lunedì 27 febbraio 2023

Cucire le onde


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Foto di Teona Swift da Pexels


Nelle notti serene o nelle pallide ore che precedono l'alba, la Tessitrice lasciava la sua casa e passeggiava lungo la spiaggia, o sedeva su una roccia solitaria in riva al mare. Non era raro che in quelle occasioni portasse con sé sulla spiaggia il cestino da ricamo e una pezza da ornare, approfittando delle torce che le donne del villaggio avevano piantato nella rena, da lasciar ardere tutta la notte in attesa che mariti e figli rientrassero con le barche cariche di pesce.
Una di quelle torce, in fondo, apparteneva a lei. Lei che ascoltando il canto delle onde, avvolta nella brezza salmastra che spirava da est, pizzicava con le dita la stoffa bianca e passava l'ago tra i fili intrecciati di trama e ordito, da un lato all'altro, tracciando punto dopo punto il disegno sull'orlo di una tovaglia o sul corpetto di un abito da sposa, l'unica occasione per le donne del paese di indossare un abito ricercato confezionato per loro da un'estranea, perché la veste funebre era per tradizione cucita e ricamata solo dai membri della famiglia.
Lei che attendeva il suo uomo e suo figlio, e a ogni punto che l'ago fissava sulla stoffa immaginava di poter cucire le onde, di fermare il loro moto incessante e legarle in una strada di spuma, un sentiero bianco e celeste che riluceva di stelle e dei raggi delle due lune, tanto solido da poterla condurre al peschereccio che galleggiava tra i flutti, da poterla guidare fino a loro.
Di solito, le strida dei gabbiani in volo radente e le prime luci dell'alba la destavano dalle sue fantasticherie, e la Tessitrice si rendeva conto di aver disegnato punto dopo punto, quasi in sogno, un susseguirsi di onde sulla spiaggia, un cielo di stelle, o il volto della dea dell'oceano.
Quella notte però fu diverso. A restituirle la coscienza di sé non fu il verso sgraziato di un uccello marino, bensì un mugolio sofferente.
Il mare aveva restituito alla terra un uomo.
La Tessitrice si affrettò a soccorrerlo. Giaceva tra i detriti di un vascello, pezzi contorti di metalplastica strappati con violenza da uno scafo.
Non era il suo uomo, ma lo conosceva, e sapeva che era più volte uscito in mare sullo stesso vascello. Inginocchiata sulla sabbia bagnata, la Tessitrice usò gli strumenti del suo mestiere, l'ago e il filo, non per decorare una stoffa, bensì per suturare un taglio profondo sul fianco dell'uomo e uno più lieve sulla sua gamba. Lo interrogò, ma inutilmente: pur se sembrava in condizioni di poter vivere, non era nelle condizioni di darle una risposta.
Il mare, nel frattempo, restituiva altri corpi in mezzo ai detriti. Tutti morti.
Finché, aggrappato a un pezzo di metalplastica così grande da fargli quasi da zattera, non giunse a riva un ragazzo di sedici o diciassette anni.
La Tessitrice lo riconobbe. E capì che era vero ciò che aveva temuto, che i frammenti della barca e i naufraghi appartenevano al peschereccio di suo marito.
– Mathias! – urlò la Tessitrice, e lo raggiunse.
Il ragazzo era esausto, e aveva un taglio sulla tempia che sanguinava copiosamente, ma tutto sommato, non sembrava in pericolo di vita.
La Tessitrice gli tamponò la ferita sulla fronte con la stoffa ricamata a metà.
– No, mamma, rovinerai il tuo lavoro! – biascicò il ragazzo in tono lamentoso, tentando di allontanare la sua mano e la stoffa bianca che si tingeva di rosso.
– Che cosa è accaduto? Dov'è tuo padre? – lo interrogò allora la Tessitrice, mentre lo tratteneva a sedere sul bagnasciuga. Con gli abiti fradici, il ragazzo tremò nella brezza notturna, e forse non fu solo per il freddo.
– Papà è sceso a controllare il motore assieme a un altro... mi ha detto che se avessi sentito un rumore da sotto, avrei dovuto saltare in acqua senza pensarci due volte, e così ho fatto – spiegò il ragazzo, aggrottando la fronte nello sforzo del ricordo. – Qualcosa mi ha spinto sotto. Non so cos'è successo, ma quando sono riemerso, la barca era in fiamme, e in pezzi attorno a me, e tutti urlavano. Quelli che erano vivi, intendo.
Il ragazzo guardava fisso davanti a sé, sotto shock, la voce incolore. La Tessitrice lo abbracciò.
Accanto a loro, un corpo che pareva morto si girò, e un occhio li fissò. L'uomo, dal pallore cadaverico, aveva metà del volto ustionato, e una gamba strappata sopra al ginocchio tingeva abbondantemente le onde e la sabbia di una sfumatura più scura.
Tuttavia, aveva ancora abbastanza forza in corpo da esalare un roco avvertimento: – Quell'uomo... l'uomo... vi ha trovati...
La Tessitrice gli tappò la bocca con una mano. Non poteva ricucire le sue ferite, lo sapeva, perciò gli tenne chiusi la bocca e il naso finché non lo sentì più lottare.
Mathias restò attonito di fronte a quel gesto. Era troppo giovane per capire la pietà di una morte rapida, e gli sembrò che sua madre volesse piuttosto impedirgli di parlare di fronte a lui.
– Ascoltami Mathias – gli disse in fretta la Tessitrice, riscuotendolo dal torpore. – Va' a casa da tua sorella e chiudi la porta, e veglia su di lei questa notte. E se non dovessi tornare, ti ricordi quello che ti ho detto, vero?
Mathias ci pensò un momento. Lungo la spiaggia, un sopravvissuto stava arrancando nel mettersi in salvo sulla rena.
– Che Leda è troppo intelligente per essere felice a Karecanthia – bofonchiò Mathias, come se ripetesse una lezione imparata a memoria. – Che per il suo bene, devo trovarle un posto dove può studiare e imparare tante cose. Che devo badare a lei, perché sono suo fratello maggiore.
La Tessitrice annuì, e lo strinse in un altro abbraccio. – Il mio ometto! – Sul viso bagnato di salsedine le scese una lacrima. – E mi raccomando, trova un posto che sia giusto anche per te – concluse nel lasciarlo. Da qualche parte, lungo la spiaggia, un'ombra si stava alzando in piedi, oscurando le stelle più basse.
– E ora vai! Va' da tua sorella e fa' come ti ho detto! – lo spronò la Tessitrice.
Mathias si allontanò obbediente, verso le case del villaggio vicino.
La Tessitrice non tornò a casa. Il giorno dopo Mathias e Leda erano ufficialmente orfani, anche se i corpi non furono mai trovati.
I testimoni raccontarono che il Pescatore era morto nell'esplosione accidentale di un vecchio motore di vascello, e la Tessitrice per il dolore si era gettata in mare dagli scogli.
Mathias però serbava un ricordo di quella notte di cui non aveva mai parlato a nessuno, nemmeno a sua sorella. Non era neanche certo che fosse accaduto realmente, che non si fosse trattato piuttosto di un'allucinazione dovuta alla fatica e alla ferita che ancora pulsava sulla sua tempia.
Mathias ricordava di aver udito un grido, e quando si era voltato aveva scorto un'ombra che si accasciava sulla spiaggia, e la Tessitrice, sua madre, che alla luce delle stelle e del freddo chiarore celeste della pallida luna minore infilava l'ago più e più volte in un fazzoletto bagnato di sangue, cucendo come per magia una strada di spuma tra le onde, congelandole sotto i suoi passi nel breve lasso di tempo in cui camminava su di loro, sempre più lontana, verso l'orizzonte.

sabato 25 febbraio 2023

Improntitudine

Improntitudine [im-pron-ti-tù-di-ne] s.f. Mancanza di discrezione, di rispetto.

Etimologia: deriva dal latino in promptu, "a disposizione, a portata di mano".



