giovedì 31 marzo 2022

L'eroe insoddisfatto


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Foto di Ron Lach da Pexels


Si era spinto troppo lontano. E adesso non sarebbe più tornato a casa, poiché lì dov'era (ma poi, dov'era lì?) non c'era alcuna via che un eroe potesse percorrere. Il nulla era sopra di lui, e il nulla era sotto di lui, e il nulla era ovunque attorno a lui.
Solo, in un candore accecante, il nostro eroe non poteva far altro che rimuginare con mesta amarezza sulla sua superbia e sulla testardaggine che lo avevano spinto a varcare i confini del mondo conosciuto. Un tempo, grazie a quelle stesse doti, e alla sua forza e alla furbizia, lui aveva sconfitto i suoi nemici e aveva ottenuto tutto. Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto, in fondo, non era impresa alla portata di ogni eroe raggiungere un così perfetto "e vissero per sempre felici e contenti" privo di qualsiasi ombra o difetto. Aveva ottenuto ricchezze oltre ogni immaginazione. Aveva conquistato il cuore della sua bella principessa. Era onorato e riverito da tutti gli amici che aveva salvato, e da innumerevoli sconosciuti. La pace, e la magia che lo aveva sostenuto nel corso della sua avventura, gli avrebbero garantito una lunga vita e una famiglia numerosa. Nulla avrebbe potuto desiderare.
Ma lui non era soddisfatto. Eh sì, il nostro eroe si struggeva preda di un desiderio a cui non sapeva dare forma, né parole. Invano gli amici gli avevano ricordato quanto fosse fortunato, e che lì, al suo lieto fine, vi era il luogo migliore in cui fermarsi e godere della sua ricompensa. L'eroe non li aveva ascoltati.
E così era nuovamente partito alla ricerca di un altro avversario da sconfiggere, di un malvagio da abbattere, di un regno da salvare e un'altra principessa da corteggiare.
Aveva voltato pagina. Letteralmente. Era in questo modo che l'eroe era finito in una pagina bianca.
Aveva scoperto ben presto che in quel non luogo non esisteva nessun despota da destituire, nessun drago da trucidare, nessun mostro da massacrare. Non c'era alcuna principessa che lo attendesse per premiarlo. Tesori e regni svanirono all'istante dai suoi sogni di gloria.
Nel vuoto privo di parole, l'eroe aveva provato a chiamare, a chiedere indicazioni, o un aiuto. Ma in quel mondo senza righe di testo, la voce non gli era uscita dalle labbra. Orientarsi era impossibile, l'eroe non capiva più dove fosse l'alto e dove il basso, figurarsi riconoscere da che parte si trovasse l'indietro, per poter ripercorrere i suoi passi e tornare a quel lieto fine che aveva abbandonato senza remore, e che ora desiderava ardentemente. Oh, se solo avesse ascoltato i consigli degli amici! Se si fosse accontentato di essere contento! Ma no, lui aveva voluto di più, un di più che si era tramutato in niente.
Già sentiva di non riuscire più a pensare in maniera coerente, e gli sembrava di svanire a poco a poco, assorbito da quel candido vuoto.
L'ultima sensazione a cui l'eroe si aggrappò con tutte le sue forze fu una sorta di pressione nelle sue orecchie, un sibilo, o, se ascoltava bene, forse, un respiro. Un soffio d'aria sulla pagina bianca.
Il tuo, o amato lettore.
Tu sei l'unico che può salvare il nostro sventurato eroe, se solo avrai la magnanimità di farlo. Non hai che da scrivere sulla pagina bianca la fine della sua storia alla fine della storia, e scegliere di fargli ritrovare la strada di casa, oppure avviarlo in direzione di una nuova avventura.
O, se non hai cuore o pietà di lui, chiudi il libro e lascia che il vuoto lo divori.

lunedì 28 marzo 2022

Melodia marina


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Foto di Kübra Arslaner da Pexels


Dicono di me che sono nato nella cupola. Non ho alcun ricordo dei miei genitori: si erano accorti presto di quanto io fossi diverso, e come sempre accade in questi casi, la loro risposta fu qualcosa di più di un semplice esilio. Lo chiamano esilio, questo è vero; ma in realtà, io fui scartato.
I Veri Umani, come amano definirsi, non ammettono che un mutato difettoso possa sporcare il loro prezioso corredo genetico.
Fui tra i più fortunati, poiché anche se noi Acquatici siamo dotati di branchie e di pinne, raramente un bambino da solo può sopravvivere in un mondo di prede e predatori. Ma invece di uno squalo o di un mostro marino, per primo mi trovò il banco, che divenne la mia famiglia. Da loro appresi come guizzare tra le alghe e gli scogli, per confondere i giganti del mare che ci prendevano di mira; imparai a cantare la melodia delle balene, che era diventata la nostra lingua, e che spesso accompagnavamo con strumenti fatti di conchiglie, di ossa di seppia e tendini, o dei tintinnanti tesori di metallo trovati nei relitti. Da quegli stessi relitti venivano le nostre storie, storie di un mondo diverso, il mondo di prima, in cui tutti erano Veri Umani, la Terra non si era ancora ammalata e i mutati non erano nati. Il banco migrava di luogo in luogo, in equilibrio tra i fondali e la superficie, che osavamo visitare solo di notte, lontani dalla luce deleteria del sole. Eravamo alla ricerca continua di nuovi pesci con cui sfamarci e nuovi relitti in cui trovare riparo, reliquie del mondo antico e conoscenza. Evitavamo le cupole, le enormi strutture trasparenti brulicanti di Veri Umani, e i loro rifugi più piccoli e isolati che spandevano una luce giallastra dagli oblò circolari, occhi spalancati di un mostro teso nella caccia.
Solo di tanto in tanto uno di noi si allontanava dal banco, quando nuotavamo in prossimità di una cupola, per andare in cerca di esiliati sopravvissuti. Fu così che il banco trovò me, e fu così che trovammo Celine.
Lei non aveva branchie, non aveva pinne, e quando il nostro compagno la trovò, stava annegando. Soffiò aria nella sua piccola bocca, e insieme la portammo in una grotta dall'ingresso sommerso. Lì, dove poteva respirare senza essere toccata dalla bruciante luce del sole, la neonata sarebbe potuta sopravvivere. Ma non da sola.
Per la prima volta da che i più anziani tra noi avevano memoria, il banco si stabilì in un circoscritto tratto d'oceano.
Celine aveva la pelle grigia e spessa, e piccole ali da pipistrello sulla schiena, che con il tempo si sarebbero rafforzate e cresciute: il tratto distintivo di quei mutati che avevano dato a sé stessi il nome di Gargoyle, e che sfuggivano alle ustioni del sole con un eterno pellegrinaggio aereo. La crescemmo come una di noi, insegnandole la nostra lingua e le nostre storie. Celine imparò a cantare sott'acqua e ad amare la carezza delle correnti che risuonavano d'echi nelle sue orecchie; apprese l'arte di nuotare per brevi tratti insieme al banco, trattenendo il fiato fin quando poteva, e a bere l'aria dalle nostre labbra quando il suo corpo non poteva più farne a meno, senza sprecarne neppure una bolla.
Ma per quanto lo desiderassimo, Celine non era una di noi. Per questo i più anziani, più lungimiranti degli altri, le insegnarono anche l'altra lingua, quella che si parlava fuori dall'acqua, che loro ancora ricordavano da un tempo più felice, un tempo in cui Acquatici e Veri Umani ancora si incontravano per i baratti e per le adozioni dei bambini con e senza branchie nati dal lato sbagliato della cupola. Quel patto che i Veri Umani avevano rotto con i primi esili.
La loro fu la scelta giusta, anche se mi pesò dovermi separare da lei. Accadde una notte, mentre nuotavamo vicino alla superficie. Per gioco, la spingevamo in alto, fuori dall'acqua, e Celine apriva le sue ali per restare un istante sospesa sulle onde. Ombre scure passarono sopra di noi, e la notarono, e scesero a vedere.
I Gargoyle, la sua gente.
Come io non volevo lasciarla, Celine non voleva andare via con gli sconosciuti simili a lei. Per convincerla, cantammo per l'ultima volta una melodia subacquea struggente e malinconica, il canto che raccontava la sua storia, un canto che il banco avrebbe portato con sé. Le mostrai le note suonate sulla mia conchiglia, e la lasciai nelle sue mani, con la promessa che se mai avesse avuto bisogno, io sarei accorso al richiamo di quel suono. Non credevo che lo avrei mai sentito al di fuori del banco.
Lei era dove doveva essere.
Fino ad ora.
Oggi Celine è tornata assieme a una schiera dei suoi nuovi amici, e propositi di guerra. Sono passati gli anni, lei è diventata adulta, eppure ricorda ancora la melodia marina che racconta la sua storia, e ricorda come i Veri Umani avevano trattato lei e me, e tanti altri giovanissimi esuli. I suoi propositi riecheggiano nel mio spirito ferito da quel rifiuto, e nella mente di tanti altri Acquatici. Non in tutti, poiché siamo un popolo notoriamente pacifico, ma in un numero sufficiente di noi per unirsi ai Gargoyle e attaccare una cupola dopo l'altra, reclamare le loro risorse e la loro tecnologia e tutto ciò che ci era sempre stato negato.
Compreso il diritto di esistere.

sabato 26 marzo 2022

Sleppa

Sleppa [slèp-pa] s.f. region. 1. Sberla, colpo. 2. fig. Grossa porzione.

Etimologia: etimo incerto, forse di origine onomatopeica, o secondo altre fonti dal medio tedesco schlop, "colpo", attraverso il settentrionale slepa.



