giovedì 30 gennaio 2020

Lasciate un messaggio dopo il bip


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.Foto di Reynaldo #brigworkz Brigantty da Pexels


"Ciao, sono Jake. Se cercate me, mio fratello o la sua fidanzata Kàli, non siamo a casa e non lo saremo per altri trecento anni. No, tranquilli, scherzo, torniamo dal futuro l'anno prossimo, come tutte le estati. Se invece cercate mia sorella, o mamma e papà... se hanno messo la segreteria telefonica non sono in casa nemmeno loro, sono da qualche parte nel vostro presente e torneranno presto, perciò lasciate un messaggio o richiamate più tardi. Andava bene così?"


"Questa non è la segreteria telefonica di Aglaudi Mirewn. Io sono solo di passaggio nella casa del governatore, ma ci tenevo a registrare il mio messaggio di benvenuto. Ah, se vi siete mai chiesti perché la figlia del governatore sorrida ogni volta che il padre mi nomina mentre alza la taglia sulla mia testa... immagino che ora un'idea ve la siete fatta. E adesso vado, che nell'hangar del governatore c'è un nuovissimo aeroscafo che aspetta solo qualcuno che lo prenda in prestito per un giretto di rodaggio, e io mi sono appena offerto volontario. Lasciate pure un messaggio, o anche no, fate voi."


"Blu. Risponde la segreteria telefonica della famiglia Blu, e io sono Oceano Blu, e no, il mio non è un nome d'arte o un soprannome. Lo so, che coincidenza che la ragazzina con la pelle blu venga adottata proprio da una famiglia che di cognome fa Blu, vero? Lo trovavano tanto divertente anche i miei compagni di classe. E Oceano non è un nome maschile, no, è un po' come Andrea, ci sono anche delle donne che si chiamano Andrea, lo sapevi? Ma ora basta, mi sa che hai già capito che non c'è nessun Blu in casa, né Oceano né altri, perciò sto zitta e dimmi pure tutto quello che vuoi dire dopo il segnale blu. Blu."


"Questa è la segreteria telefonica dell'oltretomba. Thanatos e io non siamo in casa, e a meno che tu non sia un addetto ai lavori, come hai fatto ad avere questo numero? Ad ogni modo, se sei vivo e chiami qui, lasciatelo dire amico, hai problemi seri. E se sei morto, sei dalla parte sbagliata della cornetta. In entrambi i casi, lascia un messaggio con il tuo nome e il tuo recapito dopo le campane a morto... intendevo dire, dopo il segnale acustico. Io o Thanatos verremo a trovarti a tempo debito."


"Spiacente, non sono in casa. Sono fuori a salvare il mondo. Di nuovo. Per ragioni di segretezza non posso rivelare i miei nomi né la mia identità segreta, ma se hai chiamato vuol dire che sai chi sono e dunque non perdiamo tempo: dopo il segnale acustico composto da coro epico e musica eroica lascia un messaggio ricordandoti di specificare quale guerra, mega disastro naturale o apocalisse dev'essere scongiurata, o in alternativa quale tiranno, genio criminale o supercattivo dotato di superpoteri merita di essere sconfitto. Mi occuperò del tuo problema non appena ho finito con... qualunque cosa mi tenga impegnato al momento."

