sabato 31 dicembre 2022

Vestigio

Vestigio [ve-stì-gio] s.m. (pl.m. vestigi, più frequente pl.f. vestigia) 1. lett. Impronta che il piede lascia sul terreno; orma. 2. fig. (frequente al pl.) Traccia, resto.

Etimologia: dal latino vestigium, "orma, traccia", forse composto dalla particella intensiva ve e da stigium, che assomiglia al greco stichos, "passo, fila, schiera".



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Quando Stefania trovò le impronte nel fango, pensò che fosse saggio seguirle. D'altra parte, rimuginò tra sé, se qualcuno è già passato di qui, forse sapeva meglio di me dove andare per andare da qualche parte, se non proprio per uscire dal bosco. Così si lasciò guidare da quella serie di vestigi lasciati a terra dal suo ignoto predecessore, nonostante le proteste del gatto che l'accompagnava.
– A seguire delle orme sul terreno... – diceva il gatto, scrollando le zampe a ogni passo che faceva sul suolo umido. – ...non puoi che andare su una strada vecchia.
Stefania scrollò le spalle. – Vecchia o nuova, l'importante è andare, no? È comunque meglio che restare ferma a farmi prendere in giro da un gatto saccente.
Stefania non aveva molta voglia di tornare indietro, alle vestigia di una vita che le pareva più lontana a ogni istante che passava in quella foresta sconosciuta, eppure non si sarebbe lamentata se le impronte l'avessero condotta al punto di partenza. Almeno, da dove era venuta, non esistevano gatti parlanti.
Era sovrappensiero, persa nell'immaginare chi le avesse lasciato quel provvidenziale indizio e dove l'avrebbe condotta, quando scorse una seconda fila di orme unirsi alle prime. – Che cosa...? – mormorò Stefania.
Le due file erano del tutto identiche, stesso disegno nella suola che le aveva lasciate, stessa distanza tra i passi, stessa profondità nel terreno fangoso. E c'era di più, notò Stefania voltandosi indietro: le due file di impronte erano identiche a quelle che aveva lasciato lei.
– Ho girato in tondo per tutto il tempo? – urlò tra lo sbigottimento e il panico.
Il gatto guardò in su, e quasi le parve che sogghignasse mentre le ripeteva: – Io te lo avevo detto che stavi percorrendo una strada vecchia.

giovedì 29 dicembre 2022

Tempo da lupi


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Foto di Victor Miyata da Pexels


Joshua era uscito da circa due ore e non era ancora tornato.
Ero rimasta da sola, io e un cavallo nella stalla piena di spifferi, con il vento che ululava appena fuori dalla porta della capanna. Avevo freddo, sebbene fossi accoccolata vicino al caminetto, e tremavo ogni volta che le raffiche di vento sembravano bussare direttamente contro la porta. Poteva essere Joshua, mi dicevo, forse era lui di ritorno, ma quel pensiero non era mai abbastanza convincente da indurmi ad alzarmi e andare ad aprire la porta. La sola idea del gelo che sarebbe entrato con il vento era sufficiente a trattenermi accanto al fuoco.
Non era rimasta molta legna. L'avevo razionata, centellinando ogni ceppo, ma anche così, sapevo che non sarebbe bastata per tutta la durata della tormenta di neve. Avevo già considerato di fare a pezzi le sedie, il tavolo e se occorreva persino il letto, il problema era che non avevo un'ascia, ma ero sicura che in caso di necessità avrei trovato il modo di smontare tutta la mobilia.
Se solo Joshua fosse stato lì con me, se solo non se ne fosse andato, avrei anche potuto pensare che superare la notte sarebbe stato facile.
Mi asciugai le lacrime. Era via da troppo tempo e questo poteva significare solo due cose. O aveva trovato riparo altrove, ed era impegnato a organizzare i soccorsi per tornare a recuperarmi, oppure...
Non volevo nemmeno pensarci, a quell'oppure. Se avessi osato pensarlo, l'immagine del suo corpo congelato tra turbini di neve mi si sarebbe piantata nel cranio e non mi avrebbe più dato pace. Meglio pensare al tepore del fuoco, sì, nel mio fragile riparo, e immaginare che Joshua si stesse scaldando, in quel momento, di fronte a un altro fuoco, un fuoco dalle fiamme più alte e più calde.
Sentii il cavallo nitrire oltre la parete di legno, ma nemmeno per lui me la sentivo di alzarmi e lasciare il mio posto accanto al fuoco. Era agitato fin da quando la tormenta era iniziata all'improvviso, mentre io e Joshua eravamo ancora per strada, e procedendo alla cieca tra raffiche di fiocchi bianchi, freddi come il tocco della morte, avevamo raggiunto la capanna disabitata e l'avevamo eletta a nostro riparo.
– Tempo da lupi – aveva detto Joshua, e dopo un po', quando ormai ci eravamo sistemati ed eravamo perfino riusciti a sonnecchiare un po' a turno sul lettino angusto in un angolo della capanna, Joshua aveva annunciato che sarebbe partito in cerca di aiuto.
Io lo avevo supplicato di non andare. Glielo avevo detto che quella non era una tormenta normale, che se il cavallo era agitato ci doveva essere un motivo, che le bestie lo sentono quando le cose non vanno come dovrebbero. Ma Joshua aveva riso delle mie superstizioni e se n'era andato lo stesso, là fuori chissà dove, lasciandomi sola.
Mi sfregai le mani e trasalii quando al soffio costante delle raffiche di vento si unì un altro ululato. Un lungo, lontano ululato di lupo. Non potevo sbagliarmi.
Il cavallo nitrì di nuovo e stavolta lo udii chiaramente scalpicciare con gli zoccoli sul posto e sbattere con il corpo massiccio contro la parete che divideva la stalla dalla casa. Una polvere finissima di schegge di legno mi piovve addosso.
– Smettila! – sbottai, in tono acuto e spaventato, e poi lo udii di nuovo.
Ancora quell'ululato di lupo, più vicino.
Mi rattrappii e strinsi le ginocchia al petto. Non era normale, continuavo a ripetermi, non era normale.
Con una tormenta del genere perfino i lupi se ne sarebbero rimasti al riparo nelle loro tane, stretti l'uno all'altro per tenersi caldo con le loro pellicce. Non se ne sarebbero andati in giro in mezzo a una nevicata così fitta che non si vedeva a un palmo dal naso, la luna era piena, sì, ma era nascosta dalle nuvole...
La luna era piena.
Scossi la testa. No, che idea assurda. Mi venne da ridere. Se Joshua fosse stato lì, con me, di sicuro mi avrebbe preso in giro per aver anche solo per un attimo considerato come possibile una sciocca superstizione.
L'ululato si ripeté, così vicino stavolta che sembrava quasi fuori dalla porta. Poco dopo, sentii qualcosa grattare contro il legno e nascosi la testa tra le braccia.
Rimasi in ascolto, ma non udii altro a parte gli sbuffi e i nitriti ansiosi del cavallo e il brusio delle ultime fiammelle tra i tizzoni. Era ora di aggiungere un altro ceppo ricordai a me stessa, non c'è niente là fuori a parte il vento, neve e vento, è questo che avevo sentito grattare contro la porta. Mi illusi, anche se sapevo che la neve farinosa non poteva in alcun modo produrre quel raspare, come di zampe di cane.
Un raspare che riprese e si fece più intenso, più pressante, unito a un uggiolare supplichevole.
Fu a quel punto che un'altra idea mi si affacciò alla mente. Ma certo, se Joshua fosse tornato a prendermi, se avesse portato degli aiuti, avrebbero usato i cani per orientarsi nella tormenta, per ritrovare la capanna.
Era un'idea così logica, così rassicurante, che non ci pensai due volte. Scattai in piedi e corsi ad aprire la porta, e quello che mi trovai di fronte mi fece tremare anche più delle raffiche di vento e neve che invasero la stanzetta della capanna, spegnendo le ultime fiammelle sulle braci.
Un lupo. E non un lupo qualsiasi, no, un lupo bianco, un enorme lupo bianco, il più maledettamente grande lupo che avessi mai visto o immaginato, più che altro, perché non ne avevo mai visti, non così, non così da vicino. Mi tirai indietro, verso la porta della stalla mentre quello si faceva largo a testa bassa nella stanza, un lieve ringhio nella gola. Riuscii ad aprire la porta della stalla e scorsi il cavallo che si impennava e batteva con gli zoccoli a terra alla vista della bestia, prima che questa scattasse in avanti, le fauci spalancate. Urlai e scivolai all'indietro, ma prima di cadere a terra in balia degli zoccoli del cavallo sentii come una mano afferrarmi il bavero della giacca, solo che non era una mano, erano i denti del lupo. Il suo fiato caldo mi soffiava sul collo. Poi il lupo iniziò a tirare, a strattonarmi verso la porta della capanna, ancora con quel ringhio leggero, senza mollare la presa. Dietro di me il cavallo faceva il diavolo a quattro, spaventato dall'enorme bestia, ma io non lo ero più.
Se mi avesse voluta morta sarebbe stato assai semplice azzannare più a fondo, affondarmi i denti nella gola. Anche in un secondo momento, con un secondo morso, se il primo aveva mancato la presa quando ero quasi caduta. Invece no, il lupo non aveva morso nella carne, si limitata a strattonarmi per la giacca, e se resistevo a quella che ormai ritenevo essere una bestia ammaestrata, era perché il gelo fuori dalla capanna non era meno letale di un lupo affamato. Non che fosse meglio dentro, da quando la porta era rimasta aperta e il vento aveva accumulato la neve sulla soglia e sollevato la cenere del caminetto, spargendola in giro, e raffreddato gli ultimi tizzoni neri e grinzosi.
Ma la mia era una resistenza impossibile perché quell'enorme lupo bianco era molto più forte di me, e forse ero già diventata matta a causa dell'isolamento e di quella tormenta che non era normale, troppo improvvisa, troppo lunga, e dell'assurdità di tutta quella situazione con il lupo, ma nel suo ringhio che non aveva mai smesso mi parve di udire a un certo punto una parola, una sola parola, "vieni!", un comando che non poteva venire da quella gola animale, forse dalla mia immaginazione, eppure bastò a fiaccare ogni traccia di resistenza, e mi arresi, e lasciai che la bestia mi portasse oltre la porta.
Appena fuori dalla capanna, il lupo si accucciò e accennò con il muso all'indietro. Non capii che volesse, ma poi sentii la casupola tremare, e un rombo che sovrastava il sibilo fischiante del vento, e senza pensarci troppo gli montai sulla groppa.
Il lupo partì come un lampo e dovetti aggrapparmi al suo collo per non cadere, e stringergli le gambe ai fianchi. Non sarei riuscita a stare a cavalcioni di un lupo normale, ma quella bestia candida come la neve era grande quasi quanto un cavallo, e quella considerazione mi fece pensare all'equino che mi ero lasciata indietro.
Mi girai ma non non riuscivo a vedere nulla nel turbinio di neve, né potevo udire il rumore dei suoi zoccoli, silenziosi sul candido manto a terra, ma lo sentii nitrire, e sembrava non molto distante da noi, più vicino rispetto alla capanna che ormai ci eravamo lasciati alle spalle, ma sempre, tra il vento, c'era quel rombo pesante, minaccioso, come il rotolare di un tuono nel cielo.
D'improvviso il lupo scartò di lato e si inerpicò su un pendio boscoso, e mentre salivamo vidi il cavallo passare, trottando a fatica nella neve alta, e il rombo di tuono esplose nelle mie orecchie mentre una massa bianca che sembrava bollire e rimescolarsi lo raggiunse e lo travolse, e mi parve così flebile a confronto l'ultimo nitrito di terrore dello sventurato equino.
Mi strinsi più forte al lupo che mi portò lontano dalla valanga, al sicuro tra gli alberi.
Dopo aver vagato a lungo nel bosco, il lupo si fermò e si liberò di me con uno scrollone nel punto in cui un terrapieno naturale e un intrico di radici d'albero scoperte formavano una specie di alcova riparata dal vento. Mi tirai indietro, nella parte più nascosta di quel riparo, timorosa della bestia che mi aveva salvato: era ancora in tempo per cambiare idea, e con la sua mole e le sue zanne rimaneva pur sempre una creatura spaventosa.
Il lupo si sdraiò a poca distanza da me, al riparo. Restò lì, tranquillo, e dopo avermi scrutato con quegli occhi azzurri, occhi che mi parvero quasi umani, girò il muso, lo posò a terra e chiuse gli occhi.
Io me ne restai in disparte, almeno all'inizio, tremando e strofinandomi le mani e il viso. Anche se la neve non mi raggiungeva lì dov'ero, era comunque freddo, e avevo le dita e il naso intirizziti, e presto sarebbe toccato anche ai piedi. Fu allora, quando cominciai a sentirli gelare, che mi decisi. Strisciai un po' più vicina al lupo. Quello non si mosse, non aprì nemmeno gli occhi.
Rassicurata, pensando che ormai la bestia dormiva, la raggiunsi e mi accoccolai accanto a lei, e affondai il viso e le mani nel suo pelo candido e caldo. Udii un sospiro sfuggire dalle fauci del lupo, quel sospiro che io non osavo emettere per timore di svegliarlo. Fu l'ultima cosa che udii prima di addormentarmi nel tepore del suo corpo.
Quando mi svegliai non sentivo più il suo pelo tra le dita, né il suo odore nelle narici, e per un momento pensai che fosse stato tutto un sogno. Ma ero fuori, rannicchiata tra le radici di un albero, e non sul pavimento della capanna, accanto al fuoco. Il sole scintillava sulla coltre di neve fresca, e quando uscii dal mio riparo, trovai Joshua che si stava abbottonando la giacca.
D'istinto, lo abbracciai. Non pensavo che lo avrei mai rivisto, anzi, non avevo più pensato a lui dalla precipitosa e assurda fuga della notte scorsa.
Joshua si lasciò stringere per qualche istante, poi mi allontanò con gentilezza e mi fissò con una tristezza e una serietà insolita nei suoi occhi azzurri. Era strano. Lui, tra noi, era quello sempre allegro.
– Mi dispiace di averti lasciato da sola la notte scorsa – iniziò lui, sedendosi su un vecchio tronco caduto, mezzo affondato nella neve. – Mi dispiace di averti mentito, ma non potevo dirti perché dovevo andare. Non mi avresti creduto.
Stavo per chiedergli su cosa mi aveva mentito, e che cosa non avrei creduto, ma mi trattenni. Lo osservai pettinarsi con le dita i ciuffi candidi, la sua chioma albina su cui tante volte lui aveva scherzato, e nel frattempo la mia mente lavorava frenetica a mettere insieme i pezzi di un puzzle impossibile, perché la figura che componeva era qualcosa di irreale, una superstizione. E Joshua era mio amico da troppo tempo per nascondermi qualcosa del genere, ma intanto mi facevo domande come se fosse stato possibile, e mi chiedevo: lo avevo mai visto in una notte di luna piena?
Ma fu lui stesso a darmi la risposta quando alzò gli occhi dalla neve bianca come i suoi capelli, bianca come il pelo del lupo enorme che mi aveva salvato, e disse: – Non volevo spaventarti. E di sicuro non sarei tornato indietro se non avessi sentito che stava accadendo qualcosa, su a monte, che la neve stava scivolando, e sarebbe venuta giù dritta sulla capanna, e io non potevo lasciarti là da sola, dovevo tirarti fuori di là, dovevo, e... beh, ora lo sai.
Joshua distolse gli occhi da me e sospirò. Io appoggiai una mano al tronco di un albero, mi sostenni contro un attacco di vertigini che mi lasciò la testa leggera e stordita, ma poi strinsi gli occhi e li riaprii e quello che avevo davanti era sempre Joshua, e sapevo che era mio amico, che non era cambiato.
Era lui, e mi aveva salvato la vita a costo di sacrificare il suo segreto.
Mi inginocchiai nella neve e lo abbracciai di nuovo, e tra i suoi capelli candidi gli bisbigliai all'orecchio tutta la mia gratitudine.