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Foto di cottonbro da Pexels


Non la vide nemmeno arrivare. Denis sentì solo lo schiocco, e qualche istante dopo, mentre si portava la mano alla guancia, il dolore. Con la coda dell'occhio, scorse Vanessa arretrare dalla luce che filtrava tra le tapparelle aperte, la pelle delicata arrossata come dopo un'esposizione molto più prolungata di qualche secondo.
Da quando si conoscevano non erano mai venuti alle mani, mai, nemmeno una volta, e dunque, pur conoscendo la natura inumana di sua moglie, quello che faceva di notte per sopravvivere, per Denis quella sleppa poderosa era giunta inaspettata. Mosse piano la mandibola intorpidita dal bruciore dello schiaffo. Nulla di rotto: probabilmente lei si era persino trattenuta.
– Non azzardarti mai più – pronunciò Vanessa, ritornata ai fornelli. Gli dava la schiena, forse per non mostrargli il volto ustionato dalla luce del sole, forse per trattenere la collera che ancora l'animava. – E tira le tende, per favore.
Lo disse in tono sgarbato, quasi fosse stato un ordine, più che una richiesta. Denis sbirciò la finestra illuminata: aveva aperto apposta le tende e le tapparelle, fingendo di voler guardare fuori, prima di affrontare l'argomento. Una precauzione a cui non voleva rinunciare, dopo quell'attacco. – No... non credo che lo farò – ribatté l'uomo.
Vanessa sbatté sul piatto una sleppa di carne, una bistecca alta ben tre dita. – Almeno ti rendi conto di quello che hai detto? – lo interrogò lei, mentre portava il piatto in tavola. Poi ripeté, facendogli il verso: – "Sarebbe stato meglio se non fosse mai nata". È una cosa crudele da dire su nostra figlia. Denis, lei ti adora. E io, anche se non lo credi possibile ora che sai che cosa sono, ti amo. – Vanessa incrociò le braccia e si scostò di un passo dalla tavola preparata solo per lui. – Ma a volte... a volte, penso che qui l'unico vero mostro sia tu.

giovedì 24 marzo 2022

La trappola


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Foto di Ekrulila da Pexels


Luithgass era inquieto, e la tranquilla, regolare monotonia delle ruote della carrozza che sferragliavano sul sentiero non alleviava di un briciolo le sue preoccupazioni. La notte era cupa e densa di misteri al di fuori dell'elegante abitacolo, e la scarsa luce delle lanterne non riusciva a penetrare nel buio per più di qualche metro; e laddove gli alberi si facevano fitti, ai lati della strada che stavano percorrendo, la luce generava ombre contorte e fuggevoli. Più di una volta gli era parso di scorgere figure umane in quelle ombre, e ancora non capiva perché le ombre si tenessero a distanza.
Gettò uno sguardo agli uomini armati stretti sull'altra panca, e sul poco spazio che restava su quella che condivideva con il suo signore. Non era un viaggio comodo quello, ma gli inconvenienti fisici erano poca cosa rispetto al sinistro pensiero che quel viaggio si sarebbe concluso in modo assai diverso rispetto a quanto previsto dal suo padrone. Sbirciò fuori dal finestrino ancora una volta, cercando di penetrare con lo sguardo le ombre ingannevoli al lato del sentiero. Innanzi al cocchio, lo scalpitio degli zoccoli dei possenti frisoni neri gli martellava nel cuore.
– Luithgass, mio pavido servitore, non c'è motivo di angustiarsi tanto – gli disse in tono annoiato il suo signore. – Non ho forse io diffuso la notizia di questo viaggio notturno, con tanto di orari, percorso e quantità dell'oro che trasportiamo, in lungo e in largo per il paese?
Luithgass ritrasse il volto dal finestrino, si tolse il cappello e lo strinse tra le mani, fissando il suo signore: – S-s-sì... sì, certo, sire, ma-ma-ma...
– E non ho forse io – proseguì il nobile, nello stesso tono di tedio della sua prima domanda, – portato con noi la massima quantità trasportabile delle migliori guardie della mia guarnigione, armate di tutto punto, bene addestrate nell'arte del combattimento e pronte a ogni eventualità?
– S-sì, certo sire – borbottò Luithgass, stritolando il cappello già piuttosto malconcio tra le mani. – Perfino il cocchiere... m-m-m-ma...
– Esatto, perfino il cocchiere è in realtà uno dei miei soldati, nessun pericolo dunque che venga sorpreso da un gruppo di manigoldi. E non ho forse io preparato la migliore, la più insospettabile, la più appetibile delle trappole? – Il nobiluomo stavolta, fissandosi con molto interesse le unghie, o meglio, le dita avvolte nei guanti candidi, non attese nemmeno il bofonchiare del suo servo, e così concluse: – E dunque non temete, mio pavido Luithgass, poiché quei briganti non sapranno resistere, e faranno la fine del topo che si avventa sul formaggio nella trappola.
Luithgass non poté rispondere a quell'affermazione, poiché mentre stava cercando le parole e riordinando i suoi pensieri per formulare un'obiezione, un paio di colpi sul fianco e sul finestrino dal suo lato della carrozza lo fecero trasalire. Le guardie armate furono le prime a scattare e a rivolgere gli elmi in quella direzione. Dopo di loro, il nobile si sporse a guardare oltre la sagoma tracagnotta del fedele servitore, e infine anche quest'ultimo si girò tremante al ripetersi dei colpi.
Alla fievole luce delle lanterne, un paio di mani femminili colpivano più e più volte col palmo il vetro, e a queste si aggiunse una voce in affanno. – Aiuto! Aiutatemi, nobile signore, abbiate misericordia, per pietà! – supplicava la fanciulla, con tono tanto affranto che avrebbe smosso perfino il più gelido cuore di pietra.
– Ah, il solito, vecchio trucco della donzella in pericolo – disse invece il nobile, in tono di lieve sarcasmo. – Mi chiedevo quanto ci avrebbero messo quei furfanti a mettere in atto la loro, di trappola... prevedibile e scontata, se mi è concessa una critica. Dunque, fingiamo di caderci, come prevede il mio piano. Fate fermare la carrozza!
All'ordine del nobile, una delle guardie sulla panca antistante batté un paio di colpi sulla parte frontale dell'abitacolo, e in breve tempo il cocchiere tirò le redini per far rallentare e poi fermare i cavalli. Lo sportello della carrozza fu aperto, e il timoroso servitore costretto a sporgersi per chiedere alla signorina dalle vesti stracciate e i piedi nudi e sporchi di fango: – S-s-sìììì? Come p-posso aiutarla?
– Scendete, ve ne prego – fece lesta quella, tendendo le braccia da qualche passo di distanza dalla carrozza. – Fui rapita dalla mia casa da gente orribile, riuscii a fuggire ma... sono tanto stanca, e spaventata, e la caviglia mi duole, e ahimè, temo che presto sverrò...
La fanciulla parlò in tono lamentoso e nello smorzare la voce si portò un braccio alla fronte.
– Scendete! – sibilò il nobile all'orecchio di Luithgass. – Altrimenti quei marrani non usciranno mai dai loro nascondigli!
Luithgass ovviamente pensava che fosse una pessima idea, ma glielo ordinava il suo signore, perciò caracollò giù dal cocchio e si avvicinò alla fanciulla, che con fare da teatrante e precisione millimetrica si lasciò cadere tra le sue braccia. Luithgass la esaminò brevemente e poi si girò verso il suo padrone. – È svenuta, sire. È... è svenuta davvero, credo.
Spazientito, il nobile si precipitò fuori dalla carrozza e lo redarguì: – Zitto, cretino! Non dire nulla che possa far intuire il nostro...
Mentre parlava, la fanciulla aprì un occhio, e nello scorgere il nobile allo scoperto, alzò la testa e diede il segnale convenuto: – Ora! All'attacco!
Al suo grido, quattro briganti armati di bastoni e rozzi coltelli spuntarono dalle ombre fra gli alberi. Luithgass mollò la fanciulla e si rifugiò al fianco del suo signore. Quest'ultimo sogghignava. – Così pochi – mormorò al servitore. – Sarà facile sopraffarli.
Attese che i briganti si avvicinassero tanto da vedere i loro musi laidi e barbuti, quindi a sua volta diede un ordine: – Ora! Catturateli!
Dall'interno della carrozza scesero a uno a uno sette soldati in armi e armatura, che fino a quel momento se n'erano stati pigiati tutti insieme nell'abitacolo. Perfino il cocchiere smontò dal suo posto, si ficcò in testa un elmo, sguainò la spada e si affiancò ai compagni.
Nel vedersi in inferiorità numerica di due a uno, la fanciulla infatti non era contata da nessuno dei due schieramenti nell'imminente battaglia, i briganti sgranarono gli occhi, frenarono bruscamente la loro carica, fissarono il muro di guardie armate e poi si guardarono l'un l'altro. E infine fecero dietrofront e se la diedero a gambe nella foresta, fanciulla compresa.
– Inseguiteli! – ordinò il nobile, baldanzoso. – Catturateli! Non lasciatevene scappare nemmeno uno!
Le guardie partirono, in uno sferragliare di metallo, e scomparvero nelle ombre tra gli alberi. Luithgass e il nobile rimasero accanto alla carrozza ad aspettare, in ascolto. Dalla boscaglia giunsero passi concitati, grida, clangore di metallo contro il metallo e tonfi secchi di bastoni che colpivano e si spezzavano.
Passò qualche istante, e fu il silenzio. Luithgass era sempre più inquieto, e sbirciava a tratti le ombre minacciose create dai rami su cui danzava la luce incostante delle lanterne, e a tratti il suo signore, che non aveva mai perso la sua espressione tranquilla e sicura.
Infine le guardie tornarono, in fila indiana. Le prime cinque tenevano per la collottola i briganti e la disgraziata fanciulla che aveva fatto da esca. Le mani dei lestofanti erano legate dietro la schiena, qualcuno di loro zoppicava e qualcun altro aveva lividi e ferite sulla pelle esposta delle braccia e del volto. Le guardie sfilarono davanti al nobile e a Luithgass, e senza attendere gli ordini del loro signore, costrinsero i criminali catturati a salire nella carrozza, e montarono assieme a loro.
– Sì, bravi, sbatteteli dentro! – reagì in ritardo il nobile, profondamente soddisfatto dal trattamento rude che i suoi stavano infliggendo ai furfanti. – Sveltì, svelti! Portiamoli in prigione!
Luithgass mugugnò e sbirciò il cocchiere che risaliva al suo posto senza neanche togliersi l'elmo. Al cogliere quel brontolio, il nobile replicò: – Visto, mio pavido Luithgass? Tutto è andato secondo il mio piano. La mia trappola è scattata inesorabile. Ah, mio buon Luithgass, non avevi alcun motivo di temere, quando la mia intelligenza superiore si mette all'opera, nessun brigante può sfuggire dalla giusta punizione nelle regie prigioni.
Mentre pronunciava quelle parole, lo sportello venne chiuso di fronte a loro, il cocchiere mise mano alle redini e spronò i cavalli. La carrozza partì senza di loro e si allontanò lungo il sentiero in uno scalpitio sferragliante, sempre più lontano, sempre più fievole, così come la luce delle lanterne che portava con sé.
Nel buio, si levò la voce balbettante di Luithgass: – S-s-sire? T-temo che il vostro p-piano abbia una p-piccola, piccola f-f-falla...
Il nobile non rispose. Luithgass non poteva vederlo, ma probabilmente le labbra del suo signore conservavano ancora quel sorriso soddisfatto, divenuto ormai una vuota maschera, mentre pian piano iniziava a rendersi conto di quanto sbagliati fossero i suoi calcoli. Tra gli alberi della foresta risuonarono i gemiti delle guardie messe fuori combattimento e spogliate di armi e armature dal resto della banda, rimasto nascosto nella foresta per attuare una trappola in cui lui, un nobile dall'intelligenza superiore, era caduto come il più ingenuo dei topolini.

