sabato 30 dicembre 2017

Tabarro

Questa parola un tempo era di uso comune, ma adesso con la scomparsa del capo d'abbigliamento si sta perdendo. Una curiosità: mi è stato raccontato di recente che a contribuire alla scomparsa dei tabarri siano state le automobili. Era un capo utile per tenersi al caldo a piedi, a cavallo o in bicicletta... ma un po' scomodo da usare guidando!

Tabarro [ta-bàr-ro] s.m. 1. Ampio e pesante mantello da uomo in uso nel passato. 2. scherz. Cappotto particolarmente pesante.

Hood, di Gerardofegan, licenza Creative Commons BY 2.0. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Ho pensato di dover andare indietro nel tempo per scrivere un brano con un tabarro (l'alternativa era ambientarlo in un universo fantasy, ma ho sfruttato troppo spesso questa possibilità, ultimamente). Da qualche parte tra l'800 e il 900... lo so, non molto preciso, ma la protagonista non mi ha ancora rivelato con esattezza dove e quando e è nata.


Una volta, tanto tempo fa, quand'ero una bambina umana, Nessa si sedeva accanto al mio letto e mi raccontava storie per farmi addormentare. Erano storie diverse da quelle dei libri. Mi raccontava di Padre Inverno che uccideva il Principe d'Autunno, e del Signore dei Cervi inseguito dai Cacciatori, e del Tabarro Nero che vagava nella notte. Mia madre non voleva che mi parlasse di queste cose, perché non erano storie da cristiani e perché mi facevano sempre venire gli incubi. Perciò, quando c'era lei, Nessa prendeva un libro dallo scaffale e mi leggeva una parabola, o una di quelle favole da bambini con gli anatroccoli e le principesse; ma quando non era in casa a controllarla, alla fiamma della candela, Nessa intesseva tra le ombre del soffitto le sue fiabe pagane.
La storia del Tabarro Nero era la più spaventosa, perché Nessa diceva che fosse accaduto davvero, proprio lì dove vivevamo. Diceva che ogni anno, proprio l'ultimo giorno dell'anno, era possibile vedere per le strade della città uno straniero vestito di un tabarro nero con un ampio cappuccio che gli nascondeva il volto, e che non lasciava impronta alcuna nella neve. Nella storia di Nessa, un nonno avvertiva il nipote di non seguirlo, se lo avesse visto; ma il bambino disobbediva, inseguiva l'uomo col tabarro nero fino a strappargli di dosso il mantello, scoprire che sotto non c'era nessuno, e morire di colpo per lo spavento.
Io pensavo di essere più coraggiosa di quel bambino. Quella sera del 31 dicembre, Nessa mi stava riportando a casa quando lo vidi: il Tabarro Nero sotto il lampione, e nessun volto all'ombra del cappuccio. Sfuggii di mano alla mia tata e lo seguii.
Lei seguì me.
Il Tabarro Nero si fermò in un vicolo ad attenderci, come se volesse essere scoperto e spaventarci a morte. Allungai la mia piccola mano, ma sotto non c'era il nulla, bensì qualcosa che metteva davvero paura: un fantasma dalla pelle di alabastro, i denti, la sete.
Dopo quella notte, non sono più stata una bambina umana.