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Foto di Murry Lee da Pexels


– Ma io lo faccio per il tuo bene, caro.
Chissà perché, i soggetti più inclini all'improntitudine sono anche quelli che più spesso affermano di avere motivazioni altruistiche. La signora Emilia era di questa risma, e nel corso del tempo si era trasformata da simpatica impicciona, le cui intrusioni in casa mia a tutte le ore per condividere pettegolezzi di ogni genere mi avevano suscitato spesso un sorriso, a pericoloso segugio dal quale avrei fatto meglio a tenermi alla larga.
Quando la signora Emilia puntava qualcosa, non c'era verso di farla desistere. Me ne accorsi troppo tardi, quando si presentò alla porta di casa mia con quasi tutto il paese al seguito.
C'erano Sabina la veggente, e il vecchio contadino Michele, Anna la fruttivendola e il meccanico Arturo, con la moglie Luciana. E una folla di innumerevoli altri, troppi, tra ferventi seguaci e semplici curiosi.
– È fuori questione, punto e basta – replicai all'insistenza della vicina ficcanaso.
L'improntitudine con cui aveva contagiato tutti mi avrebbe costretto a traslocare. Di nuovo. Tremai al pensiero quando mi resi conto che stavo già considerando l'eventualità.
E io che ero venuto ad abitare in campagna per stare tranquillo.
– Se non hai niente da nascondere, caro, non vedo perché non farci entrare nel tuo garage. In fondo è anche per la tua sicurezza che lo facciamo – disse la signora Emilia, e i più vicini annuirono e mormorarono la loro approvazione. – A meno che tu non abbia qualcosa da nascondere... ti hanno già fatto il lavaggio del cervello, quei cosi? Sei dalla loro parte, adesso? – insinuò la signora Emilia, e il suo tono mellifluo mi spaventò molto più che se lo avesse gridato.
Ero sempre stato dalla loro parte, ma nessuno di loro avrebbe capito.
– Certo, nascondo un intero ufo nel garage, con tutto un equipaggio di omini grigi – replicai, e le risatine che udii da in fondo il gruppo mi tranquillizzarono. Ridicolizzare l'idea era la miglior arma che avevo per proteggere i miei amici.

giovedì 23 febbraio 2023

Audioracconto - I gusti del vivere


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I gusti del vivere
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Stavolta ho un consiglio. Se sei una mamma in ascolto di questo racconto con i bambini, o se semplicemente ti va di fare una piccola riflessione, metti in pausa il video prima di iniziare e chiediti: quale sapore posso associare a ogni emozione? Di che cosa sa la gioia, la rabbia, la tristezza, la paura, la sorpresa, l'amore?
Sarà più interessante poi ascoltare il racconto e confrontare i nostri gusti!
Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante dei sapori e delle emozioni! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/07/i-gusti-del-vivere.html


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Life In Silico, di Scott Buckley, (https://soundcloud.com/scottbuckley) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=b5bxJ2SHtiM).

Immagine da Pexels distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

lunedì 20 febbraio 2023

Momenti di ordinario imbarazzo


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Foto di Ryanniel Masucol da Pexels


Il secondo mattino in cui mi svegliai con lui al mio fianco fu meno traumatico del precedente. In parte, perché non mi aspettavo più che lui non ci fosse. In parte, perché di risvegli così ne avevo avuti parecchi, nella serata di ieri e per tutta la notte, nel corso dei nostri tentativi infruttuosi di farlo tornare, attraverso un sogno, nel posto da cui proveniva.
Quando aprii gli occhi e lo vidi infilato nel mio letto come sempre, fui io a ribadire l'ovvio con voce piatta e assonnata: – E anche stavolta, non ha funzionato.
Non c'era più alcun imbarazzo da parte mia, solo stanchezza.
Lui si girò dall'altra parte, si liberò con un gesto nervoso delle lenzuola e si alzò di scatto.
Capivo la sua frustrazione. Era la stessa che provavo io, se si eccettuava che per lui era anche questione di vita o di morte.
Passeggiò con nervosismo fino all'altro lato della camera, si fermò di fronte all'armadio e disse: – Non possiamo continuare con questi tentativi casuali. Diventa ogni volta più rischioso.
– Quei cosi, gli assassini onirici...?
Lasciai la domanda a metà. Avevamo subito due agguati, uno all'inizio, quando lo avevo "materializzato" nella mia camera dal mondo di sogno a cui apparteneva, e l'altro nel cuore della notte, subito dopo uno dei nostri risvegli.
Lui li aveva sventati entrambi, fortunatamente senza fare abbastanza rumore da svegliare le mie coinquiline. Ma avremmo potuto non essere così fortunati, in futuro.
– Non sanno dove mi trovo, o sarebbero già arrivati in molti, tutti assieme. Ma ogni volta che entro o esco da un universo bolla, qualcuno di loro può rintracciarmi, seguirmi. E questo significa che la prossima volta potrebbero anche sorprenderci nel sonno.
L'idea mi fece rabbrividire. Anche se non ero io il loro bersaglio, niente mi assicurava che non avessero in mente di completare il lavoro eliminando anche un'innocua testimone. Un classico caso di "nel posto sbagliato al momento sbagliato". E con la compagnia sbagliata, soprattutto. 
– Facciamo una pausa. Forse dopo colazione ci verrà in mente un'idea migliore.
E con "ci" intendevo che a lui sarebbe venuta in mente. Io non avevo la più pallida idea di come funzionassero queste cose.
Prima che potessi aggiungere altro, o che lui potesse rispondermi, una terza voce, allegra e stridente, si fece sentire dall'altro lato della porta chiusa della mia camera.
– Valeeee, sei al telefono? Io e Terry andiamo all'uni, tu come ti senti oggi?
Era Gemma, una delle due coinquiline. A loro avevo dato a intendere che non ero andata a lezione il giorno precedente perché non stavo bene, il che mi aveva dato anche la libertà di non farmi vedere per tutta la giornata, che avevo in realtà passato fuori a vagare da un posto all'altro con il mio irrequieto ospite.
– Mi sa che non mi è ancora passato quello che mi sono presa... – mormorai in tono lamentoso verso la porta, mentre sbirciavo il ragazzo dagli occhi arcobaleno che attendeva in silenzio l'evolversi degli eventi. In fondo, in un certo senso, non stavo mentendo.
– Hai febbre? Nausea? Tosse? Ti devo portare qualcosa? Fa' un po' vedere... – propose Gemma in un tono che oscillava tra quelli da madre premurosa e da vicina pettegola.
Le dissi di no, e più di una volta, ma quando avvertii i suoi passi che si avvicinarono comunque alla porta, pur di farla desistere le urlai la prima cosa che mi venne in mente: – Gemma ti prego non entrare... non sono vestita!
Gemma ridacchiò, appena al di là della porta. – Andiamo Vale, come se non avessimo fatto più di una volta una serata film e chiacchiere in libertà sul divano! Ti ho già vista girare per casa in canotta e mutandine, dove sarebbe la novità?
Avvertii, a quelle parole, un paio d'occhi arcobaleno fissi su di me e un calore imbarazzato mi avvampò le guance. Gemma non poteva sapere che stava sciorinando quei dettagli privati in presenza di un estraneo.
Il mio avvertimento non era bastato a dissuaderla dal suo intento, perciò, quando vidi la maniglia della porta abbassarsi, feci di nuovo la cosa sbagliata, l'unica che nel mio stato mentale di confusione e disagio avesse un minimo di senso.
Mi tolsi più in fretta che potevo la maglietta e i pantaloni del pigiama, restando davvero in canotta e mutandine.
A mia discolpa, posso dire che pensavo di riuscire a fiondarmi alla porta una volta tolto di mezzo il pigiama, impedire a Gemma di aprire più dello spiraglio sufficiente a dimostrarle che dicevo il vero, e convincerla in qualche modo ad andarsene. Ma non avevo calcolato bene i tempi.
Nel tempo che io ci misi a togliermi il pigiama, Gemma aveva già spalancato del tutto la porta, e così vide che io sì, avevo detto la verità, ma anche che non ero da sola nella stanza.
E così, invece di impedirle di scoprire il mio ospite, avevo appena reso più compromettente la mia posizione nel quadretto che Gemma si ritrovò di fronte. E non importava che lui fosse vestito di tutto punto, con tanto del suo ridicolo cappello a cilindro e dei guanti. Io ero in canotta e mutandine.
– Oho, l'uomo dei disegni! – esclamò Gemma, in tono ancora più acuto e garrulo. Sapevo che non le sarebbe stato difficile riconoscerlo dai ritratti che avevo mostrato a lei e a Teresa, quando pensavo che le mie visite notturne e ripetute al circo dove lavorava fossero soltanto una lunga sfilza di sogni ricorrenti. – Ma allora esisti davvero, non sei solo una fantasia erotica della nostra Valeria! Sapessi quante volte ti ha sognato...
Mi coprii con le mani il volto, che dopo quelle esternazioni doveva aver assunto la stessa tinta di un pomodoro maturo. Oddio, Gemma, sul serio? Vuoi raccontargli qualcun'altra delle confidenze che ti ho fatto e che sarebbero dovute rimanere un segreto tra ragazze? E davvero non importava che lui sapesse quante volte lo avevo sognato perché ogni singola volta era stato lì con me, e che fosse perfino al corrente che i nostri incontri notturni non fossero affatto quello che Gemma li stava facendo sembrare, perché lei queste cose non avrebbe dovuto raccontarle a un estraneo.
– Gemma, per favore... puoi lasciarci da soli? – riuscii a mormorare mentre lei riprendeva fiato, e il mio sguardo supplichevole sopra alle dita scostate dagli occhi fu sufficiente a convincerla che, nel quadretto che lei si era fatta della situazione, la sua presenza era di troppo.
– Oh? – la mia coinquilina squadrò per un istante prima lui, fermo in silente attesa, con una mano sollevata alla falda del cilindro come bloccata in un cenno di saluto da quando lei aveva aperto la porta, che poteva sembrare un gesto di imbarazzo ma che in realtà immaginai fosse un espediente per celarle i suoi strani occhi, e poi me, in piedi, rossa in volto e in déshabillé. – Oh, sì, certo. Certo! Vi lascio subito soli.
Il suo sorriso sornione diceva tutto quello che lei pensava sarebbe accaduto, una volta che se ne fosse andata. Mi avvicinai per spingere Gemma fuori dalla stanza e richiudere la porta, dato che nonostante le sue parole la mia coinquilina impicciona pareva ancora restia ad andarsene.
– Mi raccomando, eh! – Mi fece ancora Gemma, con una strizzata d'occhio, prima che riuscissi a chiuderla fuori. Sospirai e appoggiai la fronte alla porta.
Sentii Gemma, in corridoio, che riferiva in un chiacchiericcio ciarliero a Teresa la svolta inaspettata che aveva preso quella vecchia storia dei sogni ricorrenti. Rimasi in ascolto finché, dopo un po' di gironzolare accompagnato da risatine e battute allusive, non le udii uscire dalla porta di casa. Solo a quel punto mi voltai.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno, lasciato a sé stesso, si era messo a frugare nei miei cassetti. Lo sorpresi con una delle mie mutandine bordate di pizzo allargate tra le dita.
Gemma se n'era andata, sì, ma l'imbarazzo che aveva portato il suo arrivo era rimasto qui con noi, nella mia camera.
– Non toccare le mie cose! – sbottai, mentre gli prendevo di mano le mutandine e le ficcavo nel cassetto. Recuperai quello che mi serviva per la giornata e prima di andarmene in bagno a vestirmi, gli raccomandai: – Tu non ti muovere. Non toccare niente. Resta qui, fermo, immobile, finché non ti chiamo!