lunedì 27 gennaio 2020

Messaggio al cioccolato


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Prima che scadesse il tempo, Sharona prese la sac à poche e scrisse il mio nome sulla glassa al cioccolato, ancora tiepida e lucida. Voltai lo sguardo inorridito dalla torta a forma di cuore al suo volto, alle sue labbra tirate in un insolito, lieve sorriso. Non aveva mai dato segno di provare per me nient'altro che uno sdegno malamente represso. E allora mi chiesi se per tutto quel tempo non mi fossi sbagliata.
***
La mia famiglia insisteva a dire che mi serviva un hobby, che non potevo pensare solo allo studio e languire in casa tra un esame e l'altro. Per quello, senza neanche chiedere il mio parere, mi avevano iscritto al corso di pasticceria tenuto dalla cognata di mio zio.
Non sapevano che io un hobby già ce l'avevo, e che avevo perfino frequentato lezioni di scherma medievale per diventare più brava nel gioco di duelli segreto in cui mi aveva coinvolto il mio ex compagno di corso ed ex coinquilino. Lui se n'era andato dalla mia vita ma Vérys la Saetta Azzurra, il mio personaggio nel gioco, era rimasta.
Io preferivo il combattimento al pastrocchiare con codine di zucchero e glassa colorata però, dato che non potevo rivelare ai miei parenti quanto mi appassionasse quel gioco (la compagnia che lo gestiva aveva più regole e accordi di segretezza di una società di Massoni), non avevo scuse per non andare a un corso che era stato già pagato per intero.
Mi rassegnai, e lo stesso feci quando la cognata di mio zio mi mise a lavorare in coppia con la più antipatica e spocchiosa delle donne che frequentavano il corso, un'aspirante chef di nome Sharona.
Avrei preferito di gran lunga la nonnina chiacchierona, o la mamma un po' in carne che non la smetteva di fare battute e assaggiare l'impasto in ogni fase della preparazione.
Loro mi avrebbero reso più sopportabile quell'ordalia fatta di fruste e coltelli e panna montata. Sharona, invece, non faceva che darmi ordini e rimproverarmi e ricordarmi che io ero lì per passare il tempo, lei per imparare un mestiere.
Come se non bastasse all'ultima lezione, tenuta in prossimità di San Valentino, la cognata di mio zio ci chiese di creare una ricetta originale per una torta a forma di cuore, da decorare poi come preferivamo. Per me, già era difficile seguire alla lettera una ricetta, figuriamoci inventarla. Lasciai fare a Sharona, che come al solito sembrava nel suo elemento, e mi limitai a eseguire i suoi ordini.
Sharona aveva scelto un impasto al cioccolato con un ripieno di fragole e panna, ricoperto da una marmellata di frutti rossi e racchiuso in una glassa al cioccolato, che solidificandosi sarebbe diventata croccante. La forma a cuore della torta doveva essere rifinita solo da una ghirlanda di glassa rossa lungo il bordo, ma all'ultimo Sharona ci aveva ripensato e aveva scritto il mio nome. Dal suo sorriso, indovinai il messaggio che voleva trasmettermi. Fui sollevata che quella fosse l'ultima lezione del corso, perché Sharona aveva equivocato e io non ero quel genere di donna.
Non pensavo l'avrei più rivista. Mi sbagliavo, su di lei e su di me.
L'incrociai per caso alla fine dell'anno. Dopo i soliti convenevoli, Sharona mi invitò a prendere insieme una fetta di torta al cioccolato, e io accettai. Sapevamo entrambe qual era il messaggio celato in quello specifico invito.
Iniziammo a frequentarci, e dopo la mia laurea Sharona mi propose di andare a vivere assieme.

sabato 25 gennaio 2020

Antitesi


Antitesi [an-tì-te-si] s.f. inv. ret. Accostamento di concetti o parole di significato opposto. 2. filos. Affermazione contrapposta a un'altra; contrario, negazione.


Etimologia: deriva dal greco antíthesis, composto da anti, "contro", e thesis, "posizione".

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La vita è spesso una continua serie di antitesi in successione. Gioia e dolore, odio e amore, nascita e morte. Come le maschere teatrali della commedia e della tragedia mi ricordavano, ciascuno andava in giro indossando la sua, ridendo o piangendo senza ritegno.
Ma quello era un lusso che io non potevo permettermi. Provare qualcosa, lasciare che un evento qualsiasi scalfisse l'imperturbabilità che avevo accuratamente costruito da quando mi ero esposto al mondo esterno, avrebbe significato rivelare il mio segreto. Perché se gli altri, i ragazzi umani che popolavano le aule della scuola e i corridoi e i pomeriggi al parco modificavano la propria espressione a ogni guizzo della loro anima, in me invece cambiava tutto quanto. La mia intera fisionomia, le rare volte che mi lasciavo trasportare da un moto di collera o da uno scoppio d'ilarità nella solitudine della mia stanza, ne usciva completamente trasfigurata, e il mio potere, il potere di mio padre, si manifestava negli oggetti sollevati da terra, o scagliati contro le pareti.
Riprendevo sempre il controllo, prima di uscire. Allo specchio, ritrovavo il volto di un ragazzo annoiato dalla vita, quello con cui tutti mi conoscevano. Il mio rifiuto a reagire alle provocazioni aveva irritato molti ma, per il loro bene, era meglio così.
A volte potevo apparire freddo. L'esatto opposto del calore di Evangeline, la mia antitesi, che chissà perché aveva deciso, fin dal nostro primo incontro in treno, che voleva restarmi appiccicata il più possibile. Non so se percepisse quanto mi fosse difficile non esprimere l'angoscia, o se avesse intuito, in un angolo del suo subconscio, la verità che celavo con tanta attenzione.
Per poter essere uguale a tutti gli altri, io dovevo per forza essere diverso.