giovedì 28 dicembre 2017

Dopo la pioggia

(racconto ispirato dall'esercizio Festeggiamenti speciali. Stavolta ho inventato una festa per caratterizzare una regione di uno dei miei mondi fantasy)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Nelle lunghe giornate della stagione bagnata sembrava che la pioggia non avrebbe mai smesso di inzuppare la terra e renderla una poltiglia appiccicosa che invadeva le strade. Ma ogni anno la pioggia finiva, il vento portava via le nuvole e Iljkshu, il dio dell'acqua, abbandonava il cielo con la sua corte di spiriti umidi per andare a tuffarsi nel mare.
E sotto il regno del sole e delle lune, tornavano i colori.
Erano tre giorni di festa, tre giorni in cui su Sljdzjell, la nostra Terra Oscura, si stendeva un velo variopinto. In ogni città e villaggio le donne legavano nastri colorati ai rami degli alberi e alle travi delle case; gli uomini accendevano lanterne colorate e le appendevano a illuminare le vie.
Sulle terrazze e nei cortili, i tessuti e gli abiti appesi ad asciugare danzavano nel vento assieme ai nastri.
Erano tre giorni in cui le comuni regole della società venivano sospese e anche le ragazze non sposate potevano uscire di casa senza un accompagnatore e parlare con gli estranei, con l'unico accorgimento di indossare una maschera. Una maschera che un tempo doveva coprire tutto il volto, ma che col passare degli anni si era sempre più ridotta fino a trasformarsi da un'imposizione a un semplice accessorio di moda.
Rimaelevi sfiorò la mascherina di pizzo bianco sul suo volto, non sufficiente a nascondere le sue fattezze, e allungò il passo in direzione delle bancarelle del mercato. La passerella di legno scricchiolava, ma il suo rumore fu presto coperto dalla musica dei flauti di pan e dal tintinnio delle campane a vento. L'aria sfrigolava del profumo caramellato dei nastri Zaitchu, il dolce tipico di quelle feste assieme alle più casalinghe "capanne di fango" fatte di cioccolato, farina d'alghe e frutta essiccata. Solo i migliori pasticceri erano in grado di creare i nastri Zaitchu più sottili, resistenti e morbidi, tanto da sembrare fatti di tessuto colorato finché non li si leccava; allora si scioglievano in bocca, lasciando sulla lingua la loro impronta zuccherina.
Rimaelevi si guardò attorno: ovunque era luce, colore e musica, risate e danze, ma non in lei. Certo, era contenta di rivedere le sue sorelle sposate, i loro figli, le zie e le rispettive famiglie che in quei tre giorni tornavano, come lei e sua madre, alla casa dei nonni materni. Ma quell'anno sarebbe stato diverso. Rimaelevi era ormai abbastanza grande da onorare un'altra tradizione della festa dei colori, alla fine della stagione delle piogge: posare per il suo ritratto, come ogni fanciulla in età da marito. Il ritratto che suo padre avrebbe usato per fare affari, presentandola ai pretendenti come una merce di scambio.
Presto gli uomini avrebbero ricominciato a coltivare i campi resi fertili dal fango limaccioso, a pescare in mare, o a cacciare le pericolose creature della palude di Greye. Tre giorni passavano in fretta e ogni cosa, ogni donna e bambino tornava infine al proprio posto.

lunedì 25 dicembre 2017

Perdersi a Natale

(racconto ispirato dall'esercizio Festeggiamenti speciali. Ho ripreso il personaggio di Patrizio Boscoscuro e ho cercato di capire come festeggia il Natale)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


– Non sarebbe una novità.
Patrizio aveva liquidato ogni mia proposta con una frase come quella. "Non sarebbe una novità. Noioso. Già fatto, già vissuto."
Era il primo Natale che passavamo assieme, e volevo che fosse speciale, ma lui era incontentabile. E nemmeno quella era una novità. Seduti al tavolino di un caffè diverso da quello in cui lavoravo, io con un cappuccino e una brioche e lui con un succo di mela caldo e speziato, fissavo i suoi occhi grigi senza più idee. Ormai le aveva bocciate tutte.
– Ti odio quando fai così – borbottai, spingendo indietro le spalle contro lo schienale della sedia.
– No, non è vero – replicò Patrizio con un sorrisino strafottente. – Quando è l'ira a muoverti, stringi di più gli occhi e ti protendi in avanti, come per attaccare.
Mi staccai dallo schienale. – Tu e le tue doti da osservatore...
– Sei prevedibile. Come chiunque altro – m'interruppe lui. Stringendo tra le mani il calore del bicchiere, Patrizio lasciò vagare lo sguardo tra i clienti del locale, prima di tornare a fissarmi intensamente. – La colpa è tua.
Lo guardai storto, ma affondai i denti nella brioche per impedirmi di pronunciare una replica piccata. Avevamo già litigato, e più di una volta, a causa del suo atteggiamento insolente. Ma quello non era uno dei giorni in cui gli avrei permesso di rovinare tutto.
– Insomma – biascicai con la bocca ancora piena. – Che cos'è che ti piace fare, a Natale?
Patrizio sfiorò la copertina nera del suo blocchetto per appunti. – Credevo che ormai lo avessi capito.
Scossi la testa. Fu il suo turno di sospirare e addossarsi allo schienale. – Scelgo una città in cui mi sembra di non essere mai stato, e ne percorro le strade finché non mi perdo. Senza mappa. Senza navigatore. – Patrizio assaporò un sorso del suo succo, troppo dolce e strano per me. – Mi regalo la sensazione di non sapere dove sono, né cosa farò dopo. A questo punto della mia esistenza è ciò che di più raro esista al mondo, e vale più di qualsiasi bene materiale. Ma è un dono che conservo per le occasioni speciali: se lo faccio troppo spesso, rischio di rendere immensamente noiosa la vita di chi verrà dopo di me.
– Ovviamente – borbottai. Nonostante lo conoscessi da mesi, mi sembrava ancora bizzarro pensare agli altri "lui" che erano venuti prima, e a quelli che lo avrebbero seguito. Patrizio mi aveva spiegato come non ne avesse una vera memoria, piuttosto, una sensazione di déjà vu che gli faceva riconoscere luoghi, schemi e sensazioni, anche se non li aveva mai incontrati prima. Finii il cappuccino e sorrisi: mi era venuta un'idea. – Sei mai stato a Fontanellato?
 – Il nome non mi sembra familiare. Dove si trova? Aspetta, provo a... – Patrizio sbloccò lo smartphone, ma io mi allungai sul tavolo e glielo sottrassi.
– No, niente informazioni. Altrimenti, che sorpresa sarebbe?
Patrizio si rilassò e rise. – Vedi? È per questo che ti ho rivelato chi e come sono. Oltre al fatto che non penso di averlo mai raccontato a nessuno... nessuno che mi abbia creduto. – Patrizio si protese e mi accarezzò la mano con cui coprivo il suo smartphone. – Puoi essere prevedibile, ma sai fare in modo che la mia vita non lo sia.
Infilai in bocca l'ultimo pezzetto di brioche e pregustai il momento in cui Patrizio Boscoscuro avrebbe scoperto che a Fontanellato, proprio qui in Italia, c'è il labirinto più grande del mondo: il posto perfetto in cui perdersi a Natale.

