giovedì 30 dicembre 2021

Due strade


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Leo Caldas da Pexels


Due strade divergevano di fronte a me, ma non ero in un bosco, e la mia vita non era una poesia. E, stando a quanto ne sapevo, se i miti erano reali, nessuno aveva più percorso una delle due da lungo tempo, e se non lo erano, nessuno prima di me le aveva mai percorse. Ero da solo a dover prendere quella decisione, solo al cospetto dell'incalzante ghigno di una figura mutevole, talmente cangiante che era difficile soffermare lo sguardo su di essa. Ali d'angelo, ali di diavolo, volto d'uomo, poi di una bestia. Mio padre, che lui sia dannato.
All'inizio il luogo abitato da lui e dai suoi compagni mi pareva altrettanto incostante, un paesaggio in continuo divenire, come se ogni passo mi trasportasse in altre dimensioni. Luoghi familiari, la mia casa, la scuola, le colline di Tana del Diavolo dove avevo passato l'infanzia con mia madre e le mie "zie", e altri che non avevo mai visto se non in una foto, il Gran Canyon, la steppa russa, un ghiacciaio sulla vetta dell'Himalaya. Scorsi lui per la prima volta tra le colonne del chiostro di un monastero benedettino, tra tutti i luoghi del mondo, che ironia! Sebbene, in quel momento, non potevo essere certo che fosse lui. M'ingiunse di seguirlo, e persino la sua voce mutava timbro e accento ad ogni parola, e finanche lingua, di tanto in tanto. Fortunatamente, la comprensione di ogni idioma è un talento di famiglia che avevo ereditato, assieme ad altre, più fastidiose prerogative.
Gli dissi che non immaginavo così l'inferno, e lui con un sogghigno fissò quel susseguirsi psichedelico di diapositive in una singola immagine, molto più caratteristica.
Fiumi di lava ribollente da cui si ergevano guglie frastagliate di roccia nera, simili ai denti di un'enorme belva, lambiti da fuochi eterni che ardevano ovunque, e puzza di zolfo e odore di bruciato e un vento rovente soffiato da geyser che spruzzavano vapori e lapilli fino a un cielo oscuro percorso da fiamme e fulmini, un'insolita, spaventosa aurora boreale.
– Ora è di tuo gradimento? – mi schernì lui.
Che fosse simile a come gli antichi scrittori descrivevano le bolge infernali oppure no, non intendevo restare in quel luogo, in sua compagnia, più a lungo di quanto fosse necessario.
– Sai perché sono venuto, e non è certo per ammirare il paesaggio – gli dissi.
Ero disposto a combattere per Evangeline, o almeno a provarci. Non potevo lasciarla nelle sue mani, non dopo quello che mi avevano raccontato di loro mia madre e le mie zie. I Caduti potevano sembrare affascinanti, ma non erano altro che mostri.
Tra il gorgoglio del magma risuonò un ruggito possente, come di un'enorme bestia, un drago, o qualcosa di simile.
– La ragazza, lo so. I miei fratelli non saranno contenti, è una goduria terrorizzarla e inseguirla! Ma faranno ciò che dico. – Lui mi si avvicinò e allungò una mano in quella che sarebbe dovuta essere una carezza paterna, non fosse stata troppo brusca, rapida, e dolorosa per le sue dita che a tratti mutavano in artigli, lasciandomi graffi sulla guancia. – Dopotutto, tu vali molto di più, figlio mio.
Un tempo, prima di sapere chi era davvero, avrei dato qualunque cosa per rivederlo. Adesso mi infastidiva il suo ribadire una parentela che avrei volentieri rinnegato.
Fu allora, mentre risuonavano risate sguaiate e le urla di Evageline, che mio padre mi parlò del patto di Proserpina, un'antica tradizione, e nel mio caso, una scelta.
Le metaforiche strade che lui mi proponeva divennero strade reali in quel luogo plasmato dal pensiero, cammini lastricati di pietra nera, nelle cui crepe rilucevano bagliori infuocati. Una strada conduceva indietro, verso la porta su questo mondo aperta dalla magia di mia madre e delle mie zie, frutto di conoscenze apprese quando i Caduti vivevano con loro. Quella era la strada che avrei percorso da solo, per non tornare mai più.
L'altra conduceva a Evangeline, ma per percorrerla dovevo accettare il patto che mi vincolava alla promessa di tornare da lui all'equinozio di autunno, e restare per sei mesi. Per apprendere, cambiare, diventare meno umano e più simile a lui. E forse, nelle sue intenzioni, rinnegare mia madre e ogni sforzo di controllare il mio potere e sembrare un ragazzo normale, come lei e le altre donne mi avevano insegnato.
Qualunque cosa, per salvare Evangeline.
Scelsi quella strada, e dunque mi fu permesso di andarmene, per il momento, con la ragazza svenuta tra le mie braccia. Pochi giorni all'equinozio d'autunno, giusto il tempo di riportarla nel mondo umano e assicurarmi che stesse bene. Forse, se fossi riuscito a trovare le parole, darle qualche spiegazione per ciò che aveva patito a causa mia, nel caso non fosse stata benedetta dall'oblio.
Un coro di ruggiti rabbiosi mi accompagnò sulla via del ritorno. Le storie raccomandano di non farlo, eppure mi voltai indietro, e scorsi dal mare di magma sorgere una città di ossidiana e di lingue di fiamma. Un lampo in cielo si biforcò in due vie frastagliate, a ricordarmi che era stata mia la scelta.
– La tua casa ti attende, figlio – sibilò la figura mutevole, a tratti mostruosa, che non avevo affatto il desiderio di conoscere meglio o riconoscere come padre. – Non tardare, o altre barriere si infrangeranno con questa promessa.
Era la sua minaccia: impossibile immaginare che si fidasse semplicemente di me. Aveva legato la parola che gli avevo dato all'incantesimo con cui mia madre e le altre avevano protetto l'intera collina di Tana del Diavolo, quando li avevano cacciati dalle loro vite.
Non dissi mai a loro, né a Evangeline, che avrei potuto evitare ciò che mi accadde se solo le avessi amate di meno.

lunedì 27 dicembre 2021

L'ultimo sogno prima di morire


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Alain Frechette da Pexels


Non immaginavo sarebbe stato così. Ne avevo sentito parlare, come tutti, nella colonia, ma ovviamente nessuno era mai tornato indietro a riferire quanto incredibilmente realistico fosse questo posto. Faccio molta fatica a convincermi che la banchina lungo cui sto passeggiando, con tutto il suo brusio di voci e di vita, e le strida dei gabbiani, e gli spruzzi della risacca con il loro perfetto odore salmastro in realtà non esistono in nessun luogo se non nella mia testa. Sento le pietre sconnesse del selciato sotto la suola di stivali che probabilmente nemmeno sto indossando, e lo scricchiolio del legno che si adatta a un peso che non possiedo quando mi avvio lungo un pontile, coperto a tratti da quello nettamente più forte degli enormi scafi che ondeggiano ormeggiati a pochi metri da me. Per un istante considero la folle idea di salire su una nave e fuggire, ma quel pensiero ha il solo effetto di riempirmi ancora di più di sconforto. Anche volendo, non potrei andare da nessuna parte. Il mio corpo non è realmente qui.
È al centro detentivo della colonia Marte 1, nella sala delle esecuzioni, una stanza di un bianco asettico che somiglia molto a quella di un ospedale. Sdraiato tra monitor di controllo segni vitali, elettrodi per la neurostimolazione e tubicini di flebo.
Ho la fortuna di vivere, per quel poco che ancora mi resta, in una società civile, che sebbene riconosca la pena capitale come necessaria - sono troppo scarse le risorse della colonia per mantenere un ergastolano, e la Terra non accetta il ritorno dei coloni la cui fedina penale non sia immacolata - ritiene altresì che il dolore di quest'ultimo viaggio sia evitabile, persino per qualcuno come me. Perciò mi hanno lasciato scegliere tra una varietà di scenari pre-programmati in cui attendere di spegnermi dolcemente, e io ho optato per la ricostruzione di un'antica città portuale della Terra, perché la vastità degli oceani è ciò che più mi manca del nostro pianeta madre, e perché mi sembrava un perfetto simbolo di questa mia partenza per l'ignoto.
Ma ora sono bloccata qui, ad ascoltare il ritmo del martello di un fabbro che non è mai esistito rintoccare metallico da una bottega che si affaccia sulla banchina, a respirare un falso vento salato che s'insinua tra capelli immaginari, a scaldarmi la pelle a un sole fatto soltanto di impulsi elettrici nel mio cervello. E mi chiedo, ogni volta che chiudo gli occhi e c'è quell'attimo di buio, se sarà quella definitiva in cui tutto cesserà di esistere, perfino quest'ultimo sogno frutto della pietà. Ma ogni volta riapro gli occhi e sono ancora qui, tra marinai sconosciuti che a stento mi degnano di un'occhiata, affaccendati come sono tra cataste di casse e barili, e rotoli di cime a bordo delle navi. All'inizio, avevo paura. Paura di sentire qualcosa nonostante le promesse, paura di non sentire niente, paura di sparire all'improvviso, paura del dopo, se un dopo esiste, paura di sentire lentamente svanire parti di me, perdere a poco a poco i ricordi come gli alberi si spogliano delle foglie in autunno.
Ma niente di tutto questo accade e passeggio in lungo e in largo per il porto, fino a conoscerne ogni angolo a memoria, fino a riconoscere ogni comparsa di questo scenario. Dopo averne ascoltato tanto a lungo i discorsi, origliando da estranea, ignorata da tutti quasi fossi già un fantasma nel mio stesso sogno, li saprei persino chiamare ciascuno col suo nome. Ormai la stanchezza ha preso il posto della paura, e mi sorprendo a pregare che gli addetti alla somministrazione delle sostanze letali si sbrighino a fare il loro lavoro. Non ne posso più di vagare in questo teatro in cui sono la sola spettatrice, a questo punto meglio la morte. Che però si fa attendere.
Mi fermo al termine del pontile e osservo le onde susseguirsi eternamente uguali dall'orizzonte immoto. Ricordo, quando dormivo, di aver vissuto in pochi istanti del tempo reale sogni lunghi una vita intera. E se il tempo fosse distorto in questo sogno artificiale come lo è nei sogni notturni? Alzo gli occhi al volo dei gabbiani, e poi ne seguo uno tuffarsi in picchiata tra le onde. Guardandolo, avverto il desiderio di tuffarmi anch'io, non per ricercare refrigerio, o per nuotare nell'oceano per gioco, no. Quello che voglio è affondare, annullarmi nell'acqua, smettere di respirare. E allora capisco, o almeno credo di capire.
E se non esistesse nessuna sostanza letale per fermare il cuore dei condannati a morte, se perfino quello fosse stato giudicato troppo incivile per la nostra società moderna, se in realtà la morte fosse causata dal condannato stesso? In un vecchio film, chissà qual era, dicevano che morendo nel sogno, saresti morto anche nella realtà.
E allora sia, mi dico. Avanzo, basta un ultimo passo qui alla fine del pontile, e mi lascio cadere in acqua. Il mare mi colpisce freddo, salato. È meno facile di quel che pensavo perché io so nuotare, non annaspo disperata, e abbandonandomi alle onde galleggio. E allora mi giro e spingo giù, bracciate lente e forti attraverso un verde denso e opaco, cerco di tenere la bocca aperta ma ancora l'acqua non vuol saperne di entrare nei polmoni, la inghiotto e si fa pesante nello stomaco, amara sulla lingua. Nuoto e nuoto ancora verso il basso, lottando contro la forza che vorrebbe respingermi, fino a perdere le forze, e allora mi abbandono e attendo, mentre le ultime boccate d'aria sfuggono alle mie labbra sigillare e risalgono gorgogliando sotto forma di bolle. Sono stanca. Voglio solo che finisca. E invece, qualcosa mi afferra per le braccia, e con gli ultimi sprazzi di lucidità comprendo che è un altro corpo che aderisce al mio, gambe che nuotano, braccia che mi circondano. Sento l'aria sul mio volto umido e anche se non voglio aspiro avidamente, tossisco, e respiro di nuovo, mentre altre braccia ci aiutano a risalire, altri volti guardano me, bisbigliano rivolgendomi domande, come se finalmente, solo adesso, avessi cominciato a esistere per loro. Guardo il mio salvatore, un bel ragazzo abbronzato e atletico, con linee intricate di un tatuaggio tribale che gli percorrono l'avambraccio destro e folte sopracciglia sopra gli occhi scuri.
– Tutto bene, signorina? – mi chiede, e io riesco solo ad annuire.
– Le dispiace se resto qui ad asciugarmi assieme a lei?
Di nuovo annuisco, e lo osservo sdraiarsi accanto a me mentre la folla si disperde. Pian piano prendo coraggio e iniziamo a parlare, a conoscerci davvero. E non mi importa più se questo è solo un sogno, se lui, come il calore del sole che mi asciuga la pelle, o il rintocco di una campana sul ponte di una nave, o il volo radente di un gabbiano, è solo nella mia testa, non è reale, perché io li sento, li sento come se fossero veri, e non mi importa più se tutto questo può finire da un momento all'altro, perché la vita può finire da un momento all'altro, qui dentro a un sogno o là fuori, nella colonia.
Non so quanto tempo ho ancora, o se fermarlo è compito mio o di qualcun altro, ma adesso sono in questo sogno, l'ultimo sogno, e intendo viverlo, perché ciò che sono, ciò che ho qui, è la sola cosa che mi resta.

