sabato 29 giugno 2019

Nefando

È sempre interessante scoprire l'origine delle parole, sia di quelle che usiamo ogni giorno senza nemmeno domandarci da dove vengono, che di quelle meno comuni, e che per questo appaiono talvolta abbastanza misteriose da essere degnate di una simile indagine. L'aggettivo che sto per presentare deriva dal latino e richiama nel nome qualcosa "di cui non si può parlare", l'indicibile. Ovviamente, in senso negativo.

Nefando [ne-fàn-do] agg. Riferito a persona che si è macchiata di colpe gravissime, empio, scellerato; riferito a cosa, atroce, moralmente inqualificabile, orribile.

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Per illustrare questa parola ne avevo di antagonisti tra cui scegliere, e oltre a più di un antieroe... eppure, quando ho iniziato a definire in quale dei miei mondi fantastici ambientare il brano, ho scoperto che stavo usando questo aggettivo per un personaggio che appare in un altro brano come un protagonista benevolo e positivo. Fino a che non si scopre la verità sul suo passato perduto.


Il giorno in cui quella nefanda gente comparve nella Valle, capii fin da subito che avrebbe portato guai.
Mi ero unito ai Guardiani della Valle perché credevo nella pace e nell'armonia che professavano, eppure solo gli dei sanno quanto fu difficile restare al mio posto, non reagire mentre gli invasori spingevano i cavalli a calpestare i miei compagni che sbarravano il passo. Erano venuti da noi per la promessa di un tesoro che non esisteva, o almeno, non nel modo in cui lo intendevano loro. Il nostro tempio, la nostra terra, non custodiva né oro né pietre preziose, ma qualcosa il cui valore superava di gran lunga entrambi.
Avevamo cercato di spaventarli. Io, e altri novizi che come me erano stanchi di veder soffrire amici e fratelli. Di nascosto dai sacerdoti, di notte, avevamo rubato le loro provviste, messo in fuga i cavalli, appiccato il fuoco al loro accampamento. Ma non eravamo riusciti a dissuaderli.
Nessuno dei Guardiani aveva mosso un dito. Nemmeno quando i banditi avevano frugato il tempio in cerca di idoli d'oro. Non li avevano combattuti. Non si erano difesi.
Avevano lasciato ai malvagi la libertà di minacciare e distruggere e uccidere.
Si erano limitati a pregare il fuoco di drago affinché li aiutasse. Ma la Nostra Signora non era venuta a salvarci.
Non prima che il capo di quegli uomini, il peggiore tra loro, compiesse il più nefando dei gesti: scendere nel ventre della terra, nel più sacro dei luoghi, lì dove a nessuno era consentito andare.
Tentai di seguirlo dopo la comparsa della Nostra Signora, che solo a quel punto era intervenuta per renderli inoffensivi e permetterci di catturarli. Ma lei mi impedì di scendere i gradini.
– Sarà ciò che deve essere – furono le sue parole.
E ora dobbiamo inchinarci a lui, lui che a dispetto della sua scelleratezza è stato premiato con il fuoco di drago, e lasciargli decidere la sorte dei suoi vecchi compari.
I Guardiani dicono che ha già pagato, che dimenticare chi è stato è la sua condanna.
Ma io dico che non è abbastanza.

giovedì 27 giugno 2019

Personaggio: mutaforma senza nome

Per il secondo personaggio che assume il ruolo di veggente o messaggero ho scelto di andare sul classico. E dato che non c'è niente di più classico di un veggente cieco, tra i miei personaggi ne avevo due tra cui scegliere: un sacerdote che interpreta i sogni altrui in un tempio in cui si pratica l'oniromanzia, e che porta una benda sugli occhi (ma non è davvero cieco, lo fa solo per celare il fatto di avere occhi un po' particolari), o una mutaforma accecata durante la prigionia, che mescola a capacità profetiche una buona dose di intuizione e persuasione per ottenere ciò che vuole. Indovina quale ho scelto?