lunedì 26 dicembre 2022

Intona un canto morbido


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Foto di Laura James da Pexels


Quando le note cominciarono a fluire sotto le mie dita, così lente, così malinconiche, ma allo stesso tempo inspiegabilmente gioiose, io chiusi gli occhi e lasciai che le mie mani continuassero da sole lungo la via che conoscevano tanto bene che era come percorrere la strada che porta verso casa. Sollevai le mani nel bel mezzo di un fraseggio e fu il silenzio, rotto solo dal mio respiro e dal lieve crepitio delle fiamme che lambivano i ceppi nel caminetto.
Due suoni così flebili, così morbidi, così inutili che spesso la gente, e io per primo una volta, non ci fa caso. Solo nel momento in cui mi resi conto che li sentivo di nuovo, io riuscivo a sentirli, Dio ti ringrazio, solo allora capii quanto mi erano mancati.
Posai di nuovo le mani sui tasti del pianoforte e ricominciai dall'inizio, una melodia diversa, un altro dei canti di Natale che avevo imparato a suonare da bambino, la musica che mio padre mi aveva insegnato quando le sue dita cominciavano a perdere la scioltezza per la malattia e gli serviva qualcuno che prendesse il suo posto nelle serate di fine dicembre, per accompagnare le voci della famiglia nei consueti cori natalizi. Le mie, di dita, non avevano mai perso l'agilità e la memoria tattile, nemmeno quando non riuscivo più a udire le note che producevano ed ero costretto a immaginarle. Nello sforzo di cercarle nella mia testa, avevo composto più melodie originali in quel periodo che negli anni precedenti, quando la musica per me era qualcosa di scontato e credevo che ci sarebbe stata sempre, che avrei avuto tutto il tempo del mondo, forse del mondo no ma della mia vita almeno, per frequentarla. Così l'avevo trascurata, preso da mille impegni: un passatempo come un altro, un argomento di conversazione con amici e colleghi ma senza soffermarmici più di tanto, un'abilità da tirare fuori dalla naftalina quando, a Natale, tornavo a casa e mi riunivo al resto della famiglia e mia madre cercava di farci cantare ancora tutti assieme, come un tempo, "in onore di papà", e le lacrime cominciavano a scorrerle sulle guance al primo ritornello.
Sollevai le dita dai tasti e sospirai. Lui, almeno, non aveva dovuto assistere alla mia disperazione dopo l'incidente, alla rabbia e alla frustrazione con cui avevo combattuto all'inizio, quando mi ero ripreso a sufficienza da capire quello che mancava, quello che mi era stato tolto così bruscamente come un filo spezzato, e che i medici mi avevano spiegato, con la pazienza e linee di pennarello su una lavagnetta, che non avrei riavuto mai più.
Non con quello che potevo permettermi di spendere, almeno. Questo non me lo dissero, ma adesso è evidente. Altrimenti in che altro modo, se non parlando di un miracolo, avrei potuto spiegarmi il suono di un sospiro, del crepitio delle fiamme che divoravano il legno, di una nota quando le mie mani ripresero il loro posto a comporre nella loro danza elegante il flusso morbido, tenue di una melodia quasi mormorata dai miei polpastrelli, e in questo caso non era un canto di Natale, non era Deck the halls, non era Astro del ciel né O Tannenbaum e neppure Noel, no, era la sua melodia, quella che avevo regalato a Karin affinché la cantasse, era la nostra canzone. Era la prima volta che la sentivo, che la sentivo davvero, non nella mia mente, immaginata, estrapolata dal ricordo di singole note che avevo costretto a stare assieme in una memoria che non era mai davvero esistita, la sentivo con le mie orecchie, nel presente, la sentivo come lei l'aveva sentita, ed era merito suo se potevo sentirla, lo sapevo anche se nessuno mi aveva detto niente, lo sapevo fin da quando avevo ricevuto quel messaggio da una clinica privata, avanzatissima nel settore delle lesioni del nervo acustico. Avevo una visita prenotata presso di loro e, in caso fossi risultato un candidato idoneo, un intervento da fissare.
Quello era stato il suo regalo d'addio.
Mi sentii oscillare mentre le mie braccia accompagnavano i movimenti rapidi delle mani, non avevo più riaperto gli occhi, non mi serviva vedere, per troppo tempo i miei occhi avevano sostituito le orecchie e in quel momento pensai che fosse giusto lasciarli riposare, ma loro la pensavano diversamente. Sentii un rivolo umido bagnarmi le guance mentre pensavo a quanto desiderassi udire la sua voce, non l'avevo mai udita e non la volevo sentire da una registrazione, io volevo parlare con lei, ringraziarla, ma Karin era inavvicinabile.
Troppo importante, una risorsa, nemmeno più una persona.
Faticavo a crederci, ma l'avevo vista nelle foto sui giornali, quando Virginia Blake l'aveva presentata al mondo per quello che era, un ritrovato della scienza, una creazione della mente umana, la prima vera intelligenza artificiale degna di questo nome, più di una somma di programmi e di un corpo di plastica.
Talmente perfetta da venire scambiata per un essere umano. Oh, che gran pubblicità si era fatta Virginia Blake finanziando quel progetto, una pubblicità che il mondo non avrebbe mai scordato, aveva legato per sempre il suo nome e quello della sua azienda a una rivoluzione che sarebbe entrata a far parte dei libri di storia.
Ma i libri di storia non avrebbero mai spiegato come poteva la pelle di Karin essere così morbida, e così spontanea la risata che io non avevo mai udito, solo visto, e così timidi i suoi occhi mentre mi parlava di ciò che aveva perduto, il suo passato, ciò che pensava di avere perduto ma che in realtà non aveva mai avuto.
Nella foto sui giornali accanto a Virginia Blake Karin sembrava così rigida, immobile, l'espressione incolore e vacua. Anche la sua pelle sembrava aver perso ogni traccia di morbidezza, il suo sguardo era privo di vita, era diventata... un robot, nient'altro che un robot.
Non sapevo che cosa le avessero fatto ma mi era bastata quella foto per capire che la ragazza che avevo conosciuto non c'era più, era stata sostituita da una cosa morta e forse perfino la sua voce non era più la stessa. Forse dalle sue labbra ora usciva un gracchiante e monotono timbro artificiale, incapace di intonare un canto. Se era così preferivo non sentirla, preferivo ricordarla come l'avevo immaginata. Molto meglio, allora, se non riuscivo ad avvicinarla, piuttosto che scoprire...
Smisi di suonare e aprii gli occhi, e nel velo umido che li annebbiava le luci dell'albero di Natale mi apparirono più scintillanti che mai, stelle in terra che si riflettevano sui vetri, sulle sfere colorate appese ai rami d'abete e sulla carta lucida dei pacchi che la mia famiglia mi spediva da quando il mio mondo era diventato silenzioso e avevo smesso di tornare a casa per le feste per evitare la loro imbarazzata compassione, che mi offendeva e mi feriva più dell'indifferenza di un estraneo.
Mi alzai dalla panchetta e mi sdraiai sul tappeto bianco, spesso e soffice, che mi accolse con la sollecita carezza che io avevo riservato al pianoforte. Mi sdraiai su un fianco e raccolsi le gambe e le abbracciai in posizione fetale, la vista ancora annebbiata dalle lacrime ma le orecchie bene aperte.
Nel silenzio del mio appartamento, accompagnato dal crepitio e dagli schiocchi occasionali delle fiamme sui ceppi, dischiusi le labbra e intonai con la mia voce che mi era divenuta estranea un canto morbido, ripetei come meglio potevo le parole che Karin aveva scritto sulla mia melodia ma a un certo punto deragliai dal testo e cominciai a cantare liberamente di tutto quello che mi era accaduto, di come avevo conosciuto Karin e di come ero giunto ad amarla e di come mi era stata strappata via all'improvviso, come un filo che si spezza, solo per riapparire diversa, sempre lei, ma in un corpo senz'anima. Cantai per l'abete addobbato e per i regali nei loro involucri rossi bianchi e verdi e per il pianoforte muto e per il fuoco nel caminetto. Cantai per un miracolo di Natale, per far tornare indietro il tempo, per riavere lei, anche solo per un giorno, cantai perché per quel desiderio avrei sacrificato tutto, anche il poter sentire la musica, anche il sentire la mia voce, anche il sentire la sua di voce, la sua vera voce, quella di quand'era viva, una donna e non una cosa, per poterla ricordare per il resto della mia vita.