sabato 25 dicembre 2021

Rubicondo

Rubicondo [ru-bi-cón-do] agg. Di colore rosso acceso, perlopiù riferito al colorito del viso.

Etimologia: dal latino rubicundus, derivato di rubeo, "sono rosso", con la terminazione -cundus propria degli aggettivi.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Il rosso ha sempre avuto una certa attrattiva su di me. Prima ancora di diventare ciò che sono e attraversare i secoli, il rosso è stato il mio compagno e la mia maledizione. Adoravo l'inverno, le mani arrossate per il freddo e il mio volto pallido acceso da un pizzicore rubicondo. E quando picchiavo le ginocchia cadendo a terra e dai graffi sgorgava quel liquido cremisi, io restavo a guardarlo meravigliata, ignorando persino il bruciore che lo accompagnava.
Come se quel rosso significasse piacere, invece di dolore. Come se già sapessi che ero nata maledetta, con il sangue immortale della Lamia nelle vene che mi spingeva a cercare quel rosso, a nutrirmene, a farlo mio.
Le feste e i ricevimenti divennero il mio terreno di caccia. Non era raro che mi trovassi seduta a un tavolo con un perfetto sconosciuto a fare discorsi assurdi, resi credibili dall'alcol ingurgitato dal poveretto. Nessuno però era andato più vicino a indovinare cos'ero dell'uomo che incontrai a una cena di Natale.
– Andiamo, secondo te dovrei credere a un tizio rubicondo che consegna doni in ogni parte del mondo in una notte? E perché non alle fate? Agli unicorni? E che cavolo, persino i vampiri sarebbero più credibili di un grassone inventato solo per vendere giocattoli!
La voce al mio orecchio rise, poi sussurrò suadente: Il tuo prescelto non ha tutti i torti, Lamia. Scoprirà presto a cosa può credere e cosa no.
Non serviva che me lo dicesse. Avevo già visto fin troppe volte la sorpresa sui loro volti quando infine capivano, se erano ancora abbastanza sobri da rendersene conto. Ed era l'ultima cosa che avrebbero mai capito nella loro vita.
– Tu ad esempio saresti una vampira perfettamente credibile – proseguì lui. – Oh, se lo sei, dimmelo, eh?
Risi come se fosse una battuta.
Questo non puoi assolutamente fartelo scappare, mormorò la voce. Quanto ci divertiremo, quando lo scoprirà!
Sapevo che al momento opportuno, quell'uomo avrebbe preferito che Babbo Natale fosse più verosimile di un vampiro.

giovedì 23 dicembre 2021

Ferma immobile


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Elīna Arāja da Pexels


Che schifo. Che schifo, che schifo, che schifo.
Che. Schifo.
Non riesco a muovermi, né a pensare ad altro. Tapparmi il naso non migliora le cose, anche respirando con la bocca mi pare di sentire lo stesso l'odore nauseabondo dei liquami che gocciolano dalle pareti e dalle condutture che immettono rivoli scuri, interrotti talvolta dalla caduta di grossi pezzi di non voglio sapere cosa, nel flusso di melma che scorre vicinissimo a me, lambendo quasi la suola delle mie scarpe. Conati di vomito mi salgono alla gola, ma li trattengo, mandando giù saliva al retrogusto di bile.
Di nuovo, che schifo.
Quando esplori il livello delle fogne, nei videogiochi, non realizzi quanto l'esperienza sia traumatica. Ce n'è uno in ogni videogioco o quasi, ma di fronte allo schermo non sai niente della puzza, del freddo, dell'umidità, dei gocciolii e dei sibili inquietanti che ti fanno rabbrividire, e di quello strano squittio ai tuoi piedi che...
Abbasso lo sguardo, trasalisco e quasi faccio un salto a piedi uniti dentro il fiume di escrementi. Una bestia schifosa, un grosso ratto nero è arrivato con le sue luride zampette fin sulle mie scarpe prima che potessi accorgermene, che schifo, un sorcio! Vorrei cacciarlo via con un calcio, ma ancora non riesco a muovermi a parte quel salto istintivo sul posto, dopo il quale la bestia ha sollevato il muso per un'annusata guardinga.
Non riesco a muovermi ed è come se fossi preda di un incantesimo, mi limito a starmene lì ferma in piedi come una cretina, a sussurrargli: – Vattene! Va' via bestia schifosa, lasciami in pace!
Ma quello niente, dopo un'altra annusatina mi gira attorno e ritorna di fronte a me a esaminare le mie scarpe. E quasi mi sembra di veder comparire, in alto, la riga di testo: "NerdInPanico usa Persuasione su RattoImmondo. Persuasione non è efficace". Ma non c'è niente nell'aria a parte l'odore di fogna, nessuna scritta, è solo la mia immaginazione che galoppa per portarmi lontano da qui, in un posto e in una situazione che mi sono familiari per difendermi da questo orrore.
Dov'è andato Ned? Se l'è filata via dopo avermi trascinato qui sotto e adesso se ne sta al sicuro da qualche parte a ridere di me?
Una luce brilla nell'oscurità in fondo al tunnel. Si avvicina rapidamente, e prima che possa rendermene conto, ecco Ned con la sua lanterna. La mia mi trema nella mano.
– Lila, Dio, che fai ferma lì immobile? – mi apostrofa in tono duro, ma a bassa voce, quasi avesse paura di spaventare il topo che squittisce vivacemente accanto ai miei piedi. – Pensavo fossi dietro di me, come facevo a sapere che ti avevo perso, il camminamento è così stretto che se provavo a voltarmi di sicuro finivo in acqua con il senso dell'equilibrio tutto sfasato che ho, lo sai...
Grazie tante, Ned. Potevi provare a chiamarmi, per cominciare.
– Aiuto – bisbiglio, accennando al ratto che mi passa sulle scarpe per raggiungere l'altro lato. – Mandalo via.
– È solo per questo che ti sei fermata? Un misero topolino?
Topolino, lo chiama Ned. Come quello dei fumetti. Non lo vede quanto è grande? Come minimo è il re dei ratti questo, se non addirittura l'imperatore.
Voglio ribattere, ma sono troppo impegnata a trattenere i conati di vomito per un'altra zaffata putrida proveniente dal fiume di liquami.
– Dai, coraggio piccoletto. – Ned parla in tono dolce, come ci si rivolgerebbe a un cagnolino o a un bebè. – Non ne vale la pena, lei non ha niente di buono da offrirti.
Il sorcio si blocca, come preda del mio stesso incantesimo, che però nel mio caso aveva il nome di paura e disgusto, nel suo... non so, non conosco le belve del suo stampo, né voglio conoscerle. Poi scatta in avanti, verso Ned, che esibisce un sorriso di trionfo.
"StranieroImpavido usa Fascino su RattoImmondo. Fascino è estremamente efficace" immagino scritto a chiare lettere sulla sua testa, e avvampo nel ricordare come mi ha convinto a seguirlo in questa malaugurata avventura. Sì, Fascino è davvero estremamente efficace.
La bestia però lo oltrepassa e se ne va per la sua strada, e per la prima volta noto in mezzo al gocciolo continuo un tintinnio metallico, come di catene trascinate. Fantasmi? Se fossi dentro un videogioco, questo sarebbe un buon momento per un incontro a sorpresa, solo che i fantasmi si addicevano più a una casa infestata o a un vecchio castello che al livello delle fogne. Qui sarebbe stato più appropriato se un coccodrillo fosse emerso dalla melma maleodorante.
Avverto, dietro di me, un sibilo prolungato e stridente che cresce d'intensità fino a farsi ringhio, e qualcosa di viscido mi cola sulla spalla destra. Ned alza gli occhi, e anche la testa, fin quasi a scrutare la volta del tunnel in cui ci troviamo. Ha smesso di fare il furbo; l'espressione di timore, o di terrore trattenuto sul suo volto non mi piace per niente.
L'istinto stavolta mi dice di scappare, e sto quasi per raccogliere il poco coraggio che mi resta e darmela a gambe quando Ned biascica: – Ferma... immobile. Non fare un passo. Non muovere un muscolo. Resta. Dove. Sei.
Come se la mia giornata non poteva diventare più schifosa di quanto già non fosse. Sento la mascella contratta dall'espressione spaventata che invece io non trattengo. Lo sento salire in gola, ma non posso farci niente. Non è vomito, stavolta. È un urlo di terrore che trabocca dalle mie labbra e rimbalza in echi agghiaccianti tra le pareti umide di quelle ripugnanti fogne.