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In un primo momento avevo pensato di presentare Galkna, la sorella maggiore del personaggio che alla fine ho scelto. Ma Galkna non è una vera e propria veggente, solo una mutaforma che conosce molte più cose rispetto al resto della sua gente, che tuttavia non la ascolta perché la ritiene contaminata e storpiata dagli esseri umani. Galkna è quella che è riuscita a tornare a casa. La sorella minore invece, che non ha un nome perché è stata catturata quando era ancora troppo giovane per averne uno, si è separata da Galkna durante la fuga ed è stata ricatturata. Rimasta nel mondo umano, ha tuttavia trovato qualcuno che la ascolti, a cui trasmettere il messaggio di cui è portatrice nel modo in cui lei desidera. Ovvero, qualcuno da manipolare.
L'aspetto della mutaforma senza nome non è dissimile da quello di altri della sua razza, solo un po' più trasandato: squame nere, capelli in ciuffi scomposti, occhi tondi e acquosi, zanne, artigli, con la possibilità di cambiare una o più caratteristiche in qualunque momento, o almeno di mutare quelle che non portano la cicatrice di tagli inflitti con particolari veleni o strumenti. E questo è appunto il motivo per cui questa veggente è cieca e nonostante le doti della sua razza non può sistemare i propri occhi.


Questi il brano in cui è nominata la mutaforma senza nome:
Una sorella perduta


L'esercizio richiede di scrivere un brano che riguarda la consegna di un messaggio o la rivelazione di una profezia, e la reazione in chi la riceve. Non posso scrivere della sua profezia più importante per non rivelare un colpo di scena della storia a cui appartiene, ma... questa, per ruolo nella trama, ci va abbastanza vicino.


