giovedì 25 novembre 2021

Le stelle nello stagno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


Sopra la tana degli umani il cielo è gonfio di stelle, e io mi sento meglio. Le pareti strette della loro tana mi facevano sentire in trappola, ma qui sono libera, più leggera. Non è come a casa, il cielo sembra più vicino qui, più basso, come se anche la notte volesse porre un limite allo spazio in cui è possibile spingere lo sguardo.
Tanti miei simili non hanno mai visto quei bagliori nel blu, non sanno nemmeno che cosa siano. I rami degli alberi nella palude sono tanto fitti da impedire a ogni briciola di luce, di giorno o di notte, di giungere fino a terra. Ma io sono una creatura dell'aria, mi piace arrampicarmi, e di notte mi sono spesso spinta più in alto di tutti, fin da quando ero solo un cucciolo. Me lo ha insegnato mia madre a non aver paura dell'altezza e degli spazi aperti, lassù, sui rami più sottili, fino a sbucare con la testa sopra le ultime foglie, sotto uno stagno alla rovescia, scintillante e talvolta velato dalla nebbia che sta in alto.
Ci andavamo solo quando la rana-talpa, quel buffo animaletto senza occhi ma dall'udito finissimo, si arrampicava fuori dalla sua tana nel fango e gracidava il suo richiamo insistente, che veniva interrotto solo quando un'appetitosa falena ronzante passava nei pressi. Il ronzio cessava, e dopo poco, ritornava il canto della rana-talpa. Nessuno che io conoscessi era mai riuscito ad acchiappare una rana-talpa, tale era il suo udito che sentiva fin da distante i nostri passi e si rintanava nel fango prima che la raggiungessimo. Cercare di afferrarla scavando nella riva a quel punto era come tentare di afferrare l'acqua a dita aperte.
Sorrido a quel cielo familiare mentre mi rannicchio in un angolo per cercare di dormire. In mezzo agli umani, anche se potevo sembrare una di loro, il mio istinto mi diceva di restare vigile come una rana-talpa, e di non farmi prendere, se fossero venuti lassù per me. Non ero al sicuro lì all'aria aperta, diversamente da come mi ero sentita tra le braccia di mia madre, la prima volta che mi aveva portato a vedere lo stagno del cielo sopra le cime degli alberi. Le avevo detto che era bello, ma che faceva anche paura, perché c'era così tanto spazio vuoto tra noi e quello stagno scintillante. Era troppo lontano per potermici tuffare.
Lei poi mi aveva indicato un punto verso l'orizzonte, dove gli alberi si facevano meno fitti, e infine cedevano il passo a bassi laghi ricoperti da canneti, ninfee e altre piante palustri. Aguzzando la vista, mi era sembrato di scorgere qualche bagliore aggirarsi tra le canne, come se la terra fosse stata il riflesso dello stagno celeste con le sue stelle che, non avendole mai viste prima, a me parevano immobili. Mia madre mi aveva detto che quello era il confine del nostro mondo, e che brutte cose accadevano a chi si spingeva al di là di quel confine.
– Come quello che è successo a Galkna? – le avevo chiesto a quel punto.
La madre di mia madre, quand'era molto giovane, era stata presa dagli umani ed era tornata a casa cieca come una rana-talpa. Di tanti altri invece, che non erano mai tornati, si diceva che gli umani li avessero torturati e poi uccisi.
Qualche tempo dopo, mia madre è tornata da una caccia non-viva. So che una parte di lei è dentro di me, perché il clan mi ha lasciato i suoi occhi, e il suo cuore Galkna lo ha diviso con me. Ma per me, lei sarà sempre anche tra le stelle dello stagno di sopra.
Mi addormento chiedendomi che cosa avrebbe pensato se avesse saputo, quando mi ha portato in alto sugli alberi, che un giorno io avrei superato di mia volontà il confine del nostro mondo.

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