lunedì 20 dicembre 2021

Come ruote di un ingranaggio.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Miguel Á. Padriñán da Pexels


Il cielo era un livido viola e il mare era sopra, sotto, tutto intorno.
Nonostante il mio misero K-way giallo ero bagnata fradicia, zuppa fino al midollo per la pioggia e le onde di traverso che lavavano ponte e pozzetto. Talon era aggrappato con entrambe le braccia alla battagliola di sinistra, vicino a un candelabro, e sembrava sul punto di vomitare fuoribordo. Faticava a tenere le ali strette al corpo, con le raffiche di vento che gli soffiavano addosso senza tregua, e sospettai che per non volare via avesse piantato gli artigli dei piedi lì dove si trovava. Un'altra ferita per la mia Sabrina, ma non avevo tempo di pensarci.
Stranamente, ero calma, lucida, mentre attorno a noi si scatenava il finimondo. Lampi di luce squarciavano il cielo, seguiti dai boati, l'unica luce nell'oscurità e nella pioggia fitta, che riduceva la visibilità a poco più della lunghezza del nostro vascello. Che essendo una barca per navigare in solitaria, non era granché. Nel frattempo, il vento spingeva alla grande, anche senza vele, e cavalcavamo le onde a una velocità impressionante.
Mi fidavo di Sabrina. La mia barca, che portava il nome della mia gemella mai nata, era stata per mesi più che un mezzo di trasporto, era stata la mia casa e la mia unica compagnia. Avevamo affrontato assieme vento teso e bonaccia, certo, non mi ero mai trovata nel bel mezzo di una tempesta come quella, ma Sabrina aveva già dimostrato di saper prendere il vento, di essere resistente e affidabile. Assieme, eravamo una bella squadra.
Mi fidavo molto meno del mio ospite a sorpresa venuto da un altro mondo. Non aveva combinato altro che guai da quando lo avevo accolto a bordo, e anche in quella situazione, la sua presenza sembrava un inutile peso. Finché non cedette una scotta, liberando un angolo di vela che iniziò a sventolare a più non posso. Trattenni il fiato. Era solo un piccolo angolo, ma se anche il resto della vela si fosse liberato e avesse preso il vento, questo vento di burrasca che già senza vele ci faceva galoppare tra le onde, saremmo schizzati a una velocità folle e sarebbe stato difficile allora controllare la nostra direzione. E non avrei mai visto, se non quando era troppo tardi, se sotto il cielo livido e tra le onde agitate davanti a noi c'erano altre navi, o scogli, o la terraferma.
Stavo per lasciare il pozzetto per sistemare la faccenda personalmente, ma Talon, pallido come un cencio, si voltò verso di me, mi fece un cenno e poi avanzò, tenendosi alla battagliola, a cui si aggrappava di più a ogni scossone del ponte.
Non gli avevo detto niente. Non avevo chiesto il suo aiuto. Non ne sapeva quasi nulla di navi, e quel poco che sapeva lo aveva imparato da me. Incassò la testa tra le spalle all'ennesimo scoppio di tuono, vicinissimo, quasi sopra di noi, ma non si fermò.
Dovevo fidarmi.
Mentre tenevo il timone per controllare la nostra direzione, lo vidi raccogliere quel lembo di vela con le mani ad artiglio e serrarla contro l'albero, poi vi chiuse attorno anche le ali. Mi sorrise, la testa appoggiata di lato all'albero, novello Ulisse che ascoltava il canto delle sirene.
La tempesta durò quasi un'ora, ma a noi non parvero che pochi minuti. Al tramonto, il mare e il vento si placarono, mentre la nuvola nera che avevo visto all'orizzonte prima di finirci in mezzo si allontanava verso nord. Eravamo esausti, ma in qualche modo, anche soddisfatti.
– Bel lavoro di squadra – dissi a Talon, nel congratularmi con lui.
Lui mi guardò sbalordito. Forse quel concetto non esisteva nel suo mondo. Non avevo idea di come fosse la società della sua specie, da dove veniva. Non glielo avevo mai chiesto.
Ma sapevo come fargli capire che quel che avevo detto era un complimento. – Come le ruote di un ingranaggio – gli dissi, e il suo volto stanco si illuminò. – Della misura giusta, bene incastrate e bene oliate. Abbiamo fatto le cose per bene, assieme, oggi.
Talon capì, e io sperai in bene per il futuro del nostro viaggio. Ma sperare che un gremlin della Terra del Vapore la smettesse di smontare tutto quello che incontrava per capire come funzionasse e cercare di migliorarlo, purtroppo, era una speranza vana.

sabato 18 dicembre 2021

Avallare

Avallare [a-val-là-re] v.tr. [sogg-v-arg] 1. Garantire un titolo cambiario o un assegno bancario con dichiarazione firmata, coprire. 2. fig. Confermare, accreditare, avvalorare qualcosa.

Etimologia: derivato da avallo, dal francese aval, composto da a e val, ovvero "a valle, in basso"; il verbo francese avaler, "discendere, mettere in basso" è usato metaforicamente per "mettere la firma in basso in una cambiale".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by cottonbro from Pexels


– Non posso avallare questa pagliacciata! – sbottò la giovane donna che, entrata come una furia nella misera catapecchia delle favelas, non ci aveva messo molto a capire chi erano gli estranei che stavano parlando con la sua famiglia. Uno di loro avanzò per trattenerla, ma lei si sporse verso l'anziana e le altre donne: – Nonna! Vovó, non credergli, loro vogliono solo derubarti, sono degli imbroglioni, non fidarti!
L'estraneo che si era avvicinato minaccioso a lei la spinse verso la soglia, ma un ultimo sguardo all'anziana diede alla giovane donna un po' di speranza. Dubbiosa, l'anziana si voltò verso l'uomo che capeggiava quella strana combriccola. Quest'ultimo bisbigliò qualcosa alla ragazzina che stava con loro, e che dondolava le gambe seduta su una sedia storta. Lei annuì, e poi una luce tremolò sulle sue mani, splendendo da dentro i palmi giunti come in preghiera. Un mormorio reverente si levò dalle donne lì riunite: credevano di nuovo. Qualcuna giunse persino a invocare i Santi e la Vergine Maria.
Ma la donna sulla soglia no, lei seguitò a dubitare, e dall'angolo in cui era relegata gridò: – È un inganno! Ha qualcosa tra le mani, separatele le mani!
Nessuno però le diede ascolto. Alla fiamma di una candela, la donna anziana si chinò e avallò una cambiale con una firma sghemba. Era fatta.
La giovane donna guardò impotente mentre la ragazzina, la giovanissima curandera dalle mani miracolose, si avvicinava e riversava quella luce dalle sue mani al corpo emaciato di un bambino che tossiva e respirava a rantoli. Sapeva come sarebbe andata.
Un giornalista che stava seguendo la vicenda l'aveva avvertita: nessuno di quelli che la ragazzina dalle mani miracolose aveva trattato era mai guarito davvero, e ogni remissione dei sintomi, se c'era, era solo un effetto temporaneo della fiducia che gli ignoranti riponevano in lei.

giovedì 16 dicembre 2021

Probabilità di vittoria: 0,016%


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Nataliya Vaitkevich da Pexels


Non stava andando bene. No, non stava andando affatto bene.
Si trovava un po' in disparte, su una collinetta che dominava il campo di battaglia, circondata dai corpi dei nemici che avevano osato inseguirla fin lì. Nessun altro sfidante in vista, perciò nell'attimo di respiro che le era concesso poteva permettersi di osservare le sorti del conflitto, e di ascoltare il clangore del metallo e le urla dei feriti che suonavano una sublime melodia alle sue orecchie. Grida di incitamento si levavano dalle poche schiere della sua gente che ancora marciavano compatte, squarciando con colpi metodici e ritmati le protezioni primitive dei nativi e aprendosi un varco tra gli schieramenti nemici. Ma si trattava di una felice eccezione, poiché per la maggior parte la sua gente era dispersa, sopraffatta dalla ferocia e dalla disperazione dimostrata da quei rozzi estranei ricoperti di pelli e metallo. Come quegli esseri primitivi, incapaci di andare d'accordo tra loro e di far progredire la propria civiltà oltre il livello di sopravvivenza, fossero riusciti ad avere la meglio sulla più formidabile e potente armata mai conosciuta dalla galassia, frutto di millenni di affinamento di tattiche di guerra e di strategie militari, era un mistero impossibile da svelare.
Il comandante rimase ancora un po' sulla collina, a osservare la disfatta del proprio esercito. Per l'ennesima volta tra il clangore delle armi risuonò il richiamo del corno, e da est una rombante carica di cavalleria piombò sulle ultime compagnie della sua grande armata che ancora resistevano ordinate al caos della battaglia che imperversava e ormai li circondava da ogni lato. Il terreno tremò fin sulla collinetta dove il comandante osservava mesta i suoi venire infilzati dalle lance dei cavalieri nemici, e l'icore grigio della sua gente si allargò in chiazze cupe sotto i corpi immobili.
Il comandante distolse lo sguardo dal campo di battaglia e premette due dita della mano destra sul bracciale che portava al polso sinistro.
– Computer. Stima dell'esito finale da questo punto – ordinò il comandante. Di fronte a lei ogni combattente si bloccò all'istante, i colpi vennero trattenuti e le morti rimandate. Tutto fu all'improvviso silenzio, un silenzio inquietante che emanava da migliaia di bocche spalancate. Preferiva di gran lunga le urla, anche se la maggior parte di quelle di dolore provenivano dalla sua gente.
Nel silenzio, una voce melodiosa le rispose – Probabilità di vittoria: 0,016%, comandante.
Il comandante diede le spalle alla battaglia e ordinò in tono stizzito: – Computer: termina simulazione H70982w30.
Esausta, uscì dalla camera di simulazione dopo un tempo che le era parso infinito. Aveva provato milioni di scenari, senza trovarne uno che offrisse una concreta possibilità di riuscita nella conquista del pianeta. Quell'ultimo tentativo era stato forse uno degli scenari più favorevoli, con una probabilità di vittoria finale più elevata e una resistenza più lunga da parte della sua armata.
Fuori l'attendeva il suo secondo in comando. – Prepara le navi alla partenza – ordinò il comandante. – L'armata di invasione A49 non sbarcherà su questo pianeta primitivo. Non c'è alcuna gloria nel soggiogare una specie così arretrata.
L'altro si allontanò per trasmettere gli ordini, e il comandante finalmente si permise di dare sfogo alla sua rabbia. Era stata una sua illustre antenata, ora un generale pluridecorato, a dirle che talvolta l'unico modo per vincere era quello di non combattere.
Eppure nel rifuggire la battaglia le pareva lo stesso di essere stata sconfitta.