Se solo avessi saputo…
Se avessi potuto vedere, allora, dove mi avrebbero portato le sue parole, l’avrei ascoltata lo stesso?
Lei ha fatto di me quello che sono. Ed è cominciato tutto al mercato di Oceanus, il giorno in cui divenni un uomo.
Io e mio fratello attendevamo quel giorno con ansia da anni. E finalmente era arrivato.
Il giorno della maggiore età, il giorno in cui io e Jasmen avremmo scelto i nostri doni, e nostra madre ci avrebbe predetto che tipo di persone saremmo stati.
Non c’era posto migliore di Oceanus per quello. L’isola più a est, l’isola su cui il sole sorge per primo.
Ricordo i riflessi d’argento sui getti della fontana di Piazza delle Luci. La fila di bandierine triangolari che cingeva il lato della piazza affacciata sul mare, il tessuto rosso e blu e verde e bianco e nero, simbolo delle cinque terre, che si agitava nel vento salmastro. Le vetrine di un negozio di armi, e mio fratello, quello che se ne stava sempre con la penna in mano a sognare alla sua scrivania, che le ammirava con meraviglia.
Non me lo aspettavo. Credevo di trovarlo attaccato alla vetrina del libraio, in cerca di qualche volume raro o di un nuovo pennino decorato.
Certo, avevamo fatto le nostre scorribande notturne, in città… ed era stato divertente. Ma Jasmen, un uomo d’azione?
Sarebbe stato più facile veder scendere le due lune a terra.
– Josiac – Mia madre mi si avvicinò da dietro. – Tesoro, c’è niente che tu desideri?
Mi guardò negli occhi. Ricambiai il suo sguardo nero, profondo. Le afferrai la mano e mi avviai lungo Via del Sole. Jasmen si voltò e ci seguì, passando di vetrina in vetrina.
– Stavo pensando… – Abbassai gli occhi alle scarpe, un passo dietro l’altro, in silenzio. La sentii stringermi più forte la mano. – E se avessi già tutto? – Le chiesi, alzando lo sguardo su di lei. – Che succede se non c’è niente che desidero, come regalo?
Ero uno sciocco, non c’era alcun dubbio. Anni di attesa, di progetti e tutta l’eccitazione per quel compleanno tanto speciale, e quando finalmente era arrivato, alla fine non c’era niente che desiderassi ricevere in dono?
Mia madre rise e si fermò. Mi bloccai di fronte a lei. Attorno a noi, la via si allargava nella Piazza Maggiore, brulicante di gente, di bancarelle all’aperto, del profumo del pandolce esposto in file di vassoi appena fuori dalle locande.
Mia madre mi accarezzò una guancia con dita pallide e leggere. Un tocco delicato come il suo passaggio in questo mondo, eppure forte come la sua volontà. – Ah, mio caro. Ho sempre saputo che eri tu quello più saggio, a dispetto dell’apparenza che ti ostini a mostrare al mondo.
Le sorrisi.
Jasmen, con le mani appoggiate al vetro dell’ennesima armeria, la chiamò: – Mamma! Mamma, vieni qui, l’ho trovata! È questa qui che voglio… non è bellissima?
Mia madre arricciò le labbra in un sorriso che non scopriva i denti e rivolse lo sguardo di lato.
Feci un lieve cenno, e la guardai girarsi del tutto verso mio fratello e allontanarsi.
Rimasi lì, a guardarli mentre contrattavano con l’armaiolo per una spada che Jasmen non avrebbe mai usato.
E fu allora che la sentii. Il suo respiro ansante, e quella frase.
– Josiac Astorenn. Ho visto il tuo futuro. Tu sei destinato a grandi cose.
Mi voltai indietro ma non vidi nessuno, solo una grande gabbia su una pedana su ruote, con dentro due dei mutaforma più brutti che avessi mai visto. Erano in pessime condizioni, sporchi, vestiti di stracci, e pieni dei graffi da pungolo con cui gli schiavisti li marchiavano quando si rivelavano selvaggi o troppo pericolosi, o quando semplicemente non eseguivano un ordine abbastanza in fretta. Uno dei due era rannicchiato in un angolo della gabbia, e l'altro teneva il muso irto di zanne schiacciato contro le sbarre, gli occhi biancastri rivolti verso di me.
Era impossibile che fosse stata la creatura a parlare. I mutaforme erano a malapena abbastanza intelligenti da capire qualche semplice comando, questo lo sapevano tutti. Non mi passò nemmeno per la mente, allora, che forse tutti si sbagliavano, quindi cercai il mercante che lo possedeva e lo individuai a trattare con un banditore nei pressi di una bancarella coperta, troppo distante affinché il suo sussurro mi giungesse.
– Non guardare altrove. La risposta è davanti a te – sentii ancora, e prima che la frase finisse, sbirciai il mutaforma in tempo per vedere le sue labbra muoversi.
Trattenni il respiro un solo istante. Poi, come facevo sempre, accettai la situazione.
Non sapevo se tutti i mutaforme fossero in grado di apprendere a parlare, o se quello che avevo davanti fosse diverso dagli altri, ma era piacevole sapere qualcosa che il resto del mondo ignorava.
Diedi le spalle alla creatura, e mentre fingevo di tener d'occhio mia madre e mio fratello, risposi ai suoi sussurri con i miei.
– Come conosci il mio nome?
– Ti ho già detto come. Ho visto il tuo futuro. E quello di tuo fratello. – La creatura gracchiò un verso che mi parve una risata. – La userà una sola volta.
Il mutaforma non aveva specificato a cosa si riferisse, ma immaginai che parlasse della spada che Jasmen stava sollevando in alto, con entrambe le mani sull'elsa, come fosse stata un trofeo. – Lo supponevo. – Sogghignai a mia volta. – Ma è facile da indovinare, basta guardarlo. Quanto al mio futuro... come posso fidarmi di te?
Sentii i suoi artigli grattare sulle sbarre, ma nonostante fossi molto vicino alla gabbia, non mi voltai. Se era abbastanza intelligente da riuscire a parlare, era anche abbastanza intelligente da non tentare di uccidermi.
– Io mi sono fidata di te. Ho rotto il silenzio della mia gente, per te. Non parlerò con altri umani. Solo con te. Ti dirò altri segreti... molti segreti. Se ascolterai, diventerai un capo della tua gente, Josiac Astorenn. Se non ascolterai, sarai dimenticato. Scegli!
Non potei replicare, poiché il mercante si precipitò da me urlando: – Allontanati! Vattene subito, va' via da lì, ti ho detto!
Lo fissai senza muovermi, fin quando non mi fu addosso e con uno strattone mi costrinse a farmi da parte. Stavo per reagire, quando il mercante riprese a urlarmi contro: – Sei pazzo, ragazzo? Non hai visto il segnale di pericolo? Quella bestia è la più feroce di tutte, ti può staccare la testa a morsi se non stai attento!
Mia madre e mio fratello corsero da me attirati dal trambusto, e mia madre iniziò a redarguire il mercante di mutaforme, reo di non aver scorto gli stemmi nobiliari sui miei abiti. Mio fratello, invece, cercava di attirare la mia attenzione sul nuovo acquisto, il suo regalo della maggiore età. Ma io non avevo occhi che per la creatura che in quel momento tendeva una zampa munita di artigli fuori dalle sbarre, schioccava le fauci e sbavava, recitando la parte che il mercante le aveva assegnato, o che forse aveva scelto lei stessa.
Come me, era più saggia del volto che si ostinava a mostrare al mondo, e capiva il vantaggio nell'essere sottovalutati.
Mi chiesi cos'altro nascondesse, e desiderai i suoi segreti. Ma non c'era che un modo per ottenerli: possedere la testa che li conteneva.
Avevo appena trovato l'unica cosa che volevo e che ancora non avevo. Il mio dono.