sabato 23 dicembre 2017

Salmodia

Tanti auguri di buon Natale ai miei tre lettori (uno in meno del Manzoni, non pecco di tale superbia da equipararmi a lui)! Anche quest'anno, come lo scorso con Halleluia, in prossimità delle feste ho scelto una parola del sabato che potesse prestarsi a ispirare un brano a tema natalizio.

Salmodia [sal-mo-dì-a] s.f. 1. Nella liturgia ebraica e cristiana, il canto o la recita dei salmi. 2. estens. Canto lento e triste; discorso monotono, litania.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.



Per la sua etimologia il termine deriva dal greco col significato di "cantare al suono della cetra", tuttavia nel corso del tempo ha assunto l'accezione spregiativa di discorso noioso. Ho voluto provare a usare sia l'uno che l'altro dei significati, e l'ho fatto proseguendo il brano di Grottesco, più o meno da dove lo avevo lasciato.


Non è facile concentrarsi sul tuo presente, quando hai mille pensieri che ti ronzano in testa. Specie quando il tuo presente è il futuro per chiunque altro ti conosca da una vita. Centinaia di anni nel futuro, per la precisione.
Tutti quelli che conoscevo, la mia famiglia, i miei amici, erano polvere. Erano anche vivi, nel loro tempo, perché stavo iniziando a considerare il secolo che mi ero lasciato alle spalle, più che come un passato perduto, come un luogo che avrei potuto visitare, se solo non fossi diventato una specie di mostro.
Con la sua voce gentile, Kàli mi sussurrava una lagnosa salmodia nell'orecchio, ma io non capivo se fosse uno dei suoi incantesimi sciamanici o la spiegazione di quale rara Aberrazione fosse emersa dai miei geni. In realtà non m'importava. Tutto quel pensare al passato, al presente e al futuro mi faceva tornare in mente il Canto di Natale con i suoi tre fantasmi. Trovai stranamente appropriato che con il mio aspetto da mummia carbonizzata sarei potuto passare per quello più spaventoso, quello del futuro.
Quello che non potevo più fare era entrare in una chiesa del ventunesimo secolo. Me lo immaginai come avrebbero reagito, se alla messa di Natale io, un'anima dannata che aveva respirato le fiamme dell'inferno e ne era uscita cambiata, avesse varcato le porte di una chiesa. L'accorata salmodia del prete interrotta di colpo. Gli sguardi smarriti o spaventati. I bisbigli, preghiere o bestemmie, rivolte alle immagini sacre.
Nonostante la stucchevole bugia del Natale, che siamo tutti più buoni e cose del genere, chi avrebbe potuto accettarmi, se io stesso non riuscivo a guardarmi allo specchio?
Eppure di quella bugia, e di qualcosa che mi ricordasse casa, io avevo disperatamente bisogno.
– Il Natale. – Con un bisbiglio spezzato interruppi Kàli nel suo salmodiare. Mi schiarii la voce, mi alzai in piedi e chiesi, rivolto a tutti loro. – Esiste ancora, il Natale?

giovedì 21 dicembre 2017

Dimmi come festeggi... e ti dirò chi sei

Lunedì ti ho lasciato con l'esercizio Festeggiamenti speciali:

Scegli una festa esistente, o inventane una di fantasia. Mostrami come la celebra un tuo personaggio. Fa' che sia un modo unico e particolare.

Stavolta non ti darò alcun consiglio su come iniziare a svolgerlo. Ti dirò perché dovresti provarci.
Perché, a seconda di come ti approcci all'esercizio, ti può essere utile per due cose: la costruzione di un'ambientazione, o la definizione del carattere di un personaggio.


Ambientazione


Quando si tratta della costruzione dello scenario in cui si muovono i personaggi, in particolare nel caso della creazione di un mondo nuovo e diverso dal nostro, spesso in articoli e discussioni ho letto di persone che si concentrano sul quadro d'insieme: cronologia storica, situazione politica, la classica mappa e dunque geografia, che si tratti di monti, coste e fiumi o dei confini tra gli stati.