Sul tavolo della cucina trovai, fresco di bucato, uno dei completini sexy che di solito mettevo per uscire a festeggiare con Gemma e Teresa dopo un esame particolarmente difficile. Nessun uomo li aveva mai visti, li indossavo perché, dopo tutto lo stress dello studio, mi faceva piacere sentirmi bella oltre che intelligente. E inoltre, chissà, una volta o l'altra qualcosa sarebbe anche potuto accadere.
Accanto alle mutandine, di un seducente rosso ma quasi trasparenti da quanto erano traforate, trovai un biglietto su cui le mie coinquiline avevano scritto "Vale, la prossima volta che inviti qui il tuo uomo dei disegni metti queste, non i mutandoni della nonna. Non ti ha insegnato niente Bridget Jones? Firmato: Gem & Terry".
Scossi la testa. Gemma aveva esagerato, ovviamente, quello che mi aveva visto addosso era un comune slip da donna di tipo sportivo, non certo il mutandone formato maxi che portava la protagonista di quel film. Ne avevo un paio dello stesso tipo sotto alla maglietta lunga che mi faceva da mini abito quella mattina. Niente pantaloni, perché si avvicinava l'estate e cominciava a fare caldo di giorno, e alla fin fine avevo deciso che assassini onirici e un ragazzo che non sarebbe dovuto essere reale erano già deviazioni fin troppo consistenti dalla mia routine, e se c'era qualcuno che doveva adattarsi, qui, erano loro.
E inoltre io dovevo imparare a vincere quell'inutile imbarazzo, perché non avevo fatto niente di male... a parte, come mi aveva ricordato lui fin troppe volte, abbracciarlo mentre stavo per svegliarmi e, quindi, portarlo con me fuori dal sogno.
E io, ogni volta, gli avevo spiegato che lo avevo fatto solo perché ero convinta che non sarebbe accaduto quello che invece era successo, e che se lo avessi saputo, di certo non mi sarei mai azzardata a farlo.
Feci sparire la nota delle mie coinquiline e nascosi il completino sexy dietro i cuscini e l'ukulele di Teresa abbandonati sul divano, prima di chiamarlo. Anzi, non lo chiamai, gli dissi solo che poteva venire, perché in fin dei conti io non lo conoscevo il suo nome. Poi mi versai nella tazza un po' di latte e caffè caldi, senza aspettarlo, e senza prepararne una seconda per lui. Per tutto il tempo che avevamo trascorso assieme non lo avevo mai visto bere o mangiare, e ormai dubitavo che ne avesse bisogno.
Mentre placavo la mia fame, io che invece di mangiare non potevo fare a meno, lo osservai gironzolare per la grande stanza che era insieme la cucina, la sala da pranzo e il salotto dell'appartamento che condividevo con Gemma e Teresa. Il ragazzo dagli occhi arcobaleno mi sembrò molto più rilassato rispetto a come mi era apparso durante la colazione del giorno prima. Allora era stato teso, in allerta, sempre sul chi vive, in attesa del prossimo attacco da parte degli assassini onirici che, a suo dire, avrebbero potuto sorprenderci ovunque e in qualunque momento.
Ora che aveva intravisto uno schema nei loro attacchi, o meglio, nell'assenza dei loro attacchi, il suo atteggiamento guardingo aveva lasciato spazio a un'invadente curiosità. Dopo un po' di quel viavai che aveva cominciato a darmi sui nervi, il ragazzo puntò con decisione sul divano.
Sapevo che avrei dovuto distrarlo dal suo proposito, dirgli qualcosa, ma avevo mezzo biscotto in bocca e quindi non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo mentre si sedeva accanto al bracciolo, si girava a fissare l'ukulele e lo afferrava.
Dietro lo strumento spuntarono le mie mutandine sexy. Rosso su fondo crema. Impossibile non notarle.
E io che pensavo di aver lasciato l'imbarazzo in camera da letto.
Mandai giù in fretta il biscotto e gli spiegai: – È di Teresa! – Il boccone mi si bloccò in gola, rendendo la mia voce stridula. Bevvi un sorso di latte per sciogliere quel groppo e aggiunsi: – L'ukulele è di Teresa.
E lasciai che traesse le sue conclusioni su ciò che c'era dietro. Così, almeno, non era una bugia.
– Non credo che se ne avrà a male, purché io non tocchi altro – commentò il ragazzo. Si appoggiò al petto lo strumento e iniziò a trarne una melodia lenta, ipnotica, con una maestria che non avevo mai udito dalle dita di Teresa. Fuori dalla finestra aperta, gli uccellini che cinguettavano tra i rami del viale e che fino ad allora avevo bellamente ignorato mi sembrarono all'improvviso adeguare il canto alle note dell'ukulele, come se stessero accompagnando la sua musica, o come, più probabilmente, se la musica che il ragazzo dagli occhi arcobaleno stava improvvisando fosse modellata sul loro canto.
Andiamo, mi dissi, considerando l'assurdità di quella prima impressione, non siamo certo in un film della Disney!
Per tutto il tempo di quella colazione non parlammo, lui concentrato nel suonare l'ukulele, e io nel placare i morsi della fame. Se non fosse stato per gli sguardi attenti che volgeva di tanto in tanto in giro per la stanza, avrei potuto immaginare che lui fosse solo un ragazzo qualunque, che era rimasto a farmi compagnia perché davvero lo voleva, e non perché non aveva altro posto dove andare e io gli servivo per tornare nell'unico luogo in cui era al sicuro. Non fosse stato per la minaccia degli assassini onirici, mi dissi, lui sarebbe anche potuto rimanere qui, con me, nel mondo in cui l'avevo involontariamente trascinato. Certo, avrei dovuto fare in modo di fargli ottenere un'identità, se fosse rimasto, e i suoi strani occhi sarebbero stati un problema, ma non tale da non poterlo risolvere con delle lenti colorate; quanto ai segni sul suo volto, quelli che inizialmente avevo considerato parte del suo trucco di scena ma che ora non ero più tanto sicura che non fossero parte della sua carnagione naturale, be', potevano sempre passare per tatuaggi. In fondo, sarebbe poi stato tanto male, se lui fosse rimasto nel mondo reale con me? Il resto della colazione lo passai fantasticando su quello scenario impossibile, ma tanto, tanto desiderabile.