lunedì 24 giugno 2019

Personaggio: Sara dei Sortilegi

Era ovvio che tra veggente o messaggero, la mia scelta ricadesse sulla veggente. E tra le tante che popolano le mie storie, ho scelto quella che maggiormente incarna l'idea di un misterioso e onnisciente oracolo.

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La storia di Sara dei Sortilegi è nata proprio dal suo nome. Dall'etimologia di sortilegio, da quella forma di divinazione che proviene dall'estrarre a sorte, ho tratto il personaggio di una ragazza privata del destino, bloccata nel tempo, a cui la Sorte ha offerto la possibilità di farsi sua messaggera, per continuare in qualche modo a esistere. Sara non poteva che essere una veggente, una talmente brava che è impossibile non crederle, nonostante l'apparente giovane età. Unico limite di Sara è che appunto lei legge la sorte, le possibilità e i cambiamenti che comportano le scelte individuali, e non i punti prefissati decisi dal Destino (nella sua storia, Destino e Sorte sono entità realmente esistenti).
Quella attorno a cui è incentrata la storia, la sua profezia più importante, la riguarda, perché in fondo si tratta di una richiesta di aiuto.
A differenza di altri personaggi non ho difficoltà a immaginare Sara, anche a distanza di tempo, perché il primo brano che ho scritto è proprio la sua descrizione: "Dire che è un tipo originale o bizzarro è decisamente dire poco. Vive da sola fuori dal paese, ma spesso la si vede passeggiare per le vie, indossando solo vestiti che lei stessa ha cucito. Esatto, come si faceva un secolo fa. E si dice che Sara fosse già qui ai tempi dei miei nonni, eppure, l'ho vista, sembra avere la mia stessa età. Sara, così antica e giovane... Ha lunghi capelli corvini che porta talvolta in una treccia spettinata, ma più spesso sciolti e liberi lungo la schiena. Raramente parla, a meno che non sia interpellata, e allora le sue parole valgono oro. Già, perché tutto ciò che lei dice avviene. O almeno questa è l'opinione di quelli che le hanno chiesto un consiglio. E un'altra cosa che hanno notato sono i suoi occhi, come due pozzi neri. Non che abbia gli occhi completamente neri, solo le iridi. Ma quando li fissi, cioè quando lei ti fissa... è come se in quegli occhi ci fossero tutte le cose del mondo, tutti i luoghi, i tempi, le saggezze e i segreti."


Questi i brani già scritti nel blog in cui compare Sara dei Sortilegi:
Primo incontro con Sara
Sara senza Destino
Sara e il destino di Mattia


L'esercizio richiede di scrivere un brano che riguarda la consegna di un messaggio o la rivelazione di una profezia, e la reazione in chi la riceve. La reazione è in parte già contenuta nel secondo brano tra quelli qui sopra, quindi ho scelto di scrivere la scena immediatamente precedente.