***

Nel frattempo, mentre migliaia di astronavi aliene si allontanano in fretta e furia dal sistema solare, sulla Terra un paio di ragazzi fissano lo schermo di un computer.
– Incredibile! – mormora uno, ad occhi sgranati. – Wow, che forza! Ma come hai fatto a completare questo livello? È una cosa impossibile!
– Dai, impossibile no – fa l'altro, con un sorriso sornione sotto gli occhialetti da nerd. – Solo altamente improbabile. Se non sai come fare.
Il primo, più cicciottello, gli dà un'amichevole spintone. – "Altamente improbabile", dice. Ma lo sai che ho letto sul Manuale dei Videogames che questo è il livello più difficile del videogioco più difficile mai creato? Roba da pazzi, con tutti i possibili scenari generati casualmente e la IA del gioco che risponde in tempo reale alle tue tattiche, hanno calcolato che la probabilità di vittoria è circa dello 0,016%... praticamente, gli alieni vincono sempre. Non c'è speranza, io ho rinunciato a giocarci settimane fa. Ma insomma, dimmi come hai fatto, come hai fatto, come hai...
Lo spilungone con gli occhiali sorride ancora un po', beandosi di quel momento di gloria, poi si china sulla tastiera e rivela: – Sì, in effetti se gli alieni invadono la Terra non c'è speranza, sono troppo forti, i personaggi e le armi che ottieni nei livelli precedenti non sono livellati abbastanza per un boss finale così pompato. È un game over sicuro. Io... diciamo che ho aggirato il problema. Stile Kobayashi Maru, per intenderci.
– Hai... – il ragazzo paffutello indica lo schermo, incredulo. – Hai imbrogliato?
L'altro storce la bocca e arresta la danza delle dita sulla tastiera. – Non è proprio imbrogliare. Ho semplicemente hackerato il computer di bordo degli alieni in modo che le simulazioni pre-battaglia li diano come perdenti in tutte le situazioni, così loro non sbarcano, non combattono, e io passo il livello di default. Ganzo, no?
– Ganzo, fratello! – concorda l'amico, che gli offre la mano per battere il cinque.

lunedì 13 dicembre 2021

Sogno o son desta?


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Rafael Cerqueira da Pexels


È un sogno. Deve esserlo, poiché io non ho mai visto una città del genere. Non ricordo nemmeno di aver camminato fin qui.
Le galline scorrazzano libere per le strade lastricate da pietre di forma irregolare, ovunque il chiasso e il vociare riempiono le piazze e le vie, una donna si trascina dietro una mucca. Fatico ad avanzare tra la folla, le case di stile antiquato, muri di pietra e tetti di legno, si stringono attorno alla strada, resa ancora più angusta da una serie di bancarelle e carretti che espongono mercanzia varia, dalle stoffe, alle spezie, a frutta e verdura e oggetti artigianali scolpiti nel legno o creati dal metallo fuso. Mi guardo attorno, girando su me stessa in quell'abbondanza, attratta dai richiami dei venditori e dagli abiti indossati da chiunque passi per la via, grezzi abiti da popolani dalle tinte neutre ai quali si mescolano ogni tanto le gonne di abiti più ricercati e dai colori vivaci, accompagnate da damerini in giacche e brache coordinate. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, al medioevo o giù di lì, in un giorno di mercato.
Ho già provato a darmi un pizzicotto, e no, non ha funzionato. Non mi sono svegliata.
Perciò mi godo questa gita, che sia sogno o realtà poco importa. Un rintocco di campana mi fa alzare lo sguardo verso l'alto, e non mi accorgo della folla che si apre al passaggio di un gruppo di guardie armate di picche, che marciano all'unisono calcando gli stivali. Vengo spintonata da chi mi sta accanto, barcollo e finisco addosso a un tizio con un arco e un cappuccio verde, che mi guarda austero sopra un paio di folti baffi neri. "Robin Hood" penso, ma non lo dico: quel dettaglio, ancora una volta, sembra confermare che mi trovo all'interno di un sogno. Cerco di arretrare ma una matrona corpulenta mi spinge di nuovo addosso all'uomo in verde, e allora svicolo di lato e fuggo via, incalzata dal rumore ritmato del passo marziale delle guardie, che pare quasi ricalcare quello del mio cuore. Non so perché, ma d'improvviso ho paura. Svegliati, mi dico, svegliati, basta sognare il profumo del pane appena sfornato e l'odore acre delle bestie e lo stuzzicante e goloso sentore della frutta conservata nel miele e la puzza di sudore e degli scoli all'aria aperta... e tra le voci bercianti, i muggiti, il chiocciare delle galline e gli spintoni, mi rendo conto che sembra tutto troppo reale per essere solo frutto della mia immaginazione.
Se non riuscirò mai a svegliarmi, come saprò se sto davvero sognando?

sabato 11 dicembre 2021

Salubre

Salubre [sa-lù-bre, frequente ma non corretto sà-lu-bre] agg. (superlativo saluberrimo) Che fa bene alla salute, salutare.

Etimologia: dal latino salubrem, composto da salus, "salute", e -brem, da bero, forma antiquata di fero, "portare".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Anna Pou da Pexels

La nebbiolina verdognola che esalava dal pavimento faceva sospettare un'atmosfera irrespirabile, perciò Vera trattenne il fiato mentre si affrettava ad attraversare il corridoio contorto, con le pareti piegate verso l'interno in angoli bizzarri, come se una gigantesca mano avesse schiacciato quella sezione dei laboratori. Mentre apriva la porta a tenuta stagna alla fine del corridoio, la ragazza pregò che dall'altro lato l'ambiente fosse più salubre.
Doveva sbrigarsi però, perché per quanto si fosse allenata a stare in apnea, l'agitazione e la paura non le rendevano le cose facili, e il suo petto lottava per inalare una boccata d'aria. Si trattenne finché la porta non fu chiusa alle sue spalle, poi non ce la fece più e prima di riuscire a esaminare le condizioni di quella sezione dei laboratori, Vera inspirò con un rantolo avido e fremente.
L'odore in quel respiro era lo stesso della tisana depurativa che zia Berta le faceva ingurgitare, quando da bambina i suoi genitori la affidavano alle sue cure. Non le era mai piaciuta, ma zia Berta sosteneva che era la bevanda più salubre che potesse bere, altro che quelle zuccherose porcherie industriali e le razioni di acqua inquinata che forniva il governo. Puzzava e sapeva di erbe rancide, era qualcosa di nauseabondo quella tisana, eppure in quel momento le mancava come si sente la mancanza di un dolore familiare, quando uno più intenso e sconosciuto giunge a cancellare le vecchie preoccupazioni.
Solo molto tempo dopo, una volta saputa la verità su quei ricordi, Vera si rese conto di quanto fosse stata sciocca a sentire la mancanza di un odore e di una persona che non erano mai esistiti se non in una memoria artificiale.

