sabato 30 settembre 2017

Frugale

La prima parola che mi è venuta in mente era "frumioso". Solo in un secondo momento mi sono ricordata che non potevo trovarla in un dizionario. Accidenti a Lewis Carroll e alle sue non-parole così evocative da rimanermi infilate in testa! Quindi l'ho scartata e ho puntato su un termine dal suono simile.

Frugale [fru-gà-le] agg. Misurato, sobrio; riferito al cibo, semplice; estens. senza particolari esigenze.

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Ho sempre sentito la parola frugale associata al cibo, perciò è da lì che sono partita. La mia prima idea era l'immagine di un gruppo di avventurieri che si ferma per un pasto poco sostanzioso, ma... avendo già scritto di viaggi ultimamente, ho preferito rimanere su una situazione "stanziale". Benvenuti alla casa dei Fratelli degli alberi.


Non avevamo bisogno di molto, nella casa della Fratellanza. Acqua e sole bastavano alla metà di noi che aveva radici; quanto all'altra metà, conduceva una vita frugale, scandita dai momenti conviviali e dai rispettivi compiti nella comunità. Pane di segale, formaggio e succo di mela erano sufficienti per la colazione, ma quella mattina Luzian aveva portato in tavola un barattolo di miele, dono della sua famiglia da oltre le colline. Splendeva come oro alla luce che entrava dalle finestre, e davvero, era oro per noi.
Mi girai verso una delle sorelle più giovani. – Seti, per favore, vai a chiamare Castai?
Ci fu un mormorio lungo il tavolo. Castai non si alzava prima delle undici, e quando lo faceva, lo sentivamo brontolare e lamentarsi fin dal giardino.
Isme, la sua apprendista, mugugnò: – Dobbiamo proprio rovinarci la giornata? Io dico di non svegliare l'Ulivo che dorme...
Ma Seti già correva su per le scale, ridendo e grattandosi le braccia.
La vecchia Menes scosse la testa. – Dobbiamo fare qualcosa per gli afidi nel suo Roseto, prima che si scortichi la pelle. Devono darle un gran bel fastidio!
Non le risposi. Masticai un pezzo di formaggio, chiusi gli occhi e mi abbandonai alla carezza del vento tra le foglie del mio Faggio, l'albero a cui ero legata. La pace non durò a lungo: poco dopo, alle mie spalle, si levò la voce di Castai.
– Ve l'ho detto un milione di volte! A che pro svegliarsi presto se tutto ciò che devo fare tutto il santo giorno non è altro che sentire quelli di fuori lamentarsi di noi. Isme! – Castai si sedette di peso sulla panca, e senza spendere un solo commento sulla novità della giornata, si spalmò una generosa porzione di miele su una fetta di pane. – Diglielo, no, diglielo com'è là fuori... manca solo che si radunino con le accette per buttarci giù la casa.
Scorsi il sorriso di Menes al di là del tavolo, e ricordai quello che mi aveva detto l'estate scorsa. Castai non era frugale in niente, neanche nelle parole. Ma era un fratello. Era uno di noi.

giovedì 28 settembre 2017

E se... (What if)?

"Scrivo per rispondere a domande che non possono avere risposta in questa vita. Esistono altri mondi abitati nell’universo? Come sarà la terra tra cento o mille anni? E se le mitologie del passato in qualche altro luogo fossero reali? Oh, i “se”… non c’è nulla di più intrigante!"

Così scrivevo in "Sfuggenti motivazioni!", all'inizio di questo blog. Porsi domande è a mio avviso un momento essenziale del processo creativo, ai primi posti tra le mie fonti di ispirazione. Ma per farlo è necessario mantenere viva la curiosità che avevi da bambino, impedire allo spirito di osservazione di addormentarsi con l'accumulo degli anni e conservare la capacità di non accettare passivamente il mondo così com'è. Penso che queste siano caratteristiche indispensabili per notare le crepe nel quadro che la società in cui sei nato ti ha dipinto attorno, e per chiedersi "come potrebbe essere, se i colori sulla tela fossero diversi?"

Nel descrivere l'esercizio di lunedì ti ho dato qualche esempio di domande su cui è possibile basare una storia. Gli esempi erano di tre tipi, dalle vicende personali e "realistiche" a quelle più fantasiose e incredibili esplorate in alcuni film. Espandendo la classificazione, ho notato che i tre tipi di domande dipendono da due variabili:

  • Personale/Generale, ovvero il numero di persone influenzate dall'alternativa posta dal tuo "E se...?". Nel primo caso, il/la protagonista, più amici e parenti con cui viene in contatto. Nel secondo, intere regioni, il mondo o tutto l'universo, in caso si vada a toccare una legge della fisica.
  • Possibile/Impossibile: la tua realtà alternativa descrive eventi che si sarebbero potuti realizzare, se le cose fossero andate diversamente? Allora rientra nel reame del possibile. Ti chiedi che cosa accadrebbe se di punto in bianco ogni metafora pronunciata si realizzasse all'istante nel suo senso letterale? Impossibile, per quanto ne sappiamo.
Puoi divertirti a identificare che tipo di ipotesi è alla base delle storie che hai letto e visto, come ad esempio l'assunto alla base di Sliding Doors  è personale e possibile, mentre quello che sostiene Flatlandia, che presenta un universo bidimensionale popolato di poligoni senzienti, è generale e impossibile.