Ero stato altre volte da Sara. Lei mi parlava spesso di me: sembrava che le bastasse un'occhiata per scoprire tutto ciò che mi riguardava, anche le cose che ancora non erano successe.
Di lei, invece, io non sapevo quasi niente.
Eravamo seduti al tavolo della sua cucina, e lei stava spalmando la ricotta su una fetta del pane bruno che aveva sfornato quella mattina, quando Sara se ne uscì con quella domanda che in un primo momento mi parve strana, detta da lei.
– Mattia, rammenti la fiaba della bella addormentata?
– Eh? Oh, sì sì – borbottai dopo il primo attimo di smarrimento. Pensai che ero troppo grande per le favole, e lei pure.
– La fanciulla condannata a morire il giorno del suo sedicesimo compleanno... – mormorò Sara, prima di addentare il suo spuntino.
Io, che invece avevo scelto la sua marmellata di more per rendere commestibile quel pane troppo amaro, ripulii il coltello sul bordo arrotondato della fetta e la contraddissi: – No, non morire. Non si era addormentata? Lo dice anche il titolo.
Sara mi fissò con quei suoi occhi di un nero tanto intenso, due pozzi che contenevano tutte le storie del mondo. Un po' spaventato, distolsi i miei.
– Sì. Una delle sue madrine mitigò la maledizione, secondo quanto si tramanda.
Aggrottai la fronte. A sentire Sara, sembrava quasi che fosse accaduto davvero. Ma era solo una favola, ricordai a me stesso, giusto?
– Poni, piuttosto, che non sia stata salvata da altri – proseguì invece lei, tra un morso e l'altro. – Poni che la sua volontà sia stata così forte, da rifiutare ella stessa il suo destino. Da fermarne il corso. E così, l'alba del suo sedicesimo compleanno non sarebbe mai sorta su di lei.
L'ascoltavo ormai senza fiato. Non ero intelligente quanto Luca, ma avevo capito che mi stava dicendo cose che riguardavano lei, in qualche modo. Però non capivo in che modo.
Annuii con un blando "ah-ha", anche perché avevo la bocca piena.
Sara raccolse le briciole in una mano, si girò e si avviò alla finestra aperta di fianco al lavello. – Un simile gesto comporta, naturalmente, un prezzo. La fanciulla non aveva del tutto compreso il prezzo di ciò che aveva ardito fare. Fu il tempo a insegnarglielo, tenendola imprigionata in un'esistenza senza fine, eternamente consapevole dei moti e dei mutamenti che governano le vite altrui, e allo stesso tempo conscia che per lei nulla potrà mai accadere.
Sara gettò le briciole fuori dalla finestra e si girò. – E ora narrami, se non ti dispiace, come termina la fiaba.
Mandai giù il boccone. Non sapevo se Sara mi stava chiedendo come finisce la vera storia della bella addormentata, o la sua versione. Nel dubbio, recitai a memoria quella che conoscevo. – Allora, arriva il principe che la bacia, la bella addormentata si sveglia, si sposano e vissero per sempre felici e contenti. Fine.
Sara mi rivolse un sorrisino pietoso. Lo conoscevo: era lo stesso che faceva Rosa quando pensava di sapere qualcosa che noi maschi non sapevamo.
Sara avanzò e tornò a sedersi al suo posto. Appoggiò le braccia sul tavolo e si protese in avanti. – Se ti rivelassi che la persona destinata a destarmi dal mio sonno si trova esattamente qui, di fronte a me... tu che cosa penseresti?
– Be'... – esitai e deglutii di nuovo, anche se non avevo niente in bocca. La prima cosa a cui avevo pensato era che Sara non stava dormendo, ma quello era in pensiero stupido. Poi per secondo avevo pensato di chiederle "perché io?", e per terza mi era venuta in mente la domanda "intendi con un bacio?", ma non sapevo davvero se chiederglielo o no, anche se ne avevo tanta voglia. Di chiederglielo, voglio dire.
In qualche modo, come faceva sempre, Sara sapeva su cosa ero indeciso. Io so che lo sapeva, perché prima ancora di chiedere, lei rispose a entrambe le domande: – No, solo in una fiaba si può restituire una vita con un bacio. Nella realtà, per aggiustare un destino perduto serve coraggio.
Sara si raddrizzò, sbirciò la porta alle mie spalle e mi rivolse un sorriso vero, sorvegliato dai suoi occhi misteriosi e profondi. – Sapevo che eri tu fin dal primo giorno in cui hai attraversato la mia soglia. Ogni tua scelta, accettare la scommessa dei tuoi amici, rimanere dopo i primi due minuti, tornare di continuo nella mia dimora... tutto ciò ha lo scopo di spingerti in una sola direzione, verso un punto oltre il quale io non vedo. È il tuo destino, Mattia, di restituirmi il mio.
Non sapevo che dire. Tutte le domande che avevo si erano spente. Certo, non credevo in cose come il destino, ma quello era stato prima di incontrare lei.
Ne era rimasta una soltanto, di domanda, che si illuminò all'improvviso. – Ma, se io ti aiuto a fare quello che hai detto... tu muori?
Sara si limitò ad annuire gravemente, e io restai lì impietrito.
Nella sua fiaba non c'era un lieto fine.