giovedì 23 gennaio 2020

Pagine proibite


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Li avevo trovati in fondo all'ultimo cassetto, nascosti in una scatola di cartone piena di un mucchio di altre cianfrusaglie. Fogli, almeno una dozzina di vecchie pagine a righe.
Trasalii quando li voltai.
Alla luce della candela i fogli erano antichi e ingialliti, ma l'inchiostro che tracciava linee tremanti di rabbia era nuovo. Quei segni erano qualcosa che non vedevo da molto, molto tempo, e interpretarli mi costò qualche sforzo. La scrittura era considerata un'arte obsoleta che non veniva più insegnata alle nuove generazioni, ma sia io che mio fratello eravamo nati prima del nuovo mondo. Tuttavia, ricordare la vita di prima fu come ricordare la vita di qualcun altro.
Era stata nostra madre a insegnarci a leggere e a scrivere, quando ancora splendeva la luce.
Il Buio aveva reso i messaggi vocali e le registrazioni audio la norma per le comunicazioni e per la trasmissione della conoscenza. Diceva che era per la nostra comodità, che erano molto più rapidi da produrre e che non affaticavano gli occhi, ma io sapevo che esisteva anche un altro motivo, uno che il Buio non menzionava mai. Il Buio aveva orecchie dappertutto, ma non aveva occhi; per questo ogni forma di comunicazione silenziosa era diventata illegale, che si trattasse di scrittura o del linguaggio dei segni. Quanto a coloro che non udivano e per cui quest'ultimo era stato necessario, quando gli veniva chiesto il Buio si limitava a rispondere che aveva eliminato il problema.
Le pagine proibite nel cassetto di mio fratello rappresentavano un altro problema, e non solo per la loro forma, ma anche per il loro contenuto. Se le avessero trovate gli agenti del Buio, gli esseri umani che agivano per suo conto, e se uno di loro fosse stato abbastanza vecchio da riuscire a leggerle, avrebbe scoperto vergata su carta ogni forma d'ingiuria nei confronti del Buio e del nuovo mondo che aveva creato, e nelle pagine seguenti una storia, una storia di fantasia che narrava di una terra in cui il Buio non era mai calato, in cui ancora regnava la luce e la libertà di registrare i propri pensieri nel silenzio dei fogli. A me, più che una speranza quella sembrava un'illusione.
Sollevai la prima pagina sopra la candela, decisa a bruciare le prove infamanti del pensiero ribelle di mio fratello, poiché non volevo perdere anche lui. Ma mi tremò la mano e la porta venne sfondata. Si spezzò con uno schianto e la stanza si affollò di urla e io non seppi mai se sarei stata capace di cancellare le sue ultime parole.

lunedì 20 gennaio 2020

I Testimoni del Polo Sud


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Erano l'ultima cosa che mi aspettassi di trovare di fronte alla mia porta. Quando, la domenica mattina, sentii suonare il campanello, il pensiero corse subito ai Testimoni di Geova, a un venditore porta a porta, a una suocera terribilmente impicciona e mattiniera, al corriere che attendevo, e infine ai soliti ragazzini dei vicini in vena di scherzi, nel qual caso aprendo la porta non avrei trovato nessuno, data la loro tecnica ben collaudata di "suona e scappa".
E infatti, scorgendo dallo spioncino il pianerottolo vuoto, immaginai fossero stati questi ultimi i colpevoli dello scampanellio; ma, proprio mentre stavo guardando, il trillo del campanello si ripeté.
Mi decisi ad aprire, pensando a un qualche guasto. E fu allora che mi trovai a fissare, sul tappetino d'ingresso, un paio di giovani pinguini, del tipo abbastanza grande da non esser più da nido, ma con ancora addosso un piumaggio grigio, soffice e vaporoso. Uno dei due teneva sotto l'ala un bastone telescopico da selfie incrostato d'alghe, strumento con cui doveva aver suonato il campanello, dato che i pinguini notoriamente non sono granché avvezzi a sollevarsi in volo e il mio campanello era all'altezza di almeno altri due pinguini sopra la sua testa.
L'altro invece mi tendeva con insistenza un depliant. Lo afferrai dopo un po' d'esitazione, dovuta al normale sconcerto che avrebbero avuto tutti di fronte a quella scena inverosimile. Sul frontespizio c'era scritto, in grandi caratteri "LA FINE È VICINA!", seguito dalle seguenti frasi, più in basso: "Lo scioglimento dei ghiacci è imminente. Fai la tua parte oggi, non aspettare. Aiuta anche tu un pinguino che ha perso la sua casa." Nel mezzo, c'era l'immagine di un iceberg che andava in frantumi, circondato da tre o quattro pinguini che annaspavano tra i flutti, gli occhietti chiusi e il becco aperto in cerca d'aria, come se non sapessero affatto nuotare. La foto era chiaramente un collage fatto al computer, e neanche tanto bene, poiché era facile notare che il pinguino era sempre lo stesso, nella stessa posa, replicato più volte, e che l'iceberg sembrava semplicemente appoggiato sul mare invece di esservi immerso.
Ci mancavano solo i Testimoni del Polo Sud.
Scrutai con diffidenza il pinguino che mi aveva porto l'opuscolo. Tendeva ancora quell'ala, ma in modo diverso, come se si aspettasse qualcosa. Mi grattai la testa e cercai all'interno del suo depliant una risposta che non c'era. Che cosa avrei mai potuto dare a due pinguini che suonavano alla mia porta di domenica mattina... un cubetto di ghiaccio?