Non so tu, ma io ho sempre trovato noiosa la storia come mera successione di regnanti e di guerre, e inoltre dubito che il contadino del villaggio Taldeitali, nel tuo romanzo, sappia chi stava sul trono mille anni prima o cosa c'è oltre le Colline Boscose. A scuola, io volevo i dettagli: cosa mangiavano, come si vestivano, come vivevano le persone in una data epoca. E sono i dettagli che interessano al contadino del villaggio Taldeitali, e che distinguono un'ambientazione realistica e credibile, "viva", da una creata a tavolino seguendo i soliti tre o quattro schemi: storia, geografia, religione, leggi (mondane o magiche) e politica.

Una festa, e il modo di celebrarla, è molto più vicina alla vita quotidiana del contadino del villaggio Taldeitali, e dei personaggi della tua storia, chiunque essi siano. Rivela ciò che è importante per loro, racconta di tradizioni tramandate da una generazione all'altra, richiama miti e talvolta è accompagnata da canzoni, abiti, cibi, attività particolari e tipiche solo di quel momento di festa.

Se stai creando un mondo fantasy, o anche soltanto una città immaginaria pur se appartenente alla nostra realtà, penso che dovresti provare a immergere il lettore in un'atmosfera di festa per dargli un'idea di che cosa significhi vivere in un luogo del genere, piuttosto di tediarlo con un excursus storico-politico o una lunga descrizione della conformazione del paesaggio.


Personaggio


Nel caso tu scegliessi di dedicarti a una variante "personale" di una festa nota, sappi che questo rivelerà molto del tuo personaggio. Io trovo che le anomalie raccontino una storia più interessante rispetto alla normalità che conosciamo. Se il tuo personaggio sceglie un modo inconsueto di festeggiare potrebbe essere un ribelle, un originale, un fantasioso. Che significato ha per lui quel modo di fare, è una tradizione di famiglia, o lo ha inventato lui stesso? Oppure potrebbe rifiutare di celebrare la festa, o addirittura sabotarla, fare il guastafeste, fare il Grinch. Anche questo la dice lunga su di lui.

Ti farò un esempio. Ricordo di aver letto, da qualche parte, di un uomo che invitò gli amici a una cena di compleanno a sorpresa. Il compleanno era il suo, ma i commensali non sospettavano nulla riguardo al motivo dell'invito finché, al momento del brindisi, l'uomo si alzò e annunciò: "Sorpresa! Oggi è il mio compleanno, tanti auguri a me!". Potete immaginare il panico sui volti degli invitati: nessuno aveva portato un regalo, nemmeno un biglietto di auguri. L'uomo si godette per qualche istante il loro imbarazzo, poi rivelò un cesto di doni che aveva personalmente scelto e impacchettato. Agli invitati, a scatola chiusa, la scelta del pacchetto da "regalargli".

Non ti sembra di poter capire molto della sua personalità già da questo singolo episodio?

lunedì 18 dicembre 2017

Festeggiamenti speciali

Benvenuto, spirito delle feste!

Essendo in prossimità del Natale, ho deciso di rompere gli schemi che mi ero preparata e affidarti una missione... un po' particolare. Adatta al periodo verso il quale ci stiamo avviando.

Tieniti forte, sei pronto a scoprirla? Meno tre, due, uno... via!

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Scegli una festa esistente, o inventane una di fantasia.

Puoi scegliere il Natale o il Capodanno, ma perché limitarsi? La tua festa può essere qualunque cosa, da un Non-compleanno alla Giornata di Apprezzamento delle Porte alla Sagra della Scarogna. Tutto dipende da dove è ambientata la tua storia: il Natale in un mondo fantasy dove il cristianesimo non si è mai sviluppato sarebbe un po' fuori luogo, mentre una festività non canonica nel mondo che ben conosciamo... deve avere una motivazione per esistere, se non è ristretta a una cerchia di persone che si sono accordate per festeggiarla.


Mostrami come la celebra un tuo personaggio. Fa' che sia un modo unico e particolare.

Se hai scelto una festa esistente, dovrai spremerti le meningi per ideare un modo non convenzionale di osservarla. Pensa al carattere del tuo personaggio, lasciati guidare da lui o lei. Ricorda che le azioni e l'indole non sono mai slegate, e una bizzarria è sempre indicativa della personalità di chi la compie!
Se invece hai scelto di creare una festa ad hoc, considera il perché esiste, chi l'ha istituita e voluta, e come potrebbe reagire il tuo personaggio: si adegua o la rifiuta? Oppure è stato proprio lui a inventarla e a coinvolgere gli altri?