sabato 22 giugno 2019

Mellifluo

Come accaduto con Salmodia, anche per questa parola a un significato positivo se ne è affiancato un altro, simile ma con connotati negativi. E, con il tempo, si può dire che sia arrivato a soppiantare quello originario, tanto che il secondo è molto più noto (e usato) del primo.

Mellifluo [mel-lì-fluo] agg. 1. lett. Da cui fluisce il miele ~fig. che stilla, emana dolcezza. 2. fig. Che esprime gentilezza affettata, manierata; sdolcinato; falsamente dolce e cortese.

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Il termine deriva dalle parole latine "miele" e "colare", ed era inevitabile quindi che a ispirarmi il racconto di oggi fosse il miele. Come al solito, volevo inserire entrambi i significati del termine, ma non è semplice dato che sono così simili. Non sono del tutto soddisfatta del risultato, ma... lascio giudicare a te.


Flora posò il barattolo aperto sul pavimento del tendone. Era una vecchia diceria, quella che il miele potesse placare la bestia che si accingeva a invitare, ma tanto valeva usare tutti i mezzi a sua disposizione.
Seduta a gambe incrociate, Flora prese un respiro profondo. Non occorreva molto, a una donna della sua famiglia, per evocare una delle Potenze. Nessun ingrediente, nessun rituale. Solo la volontà e l'immaginazione.
Per potergli parlare, occorreva dargli una forma umana. E Flora ne voleva una debole, una che non potesse farle del male. Fissando il barattolo di miele, Flora rammentò il primo con cui aveva condiviso una fetta di pane con su una goccia d'ambra dolcissima: la sua promessa non mantenuta. Si concentrò su quel pomeriggio di tanti anni prima.
– Da quanto tempo, amica mia.
Flora trasalì nel sentire una voce che le era nota. Le parole di un adulto contrastavano in maniera sconcertante con il timbro infantile. Flora si girò e si ritrovò di fronte gli occhi di Natiel, il volto di Natiel, le mani di Natiel, i piedi nudi di Natiel, la maglietta e i pantaloncini corti di Natiel.
Il ragazzo che lei non aveva sposato.
Ma quello non era Natiel, era Maipe. Flora deglutì. Forse non era stata una buona idea dargli quella forma.
– Non giocare con me – ribatté in tono severo. – Come se non ti avessi visto gironzolare attorno a mia figlia.
L'idea di Tamesi era di ammansirlo e convincerlo a rinunciare alla sua segnata; ma con la vita di Mayaselena in pericolo, Flora non riusciva a farsi melliflua. In quella stanza, lei era la tigre, ed era quella consapevolezza a sostenerla.
– Ah, ma giocavamo sempre insieme, noi due. Te ne sei dimenticata? – mormorò Maipe, con una falsa dolcezza melliflua nella voce di ragazzo. – Non vale a molto la memoria umana, se cambia gli eventi a suo piacimento. Per uno di noi, invece, nessun segno si può cancellare.
Flora si alzò e strinse i pugni. Non gli avrebbe permesso di prendere sua figlia. Anche a costo di offrire in cambio sé stessa.

giovedì 20 giugno 2019

Gioco d'incastri

La prima volta in cui mi sono accorta che iniziavo a scrivere bene - non in quanto a stile, ma per la capacità di costruire una trama coerente invece di una semplice sequenza di scene una dietro l'altra - è stato quando ho notato come i vari eventi si incastrassero alla perfezione. Dalle azioni dei personaggi in una prima situazione ne scaturiva un'altra, che li costringeva a reagire ottenendo come conseguenza una terza situazione e così via. Tutte le scene erano necessarie. Tutte erano indispensabili, tanto che togliendone anche solo una, l'intera sequenza non reggeva più: come una catena a cui venisse a mancare uno degli anelli, la trama risultava spezzata e incomprensibile.