Dopo aver lavato la tazza della colazione e rimesso a posto l'ukulele di Teresa, finalmente ci mettemmo seduti a tavola a parlare.
– Allora... – esordii io, e non sapendo da dove cominciare, mi venne in mente che potevo iniziare dall'inizio. – Come ci sei arrivato, intendo al circo, la prima volta?
– Sono stato scortato... – Il ragazzo dagli occhi arcobaleno s'interruppe di colpo, come se fosse stato sul punto di dirmi qualcosa che non voleva che io sapessi, e poi riprese a spiegare: – Colui che gestisce il circo era... amico di mio padre, e quando mi sono ritrovato in pericolo, ha accettato di darmi rifugio.
– Mmmmh... – Appoggiai il mento sul palmo della mano. Mi ero resa conto, forse per la prima volta, che un'altra cosa che non sapevo di lui oltre al suo nome era il motivo per cui gli assassini onirici lo volevano morto. Così glielo dissi.
– È meglio per te non saperlo – replicò lui. – Sei più al sicuro così.
– Oh, già perché sono perfettamente al sicuro ogni volta che mi addormento con te accanto, vero? – replicai, nel raddrizzarmi e battere entrambe le mani sul tavolo. Non riuscii a strappargli un sussulto come avevo sperato, lui si limitò a fissarmi con quei suoi occhi dalle sfumature impossibili al di sopra del cilindro appoggiato sul tavolo. – Insomma, se devo prendermi questo rischio, e non cominciare a dire che è stata colpa mia, voglio almeno sapere perché lo faccio. Per chi lo faccio.
Lui restò in silenzio ancora per qualche istante, prima di rispondere – D'accordo.
Non me l'ero aspettato. Non prima di combattere un altro po'.
– Per dirlo in termini che tu possa comprendere – mi disse lui, in tono pacato e serio. – Mi vogliono morto perché io sono l'erede al trono.
Quella spiegazione mi sembrò tanto una scusa, e nemmeno molto fantasiosa. Una motivazione che sarebbe potuta saltar fuori senza preavviso in un banale romanzo. Fu per questo che la mia voce risuonò di scetticismo quando gli chiesi: – Ah sì? E di quale nazione? – Poi realizzai, e mi corressi: – Pianeta?
Ma certo. Non lo avevo considerato perché lui sembrava così umano, molto più umano degli altri che avevo visto lavorare al circo, più umano della ragazza ragno e del Ghiottone di sicuro, e anche della donna d'oro che a volte avevo visto fare coppia con lui sul trapezio o fargli da assistente nei numeri di illusionismo o da bersaglio nel lancio del coltelli.
Così umano, che non avevo considerato che i suoi occhi color arcobaleno, o le strisce scure composte da forme geometriche perpendicolari a quegli occhi, potessero essere l'unico indizio esteriore che il mio misterioso principe circense era un alieno.
Lui mi rivolse un sorriso enigmatico e mi disse: – Non stai pensando abbastanza in grande.
La presi come una sfida.
– Sistema solare? – Lo incalzai allora. – Federazione di pianeti? Galassia? Unione galattica?
Lui non confermò nessuna delle risposte che gli avevo proposto. Mi bloccai. Non mi veniva in mente nulla di più grande.
– Di tutto – rivelò lui a quel punto. E, dato che ancora stentavo a realizzare, aggiunse: – L'universo. Tutto quanto.
– Sul serio? Non mi stai prendendo in giro? – fu la mia prima reazione. Lo fissai aspettando che mi dicesse da un momento all'altro "stavo scherzando!", ma lui non lo disse.
– Sul serio – replicò invece, e il tono in cui lo disse, la sua espressione, mi rivelarono che mi stava dicendo la verità.
Una parte della mia mente però ancora si ribellava e cercava appigli nella logica. Udii la mia voce tremante dire: – Ma... ma no, è impossibile, non esiste un signore di tutto l'universo...
E allora, solo allora, realizzai davvero. Scattai in piedi e mi allontanai di un passo dal tavolo, da lui. La sedia si rovesciò a terra alle mie spalle.
L'imbarazzo di quella mattina, con le insinuazioni di Gemma e con la scoperta della mia biancheria osé nascosta malamente dietro un ukulele, non era nulla di fronte al calore rovente che sentii in quel momento scendermi nel petto e affossare il cuore nello stomaco, mentre il mio respiro si faceva più corto e più rapido. Annaspai, incapace di riempire i polmoni. Il mio cuore batteva un forte ritmo di tamburo e mi doleva in petto. Affamata d'aria, febbricitante, ripensai ai momenti d'imbarazzo vissuti in sua presenza, e a tutte le volte in cui lo avevo trattato con eccessiva confidenza, anzi, a volte addirittura in modo sgarbato, e perfino alla puerile fantasia che avevo nutrito quella mattina, a colazione, di tenerlo accanto a me, nella mia vita, come una specie di clandestino che avrebbe dovuto nascondersi nel mio mondo solo perché io me ne ero infatuata, e riconsiderai tutto alla luce di ciò che avevo scoperto su di lui negli ultimi minuti.
Era tutto sbagliato. Era sbagliato, e imbarazzante, e sbagliato, e sbagliato, e io non sapevo più come avrei dovuto rivolgermi a lui. A Lui.
Da qualche parte, nel groviglio di ansia dilagante e rovente che ero diventata, avvertii le sue mani sulle mie spalle.
– Calmati – mi disse la sua voce, molto lontana in un primo momento, poi vicinissima, di fronte a me. – Calmati, Valeria. Va tutto bene. Va bene così, e davvero, non importa. L'unica cosa che conta, è che ora sai chi stai aiutando.
La sua voce calma, ipnotica come le note che aveva tratto dall'ukulele mi restituì al mondo, e restituì il mondo a me. Ripresi a sentire il canto degli uccellini fuori dalla finestra, e il profumo del caffè rimasto nel bricco, e la maglietta che ora avvertivo fastidiosamente appiccicata alla pelle per il sudore.
Il ragazzo dagli occhi di arcobaleno, il principe dell'universo, avvicinò il suo volto al mio, e per quanto assurdo dapprima pensai che volesse baciarmi e mi tornò un accenno del panico che mi aveva appena abbandonato, mentre il respiro riprendeva a farsi corto e ansante. Poi mi resi conto che stava avvicinando le sue labbra al mio orecchio, e mi rilassai.
Se avessi saputo prima cosa stava per dirmi, non mi sarei calmata affatto.
– Ne hai uno alle tue spalle – mi sussurrò lui, e non fu necessario che specificasse che cosa. – Passami quelle forbici lì, sul tavolo.
Non mi sembrò strana come scelta, per un'arma improvvisata: la prima volta che lo avevano attaccato, lui aveva "fatto fuori" gli assassini onirici con il mio tagliacarte.
Mi allungai verso il tavolo, afferrai le forbici e le consegnai alla sua mano, che nel frattempo era scesa dalla mia spalla fino ad accarezzarmi le dita.
Non appena le ebbe afferrate alla cieca dalla mia mano lo vidi sparire, tanto fu rapido il suo assalto contro l'ombra evanescente che era giunta a minacciarlo. Mi girai appena in tempo per scorgerlo sbattere al muro le sembianze indistinte dell'ombra assassina.
C'era qualcosa di sbagliato, ma non riuscivo a capire che cosa.
Forse perché nessuno degli assassini onirici in precedenza aveva mai emesso un suono, e invece questo stava gracchiando qualcosa in una lingua che io non riuscivo a comprendere.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno tenne ferma l'ombra stringendola per quella che sembrava una gola, e sollevò sopra di lei le forbici. E allora, soltanto in quel momento, come se avessi capito in ritardo la battuta di una barzelletta pronunciata istanti prima, o come se la mia mente avesse finalmente trovato la chiave per decifrare un messaggio segreto, le parole dell'assassino onirico acquistarono un senso.