sabato 18 gennaio 2020

Lessico


Lessico [lès-si-co] s.m. (pl. -ci) Insieme delle parole di una lingua o di un dialetto o di un suo settore particolare, di un singolo autore, di un'opera. 2. Dizionario, vocabolario.

Etimologia: proviene dal latino moderno lexicon, a sua volta derivato dal greco leksikón, formato da léksis, "parola", e biblíon, "libro".

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Ciò che mi colpì di lei fu che la ragazzina usava un lessico molto particolare. Pur essendo cresciuta in un villaggio costiero, in una delle isole minori dell'arcipelago, si esprimeva come una dama di corte, più che come la figlia di un pescatore. E mi studiava con occhi fieri, occhi che non aveva mai avuto nessuna delle fanciulle che avevo esaminato. Di solito era il timore, oppure la speranza, ad animare i loro sguardi. Tagarel non mostrava nulla di tutto questo.
Sembrava che sapesse chi ero, che cosa mi aspettavo da lei e, soprattutto, sembrava estremamente consapevole del suo valore ai miei occhi.
Mi alzai dal mio scranno. – Di solito chiedo alle ragazze che mi vengono presentate se sanno perché sono state condotte qui, ma suppongo che nel tuo caso non sarà necessario.
Le sue labbra si piegarono in un sorriso furbo. – Esiste, di grazia, qualcuno che può non comprendere, nello scorgere una torre all'orizzonte?
– Oh, ti sorprenderebbe sapere quanti ancora ignorano il lavoro che facciamo qui. – Le mie dita sfiorarono la copertina del lessico elfico, allineato con gli altri tomi sullo scaffale. – Taluni potrebbero chiamarci fautori di miracoli; altri lamentarsi per le nostre sciocche fantasticherie. Ma i più procedono nella vita a occhi chiusi, e non si pongono il problema. Per loro siamo solo una torre all'orizzonte, nulla più.
Tagarel non replicò. Si limitò a fissarmi con quell'aria di sicurezza che solo un mio pari avrebbe potuto sfoggiare. Solo un'altra arcimaga, cosa che lei ancora non era. Oh, capiva benissimo la natura del vero potere, quella ragazzina, sia quello magico che quello mondano.
L'esame che seguì fu una mera formalità. Non nutrivo alcun dubbio che lo avrebbe passato.
Naturalmente, col senno di poi, fu facile riconoscere che nonostante le sue enormi potenzialità, la scelta migliore che avrei potuto fare era quella di rimandarla indietro.