sabato 24 dicembre 2022

Melopea

Melopea [me-lo-pè-a] s.f. mus. Composizione melodica di ritmo lento spesso ispirata a motivi liturgici; estens. lenta melodia.

Etimologia: dal tardo latino melopoeia,a sua volta derivato dal greco melopoiía, composto da mélos, "canto", e da poiéo, "faccio, compongo".



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Foto di Blue Ox Studio da Pexels


Mi ero seduto in fondo, sulla panca dell'ultima fila, mi dissi, perché ero arrivato in ritardo e non volevo disturbare. Il coro, in piedi alla sinistra dei musicisti, stava intonando una solenne melopea in una lingua che non mi era familiare, latino forse, ma non ci avrei messo la mano sul fuoco. Sembrava un inno liturgico, la qual cosa non era affatto inaspettata dato il luogo in cui mi trovavo. Sul fondo della navata centrale, poco più avanti dell'altare, era stato fatto spazio per le sedie occupate dai musicisti e per i leggii con gli spartiti, ma a parte questo, nulla era mutato nella disposizione della chiesa. Quello rimaneva un luogo sacro e io non ero certo di essere il benvenuto.
Tuttavia, finché nessuno fosse venuto a cacciarmi, a intimarmi di tornare tra i mostri e i pagliacci, io sarei rimasto lì, cercando di non farmi notare, pregando che non accadesse nulla che mi facesse notare. Non era del tutto sotto il mio controllo, in fin dei conti.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai al ritmo lento del violoncello e del violino che si univano alla melopea di voci placide, languide come lanterne trasportate da un fiume, fiamme di candela a rischiarare la notte più lunga. Lievi increspature stravolsero per un istante i riflessi in quell'immaginario corso d'acqua quando voci e strumenti duellarono in un crescendo potente che risvegliò qualcosa dentro di me, un ringhio, un agitarsi di belva. Respirai profondamente, come mi aveva insegnato a fare Demi. "Smettila!" intimai al mostro dentro di me, "sta buono, è Natale!"
Non so se la cosa si calmò perché la musica si era fatta lenta e pacata, o se rallentare il ritmo del respiro aveva funzionato, o se avesse capito il senso di ciò che avevo pensato.
Demi aveva assicurato ad Antares che ero pronto per tornare in città da solo, senza qualcuno che mi sorvegliasse, eppure io non mi sentivo pronto.
Mi ero seduto in fondo, sulla panca dell'ultima fila, perché se le cose si fossero messe male, lì ero più vicino all'uscita.

giovedì 22 dicembre 2022

La catena di ferro


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Foto di Luděk Maděryč da Pexels