A queste aggiungerei una terza variabile che riguarda il tempo, ovvero se la storia è ambientata o descrive le conseguenze di una differenza avvenuta nel passato, nel presente o nel futuro. Al primo tipo appartengono le ucronie o fantastorie, ovvero una versione alternativa degli eventi storici che conosciamo. La combinazione di un "E se...?" generale, possibile e futuro dà luogo a un racconto di fantascienza. A te riempire gli altri spazi della griglia con i generi letterari che conosci.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere sullo spunto offerto da un "E se...?", ma mi auguro che questo schema sia sufficiente per darti una base di partenza con cui affrontare l'esercizio. Concludo questa brevissima riflessione con un consiglio, o un avvertimento, su un errore da cui non sono stata immune in passato, e che con l'esperienza sono diventata in grado di riconosce in romanzi e racconti altrui. Quindi, storie di scrittura (e lettura) vissuta.

Potrebbe venirti la tentazione, soprattutto se usi come materiale per il racconto una vicenda autobiografica, di descrivere una realtà alternativa in cui i tuoi desideri sono realizzati, o chi è colpevole di averti fatto un torto viene subito punito. Per quanto soddisfacente o terapeutica, questa tentazione porta a scrivere una pessima storia: nel primo caso manca il conflitto e tutto è facile e immediato; nel secondo caso, l'antagonista finisce con l'essere una macchietta inconsistente, perché come potresti essere abbastanza obiettivo da metterti nei suoi panni e capire le sue motivazioni se tutto ciò che ti preme è sfogare la tua rabbia e ridicolizzarlo?

Guardati dunque da queste Scilla e Cariddi, o esploratore dei mari d'inchiostro, e ora vai, alla ricerca della tua realtà irreale da riportare sulla carta o su uno schermo.

lunedì 25 settembre 2017

Il racconto è la risposta

Ti do il mio benvenuto, esploratore di realtà alternative!

La tua missione di oggi consisterà nel costruire una di queste realtà. Puoi sbizzarrirti quanto vuoi, o restare nell'ambito del possibile ma non realizzato: questo sta a te sceglierlo. Ciò che conta è che tu riesca a riportare da questo viaggio almeno un frammento di quel mondo.

Leggi la lavagnetta per i dettagli della missione (attenzione: la lavagnetta si auto-cancellerà tra dieci... nove... otto... sette...).

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Pensa a una domanda, un "e se...?" ipotetico.
La tua ipotesi può essere incentrata su un particolare della tua vita che immagini andato diversamente, e le sue conseguenze (un po' come nel film Sliding doors).
Oppure può riguardare qualcosa di altrettanto concreto e plausibile, ma con effetti globali come ad esempio "come sarebbe il nostro presente se questa guerra o evento storico si fosse svolto in quest'altro modo?".
O ancora, puoi lasciare libera l'immaginazione e chiederti qualcosa di folle come: "E se i cartoni animati esistessero davvero?", "E se fossimo tutti addormentati all'interno di una macchina, a sognare ciò che chiamiamo realtà?", oppure "E se il destino del mondo fosse nelle mani... o meglio, nelle zampe e ali di un papero?".

Costruisci un racconto ambientato in un mondo in cui quell'assunto ipotetico è realtà.
Qualunque sia la tua domanda, usala per il tuo racconto. Non importa che tu riesca a spiegare per filo e per segno che cosa ci sia di diverso in quella realtà alternativa. Non si tratta di un saggio.
Ciò che conta è che tu riesca a far vivere, anche se per un breve attimo, i personaggi e il lettore nella risposta che la tua mente ha ideato.


Tocca a te, esploratore. Ti auguro il coraggio di chiederti l'impossibile, e di tornare con una risposta fantastica e, perché no... magari anche divertente!
E se hai indovinato i film che sono la risposta ai tre "E se...?" folli che ho usato come esempio, scrivili pure nei commenti qui sotto.

sabato 23 settembre 2017

Errabondo

Il suo suono è quasi comico, e sembra una parola costruita ad arte per divertire. Eppure esiste davvero, e se pronunciata col giusto tono, può assumere una sfumatura aulica, dal sapore antico.

Errabondo [er-ra-bón-do] agg. non com. Errante, vagabondo.

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A volte inizio con una frase, e neanche so chi dei miei personaggi possa averla detta. Mi ci vuole un po' prima di ricevere altri dettagli e identificare di chi si tratti. A volte proprio non riesco a capire chi sia, oppure scopro che è qualcuno di nuovo, di cui non avevo mai scritto. Questo è uno di quei casi.


Sono nata sotto una stella errabonda, o almeno, questo è ciò che mi hanno detto. Forse è il motivo per cui continuo a mettere un piede avanti all'altro lungo il mio sentiero. Proprio come uno squalo che non può smettere di nuotare, io non posso smettere di viaggiare.
Il suono dei miei passi è il mio compagno prediletto. Amo il fruscio leggero dell'erba sotto le suole quando attraverso i prati, almeno quanto il secco rintocco  di una liscia strada di pietra. Lo stridio della ghiaia che si smuove al mio passaggio, i sassolini che scivolano l'uno sull'altro in un ritmo sempre vario, mai uguale a se stesso, è un piacevole diversivo alla monotonia dei marciapiedi cittadini. E quando, appena piovuto, mi avventuro lungo un sentiero di fango e pozzanghere, mi capita di pestarle apposta per sentire, divertita come un bambino, il tonfo del mio stivale in quei pochi centimetri d'acqua.
Ogni stagione ha la sua sinfonia. D'inverno la neve ha uno scricchiolio sottile, traditore. Io preferisco l'autunno. È l'autunno la stagione migliore per camminare, il primo autunno, con le foglie ancora croccanti depositate a terra da alberi assonnati. Allora mi abbandono a pensieri errabondi e percorro la mia strada a passo di danza, suonando coi piedi lo strumento effimero di foglie rosse e dorate che si sbriciolano in miriadi di frammenti impalpabili.

giovedì 21 settembre 2017

Strane uova - Chimera

Oggi è ospite della Piuma Tramante qualcuno che con la mitologia ha molto a che fare, a partire dal nome: Chimera! E chi altri poteva cimentarsi con l'esercizio "Sei un mito!"?
Ma per farlo ha tradito il suo nome (ahi ahi!) ed è andata dall'altra parte del mondo. Poco male: io che arrivavo solo fino a yokai e poco altro, ho imparato parole nuove.
Niente paura, sotto al racconto ho aggiunto un glossario minimo, in caso ti stessi già chiedendo che strana bestia è questo yokai.