lunedì 21 marzo 2022

La corda d'argento


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Foto di Pedro Figueras da Pexels


C'è una sola ancora di salvezza quando si lascia volontariamente il proprio corpo e si attraversa il mondo degli spiriti. Non è un viaggio da compiere alla leggera, per mera curiosità di vedere quel che c'è oltre o, ancor peggio, per sfida. Non tutti ritornano da una simile esperienza, e chi ritorna, non è più lo stesso. Lo so, perché io ero una dei pochi fortunati.
La prima volta fu per cercare l'amore della mia vita, che troppo presto aveva lasciato questo mondo. È stato allora che notai il sottile filo lucente che collegava quel mio corpo caliginoso, perso in un mondo di nebbia, alla vita che ancora mi reclamava. Era l'unica parte di me che ancora sentiva qualcosa, ondate di panico e tristezza che mi raggiungevano attraverso quella corda d'argento, mentre il resto del mio corpo, o meglio, della mia anima inconsistente, non avvertiva che pace, immersa nel candore di latte. Camminai a lungo senza incontrare una sola presenza. Eppure la bruma brulicava di sussurri indistinguibili, vicinissimi, come se qualcuno, più di qualcuno, molte voci, mormorassero alle mie orecchie. Ma la nebbia che a tratti turbinava e sorgeva a formare bizzarri alberi dai rami intrecciati, o rocce irregolari che si disfacevano al mio passaggio, o filamenti che non assomigliavano a nulla di terreno non mi recò il conforto di incontrare l'anima che cercavo, o alcuna altra anima.
Ero sola. In un mondo senza tempo, senza spazio, senza amore.
Le dottrine religiose ci insegnano che inferno e paradiso sono due luoghi distinti, ma non è affatto così. Il mondo degli spiriti è uno, e lì pace e tormento sono la stessa cosa. Questo dissi agli agenti dei servizi segreti che mi avevano interpellato come ultima risorsa, quando rivelarono di essere dispiaciuti di dovermi inviare all'inferno per interrogare un terrorista morto.
Era anche il motivo per cui mi infliggevo tagli e bruciature, per tornare ad avvertire qualcosa in una pelle che non sentivo più mia; ma questo non glielo dissi, anche se ero certa che, prima di presentarsi a casa mia, quegli uomini si fossero più che adeguatamente informati sul mio conto.
Sapevo quello che pensavano di me. Mi definivano instabile, ma come si può non esserlo, dopo aver oltrepassato i confini della vita? Questa esistenza aveva perso ogni senso. Era solo una lunga attesa del trapasso, che non osavo anticipare soltanto per il timore che in quel caso, nel mondo al di là, la punizione sarebbe stata superiore alla ricompensa.
Eppure quando mi dissero che avrei potuto salvare migliaia di vite accettai senza riserve l'incarico, anche se non pensavo che in quel modo li avrei salvati, anche se pensavo che era solo un prolungare la loro sofferenza in un mondo di gusci pesanti, monotonia e necessità insensate.
Accettai perché tutto ciò che volevo era tornare là, nel mondo degli spiriti, e non avevo più osato farlo dopo la mia ricerca infruttuosa. Questa volta non ero personalmente coinvolta, e qualunque fosse stato l'esito della mia missione, ero convinta che non ne sarei stata turbata.
Accolsi con sollievo l'atmosfera rarefatta, i bisbigli nelle mie orecchie e i rintocchi di campane a vento e l'assenza di peso, e di desideri, che quel mondo candido imprimeva alla mia anima. Il lucore familiare della corda d'argento serpeggiava alle mie spalle mentre mi inoltravo nell'oceano di nebbia. Chiamai più volte il nome del mio obiettivo, il nome che gli agenti mi avevano fatto imparare a memoria, assieme alle domande da porgli, mentre mi mostravano una sua foto.
Dubitavo che l'avrei riconosciuto dall'aspetto. Quelli non sapevano proprio nulla del mondo degli spiriti. Ragionavo così, chiamando a gran voce un passo dopo l'altro, quando avvenne l'inaspettato.
Sentii un tocco sulla spalla. Proprio un tocco, un contatto in quel mondo privo di corpi o di pelle.
Non era possibile, mi dissi.
Poi lo avvertii di nuovo, più forte, una spinta contro il fianco sinistro. Mi voltai e vidi un'ombra, un turbinare di nebbia grigio scuro che teneva sollevate tra le sue spire la mia corda d'argento. Era quello il contatto che avevo avvertito mentre la nebbia senza volto, dalle sembianze vagamente umane, tratteneva il filo di luce in una mano, mentre l'altro braccio si allungava e si assottigliava.
– Grazie per aver chiamato – sussurrò roca, il tono di lieve sarcasmo.
Troppo tardi mi avvidi che ciò in cui il suo braccio stava mutando era una lama. – No! – urlai, ma lui già la stava calando sul mio unico appiglio alla vita. Avvertii una stilettata nelle profondità della mia essenza evanescente, poi più nulla.
Il lembo di corda che proveniva dalla mia anima cadde a terra, si spense, e svanì. Ero persa, davvero persa. Peggio. Ero immobile, muta quanto una statua, e per quanto ci provassi, non riuscii a raggiungerlo, a fermarlo. Potei solo guardarlo infilare nella sua essenza grigiastra, impura, la lucente corda d'argento che ancora portava al mio corpo, e rivolgermi un sogghigno dal volto che a mano a mano si faceva più simile al mio, prima di percorrere a ritroso il cammino verso la vita.
Verso gli ignari agenti che non sapevano che il loro nemico si sarebbe svegliato in mezzo a di loro. Verso i suoi complici ancora in attesa di portare a compimento i loro piani di morte.
Fissata in quell'ultimo istante, io non potevo far altro che guardare, e aspettare. Proprio come avevo fatto in vita, dal momento in cui ero tornata da quel primo viaggio nel mondo degli spiriti.
Aspettare che le anime inviate oltre la vita da colui che abitava il mio corpo mi trovassero, e mi infliggessero con la loro presenza il tormento che meritavo. Pensai che forse, con il tempo, il mio corpo di nebbia sarebbe svanito, e di me non sarebbe rimasto che un sussurro in mezzo agli altri, una voce nel vento. Quel pensiero era il mio unico conforto, svanire, dissolvermi, e già mi sembrava di avvertire la mia voce fra le altre. No, non era la mia immaginazione, i sussurri divenivano più chiari, cominciai a distinguere le parole, ripetute più e più volte, finché non capii che tutte le voci erano la mia voce, e che la mia voce pronunciava un avvertimento che fin da quel primo viaggio non avevo voluto ascoltare.
– Non sarei dovuta venire. Ho commesso un terribile errore.
La mia bocca immobile, aperta in quell'ultimo grido, si tese ancora di più in un urlo che non sarebbe mai uscito dalla mia gola.

sabato 19 marzo 2022

Bordone

Bordone [bor-dó-ne] s.m. Robusto e lungo bastone con manico curvo usato un tempo dai pellegrini.

Etimologia: dal tardo latino burdonem, "bardotto", derivato da burdus, "mulo, animale da soma". Viene usato in senso metaforico come "sostegno, bastone".