giovedì 9 dicembre 2021

Un tuffo nel passato

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Tim Grundtner da Pexels


Adoro i luoghi abbandonati e derelitti.
Esplorare antiche dimore dai muri scrostati dal tempo, con i corridoi ingombri di mobili marciti dall'umidità e ragnatele, oppure scheletri di casermoni mai completati, irti di selve rugginose che spuntano dal grezzo pavimento di cemento armato, è una mia segreta passione. Alla non troppo veneranda età di vent'anni e qualcosa, complice il mio essere senza famiglia e senza un tetto sulla testa, ne avevo visitati parecchi di quei luoghi, e in alcuni ci avevo anche passato la notte. Sono stata in un vecchio faro, e in un mulino accanto a un ruscello di montagna ormai prosciugato. Sono stata in autobus dismessi, vagoni di treno giunti al loro capolinea finale e imbrattati di graffiti, sono stata perfino in una carcassa di aereo abbandonata in una zona remota. Ma nessuno di questi luoghi mi ha mai spaventato quanto la nave arenata.
L'avevo trovata una mattina, in una di quelle brutte spiagge che si allungano pigre, lontane dalle mete turistiche e dalle rotte di chiunque non fosse un gabbiano. Le strida di quei ladri voraci, guai a fargli sapere che avevi un boccone di pane nello zaino per colazione, e lo sciabordio delle onde agitate da un freddo vento autunnale erano l'unico sottofondo ai miei pensieri che affondavano nella sabbia assieme ai miei passi. Lo avevo notato da lontano, seppure fosse inclinato e mezzo sprofondato in quello che non era decisamente il suo elemento, e avvicinandomi scoprii con piacere lo scafo ricurvo di un galeone o di qualcosa di simile. Non m'importava che l'albero di mezzo fosse spezzato e gli altri completamente assenti, o che le assi fossero divelte in più punti, anzi, meglio così, perché almeno sapevo da dove entrare senza dovermi arrampicare fin sul ponte.
Dovevo esplorare quella meraviglia. Mi guardai attorno, per assicurarmi che non ci fosse nessuno che con le sue regole e regolette cercasse di trattenermi dall'assaporare quell'avventura. Accesi la mia fidata torcia e via, dentro dal più vicino pertugio.
La mia prima esplorazione, contrariamente alle mie aspettative, non fu poi così entusiasmante. La maggior parte dello scafo era invasa dalla sabbia, e quel che restava era un'ampia stiva completamente vuota: se c'era stato qualcosa, barili o altro, doveva essere stato portato via molto tempo fa. Quanto alle cabine, che probabilmente si trovavano oltre il piano inclinato sopra la mia testa, mi era impossibile raggiungerle da dentro la nave: l'unico moncherino di scale che pendeva da lassù si trovava dal lato dove il soffitto era più alto.
Lasciai a malincuore il relitto per recarmi alla più vicina cittadina, dove avrei potuto racimolare a sufficienza per un pasto e una lunga corda, da abbinare quest'ultima a un gancio che avevo raccattato nel corso delle mie esplorazioni per farne così un rampino utile a proseguire la mia avventura all'interno del galeone.
Era sera quando tornai sulla spiaggia, ed ero stanca, perciò mi rifugiai in quella vecchia stiva bucherellata che almeno offriva un po' di riparo a un vento sempre più intenso, foriero di tempesta, e mi addormentai sulle assi di legno.
La mattina dopo ebbi un risveglio inquieto. Il mare sembrava essersi fatto maledettamente vicino, quasi a lambire e leccare l'esterno della stiva, e il legno cigolava e gemeva sotto i colpi delle onde.
Non avevo previsto che la marea si alzasse tanto.
L'odore salmastro impregnava le assi, molto più intenso della sera prima, e tra le strida degli odiosi gabbiani, così vicini che pareva mi stessero volteggiando sopra la testa, udivo ogni tanto un clangore metallico, come di catene tirate o fatte scorrere, e l'eco dei passi, e molti, troppi rumori che non comprendevo, forse qualcosa come lenzuola sbattute e colpi di martello e chissà cos'altro. Ero nella terra di mezzo del dormiveglia e non me ne curai più di tanto, almeno finché non fui completamente svegliata dai rintocchi di una campanella e da un sobbalzo delle assi sotto la mia schiena.
Mi resi conto con orrore che il pavimento che avrebbe dovuto essere immobile ondeggiava, e che il mare, l'immenso mugghiante mare si stendeva al di là di un sottile strato di legno.
Non ero più sulla spiaggia, e non ero più in un relitto abbandonato.
La stiva era ancora ingombra, ma non di sabbia, bensì di barili e casse assicurate al loro posto da catene. Nelle prime ore sfruttai gli stretti spazi tra il carico per nascondermi dagli uomini che ogni tanto scendevano e alla luce di una lanterna prendevano qualcosa da un barile o esaminavano il contenuto di una cassa.
Non sapevo se erano fantasmi di un'altra epoca o se per qualche scherzo del destino ero finita davvero nel passato, ma quei brutti ceffi non mi piacevano e non volevo che mi scoprissero.
La mia fortuna non durò a lungo: mentre osservavo un tizio allampanato contare le mele sul fondo di un barile, questione preoccupante dato che ne avevo sottratta più di una per sfamarmi, non mi accorsi che il suo compare energumeno aveva fatto il giro e avvicinandosi da dietro mi afferrò per un braccio e mi portò allo scoperto.
Fine dei giochi, pensai, dato che entrambi portavano coltellacci ricurvi alla cintola.
Invece i due mi portarono dal capitano, che mi interrogò con un linguaggio antiquato per sapere chi fossi e come fossi riuscita a salire sulla sua nave e a passare inosservata per tutte le settimane di navigazione. Inutile spiegargli che mi trovavo a bordo da meno di un giorno: non mi avrebbe creduto. Il suo sopracciglio alzato quando gli diedi del lei per cercare di mantenere un tono rispettoso verso qualcuno che poteva disporre della mia vita, così come il suo disprezzo per il mio abbigliamento "da giovanotto più che da signora" mi imbarazzarono, ma non ci misi molto per adattare il mio eloquio al suo, senza esagerare per non dargli l'impressione che lo stessi scimmiottando.
Dovevo essermela cavata bene, poiché invece di mandarmi a fare un tuffo tra gli squali come capitava ai clandestini nelle storie marinare che avevo sentito dai senzatetto con cui avevo condiviso il pane, il capitano mi mise a pulire il ponte e a dare una mano per qualche altro lavoretto a bordo, così da pagarmi il passaggio fino al prossimo porto. Alcuni marinai però non erano convinti che quello fosse il modo migliore di pagarmi il viaggio, e ogni tanto qualcuno cercava di allungare le mani, ma si prendeva immancabilmente una bella batosta con il manico dello spazzolone, o un calcio tra le gambe o una gomitata sul naso.
Non era la prima volta che avevo dovuto difendermi: lo avevo imparato per strada.
In quegli spazi ridotti però, dove non potevo scappare altrove per passare al sicuro la notte, dormivo male e poco, sempre all'erta, timorosa di ogni passo che si avvicinava mentre stavo per scivolare in un sonno leggero.
Il peggio arrivò in una notte senza luna. Dopo molti tentativi infruttuosi di avvicinarmi singolarmente, di giorno o di notte, i più intraprendenti tra i miei ammiratori avevano infine deciso di unire le forze e dividersi il bottino. Riuscii a malapena a evitare che mi chiudessero in un angolo, ma quando sfuggii alle loro grinfie e chiamai aiuto, scoprii che i pochi amici che avevo sulla nave non erano poi così tanto amici come pensavo. Ero da sola contro il branco di bruti.
Uscii sul ponte nella speranza di farli desistere dall'aggredirmi sotto gli occhi della vedetta e del timoniere, ma invano. Avevano scelto bene quella notte, ogni singolo uomo sul ponte era uno dei loro, fin troppo desideroso di voltarsi dall'altra parte pur di ottenere il proprio turno una volta che i primi fossero stati soddisfatti.
Salii sulla murata, non avevo altro posto dove cercare rifugio che tra le sartie, conscia che anche lassù tra le corde e le vele quegli uomini di mare avrebbero potuto raggiungermi, certo, ma difficilmente mettere in atto i loro propositi. Prima di potermi arrampicare però una mano mi raggiunse, una forte spinta mi fece perdere l'equilibrio e caddi fuoribordo.
Mi mancò il fiato quando, invece di un tuffo tra onde agitate, la mia schiena fu percossa da un muro di sabbia. Alzai gli occhi: sopra di me il relitto del galeone giaceva inclinato nella sabbia, con l'albero spezzato proteso in maniera sinistra verso di me nel bagliore latteo di una luna quasi piena.
La stessa della notte in cui mi ero incautamente addormentata nella stiva di un vecchio vascello e avevo fatto un tuffo nel passato.
Non tornai là dentro, né quella notte, né il giorno dopo. Avevo esplorato a sufficienza ogni angolo di quella nave.
Abbandonai il relitto e il suo equipaggio perduto nel tempo senza più voltarmi indietro, e ancora adesso, al pensiero di quel mio impossibile viaggio e del pericolo che avevo corso, un lieve tremore mi scuote le membra e resto sveglia ad ascoltare i passi dei fantasmi che tornano a vivere nei miei sogni.

lunedì 6 dicembre 2021

Occhi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Lisa da Pexels


Non so più da quanto tempo sono chiuso qua dentro, i giorni e le notti si susseguono uguali, nella stessa identica penombra scandita dal gocciolio dalle pareti umide e dall'occasionale zampettare dei topi che infestano questa prigione. Prigione, esatto, prigione, sebbene non abbia commesso alcun crimine, e nessuno mi abbia giudicato colpevole, non saprei in che altro modo definire questi corridoi labirintici e sozzi, su cui si aprono piccole stanze vuote separate da grate metalliche. Ogni tanto, in lontananza, le sento cigolare e scorrere, e qualcuno urla, ma non ho mai visto altri prigionieri, né guardie qua dentro, perciò non so davvero chi possa aver gridato, o fatto scorrere le catene negli anelli di ferro infissi nelle pareti.
Non so che giorno è. Non so dove mi trovo, o perché sono qui. Non so se c'è qualcun altro, o se sono solo, ed è l'isolamento a indurmi a immaginare di avere dei compagni di sventura. Una cosa però la so per certo: le pareti hanno gli occhi. Piccoli occhi malevoli che mi fissano, scrutano ogni passo che compio, ogni gesto che faccio. Esaminano, vagliano, studiano. Oh no, non li ho mai visti, ogni volta che mi giro spariscono, o si chiudono confondendosi con i muri, eppure so che ci sono. La sensazione di essere continuamente osservato è troppo forte per essermela immaginata, più intensa di quella che avevo all'inizio, che le pareti mi si stringessero addosso, soffocanti, claustrofobiche lastre di granito pronte a stritolarmi. Ora no, dopo... forse mesi passati qui dentro, il loro abbraccio è quasi confortante. Ora mi spaventano gli spazi aperti delle celle, i corridoi più larghi che ogni tanto incrociano il mio vicolo, e le porte aperte. Mi sono abituato a tutto questo, io qui dentro ci sto bene. Ma non mi sono mai abituato alla morbosa curiosità degli occhi.
Loro mi guardano. Sempre. Non ho mai un momento di pace, mai un momento per me da quando sono qui, e mi sembra di impazzire. Ho tirato pugni alle pareti, per farle smettere di guardarmi. Ho grattato, e scavato, e cercato perfino di morderle, per cavare loro gli occhi, tutti quegli occhi, grandi e piccoli, blu e neri, tondi sottili infossati sporgenti occhi...
Ma è tutto inutile.
Loro non smettono mai di guardarmi.

***

Quezy scosse una delle sue tre teste. – Ancora a guardare il nuovo Prigionereality? – chiese al più giovane dei suoi cloni. Il più malriuscito, a sua detta: lei, a quell'età, non era mai stata ossessionata da simili perditempo. – Adesso basta! – sbottò Quezy, poi afferrò con i sui tentacoli il multicomando e spense il collegamento virtuale.
– Ma noooooo! – protestò il giovane clone, emerso di botto dal torpore del collegamento. – Proprio adesso che hanno inserito quel nuovo ospite... un alieno dall'aspetto così strano! E si comporta in modo strano, pure. La sua scheda dice che la sua specie viene da un pianeta mai sentito prima, si chiama, se non ho capito male, qualcosa come Tera... Terza... Terra? Ah, dovresti vederlo, è così buffo...
– Non m'importa come si chiama o com'è fatto o che cosa fa – blaterò Quezy con le sue cinque bocche, mentre la miriade di occhi sulle teste, sul torace e sui tentacoli erano tutti puntati sul clone. – Se non riordini subito la tua stanza, altro che Prigionereality, ti spedisco in una reale prigione, e senza nessun occhio che ti possa guardare!

sabato 4 dicembre 2021

Penuria

Penuria [pe-nù-ria] s.f. 1. Mancanza, scarsità di cose indispensabili o necessarie; carenza, difetto. 2. Carestia.