giovedì 16 gennaio 2020

Terrore dall'alto


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Anna camminava a testa alta nel caos che era diventato il campo di prigionia delle miniere di smeraldo. Intorno a lei puzza di fumo e grida e guardie che correvano lontano dai fuochi che consumavano le gogne e il capanno degli attrezzi, quello dove tenevano i picconi, le catene e gli strumenti da tortura.
– Drago! Drago! – era il grido che si rincorreva ovunque, tra guardie e prigionieri con gli indici puntati al cielo come se i compagni di sventura potessero non aver notato l'enorme bestia che li sorvolava, e che di tanto in tanto scendeva in picchiata con le fauci grondanti di fiamme.
Anna si beava dello scompiglio che stava creando. Il drago era un diversivo. Il piano era organizzare una fuga.
Mentre si dirigeva alla caserma munita di torrette, l'unico edificio in muratura all'interno del campo, Anna notò con piacere che il drago calava sempre e solo sulle guardie in fuga, e mai sui prigionieri che incespicavano e s'intralciavano l'un l'altro, stretti com'erano in lunghe file di ceppi.
Forse perché quelle catene ricordavano al drago la sua passata condizione e per questo aveva pietà di loro,  si disse Anna. Lei stessa riconosceva la somiglianza tra i galeotti costretti a lavorare nei meandri bui della cava e il drago con le zampe avvinte da una catena d'oro magico nelle profondità della caverna, dove lei era stata gettata per fargli da pasto. Sarebbe morta quel giorno, se non avesse avvertito le emozioni del drago come se le fossero appartenute.
Anna non aveva mai pianto per nessuno, nemmeno per se stessa, neanche quando era stata maledetta dallo stregone Zohar e aveva perso tutto ciò che conosceva e amava, compresi suo fratello e la regina che entrambi avrebbero dovuto proteggere. Ma di fronte alle emozioni che traboccavano dal drago, Anna aveva versato lacrime per l'agonia di quell'anima possente costretta ad avizzire tra pareti di roccia, senza più alcuna speranza di rivedere il cielo. E le sue lacrime, lacrime per il predatore che avrebbe potuto divorarla, erano state la chiave per sciogliere l'oro magico e liberare il drago.
In quel momento, lui stava ricambiando il favore.
Anna entrò a passo spedito nella caserma, e ammassati in un angolo trovò quattro tra i più pavidi carcerieri che avesse mai visto.
– Le chiavi! – ingiunse Anna, allungando la mano. I quattro non si mossero e la squadrarono con sguardo stolido. – Tra i prigionieri c'è un cavaliere, un uccisore di draghi. E io ho la sua spada. Se volete vivere, datemi quelle dannate chiavi!
A quella spiegazione uno dei quattro sganciò dalla cintura un mazzo di chiavi rugginose e le lanciò sul pavimento. Anna le raccolse e senza dir altro si voltò per uscire. Tutto procedeva secondo i piani.
Non le restava che trovare suo fratello, liberarlo, andarsene con lui e infine convincerlo che il drago era dalla loro parte, che in condizioni normali non mangiava esseri umani ma legno e che quindi non c'era alcun bisogno di fare l'eroe e provare a ucciderlo.

lunedì 13 gennaio 2020

La scettica e la sognatrice


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Foto di Ivan Oboleninov da Pexels


Eravamo identiche. Avevamo gli stessi capelli, gli stessi occhi, gli stessi vestiti. Avevamo persino, entrambe, quel piccolo neo a lato del naso, e lo stesso tatuaggio sul lato inferiore del polso.
Eppure, nel profondo, lei non era come me. Non era affatto come me.
Fin da quando eravamo bambine, lei aveva sempre fatto il contrario di ciò che facevo io. Se io andavo a destra, lei andava a sinistra. Se io allungavo una mano per toccarla, lei mi respingeva con l'altra. E se io le voltavo le spalle, continuavo a sentirmi comunque addosso il suo sguardo critico e sprezzante.
Sua era la voce che mi frenava ogni volta. A ogni mio slancio, a ogni idea, a ogni pindarico volo di fantasia lei rispondeva con una pacata logica che mi era impossibile confutare. Contrapponeva ai miei "potrei" i suoi "non puoi", e ostacolava i miei "vorrei" con un'intricata selva di "non hai tempo, non sai come si fa, non sei capace".
Non riuscivo più a sopportarla, ma neanche ad allontanarmi da lei, o a smettere di ascoltarla. In fondo, tutto ciò che le chiedevo era di poter sognare in pace, e di essere lasciata libera di realizzare i miei sogni. Come potevo farlo, con la sua voce che mi ricordava ogni volta la distanza tra la mia vita e i miei desideri?
È per questo che l'ho uccisa.
Lei era la mia ombra, il mio riflesso nello specchio, la mia gemella.

sabato 11 gennaio 2020

Schizzo


Schizzo [schìz-zo] s.m. Spruzzo improvviso di liquido; il segno lasciato dallo spruzzo. 2. fig. Persona assai dinamica e dotata di notevoli riflessi. 3. fig. Abbozzo di un disegno, di un'opera scritta, di un progetto; descrizione breve e sintetica.

Etimologia: nel primo significato ho rintracciato la fonte al verbo schizzare, di origine onomatopeica (riproduce il rumore dell'azione), nel terzo significato proviene dal latino schedium, "lavoro fatto subito e alla meglio", a sua volta derivato dal greco schedion, "estemporaneo, fatto all'improvviso".