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Foto di Cristhian Covaleda da Pexels


Il viandante le veniva incontro lungo la strada, appoggiato a un bordone decorato da nastri e intarsi che lo superava in altezza. Whiteray pensò che era strano. Troppo giovane. Si era aspettata qualcuno di diverso.
Sotto il mantello verde il viandante camminava come un vecchio, lento, curvo e affaticato; eppure il suo era il volto di un ragazzo. Le venne in mente che forse quella non era la guida che le era stata promessa. Forse era un altro nemico, un ingannatore come Thiss. Whiteray si fermò e si guardò attorno. Nella foresta fitta e oscura di nascondigli ce n'erano a bizzeffe, ma il viandante era vicino, impossibile che non l'avesse scorta. Infatti, mentre Whiteray cercava di decidere il da farsi, il viandante sollevò un mano in segno di saluto.
Whiteray per istinto rispose al gesto, poiché le era stato insegnato che non sarebbe stato cortese non farlo.
Ecco, ora non poteva proprio sottrarsi all'incontro.
Quando le giunse dinnanzi il viandante abbassò il bordone fino a toccare con la sommità la chioma candida di Whiteray, poi ne portò la punta di legno davanti agli occhi.
– Sei molto bassa – mormorò senza troppe cerimonie, continuando a fissare il bastone come se vi leggesse qualcosa. – Da lontano, sembravi più grande.
Whiteray stava per rispondere piccata che nemmeno lui era come si aspettava, quando il viandante riprese la parola. – O forse sono io che sono arrivato troppo presto. Non ti ho lasciato il tempo di crescere. Oh, be'. Dovremo farci bastare la statura che hai ora, non credi?
– Suppongo... di sì? – fece Whiteray.
Lui la scrutò con un cipiglio severo, che lo fece apparire d'un tratto molto vecchio. Ma solo per un istante. Era di nuovo giovane quando le disse: – Un po' di entusiasmo non guasterebbe. Hai una lunga strada di fronte a te, e una sola notte . Seguimi adesso, se ti senti pronta a intraprendere il cammino, o voltati e non tornare mai più.
Whiteray non si sentiva pronta. Ma non aveva scelta, no davvero. Perciò si lasciò guidare dal Matto.

giovedì 17 marzo 2022

Un paio di braccia in più


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Foto di ROMAN ODINTSOV da Pexels


– Non capisco perché dobbiamo fare tanta strada per andare a trovare un fabbro – mi lamentai con il Guercio, mentre ci inerpicavamo su per un sentiero montano tanto stretto da costringerci a camminare in fila uno dietro l'altro. Avrei potuto indicare loro il miglior fabbro di Laeverth, quello che riforniva i cavalieri della regina, e invece no, Novedita ci aveva guidati in quel posto da capre e pastori, lontano dalle rotte commerciali, più a nord e più in alto di Escalona, tra vette aguzze e venti gelidi.
– Questo non è un fabbro, è il fabbro – replicò il Guercio, con voce arrochita e il tono di scherno. – Non sei uno dei Bastioni Rossi se non ti rifornisci da lui. Ah, ma tu non puoi capire, Senzaferro.
– Perché sono solo uno scudiero, o perché non posso toccare il vostro "prezioso" metallo?
Il Guercio si voltò a guardarmi con l'unico occhio sano. – Entrambi – sentenziò, prima di tornare a guardare avanti.
Il Bianco, dietro di me, mi pose una mano sulla spalla. – Vedrai che troveremo una soluzione – disse, in quel suo solito modo condiscendente, come a volermi consolare. – Puoi maneggiare una lancia, o un'alabarda. E indossare armature leggere, di cuoio. Oppure puoi imparare a tirare con l'arco da Sentinella.
Non gli risposi. Io un'arma ce l'avevo, ma non sapevo come loro avrebbero reagito, se avessi mostrato Ossasangue in azione. Ben presto fummo in vista di uno sparuto gruppo di casupole di pastori e boscaioli, poco più che capanne di legno col tetto di paglia, strette l'una all'altra. Poco distante, circondato da pinnacoli di pietra, c'era un edificio completamente diverso, una casa di mattoni viola, a pianta quadrata, con un tetto color ocra arrotondato sulla sommità, dal quale spuntavano tre comignoli fumanti. Già da fuori potevo udire le martellate acute riecheggiare sull'acciaio, due serie di colpi, come due cuori, che battevano a un ritmo differente: uno più lento, rilassato, e l'altro frenetico, instancabile e ossessivo. Il fabbro doveva avere un aiutante, pensai, quando nell'avvicinarmi alla soglia dietro il guercio mi parve di sentire anche un altro suono, uno stridore musicale, che variava di tono e formava una magnetica melodia di accompagnamento a quelle percussioni.
Novedita, il capo della nostra banda di mercenari, entrò senza bussare. Tale era la familiarità tra lui e il fabbro, che udii quest'ultimo accoglierlo con un: – Ah, finalmente, avevo proprio bisogno di un paio di braccia in più. Prestami uno dei tuoi scudieri, ho il bicchiere vuoto e la mia gola di destra è riarsa.
Novedita ridacchiò e fece un segno al più giovane dei ragazzini che si erano uniti ai Bastioni Rossi per imparare il mestiere. Lo Sbarbatello, questo il suo nome provvisorio, si fece avanti nella vasta sala che occupava quasi tutta la casa di mattoni viola, prese da una delle mani del fabbro un grosso calice e lo andò a riempire dalla caraffa ficcata in un catino di neve per tenerla fresca nonostante il caldo opprimente che emanava dalla fornace. Non appena lo scudiero gli liberò la mano dalla coppa, il fabbro ne approfittò per azionare un grosso mantice che ravvivò di colpo la fiamma crepitante, poi afferrò un paio di pinze, sollevò un crogiuolo colmo fino all'orlo di ribollente metallo liquido, che emanava bagliori rossi e dorati, e lo versò con attenzione in uno stampo. Nel frattempo, altre due mani non avevano mai smesso di rigirare sull'incudine e ribattere rapidamente una piastra di metallo per darle la curvatura desiderata, mentre con un'altra coppia assestava colpi lenti sul filo di una spada che tratteneva grazie a un grosso guanto, e altre mani ancora, più in alto delle altre, erano impegnate a suonare un violino. L'ultima mano infine gli tergeva a turno una delle tre fronti. Lo capii solo quando volse verso di noi il volto di mezzo, affiancato dagli altri due di profilo, e disse con una voce più profonda della prima che aveva parlato: – Uno pensa di averne a sufficienza, e invece... non si hanno mai abbastanza mani, vero? Ah, grazie – concluse, prendendo la coppa dalle mani dello Sbarbatello.
Il Bianco radunò gli scudieri e li accompagnò a fare un giro per mostrare loro le armi esposte sulle pareti e nelle rastrelliere, gli altri mercenari si affollarono dietro al fabbro, intervenendo a turno nella conversazione tra il loro capo e quella strana apparizione: la pelle di un brillante blu zaffiro, che rischiarata dalle fiamme pareva farsi viola; le molte braccia che si affaccendavano a temprare l'acciaio con sibili di vapore, riscaldarlo, ribatterlo e poi affilarlo su una mola che strappava stridori acuti alla lama, e azionare il mantice che esalava un pesante respiro sul cuore della fiamma; i tre volti, con sei occhi curiosi che di tanto in tanto sbirciavano nella mia direzione e tre bocche, tre voci diverse che si alternavano o si sovrapponevano, facevano del fabbro la più bizzarra creatura che avessi mai visto in tutti i regni, e che avrei mai veduto nella mia vita. E, da allora, di bizzarrie ne ho viste parecchie, ma mai nessuna come lui.
A differenza degli altri, io restai accanto alla porta. L'aria satura dell'odore acre dell'acciaio mi rendeva inquieta e mi dava un senso di nausea, come se qualcosa dentro di me riconoscesse il pericolo, la vicinanza dell'odiato metallo. Il ferro non era letale per le fate, ma il suo morso era doloroso, e lasciava ferite più durature di quelle inflitte con qualunque altro mezzo. E, a contatto con la mia pelle, scottava come se fosse stato incandescente, anche da freddo.
Fui grata quando Novedita mi concesse di uscire. Non mi piaceva quel posto, e non mi piaceva quel fabbro, che mi guardava come se avesse capito, anche se nessuno gli aveva detto niente in proposito.
Lo seppi per certo il mattino dopo, all'alba, quando mi raggiunse su una panca fuori dalla sua casa di mattoni viola. Gli altri ancora dormivano, ma io faticavo a riposare nell'aria satura di ferro.
– Non avevo mai visto una figlia delle nebbie tanto a nord – disse la sua bocca di mezzo, mentre il fabbro si sedeva alla mia destra. – Né una che si sia scelta un mestiere tanto insolito per qualcuno della sua stirpe.
Gli rivolsi un sorriso amaro. – Non ho abbastanza potere per essere una figlia delle nebbie, e qualcosa devo pur fare.
La sua bocca di mezzo fece un mugugno e una smorfia, poi quel volto assunse un'espressione pensosa. A proseguire ci pensò il volto di sinistra, quello dai tratti più delicati e dalla voce più suadente, quasi femminile: – Ma sei comunque legata a loro, possiedi le loro debolezze e le loro virtù.
Annuii, poi aggiunsi in fretta: – Non dirgli che cosa sono. Novedita non lo sa, e così gli altri. Mi caccerebbero dalla compagnia, se lo sapessero. O... qualcosa di peggio.
Il fabbro non si soffermò a chiedermi che cosa intendessi. Certo, l'utilità di qualcuno che non poteva morire qualunque ferita gli fosse stata inflitta doveva essergli balenata per la mente, ma non lo diede a vedere, e disse soltanto: – Che cosa sei?
La voce era quella beffarda del volto di destra. Le mani nel frattempo pettinavano i capelli neri, gesticolavano e accendevano del tabacco in una rozza pipa dal lungo bocchino, da cui però il fabbro non aspirò neppure una volta, limitandosi a lasciarla fumare tra le dita.
Io non risposi. Il mio primo impulso era stato quello di dire "una fata", eppure mi ero trattenuta, sapendo che non era vero. Le fate, quelle crudeli, odiose creature, mi avevano rifiutato.
Ero umana, da parte di mio padre, e come tale avevo sempre cercato di comportarmi.
Poi mi accorsi che la sua domanda aveva un altro senso.
– Chi sono – mi corressi.
– Già meglio – disse il volto di sinistra, ma quello di destra riprese: – Non fosse che tu non lo sai, chi sei.
Restammo di nuovo in silenzio. Io evitai di guardarlo, un po' perché le sue tante mani che agivano all'unisono sotto tre volti severi mi mettevano in soggezione, un po' perché non volevo rivelargli quanto fossi confusa. Il fabbro aveva ragione: era stupido, per una figlia delle fate, desiderare di intraprendere la via della guerra. Non era nella mia natura. Eppure possedevo un'arma, ed era un'arma più temibile di una comune spada d'acciaio. Non l'avevo più usata dopo l'incidente.
– Posso vederla? – chiese la voce profonda del volto di mezzo del fabbro, e se non lo avessi scorto indicare con una singola mano l'elsa di Ossasangue che spuntava dal fodero, che nel mio agitarmi sulla panca avevo inavvertitamente scoperto dai lembi della tunica che la proteggeva alla vista, avrei quasi potuto pensare che il fabbro mi avesse letto nel pensiero.
Scrollai le spalle. Avevo modellato l'osso e la carne che l'avvolgeva in modo che imitassero le venature e le sfumature rossicce del mogano, perciò dissi: – È solo una spadina di legno, da allenamento.
Il volto di destra rise, mentre quello di mezzo si girò verso di me e affermò, con la competenza di chi conosceva il suo mestiere. – Oh no, non lo è. Conosco il legno, e quello non è legno. E conosco i metalli, e quello non è nemmeno metallo, no, nemmeno uno senza ferro, nemmeno rame.
Sospirai, mi guardai attorno e infine, assicuratami che fossimo soli, afferrai l'elsa di Ossasangue e la feci strisciare lentamente fuori dalla sua custodia.
Nel vedere il pugnale fatto di ossa e muscoli, la lama curva che spuntava dalla morbida carne come il bordo affilato di una scapola, uno dei volti fece un fischio di ammirazione, e un altro disse: – Che schifo! – ma in tono giocoso, come se intendesse tutt'altro.
– È tagliente? – Chiese il volto di mezzo, avvicinando una mano.
Riparai in grembo il pugnale, per evitare di ferire la pelle blu del fabbro, prima di rispondere: – Molto. E...
Esitai prima di proseguire, ma di fronte a quei sei occhi indagatori dal taglio esotico non riuscii a tacergli quel dettaglio: – ...e fa più che ferire. Più la lama di Ossasangue resta nel corpo del mio avversario, più lui si indebolisce, e più io assorbo la sua forza. Anche se non la tengo in pugno, perché siamo collegate, siamo...
Sospirai e mi posai una mano sul torace. Sentivo ancora le costole spezzate che si riformavano, la carne sfilacciata che guariva lentamente dopo ogni passaggio della lama di un coltellino d'acciaio che ne aveva asportato un pezzetto, ogni volta che pensavo a come quell'arma era stata creata per me da mio nonno, un alchimista ansioso di studiare i limiti di un corpo di fata. Erano passati anni, ma non riuscivo a dimenticare.
Rinfoderai la lama di ossa e di carne alla risata del fabbro. Una risata triplice, seguita da un coro di voci allegre, dato che all'unisono tutte e tre le bocche dissero: – La scelta è tua, ma sai, ragazza... credo proprio che dovresti dire loro chi sei, e dimostrare il tuo valore, non trattenerti. In fondo, io non sarei diventato il fabbro più rinomato nelle terre dell'ovest se mi fossi legato sei braccia dietro la schiena e coperto due dei miei volti per apparire più accettabile agli occhi di un essere umano.
– ...chi sono? – chiesi, in tono dubbioso. Io stessa non avevo ancora risposto a quella domanda, ma ci pensò il fabbro a farlo per me, nell'alzarsi e tendermi due delle sue otto mani.
– Chi sei – disse il volto di sinistra, in tono gentile, e poi quello di centro concluse, profondo e sicuro: – Un guerriero.