Ti ricordo che il prossimo ospite della Piuma potresti essere tu! Come si fa? Semplice: segui gli esercizi che propongo a lunedì alterni e prova a scrivere il tuo brano!
E ora, la parola a Chimera.

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"Accidenti!"
Imprecai afflitta davanti al negozio di alimentari chiuso. Ormai il sole era ben oltre l'orizzonte, e incamminandomi verso casa pensai che non fosse un bene essere lì a quell'ora.
-in oriente si chiama Ouma ga Toki.-
"L'ora in cui si incontrano i demoni"
Mi fermai colta da un brivido.
Guardai alla mia sinistra e accanto al cespuglio di lavanda un'alta figura mi guardava nella semi oscurità.
"Ci voleva proprio un bel umano da aggiungere alle uova!"
E allungò verso di me un braccio secco e grinzoso...
Mi venne spontaneo alzare le braccia per difendermi ma una barriera respinse lo spirito che scappò urlando. Solo dopo essermi ripresa ricordai del mio omamori a forma di volpe. lo cercai frettolosamente in tasca e lo strinsi con un sospiro di sollievo "grazie Mamoru..."
Brutta faccenda vederli: quando succede anche una volta, poi loro ti notano più facilmente.
Allora decisi di tornare a casa il più velocemente possibile ma uno scricchiolio attirò la mia attenzione: accanto al cespuglio lo spirito aveva perso un sacco. Lo presi con la punta delle dita ma non appena tirai l'orlo qualcosa di lungo e sinuoso uscì e si schiantò contro la barriera.
Presi il telefono e lo illuminai.
"O cavolo! Sembra... una Nureonna!"
La piccola bestiolina dal busto femminile e al posto delle gambe una lunga coda da serpente mi guardò con occhioni tristi "O meglio... un cucciolo di Nureonna."
Guardai nel sacco e vi trovai un uovo in frantumi e uno crepato: un istante dopo sbucò d'un tratto un'altra creaturina "Ma bene! Due cuccioli di Nureonna! Allegria!"
Lasciai lì tutto e mi alzai per andarmene ma le due si misero a seguirmi.
"Niente imprinting eh! Andate via!"
Ma quelle strisciavano e cercando di aiutarsi con le manine per andare più veloci: una delle due inciampò sui suoi stessi capelli ma si rialzò subito. Mi fermai e sospirai tristemente.
-ma perché quella volta sono andata a cercare yokai?!-
Tornai a prenderle.
"Beh, se diventaste tipo, degli shikigami, non mi dispiacerebbe..."
Le due sembravano felici e si aggrappavano alla mia giacca quasi avessero paura che le lasciassi.
"Ma vi avverto: solo topi! Non si mangiano cani, gatti o umani! Avete capito?"
Dissi seria.
Le due annuirono immediatamente. Da allora non ho più avuto né topi né serpenti che si intrufolavano nel mio giardino dalle campagne...


***

Omamori: talismano
Nureonna: donna serpente, un tipo di yokai
Yokai: demone o spirito della mitologia giapponese
Shikigami: spirito servitore di un esorcista

lunedì 18 settembre 2017

La rivincita del marinaio

(racconto ispirato dall'esercizio Sei un mito! con un imbarazzante epilogo alla vicenda di Circe narrata nell'Odissea)
 