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Avevo scelto quel lato del giardino perché era tranquillo, lontano dalla casa e dalla sua vociante torma di marmocchi, e nascosto alla vista da un alberello di alloro. Volevo un po' di pace, per una volta, e nessuno attorno che indovinasse quello che stavo pensando. Erano tutti troppo bravi a farlo, persino la mamma.
Avevo portato con me una matita e il mio album da disegno e prima ancora di rendermene conto, mentre riflettevo sul pomeriggio passato in paese per una volta senza la bellezza di Jaelenn a oscurarmi, cominciai a tracciare lo schizzo di un volto. Era il volto di un ragazzo. Era il volto che occupava i miei pensieri.
D'improvviso un altro tipo di schizzo mi bagnò l'orlo della gonna e un angolo dell'album da disegno. Guardai in su, verso il bullo che mi aveva sporcato dando un calcio all'acqua stagnante di una pozzanghera. Occhi rossi, un Marieth. Avrei dovuto capire che non poteva durare, e che prima o poi qualcuno avrebbe percepito il mio desiderio di stare da sola e sarebbe venuto a indagare. Solo che speravo in qualcun altro, qualsiasi altro. Tutti tranne lui.
– Vediamo un po' cosa disegna la cocca di zia Alice.
Il ragazzino, sogghignando, allungò la mano, ma io mi alzai e nascosi l'album di disegno dietro la schiena. Sapevo che se gli fosse capitato in mano avrebbe anche potuto bruciarlo per capriccio, e tutti i miei schizzi, compreso l'ultimo, sarebbero spariti per sempre.
Mentre indietreggiavo ci raggiunse un grido alle sue spalle. – Ollie Marieth, lascia subito in pace la mia amica. O preparati a ritrovarti con i capelli rosa e tutti i vestiti dipinti a cuoricini!
– Se prima riesci a prendermi! – replicò il bullo. – E se anche ci riesci, attenta che io te li posso bruciare, i capelli.
– Prenderti? Non serve. Devi pur dormire, prima o poi.
La risata tranquilla della ragazza segnò la sua sconfitta. Poi lei si rivolse a me: – Tutto bene, Angela? Non sei ancora arrabbiata con me, vero?
Sbuffai. Jaelenn era la seconda persona che avrei preferito non vedere.

giovedì 9 gennaio 2020

Al di là del cielo


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Foto di Michel Berube da Pexels


Ero elettrizzata. Un po' come a dicembre, quando man mano che si avvicina il Natale l'agitazione cresce, cresce fino a trasformarsi in una frenesia gioiosa nel giorno della vigilia e tu sei talmente felice e sveglio, tanto sveglio che stai nel letto a occhi sbarrati, e non pensi che riuscirai mai a dormire, proprio no, ma dopo ti svegli ed è Natale e in qualche modo, chissà quando, ti devi essere addormentato, solo che non te lo ricordi e neanche t'importa, perché è Natale, ti alzi di corsa e sotto l'albero ci sono i regali.
Così mi sentivo quella mattina d'aprile. Tiravo mio padre tenendolo per la mano, diretta alla mongolfiera. Eravamo i primi, e l'uomo nel cesto stava ancora gonfiando il pallone sbilenco con lunghe lingue di fiamma dal bruciatore. Avevo saltato tutte le bancarelle della fiera per essere lì di buonora, e abbandonato mia madre e l'albicocca che aveva tentato di offrirmi. Nessun frutto poteva essere più dolce del sogno che già pregustavo.
Volare.
Volare sopra le nuvole, al di là del cielo, sentire il mio corpo che si librava leggero, come un uccello, come un angelo.
Saltellai impaziente da un piede all'altro finché l'uomo nel cesto non ci disse che era pronto e potevamo salire.
Mio padre pagò i biglietti e l'uomo ci accolse all'interno del cesto. Mi aggrappai al bordo e mi sollevai in punta dei piedi. Facevo fatica a guardare fuori, alto com'era: mi arrivava a malapena al naso. Mio padre provò a sollevarmi, ma subito l'uomo scosse la testa e urlò sopra al sibilo assordante del bruciatore "È vietato tenere in braccio i bambini!", così mio padre dovette rimettermi giù.
Il soffio intermittente, come un respiro di drago, mi fischiava nelle orecchie mentre dondolavamo e ondeggiavamo in quel fragile rifugio. Vidi gli alberi lontani e l'orizzonte sparire, e gli occhi mi si riempirono di cielo, ma con mio grande disappunto scoprii che non provavo affatto la sensazione di librarmi verso l'alto. Sentivo i miei piedi ancorati a un suolo, per quanto sottile e instabile, non tanto diverso dal pontile di un molo. Sentivo il mio corpo ancora stretto nell'odiosa morsa della gravità.
No, non stavo volando.
Nei miei sogni notturni, quelli in cui mi staccavo da terra e mi sollevavo sopra i tetti delle case, la sensazione era stata molto più vivida e reale di quella pallida imitazione, di quella giostra lenta, accompagnata dal calore e dal rombo fastidioso della fiamma. Non c'era libertà dentro al cesto, né l'emozione che mi ero aspettata da quando papà mi aveva annunciato quella gita.
Avevo cercato le ali di un falco, e mi ero ritrovata incatenata al trespolo come un pappagallo addomesticato. Ma non mi accorsi di quant'era vera quella metafora finché il cesto non si fermò e restammo lì, appesi in aria, senza più muoverci.
– Più in alto, più in alto! Voglio salire più in alto! – urlai. Nutrivo ancora la speranza che, se fossimo saliti sopra le nuvole, se fossimo andati al di là del cielo, avrei ritrovato la sensazione di galleggiare felice, senza peso, che animava i miei sogni.
– No no, signorina, non si può più di così – replicò l'uomo del cesto, rallentando il ritmo dei soffi infuocati. – Adesso si scende, lascia provare anche agli altri.
Mi accigliai. Di nascosto dall'uomo, mio padre mi sollevò quel tanto che bastava per farmi vedere le corde che tenevano la mongolfiera sospesa al suo posto, al di sopra del prato. Mi sentii ingannata: il mio volo non era mai stato libero.
L'atterraggio fu una goffa sequenza di saltelli che mi parvero l'ennesima beffa, sballottata com'ero all'interno del cesto, con la solida terra che mi reclamava più e più volte, finché gli aiutanti dell'uomo nel cesto non giunsero a trattenerci.
Io e mio padre scendemmo.
I prossimi della lunga fila che si era formata mentre eravamo in aria presero il nostro posto.
Mi allontanai dalla mongolfiera a testa bassa, ignorando mio padre che commentava con entusiasmo l'esperienza. A un bambino che saltellava da un piede all'altro come se fosse stato in fila per il bagno, sussurrai contrariata: – Tanto non è bello. Non sembra neanche di volare.
Lo vidi rivolgermi un'occhiata perplessa, ma quando mi girai indietro, scoprii di non essere riuscita a spegnere il suo entusiasmo. Stava ancora saltellando.
Avrebbe smesso, ne ero certa, una volta provato quel noioso andar su e giù della mongolfiera. Ma, per il momento, lo lasciai ad attendere il suo agognato Natale.