"Sono qui per avvisarti, hai ancora messaggeri che ti sono leali, ma non ti fidare di lui, lui vuole soltanto..."
–  Aspetta! – urlai tendendo una mano, ma era troppo tardi, l'ombra evanescente scomparve prima ancora che le forbici la sfiorassero, e a quel punto non importò più che il ragazzo dagli occhi arcobaleno mi avesse dato retta e si fosse trattenuto.
Solo allora mi resi pienamente conto del motivo della mia prima impressione. Quella cosa era venuta da sola, ed rimasta ferma alle mie spalle invece di attaccarci quando lui si era accorto della sua presenza, e non aveva reagito in nessun modo quando era stato il principe dell'universo ad aggredirlo.
Quello non era mai stato un assassino. Ma allora, se non era tale...
– Che cos'era? – gli chiesi, forse in modo un po' troppo perentorio, ma non ebbi il tempo di pentirmene.
– Un ambasciatore. Un messaggero. – Il tono del ragazzo dagli occhi color arcobaleno, il suo atteggiamento nei miei confronti, non erano cambiati, e forse voleva suggerirmi che io non dovevo cambiare i miei. Mi ricordò il tempo che avevamo trascorso assieme in un sogno, quando mi trattenevo dopo lo spettacolo e lui mi mostrava quello che allora avevo considerato "il suo mondo", e i momenti che passavamo da soli in attesa del mio risveglio. Non c'era stato imbarazzo, allora, no, nessun imbarazzo.
E io potevo anche averlo ignorato, ma lui sapeva fin dall'inizio, perfettamente, chi era lui e chi ero io.
L'unica cosa che era cambiata, per lui, era che ora non mi nascondeva più nulla.
– Un messaggero – ripetei. Capivo quello che intendeva, perché mi ricordavo quale parola greca si traduceva in quel modo. – Ma perché all'inizio non capivo quello che stava dicendo, e poi il senso delle sue parole mi è arrivato in ritardo, come... come una traduzione fuori sincrono?
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno sospirò e mi spiegò: – Io parlo in ogni istante, contemporaneamente, ogni lingua esistente nell'intero creato. Sì, in ogni istante, anche ora. Ma tu senti soltanto quella che ti è più familiare, ed è bene così, o la confusione sarebbe tale che non riusciresti a comprendermi.
– Va bene, ma... – Stavo per dirgli che io vedevo le sue labbra muoversi in sincrono con le parole nella mia lingua, e che quel labiale non poteva certo coincidere con le parole di tutte le altre lingue, ma in fin dei conti quella era una questione triviale rispetto alle altre.
– I messaggeri hanno lo stesso dono – mi interruppe lui, forse supponendo che la mia obiezione riguardasse quella faccenda. – Solo che in loro è imperfetto. Per questo, tu non lo hai capito subito.
– Tu sì, invece. – Ma certo, era ovvio. – Tu sì, e volevi comunque mandarlo via, senza ascoltarlo, senza lasciargli il tempo di completare il suo... il suo messaggio!
Il cuore tornò a battermi forte nel rivolgergli quelle accuse. Il mio corpo mi rammentava che io non avevo alcun diritto di criticare lui, che dovevo ricordarmi chi avevo di fronte prima di arrogarmi il diritto di biasimarlo. Cercai di ignorare quello che lui mi aveva rivelato, cercai di comportarmi in maniera normale. Ci provai, almeno, ma non era detto che sarei riuscita a controllare l'ansia, il cui calore tornava a bruciarmi, o forse mi stavo scaldando semplicemente perché davvero io ero indignata.
– Stava mentendo. Non esistono messaggeri leali a mio padre, non più – ribatté lui in un brontolio cupo. Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, avvertii che stava per perdere la calma. I suoi passi avanti e indietro per la stanza si erano fatti nervosi, pesanti, e non aveva più la postura dritta ed elegante di un equilibrista. Camminava curvo, i pugni stretti.
– Come puoi esserne sicuro...
– Ah, Valeria... – Si fermò e mi fissò e i suoi occhi luccicavano di un fuoco dalle fiamme arcobaleno. – Ne sono sicuro, invece, perché mio padre è morto, assassinato dall'usurpatore che ha preso il suo posto e adesso comanda le legioni dei messaggeri, e hanno tutti l'ordine di uccidere me, e tu mi hai strappato dall'unico posto in cui non avrebbero potuto raggiungermi, in cui potevo restare al sicuro fino al giorno in cui non fossi stato abbastanza forte da sfidare l'usurpatore e riprendermi... il posto... che mi spetta.
La rabbia fluì via da lui al termine di quella confessione, come se raccontarmi tutto quello che mi teneva ancora nascosto avesse tolto potere alla fonte del suo rancore.
Anch'io ne rimasi del tutto priva, di rabbia, intendo. Mi restava solo lo sgomento. – Il signore dell'intero universo... è morto?
– Già, e tu ti chiedevi come mai le cose andassero a rotoli, ultimamente? – ribatté lui, con una traccia dell'arguzia che avevo imparato ad amare in un affascinante circense dagli occhi color arcobaleno, il volto dipinto e il cappello a cilindro. – Chi ne ha preso il posto è un incompetente. Ecco perché.
C'era però anche una traccia di amarezza nel suo tono di voce, che mi spinse a pensare, solo per un momento, che avrei di nuovo voluto abbracciarlo. Ma non osai farlo, maledetto imbarazzo.
Avrei dato anche un migliaio dei miei ricordi, non uno soltanto come prezzo del biglietto di ingresso, se fosse stato possibile tornare indietro a quel tempo, ai nostri incontri in un sogno, e abbracciarlo tutte le volte che volevo, senza pudore, senza pensare che non potevo perché lui era il figlio del signore dell'intero universo, il suo erede al trono, anzi, ormai, il legittimo signore dell'intero universo, una volta che fosse riuscito a sistemare le cose.
Tutte le volte che volevo, tranne, ovviamente, quando stavo per svegliarmi. Non avrei commesso due volte il medesimo errore.
Se solo fossimo potuti tornare...
Alzai la testa. – Ehi! – lo chiamai, perché ancora non sapevo con che nome chiamarlo. Quello che mi pareva il più ovvio, il più scontato, non mi sembrava quello giusto, e proveniva solo da una tra le tante fonti a mia disposizione sull'unico pianeta che conoscevo, e comunque avevo i miei dubbi che fosse stata scritta dal diretto interessato. – Se non ho capito male, hai detto che la prima volta, a portarti dentro l'universo bolla in cui ti ho trovato, intendo fisicamente dentro e non solo in un sogno, è stato il direttore del circo, ovvero quello che chiami il Ghiottone.
– Sì –  ammise il ragazzo dagli occhi arcobaleno. – Ma non può farlo, se non sa nemmeno dove mi trovo adesso. E io non posso dirglielo, visto che non riesco a entrare per conto mio. Come posso spiegartelo, dunque... la porta è chiusa e io non ho la chiave.
– Non della porta sul retro – confermai, perché quello ormai era assodato dopo tutti i tentativi che avevamo fatto. – Non puoi entrare nello stesso modo in cui ne sei uscito. Ma...
Mi veniva da ridere, e non riuscivo a credere che lui non ci avesse ancora pensato. Io non ci potevo arrivare prima di conoscere tutta la storia, ora sì ma non prima, anche se in fondo era sempre stata una possibilità sotto ai nostri occhi, ed era così semplice.
– ...esiste per caso qualche ostacolo che ci impedisca di entrare nel circo del Ghiottone come spettatori paganti, e una volta lì, andare da lui, spiegargli la situazione e farti aiutare?
Il principe dell'universo, il mio affascinante, misterioso circense dei sogni, il ragazzo dagli occhi arcobaleno scoppiò a ridere, e la sua era una risata di sollievo.
– A parte una schiera di angeli assassini che potrebbero sorprenderci nel sonno? – mi chiese alla fine. – No, assolutamente nessuno.