lunedì 14 marzo 2022

Pessimi piani nella Terra del Vapore


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Il piano era semplice, ma non del tutto privo di rischi.
Non avevo alcuna intenzione di essere trascinata da quattro creature volanti per i cieli di quel nuovo mondo, la Terra del Vapore, consapevole com'ero che a tre quarti di loro non avrei affidato la vita di un pesce rosso, figuriamoci la mia. Avevo già avuto fin troppa fiducia in loro quando mi avevano sollevato per raggiungere il portale, a pochi metri da terra, e solo perché sarebbe stato impossibile attraversarlo altrimenti: se anche avessi usato una scala per arrivare al portale dal lato della mia terra, dall'altro mi attendeva un dislivello altrettanto grande, e preferivo un atterraggio per quanto possibile morbido a uno in cui rischiavo le ossa. Perciò avevo affrontato in maniera stoica quel breve volo, sapendo che il nostro piano non ne prevedeva altri.
Danger e i suoi quattro amici avrebbero preso la via più breve, sorvolando la città e attirando così le guardie lontano da noi. Un po' avevo pietà dei poveretti che avrebbero dovuto dare la caccia a cinque gremlin scalmanati. Avevo provato sulla mia pelle che cosa significava, ed era un'esperienza che preferivo non ripetere.
Quando fossero stati abbastanza lontani, Talon e io saremmo usciti dal magazzino e avremmo attraversato a piedi la città. Nonostante il nervosismo che lo animava nel mescolarsi agli umani del suo mondo, a suo dire molto più cattivi di quelli del mio, Talon era l'unico che poteva guidarmi tra le vie cittadine. Aveva fatto abbastanza pratica nella terra da cui io venivo, e con addosso un mantello che gli copriva le ali, il cappuccio calato sulla testa e un paio di galosce senza suole a nascondere le zampe da rettile che aveva al posto dei piedi, poteva quasi passare inosservato. Io invece dovevo fare molta più attenzione, poiché la mia mantellina copriva a malapena una comune maglietta e i jeans e le scarpe da ginnastica che i gremlin avevano definito "abbigliamento insolito", e temevo di spiccare tra la folla come un arcobaleno a un raduno di emo.
– Sembra ci sia parecchia gente qui fuori – mormorai in tono nervoso a Talon mentre attendevamo. Le grida "gremlin, gremlin!", il sibilo dei fischietti e i passi concitati si stavano allontanando, ma avvertivo ancora un certo brusio fuori dal portone, e temevo che da un momento all'altro potesse entrare qualcuno. Di tanto in tanto sentivo lo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo, uno sbuffo di vapore o un clangore metallico, ritmico. Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa avrei trovato là fuori. Mi sentivo ansiosa, agitata ed emozionata. Ero ad appena un passo da un mondo completamente diverso dal mio.
A giudicare da quell'anonimo magazzino pieno di casse non lo si sarebbe indovinato, sempre che non si notasse che invece di essere illuminato da neon o da luci a incandescenza, era rischiarato a malapena da qualche lanterna a gas dalla forma antiquata.
– Sembra – replicò Talon, affaccendato a esaminare il contenuto delle casse. – Quando usciamo però, non prendere niente, non toccare niente e non parlare con nessuno. Un umano non parla la lingua dei gremlin, e se ti sentono...
Sorrisi a quelle raccomandazioni, così simili a quelle che gli avevo fatto io per la sua prima uscita, la visita a un supermercato del mio mondo. Annuii e gli assicurai che avrei seguito le regole.
Ben presto fu tempo di uscire.
Non si può descrivere la meraviglia che provai una volta che i miei occhi si abituarono alla luce del giorno. Il magazzino si trovava su una terrazza sopraelevata e la città si stendeva di fronte a noi. Ovunque, torri di rame e guglie d'ottone collegate da camminamenti si elevavano su cupole d'oro e d'argento formando un'intricata, fitta rete di cattedrali che si stagliavano contro un cielo terso. Non sapevo descrivere in altro modo il profilo frastagliato di quell'insolita città. Non badai troppo alla folla che ci sciamava accanto, nonostante la bizzarria degli abiti retrò che avrei definito normali solo in un ballo in maschera, blu scuro e marrone i colori principali accompagnati da dettagli in cuoio, gilet, cappelli a cilindro, bastoni da passeggio, occhialini da aviatore o cinture con attrezzi come quella che indossava Talon. Ma quando un improvviso sbuffo di vapore salì fischiando da oltre l'orlo della terrazza, giuro che andai molto vicino a un gridolino di spavento, prima di rendermi conto dallo sferragliare successivo che si trattava di un treno che procedeva lungo binari poco più in basso di noi. Altri veicoli si facevano largo lungo le strade, tra la folla vociante: oltre a carrozze dalle forme insolite trainate da cavalli, anche bizzarre moto, basse e allungate, una biga con un motore di ingranaggi a vista, e marchingegni tondeggianti o squadrati che alloggiavano due o più persone. Ebbi l'impressione che alcuni di loro, invece che su ruote, si muovessero sorretti da zampe meccaniche, come strani ragni robot.
Non ebbi il tempo di osservare altro: senza parlare, Talon mi prese per un braccio e mi condusse via. Mi lasciai guidare, entrambi a testa china per non incrociare lo sguardo dei passanti, con il cuore che mi batteva a mille, un po' per lo stupore e un po' per il timore di essere scoperta.
Non avevo idea di cosa mi avrebbero fatto quei gentiluomini e quelle gentildonne, se ci avessero presi. Probabilmente nulla, io non ero un gremlin, ma non volevo mettere nei guai Talon.
Filò tutto liscio finché non ci parve di essere seguiti. Talon me lo bisbigliò in un orecchio, cercammo strade laterali in cui svicolare ma erano occupate da carrozze o da strani veicoli che sbuffavano nuvole di vapore e ticchettavano come vecchie pendole; poi il battente di una massiccia porta di legno scuro si aprì, ne uscì una dama imbellettata con un parasole sottobraccio e noi ci infilammo dentro prima che si chiudesse.
Quando la porta socchiusa si allineò all'altra con un cigolio, un meccanismo scattò e uno stantuffo spinse una sbarra di metallo attraverso una serie di anelli sul legno. Fu inutile cercare di afferrarla e spingerla via: era inamovibile. Davanti a noi una porta chiusa, dietro un'altra chiusa nello stesso modo, e ai nostri fianchi due corte pareti. Lo spazio era davvero poco. Fortuna che non soffrivo di claustrofobia.
– E adesso, genio? – chiesi a Talon, ma non ebbi il tempo di ascoltare la sua risposta, né lui di esaminare e smontare i meccanismi, che con cigolii e scossoni soffitto e pavimento si mossero di pari passo verso l'alto.
– Oh! Un ascensore – intuii. Mi aggrappai a Talon, non essendoci alcuna maniglia o protezione tra noi e le pareti che ci sfilavano lentamente attorno. Quell'affare violava le più elementari norme di sicurezza.
Infine con uno sbuffo si arrestò, e l'unica porta che era apparsa sulla parete di fronte a noi si aprì.
Sbirciammo nel corridoio. Vuoto. Alla nostra sinistra una serie di porte, alla nostra destra alcune finestre mi offrivano un'incredibile vista dall'alto della città. Restai di nuovo incantata. Non c'era nessuno, perciò ci azzardammo ad avviarci lungo il corridoio, e la porta dell'ascensore si chiuse alle nostre spalle. Gettai un'occhiata in tralice a Talon. Gli artigli ai suoi piedi avevano lasciato graffi e strappi sulla moquette del corridoio.
– E adesso? – gli chiesi.
– Troviamo un'altra uscita? – azzardò lui. Non sembrava per nulla preoccupato. Avanzammo con cautela lungo il corridoio, quando una porta più avanti si aprì, e ne uscì una persona voltata di schiena, evidentemente ancora in conversazione con qualcuno all'interno della stanza. Talon aprì la porta più vicina, ignorando il cartellino appeso alla maniglia, e mi spinse dentro.
– Aspetta, c'è scritto "non distur..." – feci appena in tempo a dirgli, prima che anche lui entrasse e serrasse la porta. Le lettere sul cartellino erano strane, un po' diverse dalla grafia a cui ero abituata, ma nonostante il font particolare, la scritta in inglese era inequivocabile.
Un grido spezzato ci indusse a voltarci. Seduto a una scrivania, con un pennino che gocciolava inchiostro sul foglio, un giovanotto ci fissava a occhi sbarrati. Non saprei dire chi di noi fosse più sbigottito dall'intruso con cui si era ritrovato a condividere la stanza.
Talon, invece, avanzò di un passo e ammirò estasiato la parete zeppa di bozzetti e schemi di invenzioni che circondavano la scrivania del giovane. Lasciata ogni prudenza, proprio lui che mi aveva ammonito di non farmi notare, cacciò fuori una mano dalle unghie nere ad artiglio, li indicò e chiese: – Li hai fatti tu?
Ovviamente, in una lingua che il giovane non poteva comprendere. La lingua dei gremlin, così simile all'italiano del mio mondo.
– Gr... gr... gr... – balbettò il giovanotto. A quel punto, la situazione precipitò in fretta.
– Gremlin! – urlò il giovane con tutto il fiato che aveva in gola.
Sollevai le mani in segno di resa, e nel mio inglese scolastico cercai di rassicurarlo. – Friends! Friends!
Non fui per niente credibile, anche perché quando Talon lo vide allungare una mano verso un bastone, da buon gremlin combinaguai qual era, gli saltò addosso. E tanti saluti all'amicizia tra umani e gremlin.
Il ragazzo urlò ancora qualcosa che non capii, ma intuii che stesse chiamando delle guardie, e quando udii i passi concitati avvicinarsi alla porta, tirai su Talon e lo strattonai via dal giovanotto, che ancora mi fissava incredulo.
– Che facciamo, che facciamo... – Mi misi le mani nei capelli, in preda al panico.
Talon però aveva un piano. Un altro. Forse ce lo aveva fin dall'inizio.
Si liberò del mantello, si sgranchì le ali e aprì una finestra che dava su guglie aguzze e un mare di cupole. – Rachele, adesso dobbiamo proprio volare. O planare, almeno. O non cadere troppo velocemente. Se ci riesce.
Non suonava per niente rassicurante, ma eravamo a corto di alternative.