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Quando Circe si risvegliò una mattina da sogni proibiti e voluttuosi, si ritrovò trasformata in una maialina. Giaceva su un fianco, le quattro zampette allungate verso la sala in cui aveva pasteggiato con Ulisse e i suoi fino a tarda notte. Le fiaccole erano spente e la luce tenue che ardeva intorno era quella di Aurora dalle dita rosate. Sulla tavola avanzi di cacio, miele e vino speziato spandevano i loro aromi invitanti. Mancavano i marinai. Circe girò gli occhietti porcini a cercarli – era quasi impossibile torcere il collo in quella posizione – ma non li vide da nessuna parte e sotto alcuna spoglia. “Che cosa è successo?”, pensò. Non era un sogno, era un incubo.
Faticò a rimettersi in piedi. Le zampe tozze annaspavano sul lucido pavimento di marmo del suo palazzo. Per quanto ci provasse, contorcendosi e spingendo, i muscoli non sembravano adatti a sollevare il suo corpo grassoccio.
“Non avevo mai immaginato che fosse così difficile”, pensò quando, con un colpo di reni, riuscì prima a sedersi sulle natiche e poi a stare ritta sulle quattro zampe. “Ecco, ora ci sono.”
Zampettò un po’ in giro per la sala, sbocconcellando i deliziosi pezzetti di cacio caduti dalla tavola.
“Che fame!” pensò con un sospiro. Provava un senso di vuoto e il suo ventre pingue non la smetteva di brontolare.
“Oh Zeus, che mestiere faticoso mi sono scelta! Fa’ la maga diceva mio padre, hai talento per la metamorfosi. Sempre tessere e cantare, cantare e tessere tutto il giorno per attirare i marinai che approdano alla mia isola. Sembro forse brutta come una sirena?”
Circe passò davanti allo specchio d’argento brunito e si soffermò a rimirarsi. Il suo corpo era gonfio e roseo, retto da zampe troppo corte. Il viso era diventato un lungo muso con occhietti cisposi, un naso ridicolmente grosso e piatto e due straccetti al posto delle orecchie. Ma quello che le pesava di più era la scomparsa della sua bella chioma ricciuta. La sua nuova codina arricciolata non era un degno sostituto.
“Resto comunque più bella di una sirena”, si disse, sollevando il muso con fare altezzoso. Zampettò via dallo specchio e s’imbatté nel telaio al quale era solita lavorare. L’opera era compiuta a metà: Ulisse, in piedi e senza testa, versava una libagione di vino per terra in un gesto d’augurio, acclamato dai suoi marinai. Circe guardò le zampe davanti, che posavano su due minuscole dita.
“Povera me, come farò a finirlo? Nemmeno la mia voce è più quella di ieri. Così conciata non posso attirare nessuno: mi converrà cambiare mestiere.”
Per la vergogna la scrofa Circe corse a nascondersi sotto al tavolo. E lì, tra le gambe del trono intarsiato d’argento che era stato il posto d’onore di Ulisse, trovò il vaso delle sue erbe magiche. Le bastò un’occhiata e un’annusata per capire cos’era accaduto.
“Mi ha giocato! Mi ha dato un assaggio della mia medicina! Oh, dannato… e io che gli ho persino augurato buon viaggio dopo averlo messo in guardia dai pericoli che avrebbe incontrato per mare!”
Circe scivolò a terra e appoggiò il muso sulle zampe anteriori. Le era rimasta un’unica speranza. “Calliope, ti prego, musa dei poeti: fa’ che almeno questa parte della storia non venga tramandata!”

sabato 16 settembre 2017

Diafano

Non so, ultimamente scelgo solo parole delicate, leggere, che mi ricordano il colore bianco e un soffio di vento. Cosa vorrà dire?

Diafano [dià-fa-no] agg. 1. fis. Relativo a corpo che ha una trasparenza tale da lasciare vedere il contorno dell'oggetto posto dietro di esso, traslucido. 2. estens. lett. Trasparente, chiaro. 3. fig. Con riferimento a persona o al suo aspetto, di un pallore che lascia quasi vedere al di sotto della pelle.

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Il primo personaggio che mi è venuto in mente per il brano era un vampiro. Un po' scontata come associazione: la fanciulla dalla pelle diafana illuminata da una pallida falce di luna. Poi ho scelto una figura che è l'opposto dello stereotipo del suo genere. Mi piace capovolgere i cliché.


– So quello a cui stai pensando – disse Julian, posando sul tavolo di legno grezzo l'elmo dalle fattezze demoniache che teneva sottobraccio. – Non assomiglio a una di quelle creature leggiadre dalla pelle diafana e dalle delicate ali di farfalla. Una di queste.
Julian si voltò verso la libreria. La guardai afferrare un grosso libro con gli artigli dell'armatura chitinosa e sfogliarlo sul tavolo. Come riuscisse a farlo con senza strappare le pagine con quelle cose appuntite che aveva alle dita, non sapevo spiegarmelo.
Julian mi indicò la figura di una fatina accanto a un fiore. Sembrava una fata dei cartoni animati del mio... dell'altro mondo. Ma non somigliava affatto alle donne che avevo visto tornare al di là della nebbia.
– Lo so – ribattei seccata. Incrociai le braccia.  – Ho visto la processione. La corte di eterne fanciulle. E hai ragione, non sei come loro, non hai fatto niente quando Laeverth è stata attaccata e come puoi indossare uno di... questi?
Accennai all'esoscheletro di demone che le faceva da armatura. Non osavo pensare a come lo avesse svuotato di quello che c'era dentro.
Julian rise. – Morire non ha intaccato nemmeno un briciolo della tua arroganza, principessa. – Chiuse il libro di scatto. – Una delle cose che raccontano è vera: non posso toccare il ferro. Ma non mi lamento, questa corazza è altrettanto dura, e più leggera.
Julian aggirò il tavolo e la sua figura sembrò offuscarsi dietro un velo diafano, che immaginai essere una barriera magica. Mi ricordava un vetro opaco. Julian si contorse, scivolò fuori dall'armatura e indossò una giubba, un paio di pantaloni e gli stivali. Quando uscì dalla parte opposta della barriera, raccolse i capelli neri in una coda e riprese a parlare.
– Tu non sai nulla. Non sai quanto possano essere crudeli ed egoiste le tue eterne fanciulle.
Sembrava una donna qualunque, non fosse stato per il pugnale di ossa e muscoli infilato nella cintura e dal quale, per quanto schifoso, non riuscivo a distogliere gli occhi.

giovedì 14 settembre 2017

Creature di un altro tempo, o di un altro mondo

La mitologia, insieme agli elementi del folclore fantastico, è da sempre la fonte principale della mia ispirazione. Sarà per quel librone di favole irlandesi nella casa di mia nonna, che raccoglieva storie raccontate come se qualcuno li avesse davvero incontrati, i folletti e le banshee e tutte le altre creature del piccolo popolo (e, in origine, in un altro tempo, per chi ne parlava era proprio così). Sarà per le vicende degli dei e degli eroi che incontrava Pollon, e che ho ritrovato a scuola tra l'Iliade e l'Odissea: quanto mi piaceva sbirciare il glossario in fondo a quei volumi, glossario di cui ho letto ogni singola voce, anche quelle che non comparivano nei brani da studiare. Sarà per le immagini di profilo tra i geroglifici, e le statue nelle vetrinette di musei e mostre, e se non capivo qualcosa avevo sempre un'esperta in casa a cui domandare di Iside e Osiride, di Horus e Ra. Sarà per i pomeriggi a scuola passati ad analizzare fiabe mai sentite, ambientate proprio qui: storie di anguane e "fade" e "beate donnette" che una volta popolavano monti e valli, e riposavano nelle grotte come gli orsi. E come gli orsi, si diceva che fossero davvero state qui.