Qualunque sia la tua scelta, un consiglio: usa tutti i sensi nel descriverla (vista, udito, olfatto, gusto, tatto... e altri, se il tuo personaggio ne è provvisto) per coinvolgere il lettore nell'atmosfera della festa. Attendo i tuoi festeggiamenti speciali, che puoi postare qui sotto, e nel frattempo ti auguro un buon... qualunque cosa tu scelga di celebrare nella vita e tra le pagine!

sabato 16 dicembre 2017

Reminiscenza

Se hai visto i film o le puntate del telefilm Highlander, la parola di questo sabato ti suonerà familiare. In quel caso l'avevano usata per tradurre il termine inglese "quickening", che però non ha nulla a che fare con la memoria.

Reminiscenza [re-mi-ni-scèn-za] s.f. 1. Ricordo vago e impreciso di qualcosa; la cosa stessa ricordata. 2. In un'opera letteraria, teatrale, musicale ecc., ripresa, più o meno consapevole, di motivi propri di autori e opere precedenti.

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Mi viene da pensare che con tutte le storie, i mondi e i personaggi che ho, finisco sempre per scegliere i soliti due o tre. Li calo in tempi e luoghi diversi, ma... ahi ahi, ho anch'io i miei preferiti tra le mie "creature"! Per stavolta ho ceduto, ma la prossima devo trovare spazio anche per qualcuno che in queste pagine non l'ha mai avuto.


– A volte qualcuno me lo chiede. Com'è stato vivere due vite, intendo. La verità li delude sempre.
Distolsi lo sguardo dalla città oltre la finestra della torre. Laeverth. Laeverth era così bella da far male al cuore.
C'era voluta tutta una vita, la mia seconda vita, per farla tornare al suo antico splendore.
– La verità è che io non lo ricordo. Ho qualche vaga reminiscenza, sì; ma nulla più di questo. Qualche immagine. Qualche frase che mi riecheggia nelle orecchie. È come svegliarsi da un sogno, sapere che si ha sognato, ma non sapere cosa.
Chiusi gli occhi e ascoltai i suoi passi sulle tessere variopinte del mosaico. Non volevo guardarlo, perché sapevo che il tempo trascorso non l'aveva cambiato. Jossintaur era lo stesso di quando, da ragazzina, gli avevo scioccamente rivelato il mio amore. Una cotta che in realtà non aveva motivo di esistere. In retrospettiva, ero lieta che lui mi avesse respinta con tutto il tatto possibile.
Ed era lo stesso delle mie reminiscenze dall'altra vita, solo che in quel caso il sentimento che associavo al suo viso era un odio profondo e altrettanto ingiustificato.
Lo sentii posarmi le mani sulle spalle. Sollevai una delle mie vecchie mani a sfiorargli le dita. – Sei venuto a dirmi addio, mio buon amico?
– No. – Sentii la seta elfica dei suoi abiti sussurrare un canto ben diverso dal fruscio di qualunque altro tessuto. Aprii gli occhi e mi ritrovai di fronte il suo volto giovane, le orecchie dalla punta delicata tra le onde della sua chioma bionda. – Sono venuto a dirti che tu hai vissuto più di due vite. In più di due mondi. E che questa non deve essere la fine, se tu lo vuoi.

giovedì 14 dicembre 2017

Anche gli agenti segreti vanno in pensione

(racconto ispirato dall'esercizio Immagini per scrivere. Il lancio del dado mi ha dato un 2, che corrisponde alla foto qui sotto.)

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Ascoltami bene, Matteo. Se vuoi seguire le mie orme, puoi farlo, ma ti avverto che non sarà facile. La vita di un agente segreto è costellata di pericoli e scelte difficili. Ci saranno momenti in cui ti troverai in trappola, con le spalle al muro. Ma è in quei momenti, proprio allora, che non devi arrenderti. Devi pensare a tutto quello per cui stai lottando, la tua vita, la tua famiglia, il mondo. Se vuoi salvare il mondo, Matteo, devi trovare dentro di te il coraggio di guardare in faccia i tuoi nemici, puntargli contro la tua pistola e dirgli "mascalzoni, non mi avrete mai! Fatevi sotto, io non ho paura! Giù le mani, ehi, che fate, giù le mani ho detto..."

– Papà, papà, adesso smettila. Lo stai spaventando – disse la donna in abito rosso al gentiluomo brizzolato in completo grigio che l'aveva accompagnata, senza smettere un attimo di blaterare, fin nella hall dell'edificio. La donna strinse a sé un bambino di cinque anni e rivolse un'occhiata nervosa ai due robusti infermieri che stavano accerchiando l'anziano. Sul volto dell'uomo c'era un'espressione combattiva e disperata, ma uno dei due infermieri gli strappò di mano l'arma improvvisata mentre l'altro lo prese sottobraccio e lo condusse verso una sedia a rotelle.
– Andiamo, nonnetto, metti giù la banana. Ti chiami Giacomo Bondi, non James Bond!
– Quante storie per una casa di riposo. Neanche fosse il covo del dottor No in persona. Si rilassi, signora, d'ora in poi ci pensiamo noi. Suo padre è in ottime mani.
La donna in abito rosso guardò i due infermieri portare via un agitatissimo Giacomo Bondi, che aveva iniziato a strillare a lei e al figlioletto di mettersi in salvo e di chiamare i suoi amici della bocciofila, dicendole che loro avrebbero saputo cosa fare.
In un angolo, il direttore della casa di riposo osservava il tutto accarezzando soddisfatto un bel persiano bianco.