lunedì 6 gennaio 2020

In qualche punto dello spazio e del tempo


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Immagina un albero di mele. In fiore, o con rami carichi di frutti tondi e rossi, o verdi, o gialli, non importa. Fai tu.
Ci sei? Ecco, ora immagina una ragazza seduta sotto l'albero di mele, con la schiena appoggiata al tronco. Riesci a vederla?
La ragazza parla con il vento.
Il vento le risponde.
La ragazza taglia a metà una mela e la offre al vento. Il vento mangia la metà di quella mela. Dici che è impossibile?
Io l'ho visto.
In qualche punto dello spazio e del tempo, chissà dove, forse in un'altra dimensione, ci sarà per sempre una ragazza appoggiata al tronco di un albero, con mezza mela in una mano e il vento tra i capelli che profuma dell'altra metà, e solo perché tu e io, sì, tu che leggi questo racconto e io che l'ho scritto, solo perché noi lo abbiamo immaginato.

sabato 4 gennaio 2020

Mesmerizzare/Mesmerismo

Mesmerizzare [me-sme-riz-zà-re] v.tr. med. Curare mediante il mesmerismo.

Mesmerismo [me-sme-rì-smo] s.m. med. Dottrina e pratica terapeutica fondata sul potere curativo del magnetismo animale e minerale.


Etimologia: deriva dal nome del medico tedesco Franz Anton Mesmer (1734-1815), il quale suppose la presenza, nei minerali e negli esseri viventi, di un «magnetismo vitale» che riteneva potesse essere usato, da individui che ne fossero eccezionalmente dotati, a fini terapeutici; tale ipotesi costituì un tentativo di spiegazione del fenomeno dell’ipnosi.