Tutto questo ricco immaginario europeo e mediterraneo è finito nel mio personale calderone, e ogni tanto qualcosa ne esce trasformato per iniziare una nuova storia. Ogni esploratore del fantastico ha il suo, di calderone. E non vedo nulla di male nel mescolare, aggiungere una goccia di questo, un pizzico di quell'altro, e cambiare la figura originaria, come in una trasmutazione alchemica. Tutti gli autori di fantasy lo hanno fatto.

Quando la fantasia prende il sopravvento e si crea un nuovo mondo popolato di strane razze e bizzarre creature, l'unico limite secondo me è: ciò che è più appropriato per la storia che si sta raccontando. Il mondo è completamente diverso dal nostro, dunque non ha alcun senso aderire per forza al materiale di partenza. Un esempio è la Terra di Mezzo di Tolkien: gli elfi e i draghi che la abitano, pur essendo tratti dal folclore nordico, sono i suoi elfi, e i suoi draghi. Che tanti altri autori hanno poi preso ad esempio, dimenticando di poter creare la loro versione.

Talvolta, nelle storie, il mito si muove in una dimensione parallela a quella comune, una realtà alternativa che vive fianco a fianco con quella che conosciamo e che può o meno influenzarla. I fauni e gli animali parlanti della Narnia di Lewis hanno le loro origini in una mitologia pagana. Più di recente, tanti autori, troppi per citarli tutti, hanno esplorato l'idea di una dimensione alternativa in cui tutto ciò che è ritenuto impossibile esiste. E dei guai che possono capitare quando qualcosa o qualcuno ne esce, oppure ne entra.

Una terza possibilità è quella che mostri, eroi e bizzarrie varie siano già qui, con noi, nascosti in bella vista. Che nella realtà di tutti i giorni esista una società dedita a mantenere segreto ciò che un tempo era noto a tutti. E allora ecco i maghi di Harry Potter della Rowling, con elfi domestici, draghi, fenici, basilischi e assieme a loro le veela, che derivano dalla mitologia slava. Oppure i semidei come Percy Jackson di Riordan, un moderno erede di Eracle/Ercole, con tutto il corollario di mitologia greco/romana che comprende satiri, centauri, ciclopi e titani. Ma può anche accadere che non ci sia bisogno di qualcuno che nasconda le creature della cui esistenza i popoli dell'antichità erano consapevoli, perché nel presente solo pochi prescelti sono in grado di vederle...

Mescolando e alterando, le possibilità sono infinite, limitate solo, come scrivevo, dalla coerenza interna della storia e dalla tua fantasia. Non importa se le tue sfingi o le tue kitsune non sono proprio come le dipinge la tradizione: forse, nel mondo che hai creato, la leggenda è stata alterata passando di bocca in bocca fino a discostarsi dalla realtà. E non pensare nemmeno per un momento di non poter mettere un tocco di fantascienza: forse non conoscerai Roswell Conspiracies (quanto adoravo quella Banshee!), ma sono certa che Stargate sia un punto di riferimento un po' meno oscuro.

Ce ne sarebbero di cose da scrivere sull'usare come spunto per una storia elementi tratti dalla mitologia. Qui ho raccolto solo alcune riflessioni, del tutto personali, che spero possano darti una base di partenza. Ma sono curiosa di sentire cosa ne pensi, almeno quanto sono curiosa di leggere il tuo racconto!
Scrivimi: lo spazio qui sotto è a tua completa disposizione.

lunedì 11 settembre 2017

Sei un mito!

Benvenuto, esploratore dell'incredibile!

La missione di oggi ti porterà nel passato. No, non il tuo passato, e nemmeno il passato che hai studiato a scuola. Il passato in cui ti immergerai e da cui, se lo vorrai, potrai riportare qualcosa, è il tempo in cui eroi e mostri, dei e demoni camminavano accanto all'uomo. Il tempo del mito.

Per i dettagli della missione, leggi la pergamena:

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Scegli una mitologia che ti è familiare.
Greca, romana, celtica, egizia, russa, giapponese, indiana, inca... le possibilità sono molteplici. E se non hai una sufficiente conoscenza di nessuna, documentarsi è facile.

Concentrati su un singolo elemento.
Può essere una divinità, un personaggio, un tipo di creatura, ma anche un luogo o la sequenza di eventi all'interno di una leggenda.

Scrivi una storia incentrata su di esso.
Non sentirti limitato dal materiale di partenza. Modificalo. Portalo in un luogo e un tempo che non gli appartiene. Fallo tuo.
Ciò che scriverai dipende solamente da te.


Allora, sei pronto a viaggiare nel tempo? Al tuo ritorno mi troverai qui, ad attendere il resoconto della tua missione nei commenti.

sabato 9 settembre 2017

Caligine

Esiste più di un termine in italiano per descrivere varie sfumature di offuscamento dell'aria: nebbia, bruma, caligine, foschia, smog, vapore, fumo... Mettere in campo in una storia questi "effetti speciali" crea un'atmosfera di mistero e pericolo, perciò è molto facile leggerli in un racconto horror.

Caligine [ca-lì-gi-ne] s.f. Foschia dovuta a pulviscolo o a fumi; offuscamento dell'aria; in senso figurato, della mente.