lunedì 11 dicembre 2017

Sfocature

(racconto ispirato dall'esercizio Immagini per scrivere. Il lancio del dado mi ha dato un 3, che corrisponde alla foto qui sotto.)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quando c'era lei, il mondo attorno spariva.
Non che fosse bella. O almeno, non bella di quella bellezza eccezionale, da perfezione da film o da copertina di rivista patinata. Ma Keiko era... speciale.
Fin dalla prima volta che la vidi, mi resi conto di non poter distogliere lo sguardo. Era come se la luce stessa curvasse attorno a lei, riflessa dal suo abito bianco in un turbinio candido che cancellava tutto, le case, le strade, gli alberi, le altre persone.
Il suo sguardo diretto, il suo sorriso appena accennato, quasi timido, mi indussero a scambiarla per un'aspirante modella; e invece, l'agenzia l'aveva mandata a farmi da assistente.
Io non avevo bisogno di un'assistente, avevo bisogno di un soggetto che mi ispirasse. Lei poteva essere la mia musa, le dissi, ma Keiko fu categorica: nessuna foto. Io, che ero praticamente cresciuto con una macchina fotografica in mano, la ritenni un'imposizione assurda, ma accettai.
Finché Keiko avesse lavorato per me, non le avrei scattato una sola foto.
Così iniziò il nostro incauto sodalizio. Non durò molto, ma non per colpa sua. O almeno, questo era ciò che io pensavo.
Nel lavoro, lei era tutto ciò che il suo sorriso prometteva: modesta, riservata, insostituibile. Nonostante calamitasse lo sguardo di ogni collega o modella con cui mi trovavo a lavorare, sembrava non bearsi mai di quelle attenzioni, e rifiutava con garbo qualunque tentativo di coinvolgerla in un servizio fotografico. "No, grazie, mi dispiace ma non sono fotogenica" era ciò che ripeteva, e dietro lo scudo della timidezza seguitava a tener nota dei miei appuntamenti e a rispondere al mio cellulare mentre ero impegnato.
Ma se lei svolgeva un lavoro impeccabile, il mio continuava a peggiorare. Ero distratto, svogliato. Costringermi a distogliere lo sguardo da lei per concentrarmi sulle modelle mi infastidiva fin quasi al punto da diventare una tortura, e a fine giornata gli occhi mi facevano male. E una volta sviluppate le foto, mi accorgevo che molti di quegli scatti erano da buttare, rovinati da sfocature o sovraesposti o attraversati da lampi bianchi. Non potevo continuare così.
Stavo perdendo un cliente dopo l'altro e Keiko, che teneva la mia agenda, se ne accorse.
Tre mesi dopo il nostro primo incontro, mi disse che si licenziava. Aveva trovato un altro posto da assistente, uno in cui la fotografia non fosse prevista. Mi disse che sarebbe stato meglio per tutti e due.
Dal momento che non lavorava più per me, le chiesi di poterla fotografare. Una foto, una soltanto, prima che sparisse per sempre dalla mia vita.
Keiko era così, non guardava al passato, e non intendeva lasciarmi alcun modo di mettermi in contatto con lei. Ma quella foto me la concesse.
Così avrei capito perché non potevamo lavorare insieme, mi disse.
E lo capii, una volta sviluppata la foto.
Ripensandoci, non credo che Keiko ne avesse il controllo. Forse era qualcosa che le succedeva e basta. A occhio nudo, era un'impressione indefinibile che spingeva lo sguardo su di lei, non avendo altro attorno su cui fermarsi.
La foto invece lo mostrava chiaramente. Non avevo usato un filtro, ma ciò che ritraeva era solo Keiko, nitida, in primo piano. Tutto il resto era molto più che sfocato. Era annullato da un chiarore più intenso quanto più i dettagli dello sfondo si trovavano vicino a lei.
Passai tutta la notte a riprendere in mano ogni foto sfocata degli ultimi tre mesi e a ricordare le volte in cui Keiko si era avvicinata a me per riferirmi un messaggio, per ricordarmi un appuntamento o per portarmi un caffè. E a questo punto, penso di non doverti riferire che coincidevano ogni singola, dannata volta.

sabato 9 dicembre 2017

Querimonia

Ci sono parole così formali e letterarie che sai già il tipo di personaggio o narratore che può pronunciarle. Questo è il caso di querimonia, che vedo bene in ambito giuridico o storico, un po' meno tra ragazzi comuni in un'ambientazione moderna!