Per il resto del mondo, io ero morto. Ma là ritto in piedi sulle assi bagnate del ponte che gemevano e crepitavano la loro melodia lamentosa a ogni onda possente che investiva la nave gettandola su un fianco, battuto da una pioggia furiosa che tuttavia non riusciva a toccarmi, sotto nubi scure e basse squarciate da lampi violenti che lasciavano un'ombra nera negli occhi e l'eco di un'esplosione nelle orecchie, io mi sentii vivo come mai prima di allora.
Rivolsi un'occhiata sprezzante ai marinai della ciurma sconosciuta, aggrappati alle sartie o agli alberi di una nave che sventolava bandiera pirata. Uomini sconvolti, fradici, feriti. Tremanti di terrore se solo osavano guardarmi.
Li capivo, in fondo. Un tempo, io ero stato uno di loro. Non un pirata, no, ma un marinaio.
Lo ero stato, finché la strega del mare non aveva scelto me come ricompensa per i suoi servigi.
Quando aveva puntato il dito adunco nella mia direzione, avevo capito subito di essere spacciato. Il mio coltello non sarebbe servito a nulla contro la sua magia, e non avevo luogo dove fuggire nel ristretto spazio di una nave in mezzo al mare. Tuttavia mi voltai e corsi ugualmente lontano da lei. Era una debole speranza, uno stupido bluff, ma in cuor mio mi auguravo che se era stato il mio coraggio ad attirare la sua attenzione, ciò che appariva come un gesto pavido e inutile forse le avrebbe dimostrato che io non ero ciò che lei voleva. Ma la strega del mare non si lasciò ingannare.
Prima che me ne rendessi conto aveva già stretto il mio braccio in una morsa di ferro e mi trascinava con una forza inarrestabile oltre la murata della nave, incontro alle onde pronte a inghiottirmi.
Urlai. Il mare, quella massa liquida e mobile, mi colpì con tale violenza da stordirmi.
Le onde si abbattevano con un mugghiare feroce sulla tolda della nave pirata, ma io e la strega del mare avanzavamo fianco a fianco, intoccabili. Gli spruzzi salmastri crollavano a terra a pochi centimetri dai nostri corpi, come se un invisibile velo ci circondasse. Avremmo potuto lasciare che le onde e la pioggia ci bagnassero e non sarebbe successo nulla, ma lei mi aveva assicurato che un piccolo sfoggio del nostro potere prima ancora della piena manifestazione della magia sarebbe stato un utile promemoria di ciò che eravamo in grado di fare.
– Dimostrami che non ti ho insegnato invano – mormorò lei, la voce a malapena udibile tra gli scoppi di tuoni e l'ululato del vento, ma forte quanto la tempesta nella mia mente. Sollevò le braccia, e io la imitai in modo goffo, e sbirciai ogni suo gesto per essere sicuro di eseguirlo alla perfezione. Mi ero esercitato a lungo in vista di quel momento ma, in via ufficiale, quella era la mia prima volta.
Non appena iniziai, i piedi mi parvero inchiodati alle assi della nave, e gli scossoni violenti della chiglia che risaliva la cresta di un'onda per poi discendere di traverso non potevano smuovermi, ma altri non furono altrettanto fortunati. Con la coda dell'occhio scorsi un marinaio alla mia destra venire sbalzato fuoribordo, e udii il suo grido spegnersi in un tonfo liquido, mentre quanti gli stavano accanto si sporgevano inutilmente a cercarlo tra le onde livide, e un marinaio più sveglio degli altri provò a gettare una corda, che il disperso non riuscì ad afferrare.
Chissà se qualcuno aveva provato a cercare con gli occhi me quando la strega del mare mi aveva rapito, se aveva provato a lanciarmi una cima per salvarmi. Non lo so, ma ne dubito.
Quando mi ripresi lei mi tratteneva ancora per il braccio, e mi trascinava a nuoto nelle profondità dell'oceano. Sfrecciavamo rapidi oltre banchi di pesci dai riflessi d'argento, oltre i relitti di vascelli dalla chiglia sventrata e dagli alberi spezzati, oltre giardini d'alghe e di coralli. Cercai di trattenere il più a lungo possibile il respiro con la sua risata nelle orecchie, quello stesso fastidioso acciottolio di conchiglie trascinate sui fondali che avevo udito a bordo della nave. Al limite della mia resistenza serrai le labbra e mi tappai la bocca con la mano libera mentre il mio corpo veniva scosso da ondate di sforzi provenienti dal mio petto, un parossismo convulso come di vomito al contrario, la foga di inghiottire. Aria, acqua, era lo stesso. Contro la mia volontà presi un respiro profondo e un fiume salato mi fluì in gola e mi inondò i polmoni, ma quando mi riempì scoprii che riuscivo a respirare, non stavo affogando, respiravo acqua. Lei mi rivolse un'occhiata divertita e compresi che era la sua magia a permettermelo, ma la odiai perché invece di avvertirmi, di rassicurarmi in qualche modo, lei si era limitata a ridere di me.
Era diversa rispetto a come mi era apparsa sulla nave. Lo notai solo quando la mia sopravvivenza cessò di essere la più immediata e principale preoccupazione. Alghe verdi, rosse e brune avevano sostituito la chioma bionda, i suoi occhi sembravano più grandi e profondi, il naso appiattito lasciava intravedere solo le narici chiuse a tratti da una membrana, la pelle rispecchiava i riflessi iridescenti delle squame dei pesci, una mano palmata era stretta sul mio braccio, e le sue gambe... le sue gambe erano scomparse, lasciando al loro posto una coda di pesce con pinne dalle punte aguzze, simili a quelle di un tonno, lungo i fianchi e al termine della coda.
L'acqua si fece più scura e poi, d'improvviso, lei mi scaraventò fuori, sul pavimento di pietra di una grotta marina. Rotolai, tossii e sputai l'acqua che avevo nei polmoni, e tornai a respirare aria appena in tempo per vederla emergere dalle acque, salendo una serie di gradini naturali. Era di nuovo umana, per quanto si potesse dire di lei che fosse umana.
Mi massaggiai il fianco, un livido in più oltre a quelli che mi aveva lasciato la tempesta nel suo sbatacchiarmi qua e là sulla nave come una bambola di pezza tra le mani di un marmocchio dispettoso. La fissai dal basso con astio e le rivolsi la domanda che più volte mi ero posto mentre mi trascinava per quello che mi era parso mezzo oceano. – Perché non mi hai ucciso subito, perché portarmi qui? Perché non lo hai fatto là, sulla nave?
Lei si avvicinò oltrepassando una serie di raggi di luce che piovevano dai fori sulla volta della caverna. Arricciò un angolo delle labbra e replicò: – Se avessi voluto un cadavere, credi che mi sarebbe importato qualcosa della sua indole?
Sapere che non mi voleva morto non fu un sollievo, perché intuivo che c'erano fati peggiori della morte che lei aveva il potere di riservarmi. La strega del mare mi fece un cenno e si incamminò oltre colonne di stalagmiti con passi lenti e solenni, deliberati in quella sua bizzarra camminata sbilenca e zoppicane, che ancora una volta mi rammentò quanto poco dovesse essere avvezza a muoversi sulla terraferma. Mi rimisi in piedi a fatica, e irresistibilmente attratto come da una malia, le andai dietro.
La grotta non era una caverna sommersa, né uno scoglio isolato in mezzo al mare come avevo creduto in un primo momento. Quando uscimmo alla luce del sole mi ritrovai in una giungla lussureggiante, con felci alte fino al ginocchio e un tetto verde di palme e ficus e banani sopra la testa, e mangrovie in direzione della costa da cui udivo provenire il ritmico fragore delle onde sulla battigia. Macchie variopinte di orchidee, fiori di ibisco, frangipane e bouganville spezzavano i toni del verde, e un profumo dolce di fiori e di frutta matura si mescolava alla brezza salmastra.
Capii subito che quella su cui mi aveva portato la strega del mare era un'isola, ed era un'isola su cui gli esseri umani non avevano mai messo piede.
– Sono tuo prigioniero? – le chiesi bruscamente, arrestando i miei passi.
Lei si fermò, si voltò e mi squadrò da capo a piedi. Si prese tutto il tempo per tornare al mio volto, prima di rispondere: – Finché ti riterrai tale, sì.
Da quel giorno ero rimasto sull'isola per diversi mesi. Lei, invece, non trascorreva molto tempo sulla terraferma. Spariva per giornate intere, anche per più giorni di seguito, e ogni volta che se ne andava si curava di impormi un compito ripetitivo e noioso, come imparare a memoria le parole di una pergamena, disfare un intreccio di fili ingarbugliati senza spezzarli, o nuotare verso il fondo in uno dei punti attorno all'isola dove il mare era più profondo, per raccogliere un oggetto che lei vi aveva lasciato cadere, senza l'ausilio della sua magia che mi consentiva di respirare l'acqua.
Quando tornava, di sera, attorno a un fuoco, mi chiedeva di darle una prova dei miei progressi. Ripetere a memoria le parole o mostrarle i fili che avevo sciolto o l'oggetto recuperato. Non avevo idea di quale scopo avessero quelle prove bizzarre.
Adesso lo sapevo. Lo sapevo perché sul ponte di quella nave flagellata dalla tempesta le parole mi fluivano dalle labbra in un canto estatico senza nemmeno doverle pensare, lo specchio delle parole che lei cantava al mio fianco, e una densa nebbia dai vapori arcobaleno esalava dalla mia pelle e turbinava rivelandomi i fili della realtà, e le mie dita lavoravano svelte a sbrogliarli, a tenderli da una parte e allentarli dall'altra, e intanto cantavo alle onde, e cantavo al cielo e alla pioggia, e sentivo la tempesta dentro di me, la scarica di potere dei fulmini che mi esaltava correndo dal petto alle dita, e sentivo me dentro di loro, ero in ogni onda che percuoteva lo scafo, in ogni raffica di vento sulle vele imbrogliate, in ogni goccia di pioggia che cadeva sul cassero sul ponte e sui marinai, e li vedevo senza guardarli, le sagome fradice d'acqua salmastra che resistevano al vento così chiare ai miei sensi, e capivo adesso come lei avesse compreso che cosa avessi inteso fare quella volta, come avesse percepito la mia mano sul manico del coltello, il mio corpo teso nello sforzo di strisciare verso di lei. Che sciocco ero stato.
Non avrei mai potuto avvicinarla di soppiatto.
Ero stato un folle temerario anche solo a pensare di poterci riuscire.
Come lo ero stato a provare a fuggire dall'isola, all'inizio. Dopo le prime volte, quando avevo capito che lei mi lasciava da solo e senza sorveglianza per lunghi periodi di tempo, avevo provato a costruire una zattera dopo l'altra, ma non ero mai andato molto lontano. Quando alla fine lei giungeva a recuperarmi, il suo pareva più un salvataggio che l'inseguimento di un fuggitivo, anche se il mio orgoglio mi impediva di ammetterlo.
La strega del mare era diversa da come mi ero aspettato. Non mi puniva mai dopo i tentativi di fuga, e in questo devo ammettere che con me ebbe una notevole dose di pazienza. Con il tempo, forse per la familiarità che cresceva a ogni interrogatorio attorno al fuoco, o forse perché a ben riflettere a parte trattenermi lì e tediarmi con quelle incombenze noiose lei non mi aveva fatto alcun male, il velo di terrore che mi era preso nel guardarla tessere i suoi incantesimi sulla nave si dissolse, e ciò che ne rimase era una bella donna, dal fascino selvaggio ed esotico. Fu in una di quelle serate attorno al fuoco che avvenne, non ricordo di che cosa stavamo parlando, ormai non si trattava più solo di prove ed esami, ma lei mi guardò negli occhi e mi disse: – Sei pronto, – e... si protese a baciarmi.
Ricambiai il suo bacio con una passione famelica, come non avessi mai baciato altra donna prima di allora, e avvertii una scossa percorrermi le membra, farmi pizzicare la punta delle dita e rizzare i peli in tutto il corpo. Non era elettricità, era... potere. Lo stesso potere che avvertivo sulla nave pirata mentre come in apnea cantavo la melodia delle onde che si placavano, pizzicavo i fili che disperdevano le nuvole e intimavo al vento di rallentare la sua folle corsa. E le onde si placarono, la pioggia cessò di percuotere il mare, la nave e i marinai, le nuvole si lacerarono rivelando il cielo azzurro e alla fine si dissiparono, e il vento mutò in bonaccia.
Anche la nebbia della nostra magia si dissolse e le nostre labbra restarono mute. Sbirciai la strega del mare con una domanda che non osavo formulare, ma lei comprese e mi rivolse un cenno che era la sua risposta. Sorrisi dimostrando tutta la soddisfazione che lei tratteneva.
Avevo agito bene.
La strega del mare si voltò e parlò al capo di quella ciurma stremata, ma con ancora sufficiente forza in corpo per festeggiare con pacche sulle spalle e grida di giubilo.
– Ho placato la tempesta e salvato la vostra nave, capitano, e... quasi tutti i vostri uomini. – Il tono di scherno nella sua voce e il suo sorriso beffardo non mi piacquero affatto. Io la conoscevo e sapevo che non era crudele come fingeva di essere, ma c'era da supporre che avesse una reputazione da difendere. "Meglio essere fraintesi che vulnerabili", mi aveva detto una volta. – Non è colpa mia se ingaggiate mozzi incapaci di restare con i piedi sul ponte al primo accenno di mare mosso. Dunque, come stabilito dal nostro contratto, posso scegliere il tesoro più prezioso tra quelli custoditi nella vostra nave.
Il capitano, un uomo dalla barba ispida e la faccia bonaria, si piazzò di fronte alla strega, a qualche metro di distanza giusto per essere prudente, sogghignò e disse: – Sicuro, è così che abbiamo deciso. Voi potete avere la vostra ricompensa. Ma vedete, signora, in realtà... prima, devo onorare un contratto precedente.
Il capitano fischiò e al suo ordine i marinai ancora fradici e intirizziti scattarono a tirare una coppia di funi che strinsero attorno a noi un anello di catene, identiche a quelle che si usavano a bordo della nave per trattenere l'ancora.
Ferro. Eravamo all'interno di un cerchio tracciato da una catena di ferro.
Il capitano ghignava, sicuro di averci preso in trappola.
Esistono diverse false credenze sulle streghe. Che siano tutte malvagie e che i loro servigi richiedano sempre un prezzo troppo alto, per esempio.
Io non credevo più che lei fosse una creatura del male, e dopo quel bacio non ebbi più alcun motivo di lamentarmi di essere stato il prezzo pagato per un suo intervento.
– Ti faccio dono del mio potere e della mia natura – mi aveva detto la strega del mare, spiegandomi ciò che era appena avvenuto tra noi. – Tutto ciò che è mio ora ti appartiene. Siamo eguali, legati per la vita.
La rivelazione di essere diventato uno stregone del mare o qualcosa di simile con un semplice bacio mi lasciò stranamente indifferente. Non ci pensai più di qualche istante. Quello che mi occupava la testa era che non riuscivo proprio a smettere di guardarla. Mi sentivo bene. Mi sentivo felice. Non ero più un prigioniero e l'isola non era più una prigione.
Ero a casa.
– Il mio nome è Emérys – aggiunse lei, accarezzandomi il volto.
Non avevo mai pensato che potesse chiamarsi in altro modo che la strega del mare.
– Piacere di conoscerti, Emérys. Io sono...
Lei mi pose un dito sulle labbra.
– Conosco il tuo nome – disse, e mi abbracciò e ci sdraiammo sulla spiaggia, accanto al fuoco, in quella che fu solo la prima di una lunga serie di notti roventi.
Quindi io so per certo che tante credenze a proposito delle streghe sono false. So che nelle campagne appendono alle porte di casa vecchi ferri di cavallo perché pensano che questo metallo, il ferro, abbia il potere di trattenere le streghe, impedendo loro di entrare nelle case protette da un simile amuleto. Ma un ferro di cavallo non aveva mai fermato una strega, così come una catena di ferro non poteva intrappolare noi.
Gorgogliai una risata e feci per avanzare e dimostrare a quello sciocco capitano quanto si sbagliava a credere di averci in pugno, ma prima che potessi oltrepassare la catena, Emérys mi sbarrò il passo con un braccio.
– Molto intelligente, capitano – disse lei col consueto sarcasmo. – Mi complimento con voi, mi avete catturato. E per chi avete compiuto questa nobile impresa, di grazia?
Solo in quel momento mi resi conto che quella su cui ci trovavamo non era una nave pirata, che andava indiscriminatamente all'arrembaggio di qualunque vascello arrecasse un bottino, bensì una nave corsara, incaricata dal re ad attaccare e saccheggiare navi nemiche, a compiere razzie sulle coste nemiche. E i nemici, in quel caso, eravamo noi.
Il capitano si voltò verso il castello di poppa e sbraitò un ordine: – Fate venire i nostri ospiti!
Due marinai scattarono e sparirono all'interno della nave, accompagnati da tutta l'invidia di quelli che erano rimasti. Li vedevo, che fremevano e distoglievano gli occhi per non incrociare il mio sguardo. Anche se pensavano di averci fatti prigionieri, nessuno di loro si sentiva a suo agio a pochi passi da due creature in grado di comandare i venti e i flutti, di scatenare la tempesta o di placarla.
La porta sul cassero si aprì e ne uscirono due persone e io mi accorsi che le conoscevo entrambe. Uno di loro era Gareth, il mio migliore amico, marinaio come me. Eravamo sulla stessa nave quando la strega del mare mi aveva rapito, ma aveva avuto troppa paura per fare qualcosa. L'altro, armato di una spingarda puntata contro la strega del mare, era mio padre.
Dalle loro reazioni fu subito chiaro che nessuno dei due si aspettava di vedermi.
Gareth tremò e rise e scosse la testa, incredulo e felice. Mio padre abbassò titubante la spingarda e balbettò: – Figliolo... tu... tu sei vivo! N-non sei un'illusione, sei vivo, sei proprio tu?
Non feci in tempo a confermargli la bella notizia che Gareth esclamò: – Non ci credo, la nostra missione di vendetta si è appena trasformata in una missione di salvataggio! Questo è... è fenomenale! Amico, come hai fatto? Ti davamo tutti per spacciato!
Risi assieme a lui, ma poi mio padre disse: – Malina ti ha pianto, figliolo, in una tomba dalla bara vuota... ma adesso potrà piangere di gioia. Tornerai a casa e voi due potrete sposarvi.
Malina, la mia promessa. L'avevo dimenticata. D'altra parte quasi non la conoscevo, il nostro sarebbe stato un matrimonio di convenienza per dare a lei una rendita e a me una famiglia.
– Non posso, padre. – Mi affiancai a Emérys e le afferrai una mano. – Non sarebbe corretto. Io ho già una moglie.
– Quella... quel mostro? – Il disprezzo nella sua voce era tangibile quanto lo schiaffo di un'onda nel mare in tempesta. Sollevò la spingarda e la puntò contro la strega del mare. – Non importa. È un ostacolo che si può rimuovere in fretta.
– No! – urlai e mi frapposi tra di loro, le braccia allargate. – Siamo legati per la vita. Se la uccidete, padre, uccidete me. Anche se non mi colpite direttamente. Quindi, tanto vale...
– Spostati! – urlò mio padre. – Spostati, dannato, sei sotto la sua maligna influenza, ma io ti libererò fosse l'ultima cosa che faccio, io ti libererò anche se volesse dire vederti morto, io ti li...
La sua voce si smorzò in un mormorio farfugliante, e la mano con cui reggeva la spingarda tremò con violenza. Capii cosa stava accadendo quando molti tra i marinai si fecero indietro, e quelli che erano più vicini al mio vecchio genitore si scostarono da lui. Emérys.
Mi girai e le afferrai le mani, intente a danzare nell'aria tra la nebbia cangiante, a tirare i fili della realtà mentre intonava un canto sottovoce.
– Non farlo – le dissi, e lei mi diede retta. Con un gorgoglio di gola che rassomigliava tanto all'eco di un tuono lontano, e che rese perfettamente l'idea di quanto di malavoglia avesse acconsentito a risparmiarlo, la strega del mare richiamò il suo incantesimo e la nebbia scomparve.
La tensione, tra noi che eravamo nel cerchio tracciato dalla catena e coloro che ne erano fuori, rimase.
Fu a quel punto che Gareth fischiò e mi disse, allegro: – Quindi lei ti piace davvero!
Benedetto Gareth, aveva sempre avuto un tempismo perfetto. Annuii e confermai con convinzione: – Sì.
– Sai, amico, non avrei mai immaginato che qualcuno potesse mettersi con la strega del mare. Sposarla, addirittura. Ma, oh, beh... – Gareth fece spallucce. – I gusti son gusti.
Non avevo notato quanto Gareth, mentre parlavamo, si fosse avvicinato all'albero al quale era assicurata una delle funi con cui i marinai avevano manovrato la catena. Nessuno lo aveva notato.
Gareth afferrò la fune e diede un forte strattone, che spostò la catena quel tanto che bastava da spezzare il cerchio. – Ops! – disse, prima che un marinaio lo colpisse in pieno stomaco e altri, presi dal terrore, si affrettassero a cercare di richiudere quella che consideravano la nostra prigione.
Non avrebbero mai saputo che ce l'avevano fatta, che avevano ripristinato l'anello di catene di ferro, perché io e la strega del mare nel frattempo ci muovemmo svelti e nell'oltrepassare la catena la trascinammo un po' con i piedi in modo da dare l'illusione che fosse stata quella piccola apertura, mai richiusa, a consentirci la fuga dal cerchio del fatale metallo.
Io balzai sulla murata alla mia destra ma Emérys non era al mio fianco, e quando mi volsi, la vidi con una mano stretta alla gola di mio padre, intrappolato tra lei e l'albero maestro. Nessuno dei marinai osò fare nulla, nemmeno Gareth, che adesso fissava la strega del mare con occhi sbarrati, inorridito da ciò che aveva fatto. Si era pentito di averla liberata.
Urlai il suo nome nella mia testa, Emérys, e poi: – Non farlo!
Lei sbatté la testa dell'uomo contro il legno dell'albero, più per frustrazione che per un reale desiderio di fargli del male, poi allentò la presa e gli disse: – Ascoltami, vecchio, e ascoltami bene. Due volte tuo figlio ti ha salvato la vita in questo breve lasso di tempo. E ora rifletti su chi sia davvero il mostro, se chi pur detenendo un grande potere e tutto il diritto di difendersi risparmia la vita di colui che ha minacciato la sua, o chi per eliminare colui che reputa suo nemico non si cura di sacrificare un figlio.
Emérys lo lasciò e mi raggiunse sulla murata, e prima di tuffarmi con lei mi voltai indietro, verso Gareth. Vidi la sua espressione sollevata. Mi sorrise, anche se meno allegramente di prima, e ci scambiammo un cenno. Non era più pentito di averci lasciato andare. Era già qualcosa.
Quando ci fummo allontanati a sufficienza dalla nave corsara, emergemmo con la testa dalle onde e fissammo assieme lo scafo, reso piccolo come un guscio di noce dalla distanza.
– Mi dispiace – le dissi, inspirando con un sibilo l'aria da un naso piatto e con le narici protette da membrane. – Per colpa mia, non sei stata pagata. Tutta quella fatica per far cessare una tempesta, e alla fine, niente tesoro.
Lei scosse la testa e le alghe che le facevano da chioma danzarono in acqua nella parte che era sommersa, e mi spruzzarono di goccioline salmastre dalla sua fronte e dalle tempie. – Non hai motivo di dispiacerti, ciò che dici non corrisponde a verità. Ho chiesto il tesoro più prezioso tra quanto vi era sulla nave, e quel tesoro... – Emérys si voltò a guardarmi con occhi lucenti di mare, profondi, e mutevoli come la tempesta. – ...quel tesoro è qui al mio fianco.