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La mia prima idea per ambientare il brano di accompagnamento per la parola caligine è stata la scelta fin troppo facile della palude che ho già citato in questo blog. Poi, complice l'immagine che ho scovato, mi sono orientata verso qualcosa di un po' più... inconsueto.


Avyon City era perennemente immersa in una caligine chiara che dava l'impressione, vista dai tetti, di navigare su un mare di nuvole. Ovviamente, che la Bolla fosse davvero in mezzo alle nuvole, sospesa chilometri sopra la superficie terrestre, rendeva l'impressione una mera realtà.
– Aspettami, Celine, aspettami! – Jean sbuffò dietro di lei emergendo dalle scale di Torre Libertà, il secondo grattacielo più alto di Avyon city.
Celine non gli diede retta, spalancò le ali grigie e si avvicinò al bordo del tetto: come negli altri edifici, nessuna parapetto impediva ai due ragazzi di tuffarsi di sotto e scivolare tra le nuvole.
– Mi sa che anche stavolta... – Celine si girò e gli rivolse un sorriso beffardo. – ...ti dovrai rassegnare a seguirmi, Jean. Mangia la mia scia!
Celine serrò le ali telate e si buttò all'indietro, oltre il bordo. L'immagine del fratello che correva verso il limite del tetto scomparve dai suoi occhi mentre il suo corpo in caduta libera superava file di finestre.
Celine dischiuse un'ala per girarsi, poi le spalancò entrambe e catturò il vento appena al di sopra della nebbia. La caligine si attorcigliò in mulinelli a ogni battito d'ala. Sentì a malapena Jean brontolare dietro di lei. Era sempre dietro di lei.
Ad Avyon City, tutti conoscevano la storia degli antenati dai quali Celine e Jean avevano ereditato il nome. Celine che aveva guidato la rivolta contro i "normali", i non alati, che nelle loro città-sotto-l'acqua avevano esiliato o affogato qualunque bambino nato con la mutazione. Jean che era stato il primo a schierarsi al suo fianco e a seguirla. Celine e Jean avevano conquistato la tecnologia dei "normali" con cui la loro gente aveva costruito la Bolla e Avyon City.
Nessuna meraviglia che crescendo all'ombra di quelle leggende, i due ragazzi avessero modellato il loro carattere in base ai loro nomi, e a chi in precedenza li aveva portati.
Celine prese un respiro, si tuffò in picchiata nella caligine e immaginò di andare a combattere sott’acqua.

giovedì 7 settembre 2017

Cenerognola

(racconto ispirato dall'esercizio Riscrivi la trama. Sempre utilizzando come base le fiabe, ho scelto di riscrivere il finale di una di esse)
 
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Quando la portarono da lui, il principe rimase basito. Non era solo per gli abiti laceri, le macchie d'unto e di cenere. E nemmeno perché procedeva zoppicando, un piede nella scarpetta di cristallo e l'altro in uno zoccolo troppo largo.
– Vostra maestà, la scarpetta calza alla perfezione – gli disse il ciambellano. – Costei è Cenerognola, la fanciulla che ci avete mandato a cercare.
Ci voleva un gran coraggio a chiamarla "fanciulla".
Cenerognola era una creatura ingobbita e rachitica dai capelli stopposi, ben al di là dei dieci lustri. Strabica, ma non di quello strabismo detto "di Venere", bensì di un difetto più pesante che costringeva i suoi occhi a guardare in direzioni opposte: se uno volgeva a destra, l'altro a sinistra; se uno si girava in su, l'altro andava giù. Le gambe storte quasi s'incrociavano mentre procedeva verso il trono. Sorrise, mettendo in mostra sotto a un naso importante i tre o quattro denti gialli che le erano rimasti.
Sollevò l'orlo della gonna con le dita adunche e mostrò con orgoglio il piede calzato nella scarpetta. Aveva quell'unico pregio, Cenerognola: piedi graziosi, piccoli e ben formati, che non avevano mai trovato la scarpa perfetta. Almeno finché il ciambellano non era giunto nella sua bicocca a metterla alla prova, come già innumerevoli dame prima di lei.
– Mio principe! –  gracchiò Cenerognola, buttandogli le braccia al collo. – Sì, vi amo, vi voglio sposare!
Il principe vacillò alla zaffata pestilenziale che lo raggiunse da quella bocca sguarnita. Ovviamente non era Cenerognola la fanciulla con cui aveva danzato fino a mezzanotte, colei che aveva perso la scarpetta. Ma il principe aveva annunciato che avrebbe sposato la donna in grado di calzare la scarpa di cristallo impossibilmente stretta, ed eccola lì di fronte a lui. La parola di un principe era legge, e dunque non poteva sottrarsi a quell'obbligo.
– Avrei dovuto immaginare che poteva essercene più d'una – bisbigliò il principe incastrato al ciambellano. – Non pare troppo in salute, e neanche nel fiore degli anni. Questa è la mia unica consolazione: non dovrò attendere a lungo prima di diventare vedovo.
– Non ci giurerei, Vostra maestà – bisbigliò di rimando il ciambellano.
– Cenerognola è sopravvissuta a così tante guerre, pestilenze e carestie che potrebbe benissimo seppellirci tutti.
Il giorno dopo, come promesso, il principe sposò Cenerognola. Lei, almeno, visse per sempre felice e contenta.

lunedì 4 settembre 2017

Le tre sorelle

(racconto ispirato dall'esercizio Riscrivi la trama. Ho scelto di riunire i personaggi di tre fiabe con trame simili in un'unica storia)
 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


C'era una volta, in un regno lontano lontano, un re che aveva tre figlie: la maggiore si chiamava Bianca, la secondogenita Viola, e la più giovane Celeste. Le tre sorelle vivevano felici con il re e la regina nel loro castello, ma un giorno infausto la regina morì e la felicità abbandonò le loro vite.
Rimasto vedovo, il re si risposò con una duchessa che aveva a sua volta due figlie, e che a sua insaputa mal tollerava la presenza delle tre sorelle. Per liberarsi di Bianca, Viola e Celeste la matrigna convinse il re a darle in sposa a tre nobili di un regno al di là del mare, che erano molto ricchi, ma anche molto vecchi e brutti. Il re acconsentì e invitò i nobili nel suo regno.