Querimonia [que-ri-mò-nia] s.f. lett. Fastidioso lamento, lagnanza protratta.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La prima cosa che questa parola mi ha fatto venire in mente è un'udienza presso la corte di un re. Forse per l'assonanza con la parola cerimonia, mi ha ricordato una di quelle scene da film in cui una fila di persone porta le proprie richieste o lamentele al sovrano. Succedeva davvero così? Non lo so, ma intanto ci ho ricamato sopra per il brano di oggi.


Ero fortunato a non essere re. Lo pensavo, nell'osservare la processione infinita di cenciosi popolani per la consueta querimonia al tribunale di Lir, nonostante nella questione la fortuna o la mancanza di essa non contasse affatto. Non ero arrivato dov'ero con la fortuna, ma con le unghie, con i denti, e con la mente. E con una sufficiente dose di veleno, quando lo avevo ritenuto necessario.
Essere re era una formalità che toccava per nascita, e che comportava spiacevoli obblighi, come dover respirare la stessa aria della plebe nei giorni stabiliti dal calendario. Il lusso era un incentivo per sopportare il fetore, per una mente che cedeva a simili lusinghe, ma l'oro e il velluto non facevano per me.
A differenza di chiunque altro, io avevo l'unica cosa che importava davvero: il potere.
– Solemestis, che cosa devo fare?
Era a me che la principessina che avevo messo sul trono al posto del vecchio re aveva chiesto consiglio, ed era a me che lo avrebbe chiesto in futuro, sempre. Era una statua di cera, malleabile tra le mie dita, e io l'avevo plasmata ancora una volta.
– Lasciateli sfogare, maestà. Molti di loro non hanno un vero problema, hanno solo bisogno di lamentarsi delle proprie sventure. Date la vostra assoluzione quando chiedono perdono, e decidete chi abbia torto o ragione quando vi domandano una sentenza.
– E se non sapessi chi è nel giusto? E se sbagliassi?
– Non vi contraddiranno, maestà. Voi conoscete la legge meglio di loro.
Non le avevo detto che non faceva differenza chi avesse scelto, che la spartizione di un paio di capre non avrebbe mandato in rovina il regno. Non le avrei tolto l'illusione di avere il potere.
La regina Skalissa poteva trastullarsi ad ascoltare tutte le querimonie che voleva e sentirsi importante nel decidere la vita di un pezzente; quanto a me, una volta che avesse preso una tale confidenza da non richiedere di avermi al fianco, avrei disertato simili, noiose udienze per dedicarmi alle decisioni che influenzavano il corso della storia.

giovedì 7 dicembre 2017

Due chiacchiere per sbloccarsi

Non sai cosa scrivere. Hai davanti a te la foto, e la tua mente si rifiuta di fare il suo lavoro. Niente. Tabula rasa. Il vuoto più assoluto.

Sforzarsi di trovare una buona idea per scrivere la storia, a questo punto, potrebbe diventare controproducente. Più ti concentri sul cercare quel buon inizio, e meno ti viene. Se anche ti capita qualche idea passeggera, non è l'incipit strepitoso che ti aspettavi, e la elimini prima ancora di scriverla.

Rimane solo una cosa da fare: ingannare la tua mente, prenderla in contropiede. Iniziare a scrivere qualcosa riguardo all'immagine che sia tutto fuorché la storia che vuoi raccontare. È un po' come pensare, ma sulla carta (o sullo schermo del pc). Scrivi a ruota libera, senza censure, senza tagli. A quelli penserai dopo. Ma scrivere cosa? Ecco alcune idee.

Che cosa raffigura l'immagine?
Descrivi quello che vedi. Fisionomia, colori, azioni. Ambientazione, se esiste. Parti dalla vista e aggiungi gli altri sensi. Suoni, rumori, voci. Odori, profumi. Gusti. Calore o freddo, la solidità della terra sotto i piedi. Mettiti nella scena.

Che emozione ti evoca l'immagine?
Scrivi di come la foto che hai di fronte ti fa sentire. Ti mette allegria? Pace? Tristezza? Il personaggio ti pare antipatico, o vorresti conoscerlo?

Che ricordi associ all'immagine?
Scegli un dettaglio, e da quello, passa a scrivere gli episodi della tua vita che ti passano per la mente. Conta poco se si tratta di un evento importante o di un giorno qualunque. Abbandonati al tuo viaggio nella memoria. Forse il personaggio della foto ha vissuto un'esperienza simile. Oppure prova a immaginare come sarebbe andata se in quel momento lo avessi incontrato.

Se potessi intervistare il personaggio della foto, che domande gli faresti e quali potrebbero essere le sue risposte?
Non avere timore di lanciarti in un folle botta e risposta. Talvolta le classiche domande da intervista al personaggio non funzionano. Bando alla banalità, niente nome, età, lavoro. Chiedigli qualcosa di nuovo. Qual è l'ora del giorno che preferisce ad esempio, o se dovendo rinunciare per sempre a uno dei due, sceglierebbe di non mangiare più i formaggi o la cioccolata, o ancora se gli piace di più la pioggia o la nebbia.