sabato 18 febbraio 2023

Gingillo/Gingillarsi

Gingillo [gin-gìl-lo] s.m. 1. Oggetto grazioso ma inutile e di poco valore; oggetto usato per trastullare i bambini; ninnolo. 2. fig. Occupazione inutile, perditempo.

Gingillarsi
[gin-gil-làr-si] v.rifl. [sogg-v] 1. Giocherellare; divertirsi con un gingillo. 2. estens. Perdere tempo in inezie; trastullarsi.

Etimologia: deriva dal latino, forse da cincinnulus, diminutivo di cincinnus, che a sua volta deriva dal greco kikinnus "ricciolo"; oppure da cingillum, "cinturino", diminutivo di cingulus, "cintura". Probabilmente con il tempo è passato a indicare un ninnolo che si appende alla cintura o alla catena dell'orologio, e poi al significato odierno. Altri lo propongono invece derivato dal tardo latino cyrgillus, "cosa che gira".



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Whiteray aveva appena superato una prova, l'ennesima lungo il suo cammino, quando si svegliò nel suo letto e, dopo qualche istante di affanno, si rese conto di quanto inutili fossero state le sue preoccupazioni.
Era stato solo un sogno. Non c'era nessun ragazzo in pericolo, nessun sadico demone di nome Thiss dalla lingua biforcuta e le pupille di fiamma.
Era stato bello illudersi di poter essere d'aiuto a qualcuno, finché era durato.
Whiteray strinse di più la Bacchetta del Giglio tra le mani appoggiata al suo petto, l'unico ricordo che aveva di sua madre. Su una cosa l'odiosa creatura del suo sogno aveva avuto ragione: era solo un inutile gingillo, privo di qualsiasi potere. Lei era inutile e impotente.
Whiteray si girò su un fianco e chiuse gli occhi, e quando li aprì era nella foresta. La nebbiosa, cupa foresta dei suoi sogni, e il volto pallido dagli occhi cremisi di Thiss era sopra di lei.
– Ssssai, capelli bianchi, ssstavo passsseggiando in attesssa che il nossstro comune amico sssi riprendesssse abbassstanza da godersssi ogni issstante del nossstro passssatempo – mormorò Thiss con noncuranza, facendo guizzare la lingua da serpente tra le labbra. – E mentre passsseggio, chi ssscopro sssdraiata qui a gingillarsssi... – La voce di Thiss salì di volume, mentre lui si alzava in piedi, sovrastandola. – Invece di sssbrigarsssi a procurarmi quello che le ho chiesssto e sssalvare cosssì una inutile, patetica vita?
Le ultime parole, urlate da quel demonio, la fecero scattare in piedi. Poteva anche essere un sogno, ma incontrarlo le metteva ogni volta una dannata paura. Più della paura che aveva di suo padre quando tornava a casa tardi, batteva i pugni fino a far tremare la porta chiusa della sua camera e le urlava con voce strascicata di aprire tra una sfilza di minacce e imprecazioni.
Assurdo che un sogno le mettesse più paura di qualcosa di reale.

giovedì 16 febbraio 2023

Audioracconto - Cianfrusaglie


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Cianfrusaglie
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Racconto (quasi) autobiografico con un tocco di fantastico, perché quando la fantasia prende il volo, può accadere anche che due momenti nel tempo si incontrino uniti da un ricordo.
Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante dei ricordi! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/08/cianfrusaglie.html


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: A.L.O.N.E., di Mike Leite, (https://soundcloud.com/mikeleite) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=q0Jq6bw8UuQ).

Immagine di: Markus Spiske, da Pexel (https://www.pexels.com/photo/orange-plastic-container-on-brown-wooden-table-102155/) distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

lunedì 13 febbraio 2023

Le fate


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Foto di Tú Nguyễn da Pexels


Io e la mia famiglia stavamo, quando ero bambina, in un piccolo appartamento di un enorme palazzone di città, senza giardino, e con uno stretto cortile di cemento dove batteva il sole d'estate e soffiava un vento gelido in inverno. D'inverno non m'importava poi molto: avevo la scuola, e troppi compiti per starci a pensare. Ma d'estate, quando la canicola rendeva ugualmente asfissiante l'aria nell'appartamento e giù in cortile, io andavo a passare un'intera settimana in campeggio da Ellie.
Ho detto campeggio, ma quello che intendevo dire era che il padre di Ellie montava una tenda nel giardino sul retro della sua casa, e io e la mia amica ci andavamo a dormire tutte le sere, tra il frinire dei grilli e il ronzio delle zanzare, dopo essere rimaste sveglie fino a tardi a raccontarci storie.
Non le solite storie spaventose di fantasmi che si raccontano di solito in campeggio, riuniti attorno alle fiamme crepitanti di un falò che riscalda i volti e li tinge di inquietanti bagliori cremisi. No, a Ellie non piacevano quelle storie.
Lei, perché era quasi sempre lei a raccontare, mi parlava dei piccoli e sfuggenti gnomi bruni dei boschi, dalla pelle di corteccia; dei folletti che cavalcavano i corvi e difendevano con i loro scherzi le minuscole città costruite nei boschi; e delle graziose fatine che mutavano in insetti, per non farsi riconoscere, appena qualcuno le avvicinava.
Qualche volta, presa dal racconto, Ellie mi trascinava via dalle nostre sedie davanti al fuocherello e mi portava a cercare le fate negli angoli più remoti del giardino, lontano dalle stringhe di luci che suo padre aveva appeso tra gli alberi del giardino e la sommità della tenda per farci compagnia nella notte. Nel buio brulicante dei puntini luminosi delle lucciole, che sembravano galleggiare nell'aria tiepida e immota, Ellie mi teneva la mano e mi indicava qualcosa che solo lei vedeva. Io mi sforzavo di guardare e alla fine le dicevo di sì solo per farla contenta, mentre in cuor mio pensavo che eravamo tutte e due troppo grandi per credere alle fate.
Una di quelle sere, poco dopo l'imbrunire, Ellie catturò un brutto e grosso insetto e corse verso di me con quella cosa tra le mani. – Guarda Miriam, ho preso una fata! – gridò, mostrandomi il suo prigioniero.
Non mi ricordo se quello era un insetto stecco, una cavalletta o una mantide religiosa, ricordo solo che era orrendo e io mi misi a strillare: – Buttalo via! Buttalo via Ellie, non portarlo qui, per favore, ti prego, no, non lo voglio vedere, no, no!
– Ma... è una fata, Miriam, te lo giuro! – provò a spiegarmi la mia amica. Si era fermata a qualche passo di distanza, permettendomi di calmarmi, e mi guardava con un'espressione contrita. – E una di quelle più grandi, anche. Di solito, te l'ho detto, sono così piccole da trasformarsi in farfalle o libellule, per farci credere di essere sempre state farfalle o libellule, e che siamo noi ad aver visto male. Ma questa era troppo grande, e ha dovuto cercare un altro travestimento quando si è accorta che l'avevo vista.
– Non mi importa se è una fata – replicai, cercando di non guardare le sue mani che tenevano con delicatezza l'insetto schifoso. – Per favore, Ellie...
– Va bene – concesse lei, con un passetto indietro. – La libero lontano dalla tenda, così non ti farà paura stanotte.
Nonostante quella precauzione, quella sera i miei pensieri continuavano a tornare al brutto insetto, e non riuscii a prestare troppa attenzione alle storie di fate della mia amica. Ellie spense il fuocherello come le aveva insegnato suo padre, e andammo a letto presto, ma io faticai a prendere sonno.
Forse fu la paura dell'insetto, forse fu per tutti i racconti che mi propinava Ellie prima di andare a dormire, ma quella notte feci un sogno strano. Sognai che ero nella casa di Ellie, e quello non era strano, perché ci entravo sempre per mangiare con lei e la sua famiglia, per andare in bagno o per giocare assieme a lei nella sua stanza. Lo strano era che io ero nascosta di fianco alla dispensa, nell'angolino per le scope tra il grosso mobile e la porta della cucina, e la mamma di Ellie, una donna alta e bionda e bella quanto la mia amica, era da sola ad affaccendarsi ai fornelli per la colazione quando Ellie era entrata dalla porta a vetri che dava sul giardino.
La mamma di Ellie le sorrideva, le porgeva un succo di frutta in un bicchiere di vetro e poi le chiedeva: – Dormito bene, Ellie?
– Sì, mamma – rispondeva lei, col bicchierone di succo tra le mani, appoggiata con i gomiti sul tavolo della cucina.
Fin qui tutto bene, ma la successiva domanda della mamma era: – Ti sei ricordata di sgranchirti le ali?
– Sì, mamma – rispondeva di nuovo Ellie, e beveva un sorso con un nitido risucchio.
– Sicura? – chiedeva la mamma, e con la voce che hanno sempre le mamme quando pensano che in realtà i compiti non li abbiamo fatti, o che la nostra stanza sia ancora in disordine, prendeva a rimproverare Ellie con queste parole: – Guarda che se non le sgranchisci tutte le mattine, poi non crescono bene.
Ellie sbuffava, beveva fino in fondo il suo succo e poi dal mio nascondiglio vedevo un bagliore sulla sua schiena. Dapprima era solo una luce indistinta, poi riuscivo a distinguere i contorni di un paio di piccole ali da farfalla, sottili e fatte di luce più che di materia. La madre di Ellie le si avvicinava, e a quel punto vedevo che le aveva anche lei quelle ali di luce sulla schiena, solo che le sue erano molto più nitide e grandi.
– Ellie, non davanti alla finestra! – la rimproverava la mamma nel raggiungerla accanto al tavolo, e allora le ali di luce di entrambe si richiudevano sulle loro schiene e sparivano sotto alle magliette. – Lo sai che se lei lo scopre non potremo più invitarla qui. Se solo sospetta qualcosa... non potrete più vedervi, te ne rendi conto?
– Tranquilla mamma, Miriam dorme ancora. Inoltre... – Ellie tracciava con un dito il bordo del bicchiere, un sorriso furbetto che le piegava le labbra. – Le ho fatto credere che le fate sono creaturine piccine picciò, così non penserà mai di cercarle di altre altezze. Non le verrà mai in mente che le fate possiamo essere noi.
A quel punto del sogno mi svegliai nella tenda, da sola. Ma questo era normale, perché Ellie si svegliava sempre prima di me. Tranne le volte in cui io mi svegliavo per andare in bagno e poi tornavo a dormire, ma non mi ricordavo se era successo anche quel giorno, prima di quello strano sogno, tanto vivido che mi era sembrato vero.
Mi stiracchiai e uscii dalla tenda. Ellie era lì fuori in giardino, già vestita e pettinata. Non so perché, forse ancora pensavo al mio sogno, ma quando la raggiunsi, le dissi che quella mattina, tornando indietro dal bagno, avevo visto una fata.
Ora, è possibile che il mio ricordo di quel giorno di tanti anni fa sia distorto, ma rammento nitidamente la sua espressione di puro terrore alle mie parole.
– N-ne sei davvero sicura? – mi chiese lei, la voce tremante, o almeno così io la ricordo. – Forse ti sei sbagliata...
– No, era proprio una fata – ribattei io, annuendo convinta. Poi, forse intimorita dallo spavento che avevo provocato, non me la sentii di raccontarle il mio sogno e le dissi invece: – Ma quando ha capito che la stavo guardando è diventata una farfalla, sai, una di quelle con le ali arancioni e nere, ed è volata via.
A quelle parole la mia amica rise, mi prese per mano e senza lasciarmi il tempo di fare colazione, mi trascinò in giro per tutto il giardino, dicendo: – Ma allora forse è ancora qua attorno, dai proviamo a cercarla, se siamo fortunate forse si è già ritrasformata in fata e questa volta, ne vediamo una tutte e due!