Giunse il primo pretendente e chiese la mano della figlia maggiore, ma non appena Bianca lo vide, impallidì e pur di non sposarlo fuggì nella foresta. Laggiù la principessa trovò una casetta abitata da sette nani, che al vederla così pallida e spaventata la chiamarono Biancaneve, e accettarono di nasconderla alla matrigna se in cambio avesse tenuto in ordine la casa e cucinato per loro. I cacciatori inviati dal re e dalla matrigna per riportarla a casa non riuscirono a trovarla, e il primo nobile se ne andò infuriato.

Giunse il secondo pretendente e chiese la mano della secondogenita. Viola, disperata, domandò un consiglio alla sua madrina, che le suggerì di accettare solo a patto di ricevere quale dono di nozze un abito impossibile da realizzare. Così fece, e per tre volte la giovane principessa richiese al vecchio nobile un abito: il primo color del cielo, il secondo color della luna, il terzo color del sole. Ogni volta però il pretendente riuscì a esaudire il suo capriccio. Allora Viola indagò presso i servitori del nobile, e scoprì che ciò a cui teneva di più al mondo era l'asino che era la fonte della sua ricchezza, poiché ogni notte la lettiera dell'asino si riempiva di monete d'oro. Gli era così caro che non se ne separava mai, e infatti lo aveva portato con sé nel far visita alla sua futura sposa.
Viola gli disse dunque che aveva un ultimo desiderio prima di acconsentire alle nozze: ricevere in dono un abito cucito con la pelle del suo asino prediletto. Con suo sgomento, il nobile si presentò da lei qualche giorno dopo con il vestito fatto con la pelle dell'asino.
Non avendo altro modo di evitare le nozze, Viola fuggì con gli abiti che aveva ricevuto in dono. Vestita della pelle dell'asino, Viola si rifugiò in una fattoria in un regno vicino, dove le fu offerto un tetto sulla testa e un lavoro come guardiana di porci, mucche e pecore. Nessuno sapeva chi fosse, e a causa del suo strano vestito, tutti presero a chiamarla "Pelle d'asino".
I soldati inviati dal re e dalla matrigna per riportarla a casa non riuscirono a trovarla, e il secondo nobile se ne andò infuriato.

Giunse il terzo pretendente e chiese la mano della figlia minore; ma dopo la fuga delle due sorelle, temendo che sarebbe finita nella stessa maniera, il re rifiutò di dare Celeste in sposa al nobile, e fece giurare la matrigna e le sue figlie che mai avrebbero spinto Celeste ad andare via dal castello. Il terzo nobile se ne andò infuriato.
La vita di Celeste proseguì solitaria e infelice, reclusa nel castello, finché anche il re suo padre morì, e lei rimase da sola con la matrigna e le sorellastre. Vincolate dal giuramento, le tre donne non mandarono via Celeste, né organizzarono altri matrimoni, ma cominciarono a trattarla come fosse non una principessa, bensì una serva. Celeste si ritrovò a poco a poco a svolgere i lavori domestici e a dormire nelle cucine, accanto al focolare, e poiché era sempre sporca di cenere, le sorellastre storpiarono il suo nome in Cenerentola.

Nel regno vicino, lì dove abitava una popolana di nome Pelle d'asino, c'era un re che aveva tre figli: il maggiore si chiamava Candido, il secondogenito Amaranto, e il più giovane Azzurro. I tre principi avevano rifiutato ogni principessa che il re aveva proposto loro come sposa. Per trovare una moglie ai suoi figli, il re decise di organizzare un ballo a cui invitare ogni fanciulla del regno e dei regni vicini. Al ballo parteciparono anche la matrigna e le sorellastre di Cenerentola, lasciando quest'ultima rinchiusa nel castello in ossequio al giuramento. Ignoravano che anche Cenerentola avesse una madrina a cui chiedere consiglio, e che questa fosse una fata, che le concesse con la sua magia di partecipare al ballo, purché ritornasse allo scoccare della mezzanotte.

Giunse la sera del ballo. Candido però sospirava per una fanciulla che aveva scorto andando a caccia nella foresta, ma che al vederlo era fuggita come se avesse temuto che il principe fosse lì per strapparle il cuore dal petto. Amaranto invece, avendo sbirciato dal buco della serratura di una casupola una popolana vestita in abiti scintillanti color del cielo, della luna e del sole, rifiutava di bere e di mangiare qualunque cosa che non fosse una focaccia preparata da quella tale Pelle d'asino. Azzurro fu l'unico dei tre principi a ballare, ma lo fece con una sola fanciulla, che a mezzanotte fuggì lasciando dietro di sé nient'altro  che una scarpetta di cristallo.