lunedì 19 dicembre 2022

Trappola nel vuoto


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Nessuno era più salito a bordo della RV Oceanic Explorer negli ultimi cinque anni. Eppure, quando il primo gruppo autorizzato alla ricognizione della nave perduta si avvicinò a quel colosso impantanato in un mare denso e lattiginoso con la loro minuscola day cruiser, di anni pareva che ne fossero passati almeno 50. Per quanto ne potevano vedere dal basso, le lastre di metallo apparivano corrose dalla ruggine e incrostate da mitili e da altri residui di fauna e flora marina, del tipo che ci si sarebbe aspettati di trovare sul relitto di una nave affondata, non aggrappati sopra la linea di galleggiamento di una che ancora funzionava, per quanto dirlo di quella nave fosse un azzardo. Stava a galla, quantomeno.
– Log 1.31.4 – annunciò la dottoressa Candice Reginald, capo della spedizione, parlando nell'elaboratore da polso. – Abbiamo raggiunto il punto X. Come previsto dalle scansioni, la nave scientifica Oceanic Explorer sembra essere intatta, ma priva di segni di attività umana a bordo. L'anomalia come ipotizzato non è più confinata all'interno della nave, sebbene l'espansione segua un ritmo più lento rispetto all'incidente 649 avvenuto 15 anni fa ai laboratori New Horizon, località secretata. L'aspetto esteriore della nave...
Vera sbuffò, e si chiese ancora una volta chi glielo aveva fatto fare. Non che avesse avuto scelta. Si era trovata in una posizione piuttosto scomoda dopo che l'avevano beccata ad allontanarsi dal sito B, nel quale era penetrata violando ogni sistema di sicurezza dei nuovi e migliorati laboratori New Horizon. I primi, gli originali, erano scomparsi nell'implosione che il dottor Eastfield aveva innescato per annullare la distorsione dimensionale, e Vera non aveva potuto far altro che esultare alla notizia. Ma poi aveva fatto quella cazzata, e si era trovata in una posizione ricattabile. Altrimenti Vera non si sarebbe mai infilata spontaneamente in un casino simile, non dopo essere uscita viva per miracolo dall'ultimo, ma quei quattro erano fortunati che insieme a loro ci fosse anche lei.
Di tutto il gruppo, lei era l'unica che si fosse mai trovata in uno spazio chiuso deformato da una distorsione dimensionale, ed era l'unica che sembrava consapevole che non si trattava di una passeggiata. Insomma, non vedevano lo spazio vuoto che sembrava annullare in un grigiore uniforme mare e cielo? Non era nebbia, era un'inesistenza impossibile, un'irrealtà concreta, nella quale la RV Oceanic Explorer e il loro piccolo day cruiser e loro stessi galleggiavano ed erano allo stesso tempo immersi. Ma gli altri si comportavano come se fosse tutto normale.
L'assistente di Candice Reginald, un ragazzotto imberbe di nome Josh Trevalice, scherzava e rideva allegramente con quello che era stato definito dalla dottoressa Reginald come "il progettista". Mark Sadar, responsabile dell'adattamento della nave al fine di ospitare l'esperimento di replica in ambiente controllato degli effetti dell'incidente 649, era un tizio logorroico, di mezza età, con una parlantina veloce e gesti scattanti, quasi come se il suo cervello andasse troppo veloce per il resto del corpo.
Sarebbe dovuto far parte dell'equipe che conduceva gli esperimenti, se nel periodo della partenza la sua città non fosse stata messa in quarantena per un attacco dei Warrs.
L'ultimo membro dell'equipaggio del piccolo day cruiser, che affiancato allo scafo della RV Oceanic Explorer faceva la stessa figura di un neo sulla faccia di una vecchia signora, era quello che sarebbe dovuto passare per la loro scorta armata.
Non c'era alcun dubbio che fosse ben addestrato e avesse un equipaggiamento militare di prim'ordine, ma quello che spaventava Vera era la sua esagerata sicurezza, la sua faccia quasi da spaccone, che sarebbe crollata, immaginava, di fronte alla prima anomalia dimensionale che si fosse trovato ad affrontare. Persino tutta la conoscenza del progettista si sarebbe rivelata inutile di fronte alla una realtà irreale, in continuo mutamento, che deformava ogni spazio in una parodia orribile di ciò che era stato prima.
– ...ci prepariamo a perlustrare la nave. Il prossimo log verrà effettuato dal ponte laboratorio 1, se sicuro. Fine registrazione – concluse la dottoressa Reginald, e toccò lo schermo dell'elaboratore. Si rivolse al suo assistente e al dottor Sadar, che una volta ancorato il day cruiser allo scafo della nave più grande avevano fatto un cenno alla loro guardia armata, il tenente J. Da quanto il tenente J. aveva detto non dovevano sapere altro di lui, nemmeno il nome, a parte il conto dei Warrs che aveva ucciso, e che secondo lui era la garanzia della sua competenza: 16.
Vera non gli disse che lei lo superava di una ventina, anche se forse avrebbe dovuto, tanto per rimetterlo al suo posto. Ma Vera era consapevole che il suo successo derivava in parte dalla fortuna, quando era riuscita a prendere in trappola un gruppo numeroso e farli fuori tutti assieme, e in parte al fatto che lei era stata creata apposta per eliminare la minaccia dei Warrs, anche se nella prima distorsione dimensionale in cui si era trovata aveva perso il principale dei suoi vantaggi contro di loro. In compenso, però, aveva guadagnato un alleato e un'abilità dal valore incalcolabile nella situazione che stava per affrontare.
– Entriamo – disse J, e sparò verso la sommità della murata l'arpione uncinato con la corda autoavvolgente che sarebbe stato la loro porta di accesso.