sabato 11 febbraio 2023

Rutilante

Rutilante [ru-ti-làn-te] agg. 1. lett. Rosso fiammante. 2. estens. Sfavillante, splendente, usato specialmente nel linguaggio giornalistico.

Etimologia: dal latino rutilantem, participio passato di rutilare, "rosseggiare", e figurativamente "rifulgere"; ha origine da rutilus, "rosso biondo, rosso oro".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Achira22 da Pexels


Mi scostai dalla sua pelle rutilante e lo scrutai, colma di meraviglia. Avevo ancora il fiatone per la selvaggia danza in cui mi ero abbandonata sulla spiaggia, ma non fu quello a rubarmi la voce dalla gola.
– Come...? – riuscii a chiedere soltanto, nell'appoggiare la mia mano sul suo petto. Blu su rosso. L'impossibile quadro di un pittore cieco.
– Come – mi fece eco lui, la voce meno incerta. – Pensavo di essere l'unico.
Mi prese la mano con le sue. Nella brezza salmastra, il sole del mattino scintillava sui nostri corpi in riflessi più rutilanti di quelli che traeva dalle onde. Presto i primi mattinieri villeggianti sarebbero giunti a spezzare quell'istante di riconoscimento, ma non era ancora il loro tempo. Per il momento, quell'angolo di mondo era tutto per noi.
Non c'era bisogno che gli dicessi che lo avevo pensato anch'io, di essere l'unica. Non capitava tutti i giorni di incontrare una ragazza blu, come non capitava tutti i giorni di incontrare un ragazzo rosso.
Era quasi un miracolo che ci fossimo incontrati, noi due, proprio noi due, nello stesso posto e nello stesso tempo. Fra tanti esseri umani che abitavano il mondo.
Mentre passeggiavamo lungo il bagnasciuga, stretti l'uno all'altro nell'attesa di ritrovare la voce, l'assurdo è che pensai che se fossimo rimasti assieme, rosso e blu, saremmo diventati entrambi viola.
E la cosa non mi sarebbe dispiaciuta affatto.

giovedì 9 febbraio 2023

Audioracconto - Perché sei qui


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Perché sei qui
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Questo è il racconto di San Valentino che non ti aspetti. E lo so che sono in anticipo, ma d'altra parte giovedì prossimo sarebbe stato troppo tardi!
Se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante della festa degli innamorati! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2018/01/perche-sei-qui.html


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musiche: Lo schiaccianoci - Danza della fata confetto di Tchaikovsky dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=RGQbiCnmh54).
Sugar Plum Dark Mix di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=HOmwrw-c7qs).
Toccata e fuga in Re minore di Johann Sebastian Bach, eseguita da Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=HOmwrw-c7qs)

Immagine da Pexels distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

Effetti sonori: Vinyl rewind da FreeSounds (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 6 febbraio 2023

Belladonna e le Mele Avvelenate


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Foto di Pedro Dias da Pexels