Parti da uno di questi spunti, e prima che tu te ne renda conto, la storia inizierà a ingranare. Solo una volta che avrai terminato il brano che riguarda il tuo personaggio, torna all'inizio ed elimina tutto ciò che non fa parte del racconto.

Fammi sapere com'è andata, e se questo suggerimento ti ha aiutato a scrivere!

lunedì 4 dicembre 2017

Immagini per scrivere

Benvenuto, inventore di passati remoti!

Il tuo compito da detective non è ancora terminato. Adesso dovrai davvero osservare, e non basarti sulle descrizioni di qualcun altro. Mi auguro che questa variazione sul tema possa fornirti maggiori spunti e libertà per immaginare.

Ma ecco qui i dettagli della missione:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Hai a disposizione sei diverse immagini. Scegli quella che preferisci, o lancia un dado.



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 Immagini liberamente disponibili su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quale sia carattere, il lavoro, le abitudini, la storia, sarai tu a deciderlo. Scrivi un brano che illustri il personaggio.
Questa può essere considerata una variante, oltre che dell'esercizio precedente, anche di "Parti da un'immagine". Solo che stavolta ogni foto ha per protagonista una persona. Chi è, che cosa sta facendo, perché è raffigurata così? Queste sono domande a cui solo tu puoi dare una risposta.


Puoi fornirmi la risposta a cui hai pensato nei commenti qui sotto. Non importa se ti vengono in mente solo due righe o un intero racconto. L'importante è scrivere.
Se non sai come fare, giovedì ti spiegherò un trucco per partire dall'immagine e andare oltre (nel frattempo, se cerchi spunti immediati, c'è questo). E giovedì della settimana prossima darò spazio a uno dei racconti/descrizioni/pensieri sparsi e al suo autore.

sabato 2 dicembre 2017

Palindromo

Quando si arriva ai giochi di parole, questo è uno tra i più interessanti e difficili, se si riferisce a frasi intere. Io non ne sono capace, e tu? Però si può sempre scovare qualche frase su internet e meravigliarsi per quelle che suonano più naturali.

Palindromo [pa-lìn-dro-mo] agg., s. 1. agg., s.m. Di parola, frase, verso o cifra che possono essere letti da sinistra a destra e anche viceversa. 2. s.m. Gioco enigmistico consistente nel trovare parole palindrome, o parole che lette alla rovescia assumono un altro significato.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Palindromo è una parola così specifica che difficilmente può tornare utile in una storia. Eppure, nonostante questo, mi sono venute ben due situazioni in mente, e non sapevo quale scegliere... perciò ho trovato un possibile punto di contatto.


Vera sorrise quando il decodificatore decifrò il codice. 8724071017034278. Era palindromo... quasi. Tipica del dottor Eastfield, una trovata del genere.
Chiunque altro si sarebbe fidato dei numeri forniti dal decodificatore, e avrebbe sbagliato. Ma lei lo conosceva meglio di così.
Robert Eastfield era stato l'unico a trattarla bene in quello che lei aveva creduto un ospedale. Era stato l'unico a trattarla come un essere umano. Vera aveva ancora nostalgia delle volte in cui il dottor Eastfield si era fermato a giocare a scacchi, a chiederle come stava, a insegnarle qualcosa di nuovo e curioso. Anche se col tempo aveva capito che quelli non erano altro che dei test, Vera rimpiangeva di non poter avere un altro di quei momenti. Il dottor Eastfield l'aveva fatta sentire come se gli importasse qualcosa di lei.
Vera ricordava la volta in cui aveva strappato un foglio dal suo taccuino, aveva scritto una frase e le aveva chiesto di leggerla. Era una frase breve ma complessa, artificiosa nella scelta delle parole e nella loro disposizione.
– Dimmi che cosa c'è di strano – le aveva chiesto il dottor Eastfield.
A Vera era occorso meno di un minuto per capire che, tolti gli spazi e la punteggiatura, le lettere erano le stesse, partendo dall'inizio o dalla fine.
– È una frase palindroma – le aveva detto il Dottor Eastfield. – Come il nome Anna, o la sequenza 123321. Io li trovo molto divertenti! – Come a sottolineare la sua affermazione, il dottor Eastfield aveva riso. – Ricordalo bene, Vera: se si legge alla stessa maniera da sinistra a destra e da destra a sinistra, è un palindromo.
Vera lo aveva ricordato, e di fronte a quella porta, fece ciò che nessun altro avrebbe fatto: digitò il codice saltando quel 3 traditore. Aveva una sola possibilità di fornire il codice esatto, prima che si attivasse il sistema di sicurezza.
E "sistema di sicurezza", in un posto del genere, significava morte.