Etimologia: dal latino paenuria, forse derivato da paene, "quasi", forse per indicare incompletezza.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Kate Trifo da Pexels


Nina della sua infanzia ricordava la penuria desolante sui ripiani del frigorifero. Non è che la sua famiglia non avesse soldi per procurarsi il necessario per sopravvivere: nonostante quella fosse una sorte comune tra gli abitanti del quartiere spagnolo, che come diceva mamma, faticavano ad arrivare a fine mese, la sua famiglia invece poteva godere di un destino migliore.
Il lavoro di sua madre era importante, ma lei non ne parlava mai, e tornava a casa sempre stanca. Non aveva mai tempo di andare alla bottega dietro l'angolo come tutte le altre mamme del quartiere. Quanto a suo padre, non lavorava, ma era sempre fuori casa lo stesso, e comunque quando la mamma di Nina gli rinfacciava che avrebbe potuto farla lui la spesa, lui replicava che non era un mestiere da uomini, che avrebbe dovuto pensarci lei alla casa e alla cucina. E così, per non sentirli litigare, Nina ogni tanto se ne andava in giro per il quartiere sulle sue piccole gambe, con un paio di banconote prese dal nascondiglio sotto il lavello della cucina, o dal barattolo dei biscotti, e si recava per conto suo alla bottega.
Adorava vedere gli scaffali pieni, le scatole colorate, i sacchetti gonfi e profumati, da far venire l'acquolina in bocca. La bottega dietro l'angolo non l'aveva mai tradita.
Solo il giorno in cui sua madre non tornò a casa e tutti ebbero paura di quello che era successo, Nina scoprì che la penuria, come una strana malattia che si diffondeva assieme alle brutte notizie, poteva colpire anche quel paradiso di abbondanza e svuotare fino all'ultimo dei suoi scaffali.

giovedì 2 dicembre 2021

Il tesoro del tempio


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Jose Aragones da Pexels


Il momento più favorevole per portare a termine il colpo era la notte subito dopo l'iniziazione di un cadetto, poiché quella era l'unica occasione in cui i morigerati Paladini di Andronicus si lasciavano andare ai festeggiamenti, e crollavano addormentati, in alcuni casi, ben prima di raggiungere le proprie austere celle. Così mi aveva detto il mio contatto nelle cucine, specificando che quelle erano le uniche notti in cui nessuno si sarebbe recato tra le navate del tempio per pregare o anche soltanto per una ronda. Avevo via libera, dunque, e ne avrei approfittato.
Ma prima, dato che anch'io per quanto ne sapevano ero un cadetto di una rispettabile famiglia che aspirava a intraprendere la via del Paladino, mi era toccato assistere all'interminabile cerimonia di investitura del fortunato di turno, una noiosa e prolungata lettura del Codice di Andronicus accompagnato da canti solenni, rintocchi di campane e gesti rituali, le stesse inutili bazzecole che stavano inculcando anche a me.
A una cosa però mi era servito tutto quel cerimoniale: dopo tanto tempo in cui erano stati soltanto esposti, durante i riti che si svolgevano nel tempio ogni santo giorno, alcuni paramenti sacri, qualche gioiellino e un paio di stoviglie d'oro incrostate di gemme preziose, finalmente il tabernacolo dietro l'altare, quello che conteneva il vero tesoro, era stato aperto dal capo dell'ordine proprio di fronte ai miei occhi.
Avevo prestato la massima attenzione ai movimenti dei suoi gomiti, per poter in seguito ricostruire lo scorrere delle sue dita, celate dal suo corpo, sui tasselli del rompicapo che chiudeva il tabernacolo. Ero stata attenta, anche, a notare come si presentava il mosaico sul riquadro, sull'anta del tabernacolo rivolta dalla mia parte, una volta che questo venne aperto dal capo dell'ordine. Mentre tutti ammiravano le reliquie benedette, io memorizzavo la forma creata dai tasselli.
La cena che ne era seguita era una pura formalità per me, che già fremevo per concludere al più presto l'ultimo "rito" dei Paladini di Andronicus a cui avrei assistito in vita mia. Quella mascherata era durata fin troppo, e non vedevo l'ora di arraffare il tesoro e andarmene da quel luogo di insulse virtù e comandamenti rigidi. Mi ero annoiata abbastanza a fingermi uno di loro.
Era andato tutto bene. Era proprio una fortuna che quei bellimbusti fossero così accecati dalle loro luccicanti armature da non riuscire nemmeno a immaginare che qualcuno come me potesse violare le loro regole. Si erano solo preoccupati che avessi i requisiti giusti, quelli abilmente falsificati dalla banda a cui mi ero unita, poiché di solito chi tentava di intrufolarsi tra i loro ranghi senza averne il diritto erano uomini dalla moralità discutibile o non abbastanza nobili per i loro gusti.
Mai avevano dovuto verificare che l'uomo che si presentava alla loro porta fosse realmente un uomo.
Mi attardai alla tavola quanto bastava per assicurarmi che quanti erano rimasti non avessero altra intenzione che quella di andare a letto o crollare sul posto, poi mi finsi uno dei primi e sbadigliando e barcollando mi allontanai verso gli alloggi dei cadetti. La campana batteva le ore della notte, e i canti biascicati dei Paladini rimasti nel refettorio si affievolivano dietro di me.
Quando raggiunsi il punto in cui il modesto corridoio si immetteva in un altro più ampio, svoltai dalla parte opposta agli alloggi. Non c'era nessuno nei dintorni per indicarmi che stavo andando nella direzione sbagliata, nessuno a inseguirmi alla luce delle fiaccole che gettava lunghe ombre sul pavimento, nessuno tra le navate del tempio in cui i miei passi risuonavano lievi. Mi mossi con attenzione, per causare meno rumore possibile. L'eco non aveva mai riecheggiato così intensamente tra le colonne e la volta del tempio, quando questo era gremito di Paladini e di cadetti. Quasi rimpiangevo quei canti salmodiati, così tediosi, ma tanto utili per coprire i rintocchi delle mie suole sul pavimento di marmo.
Aggirai l'altare con una frenesia euforica che mi costringeva ad accelerare il passo. Era quasi fatta. Quasi.
Le mie dita trovarono i tasselli levigati da tanti tocchi, e iniziai a spostarli secondo i movimenti che avevo ricostruito mentalmente durante la cena. Ero sicura di avere la sequenza giusta, sicura come lo sarei stata se me l'avesse insegnata il gran capo in persona. Un ghigno mi piegò le labbra quando alla fine mi apparve il riquadro composto nel modo in cui l'avevo visto quel pomeriggio, e udii il lieve clic della serratura.
Aprii il tabernacolo e non mi voltai quando udii nel tempio il rimbombo dei passi di un altro uomo, solo pensai con disprezzo quant'era goffo il mio complice infiltrato nelle cucine, ovvio che non avrebbe mai potuto interpretare la parte di un aspirante Paladino. Ero certa che non poteva trattarsi di altri che di lui, perché chiunque altro mi avesse sorpreso lì in quel momento avrebbe in primo luogo dato l'allarme. Sfiorai con le dita il prezioso tesoro dentro il tabernacolo, constatando che c'era molto di più di quello che ci era stato mostrato nel pomeriggio, ma non feci in tempo ad afferrarlo che una stretta decisa mi afferrò per una spalla, mi tirò indietro e un'altra mano si infilò sotto il colletto della tunica e mi strappò fino al petto la veste, mettendo in mostra la fasciatura con cui avevo celato le mie scarse curve.
Poi venni gettata a terra, e un urlo risuonò tra le pareti del tempio: – Cagna sacrilega, come hai osato!
Fissai il Paladino con aria di sfida. Allora non erano tutti così stupidi. Ma era uno soltanto, e se il mio complice si sbrigava a raggiungermi, avremmo potuto sopraffarlo e svignarcela col tesoro.
Invece, dalle ombre dietro le colonne emerse una fila di Paladini. Per Galam, che sfortuna nera!
– Profanare questo sacro luogo – enunciò severo l'anziano capo dell'ordine, e dopo una smorfia disgustata proseguì: – Lordare con la tua carne lasciva le sacre reliquie! Tu, demone oscuro della lussuria, che vieni tra di noi abbigliata in modo così sconcio per tentarci!
E tanti saluti alle cavalleresche regole di galanteria contenute nel loro codice. Scoppiai a ridere.
– Vi assicuro che giacere con uno di lorsignori era l'ultima cosa a cui miravo – pronunciai in modo chiaro, la voce ancora impostata sul tono profondo che avevo usato per impersonare un giovanotto, nonostante fossi stata scoperta. Come, non lo sapevo, ma dal momento che il mio complice non si era visto, potevo solo supporre che lui avesse cantato. Questo poteva spiegare come sapessero del nostro piano per rubare il favoloso tesoro del Tempio dei Paladini di Andronicus, ma non come avessero scoperto che ero una donna, perché questo il mio complice di certo non lo sapeva.
Quel dannato traditore. Non mi faceva pena neppure se lo avessero torturato per estorcergli le informazioni.
Feci per alzarmi, ma a un cenno dell'anziano Paladino, gli altri sguainarono le spade. Altri Paladini bloccavano le porte di accesso del tempio, e la porticina che conduceva alla sacrestia.
– Come lo avete scoperto? – chiesi, non perché mi interessasse, ma giusto per prendere tempo, mentre cercavo una via d'uscita da quella brutta situazione. Le vetrate che davano sull'esterno? Forse, se fossi riuscita a infrangerle e ad arrampicarmi...
I Paladini però non caddero in quel tranello, nessuno di loro si perse nell'inutile compito di dar fiato alla propria vanagloria e supposta superiorità morale. Forse non intendevano ammettere quanto avessero deviato dal loro prezioso codice per smascherarmi, o si vergognavano di essere stati ingannati tanto a lungo prima di scoprirlo.
Il Paladino che mi aveva atterrato mi afferrò per le braccia e mi costrinse a rialzarmi, poi mi legò i polsi dietro la schiena. Li guardai tutti, come a sfidarli ad abbassare lo sguardo allo strappo sul davanti della mia tunica, che pure metteva in mostra solo le bende che mi fasciavano il petto.
– Sai qual è la punizione per il tuo crimine, vero, ragazza? – chiese in tono truce il Paladino alla destra del gran capo.
Non risposi, non ce n'era bisogno. I Paladini avevano il loro codice, ma anche io avevo il mio. E il mio diceva che finché avevo fiato in corpo, potevo ancora ingannare, blandire, manipolare chiunque, chiunque, persino la morte.