Non accadeva di frequente che qualcuno si spingesse fino alla mia serra e, ogni volta che accadeva, non era mai un caso fortuito. La gente, in genere, tendeva a girare alla larga da me, forse perché vivevo da sola in mezzo alla foresta, in una casupola dalle pareti trasparenti in cui coltivavo ogni specie nota e ignota di pianta velenosa, forse perché io stessa lo ero. Velenosa, intendo, ma anche un po' pianta. È una storia lunga, che non mi va di raccontare. La gente, per semplicità, si riferiva a me come "La strega dei boschi", e mi evitava, e a me stava più che bene. I pochi che si avventuravano fino alla mia porta lo facevano per chiedermi un veleno, che io concedevo più che volentieri in cambio di un particolare pagamento, o per supplicarmi invano di fornire un antidoto.
Il Principe apparteneva a quest'ultima categoria.
– Ma tu devi aiutarmi! – ribatté quel bellimbusto dopo il mio iniziale rifiuto.
Perché non lo capivano mai, mi chiesi. Quel che è fatto è fatto, e di solito al passato non c'è rimedio. In più, il Principe mi aveva interrotto durante il mio quotidiano bagno di sole, mentre ero intenta a occuparmi delle pianticelle più giovani e a godermi la pace della foresta. Mi aveva indispettita, e quindi non mi si può biasimare se gli risposi in tono sgarbato: – Ah sì? Io non ti devo nulla.
Lui s'indignò, e il suo volto manifestò tutto il suo sdegno regale, ma a me non importava che il Principe fosse un principe. Non avevo mai trattato in modo diverso un sovrano e un contadino: se esposti a un veleno morivano allo stesso modo, perciò io non ci vedevo tutta questa differenza.
– Ma si tratta della mia promessa sposa! – sbottò il Principe, rosso di furore. – La mia bella, bellissima futura moglie, che giace in un sonno mortale. E la colpa è solo tua, tua e delle tue Mele Avvelenate. Lo sanno tutti che sei l'unica in tutto il regno a coltivare un albero di Mele Avvelenate.
Mi interruppi mentre annaffiavo un aconito in fiore in un grazioso vasetto. – Una delle mie mele? Ne sei certo? Ma in questo caso, il rimedio dovrebbe essere alla tua portata, Principe. Possibile che nessuno ti abbia spiegato la storia del bacio del Vero Amore?
Non ero solita fornire così apertamente informazioni sul modo di vanificare i miei veleni, nemmeno quelle che erano già di dominio pubblico, ma tutto pur di togliermelo di torno.
Il principe mugugnò qualcosa di incomprensibile e io, dopo un'ultima carezza a uno stelo di mughetto, mi raddrizzai e lo fissai. – A meno che... – Lo scrutai a lungo nel calore odoroso dei fiori e dei funghi variopinti allineati lungo le pareti trasparenti. Sulla fronte del Principe erano comparse goccioline di sudore, e la sua smorfia altera mi raccontava molto più del suo silenzio. – Tu non la ami!
Il principe fece spallucce e replicò: – E allora? La voglio sposare, non basta?
– Non per svegliarla dal suo sonno. – Il mio tono gongolante attirò su di me un'occhiata cupa da parte del giovanotto abbigliato d'azzurro. Non mi capitava spesso di trionfare con quel vecchio trucco della Mela Avvelenata, da quando si era sparsa la voce sul punto debole di quel maleficio. – Dimmi una cosa, Principe: perché la vuoi sposare? Per la sua dote? Il suo castello, le sue terre? Il suo lignaggio? Perché?
Il Principe ripeté una serie di no a ogni mia domanda, e stizzito interruppe l'elenco rivelando infine: – È una donna bellissima! La più bella di tutto il regno, con il sigillo di approvazione degli Specchi Incantati, e lo sai bene quanto sono schizzinosi gli Specchi Incantati.
Lo sapevo, eccome. – Uno si è rotto mentre gli passavo davanti – commentai, in tono noncurante. Non si poteva dire che fossi la più bella del mondo, ma non avrei trovato un solo uomo che poteva definirmi brutta. Ero solo inavvicinabile, come uno stelo d'ortica o un fiore di ginestra.
– Il mio consiglio? Mettiti l'animo in pace, Principe. – Stavo per dire "il cuore in pace", ma sarebbe stato un grosso errore, perché a quel punto era evidente che quell'individuo vanesio non ne possedeva uno. – E va' a cercare la seconda donna più bella di tutto il regno, perché la prima ormai è bella che morta...
Mi ritrovai la sua spada alla gola senza nemmeno accorgermene.
– Sveglia dal maleficio la mia futura moglie, o tu sei bella che morta, strega.
Non era nemmeno il primo che mi minacciava, perciò non feci una piega. Risi, e allungai una mano verso il suo volto. – Oh, ma davvero? Scommettiamo che prima di crepare riesco a toccarti?
Lui tirò indietro la testa, ma anche così mi bastava poco per raggiungerlo, da quanto eravamo vicini. Ma mentre eravamo bloccati in quello stallo, in attesa che lui decidesse di fare la cosa giusta, o quella sbagliata, per la sua salute (io me la sarei cavata: l'ho già detto che sono anche un po' pianta, giusto?), il Principe si girò di scatto a guardare una spalliera di belladonna ed edera velenosa, che avevo messo di traverso a dare riparo alle mie piantine più timide, quelle che preferivano la fresca penombra alla luce del sole.
– Chi è là? C'è qualcuno? – chiese il Principe, con la voce un po' meno gagliarda.
– È solo la belladonna – mormorai, mentre ne approfittavo per scostare dalla mia gola la sua spada.
Il Principe abbassò la spada docilmente e fece per aggirarmi, non più tanto interessato a me.
– Non te lo consiglio – lo avvertii, frapponendo tra lui e la belladonna il mio braccio velenoso. – Lo sai come attira le sue vittime la belladonna, Principe? Senti un sospiro, un canto di donna, una voce che ti chiama, e quando ti avvicini per scoprire quale fanciulla si nasconda dietro la siepe dai fiori viola e dalle bacche nere, scostando le fronde con le mani... il suo veleno ti uccide e cadi giù morto come un sasso.
Il Principe trasalì e si tirò indietro dall'arbusto letale. Ovviamente non era così che funzionava, ma la sua ignoranza giocava a mio favore.
Feci uno scatto, a mani protese, verso di lui, costringendolo a indietreggiare ancora. – Forse non era così bella, dopotutto – mugugnò il principe, fissando il sipario di edera e belladonna, poi me. – Forse gli Specchi Incantati si sono sbagliati.
– Già. Forse – concessi, e lo guardai andarsene senza un saluto, prima di rilassarmi e tornare alle mie piantine.
Mi misi a canticchiare mentre rinvasavo un virgulto di oleandro, poi spruzzai di acqua le amanite. Era una bella giornata, il sole splendeva sulla mia pelle, e il profumo di centinaia di veleni aleggiava nella tiepida atmosfera della serra. Poi, quando fui sicura che il Principe si fosse ormai allontanato, dissi: – Bianca, puoi uscire adesso.
Da dietro il separé d'edera velenosa e belladonna, passando tra lo stretto pertugio lasciato tra questa e un'alta pianta di stramonio, emerse una fanciulla bellissima, dalla pelle candida come la neve, i capelli neri e le labbra rosse, curvate in una smorfia indignata che non offuscava affatto il suo splendore. La donna più bella di tutto il regno, la si sarebbe detta, perfino mentre imprecava irata: – Quel mentecatto! Quel mascalzone, farabutto, gaglioffo! Quel gran figlio della mia matrigna!
La lasciai sfogare, poi mi affiancai a lei, a fissare la porta da cui il Principe era uscito per sempre dalla sua vita. Fuori dalla serra, le rosse Mele Avvelenate che pendevano dai rami del mio albero maturavano al sole, perfette e allettanti. – Te lo avevo detto che non avrebbe capito la differenza tra un maleficio da Mela Avvelenata e un sonno profondo da pozione soporifera spalmata su una comune mela. Non ha nemmeno provato a baciarti, vero?
– I nani hanno detto di no – replicò Biancaneve, la voce intrisa di sollievo. Ovvio, non aveva voluto rivelare, di fronte a sette testimoni, che da parte sua di amore non c'era nemmeno l'ombra, altro che Vero. La mia bellissima amica si voltò, finalmente rasserenata dopo il suo sfogo. – Grazie, Belladonna. Ti abbraccerei, ma...
Biancaneve allargò le braccia come per circondarmi, ma tenendosi a distanza di sicurezza. Feci spallucce. Lei sbirciò di nuovo verso la porta.
– Tranquilla, va bene così – le dissi, riprendendo ad affaccendarmi attorno alle mie piantine. – E lo so che adesso devi tornare a casa o i tuoi coinquilini si preoccupano. Però, Bianca, devi promettermi una cosa. Promettimi che verrai a trovarmi più spesso, e non solo quando devi mettere alla prova l'ennesimo pretendente che viene a chiedere la tua mano!

sabato 4 febbraio 2023

Ialino

Ialino [ia-lì-no] agg. 1. lett. Simile a vetro, specialmente perché incolore e trasparente. 2. min. Di minerale incolore, trasparente, puro.

Etimologia: dal greco yalinos, "vitreo", aggettivo derivato da yalos, "vetro".


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Non so con che coraggio riuscii a guardarla negli occhi, la sera in cui l'inquisitore pronunciò la sentenza. La sua anima limpida, ialina, mi accusava dalla fonte arida del suo sguardo. Lei sapeva, buon Dio, sapeva quale onta aveva macchiato la mia.
Ero stato io. Io avevo fornito ai suoi accusatori le prove che l'avevano condannata. Lei era innocente agli occhi di Dio, non aveva fatto del male ad alcuno, era solo una sapiente in un tempo in cui questo non era tollerato. Rammentavo ogni sua parola, e rammentavo che non c'era stata malvagità o malizia in ciò che mi aveva detto, anche se le sue convinzioni differivano dalle mie. E se qualcuno era da biasimare per la mia abiura, per la scelta che mi aveva fatto preferire il suo corpo e un amore senza matrimonio ai miei voti, quello ero sempre io.
Ma lei non sapeva in quale situazione mi ero ritrovato quando ci avevano presi. La strega, già la chiamavano così, era perduta in qualunque caso. Ma potevo salvare la bambina, nostra figlia, se la ricusavo, potevo rientrare nelle grazie del Signore se li aiutavo a ucciderla. Come poteva un simile patto essere giusto? Tuttavia lo feci, macchiai la mia anima immortale per amore, e quella notte non la guardai bruciare come loro avevano in mente, fuggii con la bambina, poiché come potevo fidarmi di chi mi aveva costretto a condannare un'innocente per mezzo di un ricatto?
Misi nella cesta assieme alla piccola il cristallo ialino che lei mi aveva dato, dicendomi che aveva il potere di proteggere coloro che amava. La bambina era più meritevole di protezione di me, e funzionò, perché la piccola non pianse nemmeno una volta durante la nostra fuga.
Quella fu la notte in cui promisi a me stesso di crescerla nella conoscenza, di dedicare la mia e la sua vita alla protezione degli innocenti, affinché nulla di simile potesse più accadere.
Quella fu la notte in cui persi una mano, ma salvai la mia anima.

giovedì 2 febbraio 2023

Audioracconto - Pelago


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Min An da Pexels



Pelago
(racconto breve di narrativa non di genere)

Pelago: mare aperto, o grande quantità, in particolare di cose spiacevoli.

Questo è un racconto un po' particolare. Non proprio un tautogramma (non tutte le parole del racconto iniziano con la stessa lettera, in questo caso la P), ma ci va vicino, giocando con le allitterazioni della P e della S. La poesia citata, se non l'hai riconosciuta dagli indizi, è La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge.
Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante della pioggia e della poesia! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/02/pelago.html

Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Wind Marching For Rain, di Puddle of Infinity, dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=HTcMMFXDYeY).

Immagine di: Min An, da Pexel (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-che-si-siede-sulla-sedia-mentre-si-tiene-il-libro-1337975/) distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSounds (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).