sabato 12 marzo 2022

Erudire

Erudire [e-ru-dì-re] v.tr. (erudisco, erudisci ecc.) 1. [sogg-v-arg] Istruire qualcuno, renderlo colto e informato. 2. [sogg-v-arg-prep.arg] In senso perlopiù scherzoso, informare, mettere al corrente qualcuno di qualcosa.

Etimologia: dal latino erudire, "dirozzare", composto da ex, "fuori", e da rudis, "rozzo", quindi letteralmente "tirare fuori dalla rozzezza.



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Erudire il fanciullo era il lavoro più ingrato che gli avessero mai proposto di fare. La bestiolina semplicemente non capiva, si agitava sulla sedia, lo fissava con occhi stolidi. E continuava a fare domande insulse con quella sua vocina gracchiante, "ma perché quei due popoli si sono fatti la guerra", o "che cosa succede se a tavola uso la forchetta sbagliata", o ancora "posso andare a giocare adesso?".
Solemestis era stanco. Stanco di essere soltanto un precettore, stanco di non avere acquisito alcun vero potere da quando, una decina d'anni prima, era riuscito a mettere un metaforico piede sulla soglia del palazzo del re grazie alla sofisticata invenzione di una vita che non gli era mai appartenuta. Era stato facile, con la sua parlantina e le nozioni che possedeva, far credere di aver già lavorato al servizio di nobili e ricchi possidenti stranieri, e di essere assai stimato da costoro, come attestavano le false lettere vergate "di loro pugno". Da lì, era passato dall'una all'altra famiglia tra quelle che gravitavano attorno alla corte del re, senza mai riuscire ad avvicinarsi di un passo alla sua meta.
Era ancora lì, a guardare dalla soglia la gente che contava davvero.
Tutto cambiò un giorno quando, una volta congedato l'ennesimo fanciullo inetto, uno dei suoi contatti tra la servitù, pagato profumatamente per tenere occhi e orecchie aperte e riferirgli tutto ciò di cui veniva a conoscenza, entrò nella sala del precettore con fare circospetto.
Solemestis alzò gli occhi al cielo, si sedette sullo scranno e mormorò: – Erudiscimi.
Quello non capì, segno che avrebbe avuto bisogno di un precettore anche lui. Ma alla fine, quando Solemestis riuscì a tirargli fuori le parole di bocca, comprese che quella era l'occasione che stava aspettando.
Si era liberato un posto da scrivano al fianco di uno dei consiglieri. La persona che lo ricopriva avrebbe avuto fra le mani tutte le delibere, le lettere, gli ordini che da quel sommo congresso sarebbero usciti.

giovedì 10 marzo 2022

La strega del mare


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La strega se ne stava in piedi a prua della nave, avvolta in un fumo dai colori cangianti, le mani protese in avanti e sollevate verso il cielo livido. Non pioveva, non ancora, ma immense onde squassavano lo scafo e lampi violenti illuminavano a tratti le nubi, accompagnati da scoppi di tuoni che coprivano le urla del quartiermastro e dei marinai, i pochi che ancora riuscivano a reggersi in piedi in quell'inferno. Io non potevo, non più: mi ero alzato in piedi due volte e due volte ero scivolato e andato a sbattere contro il parapetto. Fradicio, dolorante, esausto, avevo rinunciato a rialzarmi e mi ero avvolto una sartia attorno al braccio per evitare di essere buttato fuoribordo dalla nave che sussultava come un cavallo imbizzarrito, ormai fuori da ogni nostro controllo. E lei era lì, sicura e stabile, a mormorare incessantemente un'empia litania al cielo e alle onde, e nessuno spruzzo pareva in grado di penetrare il fumo iridescente che le turbinava intorno, né le raffiche di vento avere il potere di disperderlo.
Era la visione più terrificante a cui avessi mai assistito, più ancora della tempesta da incubo che imperversava sul nostro vascello. Ed era vicina, a pochi passi da me.
Non potevo alzarmi, mi dissi, mentre un'altra ondata salmastra superava la murata e mi pioveva addosso, pesante e umida, come uno schiaffo dal dio dei mari in persona. Non potevo alzarmi, ma forse... forse potevo strisciare...
La strega mi dava la schiena, perciò non mi avrebbe visto. Era intensamente concentrata sulla magia che stava tessendo, le sue dita si muovevano come a tirare invisibili fili nei vapori color arcobaleno, e la sua voce magnetica cantava, cantava un'irresistibile malia da sirena, cantava all'oceano e al vento. Non mi avrebbe sentito avvicinarmi, io stesso sentivo a stento le urla dei miei compagni di sventura, gli ordini ripetuti da un capo all'altro della nave da chi ancora sperava di poterci salvare nella solita maniera, per mezzo delle cime e del timone. Come se quella in cui ci trovavamo fosse una comune tempesta mentre invece era stata lei a evocarla, lei che ci aveva tradito, lei che ci avrebbe fatto colare a picco. Qualcuno doveva fermarla, non c'era altra soluzione. Una volta morta la strega, la tempesta si sarebbe placata.
Tossii l'acqua che l'ennesima onda mi aveva ficcato in gola. Avevo ancora un coltello, e se un'arma mortale poteva ferirla, quella era la mia occasione. Ma esitavo a lasciare la sicurezza offerta dalla sartia che mi tratteneva, e in più, ogni volta che alzavo lo sguardo su di lei, mi sentivo paralizzare dal terrore. E, per quanto mi paresse impossibile, me ne sentivo anche attratto. Era una bella donna, questo avevo pensato quando si era presentata a noi, dal fascino selvaggio ed esotico. Ma da quando avevo sperimentato il suo potere, la guardavo come si guarda uno squalo, o una tigre nella foresta, sapendo che può ucciderti.
Volsi lo sguardo al resto del ponte, continuamente spazzato da ondate successive da entrambi i lati, e agli omuncoli che si affaccendavano o che resistevano come potevano, aggrappati a qualsiasi cosa. Di fronte a me, addossato alla murata di destra, illuminato di tanto in tanto dai lampi, vi era un marinaio che stentai a riconoscere. Forse indovinò le mie intenzioni dalla mia espressione risoluta, o forse dalla mano posata sul manico del coltello alla cintura, ma il marinaio mi fissò e scosse lentamente la testa.
O forse, semplicemente, stava cercando di schiarirsi le idee dopo la botta che doveva aver preso e che gli aveva gonfiato il lato sinistro del volto.
Io non ero messo meglio, con tutti i lividi e il dolore che mi bruciava la schiena e le membra. Forse ero anche ferito, chissà, era impossibile dirlo se l'acqua di mare continuamente lavava via il sangue. Ma ero l'unico abbastanza vicino e abbastanza folle da tentare l'impresa. Con cautela, svolsi le corde dal braccio e mi tenni basso, pronto a piantare le unghie sul ponte, se necessario. Sul punto di scivolare in avanti, qualcosa di colpo cambiò.
La voce della strega tacque, e fu il silenzio. Niente più tuoni, niente più raffiche di vento ululante, niente più frastuono delle onde. La strega abbassò le mani e il fumo che l'avvolgeva si disperse, e un cielo azzurro squarciò le nubi che si andavano rapidamente disperdendo, senza vento a soffiarle via, come assorbite dai raggi di sole nella bonaccia.
Per un lungo istante, temetti che lei avesse scoperto i miei piani.
Invece la strega si volse e senza degnarmi di un'occhiata si avviò verso il cassero a poppa, là dove una porta si socchiudeva e un uomo in paramenti regali, molto pallido, si affacciava.
La camminata della strega era strana, sbilenca, quasi zoppicante nonostante la rapidità del suo incedere, come se non fosse del tutto abituata a usare le gambe, a muoversi su un terreno solido. Giunta di fronte al nostro re, uscito dalla sua cabina affiancato da un attendente che gli asciugava la fronte, la strega accennò una riverenza ed esordì: – O potente sire, – e detto da lei, con quel tono, dopo lo sfoggio di potere che aveva fatto con la sua magia, quell'appellativo aveva il sapore di una derisione. – Voi mi avete evocato, e io, come promesso, ho fatto scempio dei vostri nemici, e vi ho liberato dalla loro sgradita presenza.
A quelle parole mi sollevai a sbirciare oltre il bordo della murata, e come me molti altri, compreso il marinaio dal volto tumefatto, si protesero a osservare un mare placido, senza più traccia della flotta nemica che con i suoi cannoni aveva decimato i nostri vascelli. Centinaia di navi, che dopo aver affondato le nostre subendo perdite irrisorie avevano circondato la nostra ammiraglia, e se non ci avevano preso a cannonate era stato solo perché evidentemente avevano l'ordine di catturare vivo il nostro re. Di quelle navi, dopo la tempesta, non restava più alcuna traccia, nemmeno un relitto, né il cadavere di un marinaio che affiorava dall'acqua.
Il mare aveva inghiottito tutto.
Il nostro re stava balbettando un ringraziamento, ma la strega lo interruppe.
– Dimostratemi, sire, la vostra gratitudine onorando il patto che abbiamo stretto. Io pretendo la mia remunerazione, come stabilito.
– Ma certo, certo, come s... stabilito. – La voce del re incespicò nelle parole, poi si abbassò, ma nonostante fosse appena un mormorio, nel silenzio e nella bonaccia seguita alla tempesta noi lo udimmo lo stesso. – Potete avere uno dei miei marinai... quello che volete.
Ci guardammo l'un l'altro, intimoriti. Qualcuno si strinse più forte alle corde come se la tempesta stessa fosse tornata a prenderlo e rovesciarlo in mare. Il marinaio ferito alla testa, di fronte a me sull'altro lato del ponte, si accasciò e iniziò a piangere in tono lamentoso.
La strega rise, e fu come un acciottolio di conchiglie trascinate sui fondali dalle correnti. Era un suono allo stesso tempo magnifico e tremendo.
– Non voglio i vostri conigli. Anguille che strisciano nella melma e si nascondono tra le alghe, misere e tremebonde.
Pensai, a quelle parole, che la strega intendesse portarsi via il re in persona. Pensai che gli stesse bene, dopo aver stretto quel patto scellerato sulla pelle di qualcun altro.
– Tuttavia... – proseguì la strega. – Forse, dopotutto, qualcuno degno delle mie attenzioni esiste, su questa nave. Uno solo, con sufficiente coraggio da pensare di potermi tenere testa. Un illuso, un folle, ma nondimeno... ha suscitato il mio interesse.
La strega del mare si girò, puntò un dito adunco nella mia direzione, e disse: – Voglio lui.