lunedì 29 novembre 2021

Tienimi la mano


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Masha Raymers da Pexels


Tienimi la mano.
Tienimi la mano perché qui dove sono è buio, e tetro, e spaventoso. Tienimi stretta e non lasciarmi cadere nel baratro che sento premere sotto questa fredda lastra di marmo, quell'abisso silente e in attesa tra i sussurri empi che instillano un significato nel labirinto di follia che ho in mezzo alle orecchie. Lo stesso vuoto che mi afferrava per i piedi lassù in montagna, quando abbarbicata a una grigia parete di roccia mi tenevi la mano e non volevi lasciarmi andare, per quanto il braccio ti facesse male, per quanto il sudore t'imperlasse la fronte come un diadema rovente. Tu non volevi, lo so che non volevi, ma la fatica era troppa, ed eri solo una ragazza mortale.
Lassù in montagna, più vicini al sospiro degli Dei, o forse dei demoni, chi può saperlo che cosa c'è oltre il cielo, forse abbiamo sempre capito il mondo al contrario, forse è cadendo che si arriva al paradiso. Il vento gelido c'investiva e al suo soffio dondolava la corda spezzata, assurdo metronomo che contava il tempo in cui tu resistevi tenendomi la mano.
Sapevamo entrambe che non ce l'avresti fatta. Non c'era modo di salvarmi. Nella mia testa, stavo già precipitando.
Allora non so perché anch'io ti tenevo la mano, forse per avere qualche altro istante del tuo viso affaticato prima di lasciarti, forse per quell'istinto che non si rassegna nemmeno di fronte all'inevitabile, l'istinto per la vita, per la continuazione della vita: lo stesso che spinge a generare figli, a preservarli da ogni pericolo. L'istinto che i genitori scambiano per affetto.
I miei genitori. Li sento bisbigliare qui vicino adesso mentre ti tengo la mano, avverto la loro disapprovazione, loro non hanno mai voluto che andassi ad arrampicarmi con te, potendo, mi avrebbero tenuta in casa, al sicuro, lontana dalla tua cattiva influenza. E guarda cos'hai fatto li sento dire, non dovevano lasciarmi andare, non dovevi lasciarmi andare.
Ti tengo io la mano ora, anche se la tua stretta è molle, inesistente, anche se altre dita dalle unghie lunghe e appuntite come artigli lottano per separarci. Quando ci riescono sei tu che precipiti, destinazione ignota, mentre io sono al sicuro, sdraiata sul freddo marmo, sotto l'oscurità di un tempio dedicato a divinità terribili. In cerchio, sacerdoti e sacerdotesse che non smettono di bisbigliare le loro preci immonde, le vesti nere e scarlatte, i volti coperti da maschere deformi.
La maschera di un teschio d'ariete dalle corna ricurve sopra una lunga tunica color del sangue si allontana dallo spazio ormai vuoto tra di noi, dal tuo braccio abbandonato e inerte, e si fa incontro a una coppia che non riconosco.
– È fatta, – dice loro, – una vita restituita per una vita sacrificata. I nostri Dei mantengono sempre le promesse, soprattutto se c'è di mezzo una così dolce vendetta.
La sua voce, falsa e melliflua, nasconde un'eco graffiante, come veleno versato nel miele. Ma già si perde nella gioia feroce dei due estranei che mi osservano dall'alto, una gioia che stride in questo luogo di morte e disperazione. Mi aiutano ad alzarmi, e adesso ti vedo: rapita, legata, distesa in modo scomposto su quella lastra di ossidiana venata di bianco, la gemella inversa del marmo che sosteneva il mio corpo. Il tuo viso contorto dal terrore e una macchia scarlatta sul tuo petto sono i segni della vendetta perpetrata, perché coloro che mi abbracciano e mi aiutano a rimettermi in piedi avrebbero potuto scegliere chiunque altro ma hanno scelto te, hanno voluto uccidere te per riavermi indietro. E io, che ho perdonato te, non posso perdonare loro.
I bisbigli ci accompagnano mentre ci allontaniamo verso le porte di quel tempio sacrilego. Mi volto, e dietro il teschio cornuto che cela l'identità della gran sacerdotessa colgo un cenno d'intesa. Identico, il lievissimo cenno che le rivolgo.
Poi sorrido a coloro che ti hanno uccisa, e che non sanno che qualcos'altro, qualcosa di oscuro e terribile, è tornato con me. Oh, ma lo sapranno, presto lo capiranno.
I miei Dei mantengono sempre le promesse, soprattutto se c'è di mezzo una così dolce vendetta.

sabato 27 novembre 2021

Aleatorio

Aleatorio [a-le-a-tò-rio] agg. (pl.m. -ri) Che è in balia della sorte, del caso; incerto, imprevedibile.

Etimologia: dal latino aleatorius, derivato di alea, "gioco di dadi".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di lilartsy da Pexels


Non ho mai contato sulla fortuna. Il lancio di una moneta, il gioco dei dadi e altri passatempi dall'esito aleatorio li lascio a chi non è in grado di controllare la propria sorte.
Per questo Duel mi piaceva così tanto. Vincere o perdere non era questione di fortuna, non dipendeva da un evento al di fuori del mio controllo. Certo, non potevi mai sapere chi sarebbe stato il tuo prossimo avversario, o quali assi avrebbe portato in gioco nascosti nella manica, ma potevi sempre prepararti per ogni evenienza. C'erano un numero limitato di possibilità... estremamente ampio, questo è vero, molte più di quante ce ne sarebbero state se la sfida si fosse svolta nella realtà invece che nella distorsione, ma comunque un numero limitato. Non posso dire che conoscevo a memoria il catalogo delle Chiavi da battaglia, le componenti non prettamente cosmetiche che si potevano aggiungere al proprio personaggio nella distorsione, ma lo avevo studiato in buona parte, perciò sapevo più o meno cosa aspettarmi quando vedevo l'aspetto del mio avversario.
Lo ammetto: Stefanus mi aveva sorpreso la prima volta che lo avevo affrontato, ma questo solo perché aveva usato una tattica insolita per un mago. Quei bastardi tendono a scappare o, se hanno una Chiave-incantesimo con quella funzione, a teletrasportarsi lontano da un avversario armato di spada prima di bombardarlo con gli incantesimi. Lui no.
Prima di affrontarlo una seconda volta, avevo ripassato le Chiavi-incantesimo che potevano avere come componente cosmetica un cristallo o una pietra preziosa, perché era ovvio che Stefanus il Mago dei Cristalli non avrebbe mai scelto qualcosa che esulasse dal suo personaggio. Conoscevo la sua tattica e avevo preso le adeguate contromisure. Ero certa che impegnandomi avrei potuto vincere.
No, non mi piacciono i giochi aleatori. Io creavo il mio destino.

giovedì 25 novembre 2021

Le stelle nello stagno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


Sopra la tana degli umani il cielo è gonfio di stelle, e io mi sento meglio. Le pareti strette della loro tana mi facevano sentire in trappola, ma qui sono libera, più leggera. Non è come a casa, il cielo sembra più vicino qui, più basso, come se anche la notte volesse porre un limite allo spazio in cui è possibile spingere lo sguardo.
Tanti miei simili non hanno mai visto quei bagliori nel blu, non sanno nemmeno che cosa siano. I rami degli alberi nella palude sono tanto fitti da impedire a ogni briciola di luce, di giorno o di notte, di giungere fino a terra. Ma io sono una creatura dell'aria, mi piace arrampicarmi, e di notte mi sono spesso spinta più in alto di tutti, fin da quando ero solo un cucciolo. Me lo ha insegnato mia madre a non aver paura dell'altezza e degli spazi aperti, lassù, sui rami più sottili, fino a sbucare con la testa sopra le ultime foglie, sotto uno stagno alla rovescia, scintillante e talvolta velato dalla nebbia che sta in alto.
Ci andavamo solo quando la rana-talpa, quel buffo animaletto senza occhi ma dall'udito finissimo, si arrampicava fuori dalla sua tana nel fango e gracidava il suo richiamo insistente, che veniva interrotto solo quando un'appetitosa falena ronzante passava nei pressi. Il ronzio cessava, e dopo poco, ritornava il canto della rana-talpa. Nessuno che io conoscessi era mai riuscito ad acchiappare una rana-talpa, tale era il suo udito che sentiva fin da distante i nostri passi e si rintanava nel fango prima che la raggiungessimo. Cercare di afferrarla scavando nella riva a quel punto era come tentare di afferrare l'acqua a dita aperte.
Sorrido a quel cielo familiare mentre mi rannicchio in un angolo per cercare di dormire. In mezzo agli umani, anche se potevo sembrare una di loro, il mio istinto mi diceva di restare vigile come una rana-talpa, e di non farmi prendere, se fossero venuti lassù per me. Non ero al sicuro lì all'aria aperta, diversamente da come mi ero sentita tra le braccia di mia madre, la prima volta che mi aveva portato a vedere lo stagno del cielo sopra le cime degli alberi. Le avevo detto che era bello, ma che faceva anche paura, perché c'era così tanto spazio vuoto tra noi e quello stagno scintillante. Era troppo lontano per potermici tuffare.
Lei poi mi aveva indicato un punto verso l'orizzonte, dove gli alberi si facevano meno fitti, e infine cedevano il passo a bassi laghi ricoperti da canneti, ninfee e altre piante palustri. Aguzzando la vista, mi era sembrato di scorgere qualche bagliore aggirarsi tra le canne, come se la terra fosse stata il riflesso dello stagno celeste con le sue stelle che, non avendole mai viste prima, a me parevano immobili. Mia madre mi aveva detto che quello era il confine del nostro mondo, e che brutte cose accadevano a chi si spingeva al di là di quel confine.
– Come quello che è successo a Galkna? – le avevo chiesto a quel punto.
La madre di mia madre, quand'era molto giovane, era stata presa dagli umani ed era tornata a casa cieca come una rana-talpa. Di tanti altri invece, che non erano mai tornati, si diceva che gli umani li avessero torturati e poi uccisi.
Qualche tempo dopo, mia madre è tornata da una caccia non-viva. So che una parte di lei è dentro di me, perché il clan mi ha lasciato i suoi occhi, e il suo cuore Galkna lo ha diviso con me. Ma per me, lei sarà sempre anche tra le stelle dello stagno di sopra.
Mi addormento chiedendomi che cosa avrebbe pensato se avesse saputo, quando mi ha portato in alto sugli alberi, che un giorno io avrei superato di mia volontà il confine del nostro mondo.