All'interno dello scafo di metallo, il rumore era inquietante. Era uno stridore di metallo contorto, un graffiare di lamiere divelte, un clangore di lastre di ferro sbattute l'una contro l'altra. L'impressione era quella di una mano gigantesca che stringesse nelle sue grinfie i corridoi della nave, deformandoli con la sua pressione, e Vera sapeva che quell'immagine non era tanto distante dal vero.
– Che cos'è quest'odore schifoso? – chiese Josh Trevalice, che non rideva più così tanto. – Sembra quello dei bagni dell'università dopo che quelli dell'ultimo anno ci hanno fumato...
– Io e Josh andremo al ponte laboratorio 1 – lo interruppe la dottoressa Reginald. – Sadar, Vera, tenente... a voi recuperare la scatola nera in plancia di comando. Vediamo di capire che cosa esattamente è andato storto qui.
– Con tutto il dovuto rispetto, dottoressa, ma i miei ordini sono di restarle incollato. Dove va lei, vado io.
– Non ci divideremo – disse Vera in tono perentorio, smorzando ogni altra protesta. – Credetemi, sarebbe la decisione più stupida in una situazione del genere.
Candice Reginald fece una smorfia contrariata, ma alla fine concesse. – E va bene. Tutti assieme al ponte laboratorio 1, e poi tutti assieme a recuperare la scatola nera. E tanti saluti al dentro e fuori il più in fretta possibile.
Mark Sandar e Vera furono incaricati di guidare il gruppo lungo un percorso sicuro nel dedalo di corridoi in parte mutati o resi inagibili dalla distorsione dimensionale. Sadar era una mappa vivente del posto, e non esitava a vantarsene a gran voce a ogni suo passo, ma ogni tanto un'alterazione rispetto alla planimetria che lui rammentava lo costringeva a rivolgere a Vera una domanda formulata con un eccesso di parole, a cui lei rispondeva con un semplice gesto della mano per indicare la direzione; in altre occasioni invece Vera aveva bloccato il cammino del progettista, e chiesto un'alternativa alla via più diretta, spiegando soltanto che "andare avanti non era sicuro". Gli altri non ne erano felici, ma per fortuna si fidavano abbastanza della sua esperienza per accettare il suo giudizio.
Vera preferiva non dire nulla del passeggero che si portava dietro dalla sua precedente disavventura in una distorsione dimensionale. Le era capitato di scorgere creature spaventose, dalle forme incomprensibili e dalle intenzioni chiaramente ostili. Ma l'essere liquido che aveva preso rifugio in lei senza nemmeno chiederle il permesso, per fortuna, si era rivelato innocuo. Vera lo sentiva appena, qualche volta, come una carezza alla base del suo cranio, o come l'agitarsi di un pesciolino tra le sue viscere. Solo da quando si era avvicinata alla nave, e ancora di più da quando vi era entrata, la presenza dell'essere si era fatta più forte, spingendo alla base del collo ogni volta che si avvicinavano a un'area pesantemente deformata da una distorsione dimensionale.
E così, grazie al suo passeggero segreto, Vera riuscì a portare il gruppo sano e salvo fino al ponte laboratorio 1, un'ampia sala nel cuore della nave dalle pareti ingombre di elaboratori e strumenti scientifici, mentre nel mezzo si allineavano una fila di teche di vetro che racchiudevano una nebbiolina biancastra.
– Non sono esplose – mormorò con meraviglia la dottoressa Reginald, aggirandosi tra loro. – La distorsione creata artificialmente non ha oltrepassato il campo di contenimento, ma allora come...
Vera si piegò in due e ansimò un paio di volte. Non sapeva che cosa stesse succedendo, sapeva solo che la sua "copilota" non si era mai agitata tanto da farla stare male. – Dobbiamo andarcene da qui – disse, quasi senza fiato. – Sta arrivando qualcosa di grosso.
Ma gli altri non le diedero retta. Sembravano tutti affascinati, come dal richiamo di un canto di sirene, dall'altro ingresso della sala, sbarrato in fretta e furia da armadietti e carrelli ingombri di materiale.
– Sono qui dietro! – disse Mark Sadar, in tono entusiasta, quasi di trionfo, cominciando a liberare l'ingresso, aiutato dagli altri. – Sono qui, li abbiamo trovati!
Tutti tranne Vera si impegnarono a liberare il passaggio e aprire le due pesanti porte, perfino la compassata dottoressa Reginald, che blaterava di come finalmente avrebbe ottenuto le risposte che cercava su quanto era andato storto nell'esperimento. Poi le sentì anche Vera. Le voci.
Voci che chiamavano tra i cigolii delle lamiere contorte, voci che chiedevano aiuto, che li esortavano a raggiungerli, a venire da loro.
Quando le porte furono aperte, il gruppo si trovò di fronte al corridoio più normale che avessero visto dal loro ingresso nella nave. Nessuna corrosione, nessun segno di usura o di danneggiamento da parte di un'entità malevola. Eppure l'impressione che ne aveva Vera era che quella fosse la distorsione dimensionale più intensa e bizzarra che si fosse mai trovata a guardare.
– Non andate! – avvertì gli altri, ma quelli non le diedero retta. Lasciando da parte la prudenza si lanciarono in avanti, e in pochi passi raggiunsero i corpi stremati, accasciati a terra ma ancora vivi, di alcuni tra gli scienziati che avevano lavorato al progetto, le cui voci avevano udito da oltre la porta. Ma quando si voltarono e cercarono di portarli indietro, verso la sala dove Vera li attendeva fissandoli con espressione smarrita, scoprirono che man mano che avanzavano il corridoio si allungava all'infinito, intrappolandoli in una rincorsa eterna della loro meta.
Intanto, dall'altra parte della distorsione, Vera li guardava struggersi e lottare invano. – Maledizione – mormorò tra sé. – È una strada a senso unico, è così, non si può tornare indietro da questa parte.
Non sapeva come lo sapeva, ma lo sapeva. Forse l'essere che abitava nelle sue carni aveva riconosciuto quel tipo di distorsione, e senza parole lo aveva comunicato al suo cervello.
– Restate lì! – urlò Vera agli scienziati e alla loro guardia del corpo intrappolati. Come se avessero potuto andare da qualche parte. – Cercherò di aggirarla, di trovare un'altra via. Una da cui si possa anche uscire.
Ma mentre si allontanava dal laboratorio ripercorrendo i passi che l'avevano condotta fin lì, Vera iniziò a dubitare che l'avrebbe trovata. Ogni rilevazione effettuata, da remoto e da vicino, aveva dato come esito l'assenza di segni di vita, mentre le persone che il suo gruppo aveva trovato oltre la distorsione erano chiaramente vive, o i suoi non si sarebbero sforzati di spostarle. D'accordo, non sapevano ancora come la distorsione dimensionale potesse influenzare la loro strumentazione di rilevamento, ma Vera iniziò a sospettare che non li avessero trovati perché nulla poteva uscire da dove erano rinchiusi, nessun segnale, a malapena ci riusciva la luce, e il suono lo faceva con notevole ritardo: non le era sembrato che quelli che avevano trovato fossero in grado di chiamare aiuto o di parlare. Se la nave era apparsa vuota, disabitata, era perché non c'erano strade che conducessero fuori da lì, solo vie che trascinavano i malcapitati verso l'interno, in una prigione vuota immersa nel vuoto grigiore in cui galleggiava una nave fantasma.

sabato 17 dicembre 2022

Attonito

Attonito [at-tò-ni-to] agg. Preso da sbalordimento di fronte a qualcosa che impressiona fortemente.

Etimologia: dal latino attonitus, participio passato del verbo attonare, "scuotere col fragore del tuono", e in senso figurato "stordire, lasciare stupito".



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Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


La prima volta che Helena me lo aveva mostrato, ero rimasto attonito di fronte all'impossibile fenomeno. Luce liquida, che pareva sgorgare dai due soli che si erano accesi sulle sue mani. Al solo vederlo c'era da mettere in dubbio la propria sanità mentale, e io l'avevo davvero fatto, per i primi dieci, lunghissimi secondi.
Poi mi ero ricordato che prima di mostrarmelo lei me ne aveva parlato, perciò lo vedeva anche lei; quindi se ero diventato matto, voleva dire che eravamo matti in due. Una pazzia condivisa era forse più probabile di una persona le cui mani generavano una fonte di luce, e di una luce che si comportava in modo simile all'acqua, scivolando giù dalle sue mani giunte una volta che le aveva riempite. Avvertirne il calore sulle mie dita, quando tentai invano di raccoglierla, mi diede il senso di concretezza che i miei occhi non avevano saputo offrirmi. Forse fu l'euforia che pareva irraggiarsi nel mio corpo a quel contatto, ma ormai avevo smesso di elaborare ipotesi su come Helena potesse avermi suggestionato nel parlarmene, e accettavo quel fenomeno come totalmente, inconfutabilmente reale.
L'avevo accettato. Era solo... un'altra delle tante cose che la rendevano speciale.
Ma non avevo smesso di sorprendermi quando lei lo faceva liberamente in mia compagnia, quando si svegliava di notte e invece di accendere la lampada sul comò faceva brillare le sue mani, quando si aggirava per casa nel buio della sera con le mani giunte e una luce irreale che si rifletteva sul suo volto.
Helena non temeva più di sconvolgermi nel mostrarmi il suo dono, o il suo potere, o qualunque cosa fosse. Ma le ci vollero molti mesi prima di arrivare a raccontarmi tutto, di come quella luce che era stata la normalità nella sua infanzia era scomparsa alla morte di suo padre, e di come l'aveva ritrovata quando aveva conosciuto me. Mi lasciò attonito scoprire che Helena pensava che fossi io, non lei, quello speciale.

giovedì 15 dicembre 2022

Fame


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Foto di Gratisography da Pexels