lunedì 7 marzo 2022

Storia di una nave fantasma e di un Leviatano addormentato


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Ike louie Natividad da Pexels


C'era una volta un antichissimo mare, tanto vecchio che i nipoti dei nipoti dei nipoti di tutti coloro che ne avevano anche soltanto sentito parlare dai loro nonni erano ormai morti, e nessuno più tramandava ai viventi dove si trovasse, o quali pesci e creature nuotassero tra le sue acque. L'antichissimo mare, ormai divenuto un mistero, l'ombra di una pallida leggenda, permetteva a una sola nave di solcare le sue onde, ed era una nave quasi altrettanto antica, diversa da quelle che il vento sospinge sui nuovi mari.
Le sue assi erano rotte, le vele strappate, le sartie annodate o penzolanti. Eppure il veliero non affondava, anzi, arrancava nella nebbia, spinto dalle onde, più che dal vento che di tanto in tanto smuoveva appena i brandelli delle vele. Nel suo ventre ferito, che gemeva e scricchiolava ai pigri rollii di cui era preda, s'intravedeva di tanto in tanto tra le crepe e l'oscurità un bagliore bianco, un volto funereo, una bocca spalancata che emetteva un tetro lamento. La melodia malinconica di un flauto accompagnava il passaggio della nave fantasma tra gli scogli affioranti dall'antico mare, a cui rispondeva di tanto in tanto il rintocco della campana di bordo e un lugubre trascinarsi di catene nelle profondità della nave.
Fu così, in queste condizioni, che la trovò una notte un uomo sbucato dalla nebbia a bordo di una scialuppa di salvataggio. La nave da cui l'uomo proveniva era affondata ed egli non seppe mai come aveva fatto a ritrovarsi su quel mare sconosciuto, con la sagoma scura di un veliero di fronte a sé nel chiarore lunare, un veliero che non pareva in grado di galleggiare, eppure lo faceva.
Un altro uomo, qualcuno più saggio di lui, avrebbe girato la scialuppa e sarebbe tornato da dove veniva. Ma lui no. Forse fu sete di avventura, forse fu avidità, forse fu semplicemente mancanza di buon senso, ma l'uomo remò fino ad accostare la scialuppa alla nave, e legata la prima a un asse spezzato della seconda, l'uomo si arrampicò per raggiungere uno squarcio nello scafo abbastanza grande da permettergli di entrare. E così l'uomo vagò nell'oscurità del ventre della nave, e gli parve di udire pianti e lamenti tra lo scricchiolare del legno, e passi che non erano i suoi, e negli angoli bui, di tanto in tanto, gli pareva di scorgere una sagoma, un volto, che svaniva subito dopo. Inquietanti presenze abitavano la nave, e l'uomo le chiamò affinché si mostrassero apertamente, e seguì lo stridere delle catene che si allontanavano da lui, come volessero sfuggire al suo sguardo. Giunse quasi a pensare che la stanchezza gli avesse fatto immaginare tutto, finché non udì una voce di donna ripetere queste parole: – Il nostro lamento potrà cessare quando il Leviatano tornerà a vegliare; riprenderemo la forma normale se il mostro più non sognerà il male.
L'uomo alzò gli occhi e vide chiaramente, tra le assi spezzate del soffitto, fluttuare la figura di una dama bianca, con le vesti che le guizzavano intorno come sospinte da un vento impossibile. Dapprima ne fu sgomento, ma un attimo dopo un'altra voce levò fra quella cantilena monotona.
– Ah, non ci badare. – La voce era quella di un ragazzino, e volgendosi l'uomo vide un giovanotto aggrappato a una ramazza. Ma era un'apparizione traslucida, che come la dama bianca, non sembrava realmente lì. Nel fissarlo senza parole, l'uomo si avvide che nonostante l'apparente giovane età, il mozzo aveva occhi antichi, profondi e oscuri. – Lo dice sempre, ma non succede mai – proseguì il mozzo, e diede qualche colpo di ramazza sul pavimento.
– Qualcuno dovrebbe farlo – disse l'uomo, dopo un attimo di esitazione. – Svegliare il mostro, tornare alla normalità... non sarebbe bello se questa nave potesse ritornare alla vita, riprendere a navigare?
Il mozzo fantasma fece spallucce. – E chi vorrebbe mai provarci? Ah, ormai non ci speriamo più. Tanto, l'unico che conosce un modo per svegliare il Leviatano è il vecchio marinaio che sta sempre in coffa, di vedetta. Lui suona il flauto che ha addormentato il mostro. Lui lo più svegliare, ma non vuole.
– Se lui non vuole, lo farò io. Tranquillo ragazzo, spezzerò la maledizione che vi affligge. – L'uomo stava già per andarsene, ma la voce del mozzo lo trattenne.
– Va bene, ma... ascolta il mio consiglio. Non salire sulla coffa, fa' in modo che sia il vecchio marinaio di vedetta a scendere da te. Chiamalo dal basso, lui all'inizio non ti sentirà perché a furia di suonare quel dannato flauto ormai è diventato mezzo sordo. Ma con un po' di pazienza, prima o poi si accorgerà che sulla nave c'è qualcuno che non dovrebbe esserci, qualcuno di vivo, e scenderà a vedere di persona.
L'uomo annuì a quel consiglio, ma mentre se ne andava, già aveva in mente di fare le cose a modo suo. Non aveva voglia di aspettare che il vecchio marinaio lo notasse e scendesse, così fece proprio quello che gli era stato detto di non fare: salì fino in cima all'albero maestro e si issò sulla coffa.
Quando lo vide, il vecchio marinaio restò stupefatto, ma non smise di suonare, e allora l'uomo gli strappò il flauto dalle mani fantasma e se lo ficcò in bocca credendo che fosse facile da suonare, e invece l'unica cosa che riuscì a trarne fu una nota acutissima, stridente, penetrante. Così intenso fu quel suono sgraziato che perfino il fantasma del vecchio marinaio mezzo sordo si portò le mani alle orecchie, così intenso che nelle profondità dell'antichissimo mare un enorme occhio si aprì.
E allora, fra il rimprovero del vecchio marinaio: – Che cosa hai fatto, disgraziato! Hai svegliato il signore degli abissi, colui che doveva dormire! – l'uomo vide che la maledizione che affliggeva la nave fantasma era finalmente spezzata, ma non nel modo in cui lui credeva. Perché la forma normale di quella nave, troppo vecchia, davvero troppo, gli si rivelò nelle assi che marcivano sotto i suoi piedi, nell'albero maestro che crollava sul ponte, distruggendo quel poco che ancora restava integro e che già stava affondando, con l'acqua che zampillava dentro la stiva a riempire il ventre della nave per troppo tempo rimasto asciutto, protetto dai sogni del Leviatano che immaginava nel sonno una nave fantasma a solcare quel mare antico. Le anime intrappolate furono libere di trovare il riposo e la pace, non altrettanto l'uomo, che precipitò fra le onde del mare senza nemmeno più una scialuppa ad attenderlo, dato che la sua era affondata assieme all'antico veliero a cui l'aveva legata. E sarebbe affogato, lì da solo, in balia delle onde, se il Leviatano, che si era svegliato affamato e di pessimo umore grazie a quel fischio stonato, non fosse salito fino in superficie e non ne avesse fatto un sol boccone per colazione.
E questa, ragazzi miei, è la storia che viene narrata a ogni bambina e ogni bambino che pensa di essere il più bravo, di saper fare qualunque cosa meglio di chiunque altro, di avere tutte le risposte, e di non aver bisogno del consiglio di nessuno.

sabato 5 marzo 2022

Soffuso

Soffuso [sof-fù-so] agg. 1. Diffuso in modo tenue e uniforme; cosparso, colorito. 2. fig. Venato, pervaso di qualcosa.