La matrigna tornò a casa infuriata e con due figlie ancora da maritare. Scoprì dove abitava la fanciulla per cui il principe Candido aveva perso la testa, e una volta capito che si trattava della figliastra Bianca, mandò da lei una strega per liberarsene una volta per tutte. La strega però era mezza sorda e non aveva compreso bene le istruzioni della matrigna, quindi non diede da mangiare a Biancaneve una mela avvelenata, bensì una incantata, che la fece piombare in un sonno profondo. Candido tornò nella foresta in cerca della fanciulla che aveva visto, e incontrò i nani che la piangevano, credendola morta. Con un bacio spezzò l'incantesimo della strega e condusse Biancaneve al suo castello per sposarla.

La matrigna non si diede per vinta, e saputa la richiesta del principe Amaranto, gli mandò una delle sue figlie abbigliata in una pelle d'asino; ma quando il principe le chiese di mostrarsi a lui vestita dei suoi abiti impossibili, la sorellastra di Cenerentola non poté accontentarlo. Nel frattempo, avendo saputo del principe che a causa sua non mangiava, Pelle d'asino gli preparò una focaccia e la mandò al castello per mezzo di una contadina sua amica. Amaranto mangiò la focaccia e vi trovò dentro un anello sfuggito dalle dita della sua amata. Credendolo un segno che Pelle d'asino ricambiava il suo amore, andò a cercarla, ma solo per scoprire che la fanciulla non abitava più nella casupola dove l'aveva per la prima volta intravista.

Assieme ad Azzurro, con la sua scarpetta di cristallo, decise di indire un bando: la fanciulla che fosse riuscita a calzare la scarpetta sarebbe andata in sposa ad Azzurro, e quella al cui dito l'anello si sarebbe infilato alla perfezione, né troppo stretto, né troppo largo, sarebbe andata in sposa ad Amaranto.
Per quante dita o piedi provassero, però, i servitori dei due principi sembravano non riuscire a trovare quello giusto. Giunsero fino al castello in cui vivevano la matrigna e le due sorellastre di Cenerentola, ma anche loro avevano piedi o dita troppo grosse perché la scarpetta o l'anello calzassero. Mentre provavano in tutti i modi, Cenerentola fuggì dalla stanza i cui l'avevano rinchiusa, e dimostrò di poter calzare la scarpetta e di possedere anche quella mancante. Il principe Azzurro la portò con sé al castello per sposarla.

Rimaneva solo Amaranto, infelice e insoddisfatto, che non riusciva a ritrovare la sua Pelle d'asino; ma quest'ultima, saputo che le sue due sorelle si trovavano nel castello di quel regno, riportò alla fattoria le pecore, si lavò e si vestì del più bello dei suoi abiti, si recò da Amaranto e gli porse la mano affinché vi infilasse l'anello.

I tre principi sposarono così le tre sorelle e vissero per sempre felici e contenti.

sabato 2 settembre 2017

Bucolico

Se quello di sabato scorso era il termine adatto per una storia fantascientifica di viaggi nel tempo, questo si presta benissimo a descrivere il paesaggio di un racconto fantasy.

Bucolico [bu-cò-li-co] agg., s. (pl.m. -ci, f. -che) 1 agg. Della poesia pastorale. 2. agg. fig. Idillico, arcadico. 3. s.m. Poeta che scrive opere di genere bucolico. 4. avv. Bucolicamente, in modo bucolico.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Sono tante le immagini che mi sono passate per la mente pensando alla parola bucolico, o meglio, alla seconda definizione, che è quella che mi viene più spontaneo usare. Solo quando ho provato a immaginare chi stesse guardando quei paesaggi, e quando ho ricordato che esistono altre tre definizioni, che ho trovato l'ispirazione per il brano.


2° giorno di Pioggiafoglie, Locanda dell'unicorno sdraiato, Aurorandia

Oggi ho cantato quella canzone. Nonostante tutto, è ancora la mia preferita tra quelle che mi ha insegnato Taliesin.
Mi ricordo ancora la prima volta che l'ho sentita. Era sera, nella piazza della fontana di Lanarien. Ricordo come, al termine di un paio di ballate vivaci, la sua voce si è fatta lenta, morbida, nel descrivere la bucolica vallata di Sil-hoi, le sue morbide onde verdi adagiate ai piedi di azzurre montagne, i suoi torrenti dagli scrosci argentini come risate di bimbi, i suoi alberi dai frutti succosi e dolci, e le sue creature. Creature come me, minuscole e aggraziate figlie dell'aria con ali di farfalla, burberi o giocosi figli della terra dai volti di corteccia sotto cappelli a punta rossi o verdi.
Non avevo mai sentito parlare di altri come me, né da Taliesin, né da nessun altro.
Era l'inizio del mese di Soffiafiore, e fino al suo termine, ogni giorno, ho assillato Taliesin in ogni momento: mentre mangiava, mentre cantava, persino mentre dormiva.
Volevo andare nella valle di Sil-hoi. Volevo conoscere le altre fate.
E volevo che Taliesin mi accompagnasse da loro.
Alla fine del mese, esasperato dalla mia insistenza, Taliesin ha ceduto e mi ha confessato quello che non avrebbe mai voluto dirmi.
"Luna, mi dispiace. Io non posso accompagnarti a Sil-hoi. La poesia bucolica che ho declamato nella piazza di Lanarien è solo questo... solo una poesia, nient'altro. Ho inventato tutto. L'ho creata guardando un quadro che stava sulla bancarella di un rigattiere, prima di conoscerti. E dopo averti incontrata, ho aggiunto il resto."
Ora so che è solo un sogno che non potrò mai raggiungere, ma quella canzone rimane la mia preferita. E non mi importa che non esista la valle di Sil-hoi.
In qualche altro luogo, con un altro nome, deve esserci qualcuno come me. Per forza. E io lo troverò.
Non posso essere la sola fata che c'è al mondo, no?