Shila sobbalzava sulla sedia a ogni colpo sordo del timbro sbattuto sulla pila di fogli. Era la prima volta che la portavo all'ufficio postale e per lei tutto era nuovo, strano, spaventoso. Si strinse di più a me, piegando la testa contro la mia spalla, quando un uomo anziano si alzò dalla fila di sedie e si avviò allo sportello dove avevano chiamato il suo numero. Le accarezzai la testa per rassicurarla, sbirciai il mio foglietto numerato e le mormorai: – Coraggio, non manca tanto.
Una nuova raffica di rumori sconosciuti le fece volgere la testa a destra e a sinistra con i rapidi scatti di un uccellino spaventato. Una fotocopiatrice che sparava raffiche di fogli dalle sue viscere. Un carrello stracarico di buste e pacchi che veniva spinto su ruote cigolanti. La voce distorta di un annuncio che si diffondeva da un altoparlante e ricordava a tutti di prendere un numero dal totem e attendere il proprio turno. Una serie di bip insistenti da chissà quale macchinario e poi, la porta che veniva aperta e un gruppo ciarliero di signore di mezz'età appena giunte che si affaccendavano attorno al touch screen discutendo su quale fosse il pulsante da premere per un versamento, per spedire una raccomandata o per parlare con un'addetta a proposito dei fondi su un libretto.
Io ne capivo abbastanza, ma mi rendevo conto che per Shila erano tutte chiacchiere incomprensibili. Lei aveva in mente una sola cosa.
– Mistral, io ho fame – si lamentò la piccola.
– Lo so, Shila. Porta un po' di pazienza.
Avevo fame anch'io, ma non serviva a niente dirlo. Se tutto andava per il verso giusto, presto avremmo avuto di che sfamarci. Questione di ritirare il pacco per cui ero venuta e trovare un posto tranquillo dove nessuno ci avrebbe disturbato.
Quell'acquisto era stato un azzardo, visto come ci era andata le ultime due volte. Merce danneggiata, o avariata e del tutto inutile. Era difficile stabilirlo da una fotografia, soprattutto una che poteva nascondere i difetti sul lato non visibile, o appartenere a un esemplare diverso da quello messo in vendita, o essere stata scattata tempo prima, e non rappresentare più la condizione attuale della merce. A questo si aggiungeva l'ignoranza dei collezionisti dai quali acquistavo la merce.
Non erano affatto in grado di capire di che cosa avevo bisogno.
– Io ho tanta, tanta fame – soggiunse Shila, e nascose il volto contro il mio braccio all'assalto di una nuova cacofonia di suoni. Troppe voci tutte assieme, troppi scatti metallici dalla doppia porta che veniva usata per passare i pacchi, troppi pigolii elettronici dalle calcolatrici e dai computer.
– Vuoi un cioccolatino, tesoro? – disse la signora che era venuta a sedersi accanto a me, dall'altro lato rispetto a Shila, e nel dirlo allungò sulle mie gambe una scatola aperta, untuosa, con i vani dorati quasi tutti vuoti. Restavano ormai solo cinque praline ricoperte di cioccolato dall'aspetto opaco, vecchio, grigiastro.
Shila alzò gli occhi sulla signora e fissò il suo volto sorridente, pesantemente truccato, con l'espressione di chi non avesse proprio capito in che lingua gli avevano appena parlato.
– Grazie – dissi per lei, presi un cioccolatino e me lo ficcai in bocca. Diedi una leggera gomitata a Shila, che si affrettò a fare altrettanto.
Il gusto non era così cattivo. La cioccolata sapeva un po' di stantio, ma si scioglieva in bocca e foderava la lingua di un lieve strato dolciastro. Masticai la nocciola e ingoiai quel che restava del ripieno cremoso, senza avvertire alcuna attenuazione al mio senso di fame.
D'altra parte, non mi ero aspettata che quel cibo potesse saziarmi.
– Prendetene, prendetene pure quanti volete – ci esortò la signora imbellettata, un sorriso ancora più grande incorniciato di fucsia. – Sapete, i miei nipoti ne avanzano sempre troppi, e a me i dolci non fanno più tanta voglia...
Ne prendemmo un altro ciascuna, profondendoci in ringraziamenti, o almeno, io lo feci. Ma la signora non aveva occhi che per Shila, che la fissava di rimando dondolando le gambe.
Shila aveva l'aspetto di una bambina di otto o dieci anni, riccioli scuri, grandi occhi azzurri e le gote arrossate. Quando aveva fame sembrava anche più giovane, e in quel momento aveva davvero molta fame.
Io potevo dire di avere sedici anni quanto diciotto, all'occorrenza. Somigliavo a Shila quanto possono assomigliarsi due sorelle, ma i miei capelli erano lisci, di un castano chiaro, leggermente tendente al rosso, ed ero meno pallida. Nel tempo e nel luogo in cui ero venuta al mondo, sarei stata considerata già una donna, o quantomeno una fanciulla da marito.
Lo sportello di destra chiamò il numero della signora, che si alzò e ci lasciò la scatola di cioccolatini sulla sedia. – Finiteli pure, mie care – raccomandò prima di allontanarsi.
Sospirai e divisi tra noi l'ultimo cioccolatino, impiastricciandomi tutte le mani, solo perché la donna ogni tanto si voltava a guardarci dallo sportello.
Finì presto e quando tornò raccattò la scatola vuota. – Erano buoni, vero? – chiese in tono carezzevole, e senza attendere risposta sorrise un'ultima volta a Shila e se ne andò.
Shila scese dalla sedia e mosse un passo verso l'uscita. La bloccai. Sapevo che cosa aveva in mente, ma non potevo permetterglielo.
Quella signora aveva implicitamente promesso di sfamarci, ma non lo aveva fatto.
– No, Shila – le dissi in tono perentorio. – Dobbiamo lasciarla andare.
Non avevamo più ucciso nessuno da quando, mille anni fa, L'Ordine aveva annientato la cosa che ci aveva generate. Al contrario del nostro genitore, il nostro aspetto umano e la nostra apparente innocenza era ciò che ci aveva mantenuto in vita. L'Ordine non poteva immaginare che saremmo vissute così a lungo, forse anche di poter sopravvivere allo stesso Ordine che aveva attraversato i secoli gestito da una generazione dopo l'altra di ferventi dispensatori della giustizia a ogni entità che minacciasse l'esistenza della stirpe umana. Per prudenza, io supponevo che L'Ordine esistesse ancora, e che tuttora tenesse un occhio vigile su di noi, in attesa dell'errore che ci avrebbe condannate. A volte, mi sentivo davvero osservata da qualcosa.
Shila, ovviamente, non ricordava nulla di quel tempo, ma l'istinto teso alla ricerca di quello che poteva saziarla era ancora presente in lei. Shila era stata creata per non ricordare nulla al di fuori degli ultimi quattro o cinque anni, e anche quelli in maniera confusa, e del bisogno che animava entrambe. Lei viveva un eterno presente.
Io invece sapevo che cosa ci avevano tolto, e che cosa era necessario fare affinché non ci togliessero anche quello che ci era rimasto. La fame bruciava nelle mie viscere, ma abbeverarsi a una fonte vivente era una leggerezza che non potevo permettermi.
Lo sportello dei pacchi, quello accanto alla doppia porta di metallo, chiamò il nostro numero. Mi alzai e strinsi Shila a me.
– Mistral... – mormorò lei, in tono supplichevole, gli occhi ancora rivolti alla porta da cui era uscita la donna dei cioccolatini. Scossi la testa e la trattenni accanto a me, mentre ci dirigevamo allo sportello.
– Pazienza, Shila. Stavolta andrà bene, te lo prometto.
Nel corso degli ultimi mille anni, i fantasmi erano gradualmente scomparsi dai manieri e dai cimiteri infestati. Anche in oriente, templi e monasteri si erano pian piano svuotati degli spiriti che erano soliti accogliere le preghiere dei fedeli. Era stato un processo tanto lento e naturale, che L'Ordine non sarebbe stato in grado di collegarlo ai nostri vagabondaggi nemmeno se ci avesse provato. Non avevano modo di ricavare una prova che spettri e spiriti fossero mai esistiti in primo luogo, e la loro apparente scomparsa era facilmente attribuibile a un minor grado di superstizione e a una migliore capacità di raccolta di dati certi, invece di affidarsi ad aneddoti e pettegolezzi, nell'era della tecnologia.
L'aver esaurito buona parte delle anime disincarnate però aveva lasciato me e Shila con poco o nulla da mangiare. Era stato allora che avevo dovuto diventare creativa e studiare la storia di antichi manufatti creati dagli stregoni delle epoche passate allo scopo di intrappolare le anime dei loro nemici, o di sventurati schiavi, in vista di un rituale che necessitava di un tale sacrificio. Nella maggior parte dei casi era plausibile immaginare che L'Ordine fosse intervenuto prima che il rituale fosse compiuto, e che poi l'oggetto fosse passato di mano in mano per finire nelle grinfie di collezionisti che non ne conoscevano il reale valore.
Altrimenti, avrei dovuto pagare molto di più il pacco che stavo per ricevere.
Sbrigate le formalità, attesi con impazienza che l'addetta spingesse il pacco nel vano tra le due porte, e non appena mi fu possibile, aprii la porta dalla mia parte e lo ghermii.
– Andiamo! – dissi a Shila non appena lo ebbi tra le mani. Ma non avevo fatto che un paio di passi, che l'addetta mi richiamò indietro.
– Aspetta!
Il suo richiamo mi mandò un brivido di gelo lungo la schiena. Possibile che L'Ordine avesse infine capito come io e Shila eravamo sopravvissute così a lungo?
Se non avessimo divorato tutte quelle anime, saremmo entrambe morte già da tempo, dopo una straziante agonia paragonabile solo alla lontana alla fame degli esseri umani. Non era solo lo stomaco. Cominciava da lì, era vero, e per questo la chiamavamo fame, ma verso la fine l'intero nostro corpo avrebbe agognato un'anima con cui sostenere ancora per qualche anno la nostra esistenza. Avrebbe avuto fame la nostra testa, e fame le mani, fame le gambe, fame gli occhi, fame il petto, fame i piedi, fame le orecchie, fame le braccia, fame, fame, fame.
Eravamo state solo una volta a un passo dalla fine, io lo ricordavo, Shila no. Non avrei mai più permesso che accadesse, piuttosto avrei rischiato l'ira dell'Ordine, sarebbe stata una morte più rapida.
Ma non eravamo ancora arrivate a quel punto.
Mi voltai verso l'addetta delle poste con uno sguardo belligerante.
– Manca una firma – disse lei, spingendo un foglietto e una penna oltre la fessura ai piedi del vetro. Con un sospiro tornai indietro e apposi quell'ultima firma, prima di lasciare con Shila quel luogo brulicante d'anime incarnate, così vicine, così a portata di mano, così proibite.
Ci era andata male con il Medaglione degli Spettri Incatenati. Uno dei suoi proprietari non sapeva che rimuovere il fondo con le sue rune, per quanto consumato e crepato, per sostituirlo con una nuova lastra d'argento incisa a motivi fantasiosi avrebbe sciolto le catene, e addio spettri. Ci era andata male anche con il Tappeto dei Tessitori Morti: tutti quelli che avevano intrecciato i suoi fili per poi essere uccisi sopra la propria creazione erano da tempo passati a miglior vita, forse per un rituale di esorcismo compiuto sul tappeto, o forse perché tanti fili erano spezzati, e il sapiente fotografo si era premurato di scattare foto da vicino solo sui punti meglio conservati, ammesso che il tappeto delle foto fosse quello e non una riproduzione.
Ma il Pozzo delle Anime era esattamente ciò che speravo di trovare. Il manufatto aveva l'aspetto di una sfera armillare di una ventina di centimetri di diametro, solo che invece di cerchi perfetti quelli che si incrociavano erano i contorni di poligoni formati da un diverso numero di lati: dai quadrati e rombi più interni, si passava a un intreccio di pentagoni, esagoni, ettagoni e infine decagoni e dodecagoni. Al centro delle varie sagome di metallo brunito, luccicava uno zaffiro sfaccettato che pulsava dell'energia di centinaia di anime.
Mormorai una benedizione all'anonimo stregone che lo aveva riempito per noi ed era morto prima di poter sfruttare la sua creazione.
Shila mi guardò leccandosi le labbra. Il Pozzo delle Anime era decisamente più appetitoso di una scatola di vecchi cioccolatini.
– Preparati – le dissi, e già la vidi allargare la bocca oltre il limite di quanto era consentito da una mandibola umana. Fauci animalesche spalancate come quelle di un serpente pronto a colpire. – Non lasciamone sfuggire nemmeno una – conclusi, e aprii la bocca più che potevo a mia volta.
Non mi restava altro da fare che disporre i poligoni attorno allo zaffiro secondo una logica ben precisa, così da risolvere quel puzzle tridimensionale e liberare tutte le gustose anime rinchiuse nel pozzo.