lunedì 22 novembre 2021

Basse aspettative


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


Nessuno si aspettava che io sopravvivessi. Forse per questo non inviarono qualcuno a cercarmi. Gli bastò a malapena sorvolare la zona per avere conferma che il jet privato dell'azienda presso cui lavoravo si era schiantato. Ma questo lo seppi solo molto tempo dopo.
In condizioni normali una persona come me non sarebbe nemmeno stata su quel jet, né avrebbe ricoperto la prestigiosa posizione di segretaria di un dirigente d'alto rango. Non abbastanza bella, né ruffiana, e senza alcun legame di parentela o di amicizia con chi sedeva nel consiglio di amministrazione, il giorno in cui mi avevano comunicato quella promozione inaspettata pensai a uno scherzo. E invece no, era tutto vero, e dopo breve tempo venni a sapere che ero stata caldamente raccomandata dalla moglie del suddetto dirigente, che era nientemeno che la figlia del gran capo, proprio perché si aspettava che per il marito non avrei rappresentato una distrazione, né una tentazione. Anche perché avevo la fama, tra i colleghi, di essere una donna algida, tanto che più di qualcuno aveva cominciato a sospettare che le mie preferenze fossero altrove.
E fu così che mi trovai a bordo di quel maledetto jet, e il maledetto jet si schiantò sulla montagna.
Le prime ore dopo il mio risveglio furono le più penose. Non c'era una sola parte del corpo che non mi facesse male, ero confusa, intontita, e per un istante non riconobbi nemmeno dove mi trovavo. Iniziai piano a ricordare, come se la mia mente funzionasse al rallentatore, e tremando mi liberai dalla cintura e cercai gli altri passeggeri, chiamai, chiesi aiuto. Nessuno mi rispose, e nessuno mi avrebbe più risposto.
Non avete idea di quello che ho dovuto fare per sopravvivere. Fuori dalla carlinga la temperatura era probabilmente inferiore allo zero, e soffiava un vento gelido, che portava con sé grossi grumi bianchi che picchiavano come pugni. Non ero al riparo, lì, poiché un ampio squarcio nella fusoliera si stava rapidamente riempiendo di neve. Voi non sapete che cosa significa davvero congelare dal freddo. Non sapete che cosa vuol dire battere i denti per le stilettate di un gelo bastardo, implacabile, e sentire che le dita, i piedi, il naso fanno male di continuo, tanto male, un male che non passa nemmeno strofinandoli, e quando finalmente passa e non li senti più, cominciare ad avere paura sul serio perché è allora che rischi di perderli.
Fui abbastanza fortunata da trovare una grotta, un anfratto non troppo grande e con un accesso stretto e riparato dal vento. Lì potei accendere un fuoco, ogni tanto, quando dalle mie escursioni all'esterno, sempre in pieno giorno e quando la tempesta di neve si placava un poco, riuscivo a portare del materiale infiammabile saccheggiato dai resti dell'aereo e da qualche solitario arbusto nei dintorni. Era difficile allontanarsi troppo, impossibile pensare di scendere a valle, con la nuova neve che si accumulava in mucchi traditori, piatti e rassicuranti anche quando celavano un crepaccio in cui affondare molto più che fino alle ginocchia. Ogni volta che uscivo, andavo anche a prendere qualcosa da mangiare. No, non vi dirò che cosa, inorridireste al solo pensiero. Ma lassù, al freddo, con la fame che divora le viscere, basta poco per vincere il ribrezzo e affondare i denti in qualunque carne sia possibile trovare.
Anche se quella carne un tempo aveva un nome.
Cercavo solo di sopravvivere. Un'ora alla volta. Un giorno alla volta. Non sapevo che altrove, tra la gente che se ne stava al sicuro, al caldo, e con la pancia piena, mi avevano già dato per morta. Non si aspettavano che io sopravvivessi.
Mi trovarono, per caso, un gruppo di scalatori. Smagrita, selvatica, viva. Unica sopravvissuta.
Perciò, nonostante le basse aspettative, eccomi qui.
E adesso quando qualcuno mi dice che sono algida, beh, non ha davvero idea di quanto il freddo sia diventato mio amico.

sabato 20 novembre 2021

Stolido

Stolido [stò-li-do] agg., s. 1. agg. Sciocco, stupido. 2. s.m. (f. -da) Persona stupida.

Etimologia: dal latino stolidus, affine a stultus, "stolto".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


– Avanti, non guardarmi con quell'aria stolida – mormorò suadente la donna nello specchio. – Se avessi davvero creduto che non sarebbe accaduto niente, non avresti giocato a fare la strega.
La donna nello specchio indicò l'incenso e il liquido nella ciotola ai due lati del vecchio tomo, ancora aperto sulla pagina dell'incantesimo. Al di fuori dello specchio, Vivienne lasciò cadere lo straccio bagnato con cui lo aveva strofinato
Quello che stava vedendo non era possibile. Non era possibile che uno specchio mostrasse qualcosa di diverso dal proprio riflesso, né era possibile che quello si muovesse per conto proprio e parlasse. Per un momento Vivienne si chiese se qualcuna delle erbe che il libro aveva elencato per la ricetta dell'incenso non avesse qualche proprietà allucinogena. In fondo, ricordava di avere letto da qualche parte che alcuni degli episodi bollati come stregoneria in passato potevano avere una spiegazione nei funghi o nelle muffe che gli abitanti del villaggio avevano inavvertitamente ingerito, e che perfino le profetesse dell'antica Grecia potevano essere state sotto l'influsso di strani vapori provenienti dalle profondità della terra. Era stato davvero da stolidi seguire quelle istruzioni senza documentarsi sugli ingredienti che stava per usare.
La donna nello specchio scoppiò a ridere. – Umh, d'accordo, ammetto che può essere abbastanza sorprendente, la prima volta. Ma io non ricordo di essere mai stata così rimbambita quando ero una principiante.
– Smettila! – urlò Vivienne, prendendosi la testa tra le mani. E poi, bisbigliando, si chiese: – Che cosa ho fatto?

giovedì 18 novembre 2021

Sotto stelle di un altro cielo


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Dominika Roseclay da Pexels


L'odore era diverso. Non so se fossero i nostri corpi alieni, o la composizione dell'atmosfera, o chissà che altro, ma il profumo del mare era nettamente diverso dal sentore salmastro che avevamo imparato a conoscere nelle nostre vite di prima. Era più dolce, con un lieve accenno di mela, e aromatico come le foglie di alloro nell'arrosto della domenica. Lo sciabordio della risacca però era esattamente lo stesso, con lo scroscio frizzante quando l'onda che avanza si rompe, e quel lieve risucchio subito soffocato dal rombo della successiva. Persino i richiami sgraziati degli animali che si aggiravano per la spiaggia, quei quadrupedi dalla pelle verdolina, traslucida come giada, il muso allungato e il corpo che terminava in una coda di delfino, sembravano quasi ricordare il verso dei gabbiani, tanto che chiudendo gli occhi e le narici si riusciva ad avere una vaga impressione di essere a casa. La casa di prima, intendo.
Ad occhi aperti no, non era possibile, perché il cielo notturno era un tripudio di stelle quali non s'erano mai viste sulla Terra, così tante che sarebbe stato impossibile cercare le costellazioni che avevo conosciuto da bambina. E anche se fossero state di meno, quello era un cielo diverso, un'altra galassia. Nessuna luna sopra di noi, bensì i frammenti lucenti della vicina fascia di asteroidi, che si muovevano tra noi e le stelle, oscurandole.
– Stanno arrivando – bisbigliò la ragazza al mio fianco, distogliendomi dalla contemplazione del cielo che mi chiamava come una sirena. Sbirciai i miei compagni, poi abbassai lo sguardo alla spiaggia.
Eravamo in quattro, sdraiati pancia in sotto sul promontorio, più o meno la metà del nostro gruppetto di esuli dalla Terra. Gli altri non avevano voluto seguirci, perché non avremmo dovuto essere lì, ma che cosa potevano farci, rimandarci indietro? Questi alieni, la nostra gente, non avevano attraversato distanze intergalattiche per tornare a prenderci per poi abbandonarci di nuovo.
Alla luce delle stelle e degli asteroidi vidi le vysia dai corpi trasparenti emergere dalle onde. Dapprima, sembrò che l'acqua stessa si sollevasse a formare quattro o cinque teste bulbose, poi emersero le spalle, il torso e le braccia, e infine le vedemmo camminare incontro alle nostre insegnanti. Da lontano, le vysia non sembravano così repellenti.
Al loro fianco emersero alcune figure molto più piccole, dalla pelle traslucida come quarzo rosa, malferme sulle gambette esili, con la testa troppo grande e le braccia sottili dondolanti. Parevano strane meduse, poiché uno strato di piante marine simili ad alghe ricciolute e rosse ricoprivano i loro arti.
Erano bambini. Non avevamo mai visto i bambini di questo mondo.
– Sono così strani – mormorò Ameyhios, che sbirciava solo di tanto in tanto, faticando a vincere il suo ribrezzo per le vysia.
– Ci pensate? Saremmo potuti crescere così anche noi – trillò Ealeeriri.
Ci pensammo, sì. O almeno, io ci pensai.
Se la nostra gente non avesse temuto che la vita sul nostro pianeta natale fosse stata sul punto di giungere al termine, a causa di un evento di cui nemmeno volevano parlare, non ci avrebbero inviato a crescere altrove come semi sparsi dal vento su isole lontane, e così noi non avremmo mai conosciuto altri mondi, altri corpi, altri profumi e altri modi di vivere. A pericolo scampato erano tornati a prenderci, noi e tutti gli altri esuli su decine di pianeti abitabili in chissà quante galassie. Ci avevano riportato sul pianeta e ci stavano insegnando che cosa significava far parte del Seleeriewn, ma ancora faticavamo ad ambientarci e a considerare quel luogo la nostra casa.