addensavano nell'aura della bambina, anche senza percepire la tensione elettrica e l'odore di bruciato che emanava inspiegabilmente.
Solo quando la porta si fu chiusa, solo allora, tutte le campane a vento si misero ad agitarsi e a trillare all'unisono.
– Una maledizione – mormorai ad Atena, che a differenza di me non ne aveva mai vista una.
John doveva avermi sentito, perché all'espressione sorpresa con cui ci aveva fissate fin dal suo arrivo si sostituì un sospiro di sollievo.
La sua aura era era chiara, trasparente, ma supposi che dovesse avere un potere latente, mai esercitato, o che avesse almeno il dono di vedere oltre la realtà comune, poiché sembrava consapevole di ciò che affliggeva la figlia, come lo era stato della nostra particolarità fin da quando aveva scorto le nostre aure tinte del bagliore argenteo di un incantesimo di protezione, e la magia che impregnava molti degli oggetti in vendita.
– Voi... potete aiutare, vero? – chiese in un sussurro, appena udibile sopra allo scroscio soffocato della pioggia fuori dalla porta. Parlava bene la nostra lingua, ma con un gradevole accento straniero.
Chiusi il volume sulle erbe officinali che avevo sfogliato fino a quel momento, annuii e mi avvicinai per presentarmi e rassicurarlo.
Dietro il bancone, Atena si raddrizzò e soggiunse, in tono divertito a dispetto della situazione drammatica in cui si trovavano i nostri ospiti: – Bene, vado a prendere la mia ramazza. A quanto pare, abbiamo del lavoro da fare!