lunedì 12 dicembre 2022

Pensieri malati


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Foto di Engin Akyurt da Pexels


In ascensore, sul fondo bianco sporco di una bacheca che non vedeva un annuncio da anni, una scritta in pennarello rosso diceva "Non si può guarire un cuore spezzato". Accanto alla scritta, circondata da svariati graffiti da vandalo molto meno poetici, che comprendevano saluti infantili e nomi corredati da numeri di telefono, era tracciata nello stesso inchiostro rosso la sagoma delle due metà di un cuore stilizzato, separate da un sottile spazio bianco a zig zag. Avevo aperto molte gabbie toraciche nel corso degli anni, ma spezzato o no, non avevo mai trovato un cuore umano che assomigliasse a quello.
Le porte dell'ascensore si aprirono e io inspirai a pieni polmoni l'odore di urina, sofferenza e formaldeide, prima di lasciare l'alcova di metallo per il corridoio lastricato di bianco e verde pallido. Passi frettolosi ed echi di porte che si chiudevano con un clangore sonoro mi circondarono, e io mi incamminai senza fretta in direzione del reparto dove lavorava Maria. Andare a prenderla direttamente sul posto di lavoro era diventata un'esperienza gradevole da quando avevo recuperato ogni memoria che mi apparteneva, da quando sapevo chi ero e di che cosa avevo bisogno.
Oltrepassando le stanze allineate lungo il corridoio davo sempre un'occhiata all'interno delle porte aperte e mi godevo ogni sguardo vuoto e rassegnato, ogni mugolio e ogni lamento. Era un piacere leggero, ben diverso da quello che mi concedevo nelle notti più cupe, quando facevo sparire uno o due tra gli esponenti della feccia cittadina e li lavoravo ben bene, apprezzando ogni sfumatura di terrore e dolore che riuscivo a procurare loro prima di scartare i loro gusci vuoti. Ero diventato bravo. Non li trovavano mai, quando avevo finito con loro.
Mi nascondevo agli esseri umani per necessità, ma alla fin fine, da quando non mi nascondevo più da me stesso, da quando avevo accettato la mia natura e avevo quindi una certa libertà di scelta su come soddisfare i miei istinti, avevo cominciato a sentirmi quasi un eroe. Ero certo che se l'umanità o perlomeno la cerchia degli onesti avesse saputo quello che facevo, lo avrebbe approvato. Magari non avrebbe approvato i miei metodi, ma il risultato, oh, quello sì. Il solo pensiero riuscì a farmi nascere un sorriso crudele sul volto.
Un vecchio coricato di fianco in un letto mi apostrofò in tono querulo: – Dottore, dottore!
Lo ignorai e proseguii. Portavo sempre un camice bianco quando andavo a trovare Maria in reparto, era parte della maschera creata per amalgamarmi nel luogo in cui mi trovavo, così come l'aspetto umano dell'innocuo Edgar Allen era la mia maschera nel mondo degli uomini. Se qualcuno mi avesse visto com'ero davvero, così come mi vedevano quelli che sceglievo per il mio divertimento, avrebbe subito gridato al mostro, oppure mi avrebbe definito un demone come aveva fatto il primo essere umano che aveva incrociato la mia strada, il primo che avevo ucciso. Allora non avevo alcun discernimento, né una maschera per passare inosservato. Ero pura violenza, così come pensavano dovesse essere qualcuno come me le femmine della mia specie. Le Succube, più evolute e sofisticate, che alla fine avevo costretto ad accettare che il mio esilio non si sarebbe tradotto in una condanna a morte.
Un paio di infermieri e una dottoressa mi oltrepassarono in direzione opposta. Non fecero domande, per loro ero semplicemente un medico che lavorava in un altro reparto, mi avevano già visto ronzare attorno a Maria e dunque non ero una presenza sconosciuta in reparto. Chiacchieravano indaffarati, sbirciando di tanto in tanto una cartellina. Rivolsi uno sguardo lascivo alla dottoressa, d'altra parte sono un Incubo e non è solo di violenza che mi nutro, ma lei era troppo impegnata e passò oltre senza notarlo.
Alla mia destra una vecchia che si trascinava dietro l'asta metallica che sosteneva una flebo prese a tossire senza sosta, una tosse secca, malefica, profonda, come se da un momento all'altro avesse dovuto sputare un polmone. Il suo sfogo mi infastidì e le augurai i peggiori mali, ma senza trarne soddisfazione. Ero consapevole che non avrei mai puntato a una preda così debole: se non faceva un minimo di resistenza, che gusto c'era?
Una porta si aprì cigolando di fronte a me e ne uscì Colette, un'infermiera, la migliore amica di Maria. Lei mi ricordava in ben altre vesti, da quando ero stato ricoverato in ospedale dopo un incidente, e da allora non ero più riuscito a ingannarla. Con lei la mia maschera era spezzata, aveva una crepa proprio come il cuore disegnato in ascensore, e Colette era riuscita a vedervi attraverso. Non abbastanza, però, da scoprire cos'ero.
– Ecco di nuovo qua lo psicopatico – brontolò Colette, puntandomi addosso uno sguardo imbronciato. – Ti avviso, se spezzi il cuore di Maria, io pianto un bisturi nel tuo!
Mi venne da ridere, perché lei non diceva sul serio. Al contrario di me, non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
– Non c'è alcun pericolo, Colette, e vedi di stare un po' calma – la schernii, con una nuova risata che mi gorgogliava in gola. – Maria è una donna adulta, e inoltre, lei sa perfettamente in che guaio si è andata a cacciare.
Colette mi rivolse una smorfia, poi l'anziana con la tosse attirò la sua attenzione e Colette si affrettò a raggiungerla e a riaccompagnarla con fare premuroso alla sua stanza, mormorandole rassicurazioni con la stessa vocetta che avrebbe usato con un bambino. Ah, gli esseri umani!
Fragili bambole di pezza in attesa della loro fine. La pietà per la loro condizione non mi apparteneva, e faticavo a spiegarmi perfino quella blanda affezione che mi aveva condotto a lottare per proseguire il mio esilio, piuttosto che cercare di conquistare il trono che era stato di mia madre, sovvertendo ogni regola del mio mondo. Avrei potuto farlo. Ero diventato più forte di qualunque altro Incubo fosse vissuto fino ad allora, considerando che nessun altro aveva superato l'adolescenza, e abbastanza determinato da tener testa con le unghie e con i denti alle giovani Succube che aspiravano allo stesso posto. Mi avrebbero ucciso, se non lo fossi stato, e poi avrebbero ucciso Maria per aver visto la mia vera natura e la loro. Ma io mi ero guadagnato il diritto di scegliere, e inspiegabilmente, avevo scelto di proteggere lei.
Non le avrebbero fatto del male finché c'ero io a garantire il suo silenzio.
Entrai nello spogliatoio delle infermiere e il clangore della porta che si chiudeva dietro di me la fece sobbalzare. Maria si voltò.
– Mi hai spaventato – disse, subito rassicurata al vedere me tra gli armadietti.
– Bene. Non chiederò scusa – le feci sapere. Con lei non avevo bisogno di fingere.
Maria si calò addosso il maglioncino azzurro. Aveva già messo da parte il camice, e non le restava altro da fare che pettinarsi. Mentre si spazzolava i capelli, sbirciò il mio riflesso nello specchio dell'armadietto.
– Non hai altri impegni stasera, vero? – mi chiese Maria, in tono lieve e distratto. – Nessun... pensiero malato a distrarti dalla nostra serata?
Lei aveva guardato negli occhi il mostro. Maria mi aveva visto davvero, nere ali telate, artigli e un sadico volto inespressivo, e chissà come mi aveva accettato.
– No. Sono a posto – le feci sapere, e quando Maria si voltò a sorridermi, capii che lo ero davvero.
Ripulito dalle medicine che lo avevano alterato per troppo tempo, quando pensavo di dover trattenere il mostro sanguinario che a volte prendeva il sopravvento sulla mia mente lasciandola costellata di vuoti e di spiacevoli amnesie, il mio sangue era tornato a essere rosso come quello di un essere umano. Mi chiesi, non per la prima volta, se dentro la mia gabbia toracica battesse un cuore, e se la sua forma fosse simile a quella di un cuore umano, e se un giorno, quando Maria avesse smesso di chiudere un occhio sulla mia indole inumana, oppure alla sua morte naturale, il mio cuore, se c'era, avrebbe potuto spezzarsi come una sagoma disegnata sulla bacheca di un ascensore.

sabato 10 dicembre 2022

Nume

Nume [nùme] s.m. 1. lett. Presenza della divinità nel mondo; volontà, potenza divina. 2. Divinità mitologica e religiosa pagana; dio. 3. fig. Persona dotata di grande autorità e carisma, che diventa quasi oggetto di culto (in senso enfatico e talora con sfumatura ironica).

Etimologia: dal latino numen, "cenno della testa", inteso come segno di comando. Per associazione di idee sta a indicare la volontà e la potenza degli dei dal cui cenno tutto dipende.



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Foto di ARMAN ALCORDO JR. da Pexels


Era stata la volontà di un nume, disse mio marito, quando tornò a casa dalla caccia con una bocca in più da sfamare e una storia assurda sulle labbra. Io glielo avevo detto di non uscire a caccia nel giorno degli spiriti, che tante persone erano scomparse nella foresta quel giorno, e dunque era meglio starsene chiusi in casa, ma Arg no, non mi aveva dato retta, quella testa dura. Era uscito lo stesso, lasciando a casa me e i nostri figli a pregare Tarasia, dea del focolare, affinché potesse fare ritorno. E lui tornò, ma non da solo.
Arg disse che un cervo lo aveva quasi ucciso, ma poi era spuntata dal nulla Carecnus, la dea della caccia, che lo aveva salvato e gli aveva affidato la bambina.
Lo so, il mio primo pensiero, come sarebbe accaduto a ogni brava moglie che conosce il proprio marito, era stato di immaginare che lui fosse andato a caccia ubriaco, e che avesse incontrato una donna qualunque con una qualunque figlia di troppo. Ma il medaglione che la bimba portava non era cosa che potesse procurarsi una donna qualunque. Troppo prezioso. Era come il simbolo che c'è sulla parete del Tempio, proprio come quello, perciò era normale pensare che la bimba fosse sotto la protezione di qualche nume, o forse di tutti e dieci, e che non mi conveniva trattarla male.
Avevo anche pensato di venderlo, il medaglione, per procurarmi quel che serviva a sostentare la mia famiglia e di conseguenza anche lei, ma che ne avrebbero detto gli dei se le avessi tolto qualcosa che le apparteneva? Così li avevo tenuti nascosti, lei e il suo medaglione troppo prezioso, e avevo detto ad Arg e ai bambini di non parlarne a nessuno.
Finché non giunse il daya-he di Carecnus, la festa in onore della dea, e in quel giorno sarebbe stato di cattivo auspicio non portare la bambina al tempio date le sue origini. Allora la gente lo vide, e la voce si sparse, e giunsero infine alla nostra casa gli emissari di un nume terreno che nella sua saggezza liberò la mia famiglia da un compito troppo gravoso.