Etimologia: dal latino suffusus, participio passato di suffundere, composto da sub, "sotto", e fundere, "spargere, versare".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La luce del tramonto brillava tenue sui suoi capelli. Mia figlia teneva un barattolo di vetro di fronte a sé, le piccole braccia tese verso il sole. Mi sono avvicinato in silenzio, camminando a piedi nudi sulla sabbia soffusa di un tiepido calore. Dopo qualche istante di muta osservazione, mi sono accosciato accanto a lei.
– Che cosa stai facendo? – le ho mormorato, guardando prima lei, poi l'orizzonte.
I bambini, certe volte non si riusciva proprio a capirli. Eppure lo siamo stati tutti, no?
– Papà, ma non vedi? Aspetto che il sole entra nel barattolo – mi ha risposto lei.
Ho sorriso, adocchiando il suo sguardo di intensa concentrazione puntato sul barattolo di vetro trasparente, vuoto. Lo sguardo di una bambina di quattro anni che ancora crede nell'impossibile.
Eppure, grazie a lei, ci credevo anch'io.
– E perché vorresti mettere il sole in un barattolo? – le chiesi, un blando tentativo di comprendere la sua astrusa logica.
– Mi hai detto che tu non puoi fare la luce. Allora voglio dartene un po' io. Così non hai più paura del buio, come me.
Il suo sorriso, mentre si voltava a guardarmi, era la cosa più bella del mondo. Ancora più bella di quella magia di luce che lei sapeva sprigionare dalle mani, e che la rendeva speciale, ma allo stesso tempo, in pericolo. Un'inquietudine ansiosa soffuse i miei pensieri mentre la abbracciavo.
Io non avevo paura del buio. Avevo paura che il mondo la scoprisse, che me la portasse via per studiarla in un freddo laboratorio sotto impietose luci al neon.
Non mi importava di sapere perché lei era come era.
Io volevo solo che fosse felice.

giovedì 3 marzo 2022

Il marinaio riluttante


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Foto di Kulbir da Pexels


Ero seduto alla scrivania nella mia cabina, severo e serio come si confaceva a un capitano. Più indietro, adagiata su una poltrona accanto ai tendaggi che nascondevano la parte privata della cabina, quella dove si trovava il nostro letto e la tavola da toeletta, c'era Ekira, il mio secondo in comando, mia moglie. Attorno a noi il nostro gioiello, il nostro sogno, la nave Fortuna Maior, unica al mondo nel suo genere, che gemeva e scricchiolava come se avesse temuto quel momento fin dalla sua creazione.
Era solo la mia impressione, lo sapevo, a farmi interpretare la consueta voce del legno in maniera diversa rispetto agli altri giorni. Avevo sempre trovato rassicurante quella melodia, il cedere lento delle assi elastiche alla carezza del vento che lassù, sopra il ponte, gonfiava le vele. Non erano diverse dal solito le grida dell'equipaggio che si accingeva alle manovre, o le strida dei gabbiani che erano saliti fin quassù a vedere il prodigio di una nave che solcava le nubi, o lo strisciare metallico delle catene e quello più languido delle corde che trattenevano al loro posto le casse nella stiva. Eppure, quello era un giorno diverso dagli altri. Un giorno che poteva porre la parola "fine" alla nostra impresa.
Rivolsi la mia completa attenzione alla figura dai capelli rossi, al suo ghigno furbesco, da volpe, dopo che ebbi soppesato le sue parole. "Perché?", avrei potuto chiederle, ma conoscere il motivo della sua ostilità non avrebbe cambiato la situazione, mi avrebbe solo fatto apparire debole.
– E così, alla fine, hai capito. – Ekira si alzò dalla poltrona e parlò in mia vece. – Non mi stupisce. Non c'è limite a quello che può fare una donna, se è abbastanza motivata.
Mentre Ekira mi si affiancava, io seduto e lei in piedi, vidi il ghigno di colei che mi stava di fronte vacillare in una smorfia. – O un uomo – completò la nostra ospite, con una voce tanto grave da parere maschile. Nel proseguire, riprese il tono beffardo, indefinibile, con cui aveva esordito quando le avevo dato udienza nella mia cabina. – Capitano, non c'è motivo di rompere il vostro bel giocattolo – allargò le braccia verso le pareti lignee della cabina, la cui musica scricchiolante faceva da sottofondo alla nostra conversazione. – Possiamo entrambi ottenere ciò che vogliamo. Io me ne vado da qui, e con me se ne va il vostro segreto. Nessuno a bordo saprà mai come funziona tutto questo. Continueranno a sognare una nave volante, beatamente inconsapevoli...
Batteì una mano sulla sulla scrivania, zittendola prima che potesse pronunciare la successiva minaccia. E ne misi in campo una a mia volta. – C'è un altro modo di risolvere il problema – dissi, alzandomi. – Molto semplice, e definitivo. Posso gettarti fuoribordo.
La mia voce si fece cupa, e accanto a me Ekira trattenne il fiato e sbirciò nella mia direzione. Sapevo che cosa si chiedeva. Avevo intenzione di farlo davvero, volevo davvero uccidere una persona, un membro del nostro equipaggio?
Non potevo dirle che il mio era un bluff, ma non fu necessario. Il nostro mutevole marinaio dai capelli rossi, difficile dargli un nome dato che lo variava, assieme alla personalità, più spesso di quanto non si cambiasse d'abito, reagì alla mia minaccia con uno scoppio di riso.
– Credete che non ci abbia pensato, capitano? – ribatté al termine delle risate. Il timbro della sua voce si fece aspro, sbrigativo. – Ho i miei piani, capitano, piani che si metteranno in moto nel caso della mia morte, e il vostro bel segreto verrà a galla lo stesso, e la vostra bagnarola affonderà... precipiterà – si corresse. Raddrizzò la schiena e concluse, in tono più morbido, femminile eppure sprezzante: – E così, nessuno di noi otterrà ciò che desidera. Non sarebbe molto più facile fare le cose alla mia maniera?
Nel silenzio che seguì, rotto solo dai due rintocchi della campana di bordo che si udivano nitidi al di sopra dei gemiti del legno e del soffio di un vento sostenuto, Ekira cercò di prendermi sottobraccio, ma io mi scostai da lei. Avevo bisogno di pensare.
– Perché? – chiese infine alla nostra ospite, lei che poteva. Io lo immaginavo, perché non è che la rossa fosse salita a bordo di sua spontanea volontà. Era una truffatrice, ed era stata truffata a sua volta per "convincerla" a far parte dell'equipaggio, e ormai a questo punto lo aveva capito. Ma io speravo, speravo con tutto me stesso che a dispetto del modo in cui l'avevamo reclutata, i mesi passati a familiarizzare con il resto dell'equipaggio e le straordinarie avventure vissute a bordo avessero potuto attenuare la sua repulsione nei nostri confronti. Lo avevo sperato, prima di quel momento, e davvero sembrava che lei si fosse integrata con l'equipaggio. Ma ora sapevo che era stata solo un'altra delle sue recite.
– Perché, signora Bright? – di nuovo la voce della rossa era mutata in un tono divertito, che si fece carico di disprezzo alle successive parole: – Io non sono il vostro burattino. Non potete muovere i miei fili senza aspettarvi di rimanere ingarbugliati. Avete voluto mettermi in una prigione di legno nel bel mezzo del nulla, avete voluto strapparmi dalle mie radici a terra, tra la gente, tanta gente, con la facoltà di andare dove più mi piace e fare tutto quel che mi pare, solo per mettermi qui, in mostra come un fiore in un vaso di vetro, a eseguire ordini – la nostra ospite riluttante sbuffò e ci scoccò un'occhiata irosa. – In quello che faccio sono la migliore, per questo mi avete voluto. Solo che non potete battermi al mio gioco. Io ho vinto, e non me ne resterò qui ad avvizzire lentamente. Rivoglio la mia libertà.
Guardai Ekira, e lei mi restituì uno sguardo affranto. Non c'era modo di farle cambiare idea, il rifiuto che la nostra ospite nutriva nei confronti della Fortuna Maior, del suo equipaggio e soprattutto verso di noi non si era mai sopito, anzi, se possibile, era divampato in un fiammeggiante odio. Sapevamo entrambi che non potevamo permetterle di rivelare agli altri il funzionamento del cuore della nave, ciò che le permetteva di librarsi in volo. Se lo avessero saputo, avrebbero iniziato a dubitare, e se avessero dubitato, i loro sogni, la loro immaginazione, i voli pindarici delle loro menti si sarebbero indeboliti a tal punto da non essere più in grado di sostenerci in aria. Sarebbe stata la fine non solo per il nostro folle progetto, ma anche per tutti noi.
A quel punto, non restava che una sola cosa da fare. E tutti avrebbero ottenuto ciò che volevano.