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Photo by Matheus Bertelli from Pexels


Non potevo salvarlo. Nonostante le suppliche del vecchio, che me lo aveva affidato mormorando che il piccolo era tutto ciò che gli era rimasto, e nonostante il sacchetto tintinnante che aveva spinto tra le mie mani.
Anni prima avevo viaggiato in lungo e in largo per il paese con il mio mentore, colui che aveva convinto me e la povera gente che io fossi in grado di compiere miracoli, e in molti mi riconoscevano ancora da quei tempi come la curandera, la guaritrice della luce.
In realtà, io sapevo che la luce che sgorgava dalle mie mani quand'ero felice era soltanto questo: luce. Ma quando ero più giovane, e ingenua, lui aveva spiegato il mio dono con una nuova disciplina molto in voga in Europa: – Mesmerismo, mia cara. E tu sei un soggetto particolarmente dotato tra tutti coloro che ho rintracciato e patrocinato nel corso degli anni, una guaritrice in grado di rendere visibile l'invisibile, di manifestare sotto forma di luce il fluido magnetico che scorre da te verso gli infermi.
Solo in seguito avevo scoperto che lui diceva sempre quello che la gente voleva sentirsi dire. Alle persone religiose aveva rivelato come io fossi una santa, benedetta da Maria e da Gesù. A coloro che credevano nelle pratiche magiche parlava di scacciare il malocchio e l'ombra con la luce che avevo ricevuto in dono dal sole. E coloro che dubitavano di tutto, giacevano mesmerizzati dal magnetismo delle mie mani.
Io non credevo più in niente, nemmeno in quello. Ma lo sguardo febbrile di fede del vecchio mi metteva di fronte a una scelta. Non avrei accettato i suoi soldi, quello no: avevo smesso di essere la complice inconsapevole di un imbroglione. Ma non sapevo se fosse peggio rifiutarlo onestamente o dargli almeno un'ultima, sebbene falsa, speranza.

giovedì 2 gennaio 2020

I commensali silenti


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ormai la nostra vita non sembrava più un film di fantascienza: gli spazi enormi e asettici della nave generazionale stavano diventando familiari. Al limite, quando ci soffermavamo a pensarci, pareva di vivere nella più grande nave da crociera mai costruita, solo che non potevi uscire a guardare l'oceano.
Io ero stata fortunata. Ero salita al seguito del mio mentore, colui che era stato la mia motivazione di vita e la mia ispirazione e, a un solo anno dalla partenza, il mio ex ragazzo. Tutto di guadagnato, credimi.
I miei giorni si dividevano tra la cucina, la sala da pranzo del ponte D, e la mia cabina, dove ormai mi aspettava solo Volpe, la mia gatta. Lo so. Ero così inguaribilmente introversa.
Ma come tutti gli introversi, io avevo un superpotere: la capacità di osservazione.
Nella sala da pranzo del ponte D le tavole erano enormi, con molti più posti di quanti ne servissero a una singola famiglia, o a un gruppo di colleghi che lavoravano nella stessa sezione. Durante i primi mesi avevo assistito al fenomeno che io chiamavo scherzosamente "deriva linguistica". Se all'inizio il posto veniva scelto a caso, col passare del tempo i parlanti della stessa lingua tendevano a riunirsi a un unico tavolo, o se erano in troppi, a riempire le tavole vicine. Così c'era il tavolo dei francesi, quello dei russi, quello degli spagnoli, le tre tavolate di inglesi e americani, e un gruppo di quattro in cui probabilmente si parlava cinese, e questo solo per le lingue che ero riuscita a individuare... e poi, c'erano loro.
I silenti.
Non avevo ancora capito che lingua parlassero, perché raramente li avevo sentiti scambiarsi qualche parola, e in quei casi si trattava di convenevoli banali recitati come se fossero battute di un copione. Come stai, molto bene grazie e tu, non c'è male. Oppure: buono l'arrosto, dovresti assaggiare le patate, che cosa fai domani dopo il lavoro, non ho ancora deciso. In quelle occasioni, come con i camerieri, si esprimevano in inglese, ma io dubitavo che fossero anglofoni per nascita. Il loro tavolo era troppo lontano dai tre che avevo già individuato, e conoscere l'inglese come seconda lingua era un tratto comune di molti a bordo.
La maggior parte del tempo i commensali di quel tavolo si limitavano a scambiarsi sguardi, ed era come se quegli sguardi fossero la loro lingua. Quando si alzavano, non avevo affatto l'impressione che fossero rimasti in silenzio per tutto il pasto. Piuttosto mi pareva che, come ventriloqui, avessero tenuto una conversazione sottovoce, senza muovere le labbra. Ma per quanto cercassi di avvicinarmi di soppiatto, non ero mai riuscita a coglierli sul fatto.
Il mistero dei commensali silenti era un diversivo interessante alle mie giornate sempre uguali, ed ero certa che prima o poi sarei riuscita a scoprire da dove venivano, e dunque qual era la loro lingua. Lo so, avrei potuto chiedere, e il pensiero mi era passato per la testa. Ma come nel guardare la soluzione di un cruciverba, quel proposito aveva il sapore dell'imbroglio, e d'altra parte, che divertimento c'era a scoprirlo subito nel modo più semplice?