E in effetti è così, in ogni buona storia. Ogni avvenimento ha un senso, e una volta conosciuto il carattere dei personaggi, hai la sensazione che non poteva andare in altra maniera rispetto a quella che l'autore ti ha presentato. E, nelle storie migliori, magari non sembra esserci un senso immediato ma in retrospettiva, nel corso di una seconda lettura, saltano all'occhio tutti quegli indizi, tutte quelle sottili anticipazioni che prima non eri riuscito a cogliere. Quelle che, in inglese, vengono chiamate con una parola che amo moltissimo, foreshadowing, che contiene in sé la parola "ombra" e la parola "davanti". E allora, è come dire che gli eventi che hanno ancora da venire, i misteri e i segreti ancora sconosciuti, gettano un'ombra sul passato, proprio lì, davanti agli occhi del lettore. Un'ombra che alcuni sapranno interpretare correttamente, giungendo a intuire il seguito della storia, o addirittura il suo finale; e che molti altri invece nemmeno scorgeranno. Un'ombra che potrebbe lasciarti confuso e perplesso fino a quel momento "aha!" in cui tutto assume un senso. Quanto adoro le storie così!

Storie come puzzle, storie come indovinelli, storie come equazioni da risolvere. Storie in cui bisogna prestare attenzione, perché probabilmente nulla è scritto per caso, e la più insignificante battuta di dialogo può in realtà contenere un'importantissima chiave di lettura. Queste sono le storie che mi piace leggere. Queste sono le storie che mi piace scrivere. Storie che mi sorprendono per quanto alla fine, dopo le necessarie revisioni per limare ogni pezzetto e togliere quelli che non servono, tutto s'incastra in maniera perfetta. Quello strano comportamento dell'amica della protagonista? Comprensibile, sapendo quello che credeva fosse successo. Quella frase bizzarra del misterioso sconosciuto? Il suo significato diventa ovvio una volta capito chi è davvero. L'ostilità improvvisa da parte di un estraneo che i personaggi principali a malapena conoscono di nome? Ha senso, alla luce delle sue motivazioni. Ma questi sono dettagli che, la metà delle volte, scopro anch'io man mano che li scrivo. Ed è meraviglioso osservare come questo gioco d'incastri si completa quasi da solo davanti ai miei occhi.

lunedì 17 giugno 2019

La veggente o il messaggero

Questa settimana proseguo con un tipo di personaggio che ha un ruolo ben definito e in molti casi marginale, ma di fondamentale importanza per il proseguimento della storia.
Sto parlando della veggente e del messaggero.

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Con veggente o messaggero intendo un personaggio che, tramite mezzi soprannaturali o comuni, porta al protagonista una o più informazioni utili per il proseguimento della storia. Ho deciso di riunire questi due personaggi in una sola sezione, dato che il loro compito è essenzialmente lo stesso. L'unico caso in cui c'entra uno dei due, ma non l'altro, è quando c'è di mezzo la rivelazione di un prescelto. E così, in Matrix, Neo si reca dall'Oracolo che aveva predetto l'arrivo dell'Eletto quando ha bisogno di una guida.

La veggente, o il messaggero, possono recare buone notizie, come avviene con Hagrid che porta a Harry Potter la sua prima lettera da Hogwarts (dopo che le precedenti sono state... deviate dagli zii). Possono rivelare informazioni utili per i personaggi, come l'informatore Gola Profonda del telefilm X-Files. Possono consegnare una richiesta di aiuto, che è ciò che avviene con il droide C1-P8 in Star Wars. O ancora, portare un messaggio non molto gradito, e subito mi torna in mente il messaggero persiano che nel film 300, in una scena divenuta iconica, si reca a Sparta da Leonida, con la richiesta di sottomissione... e dire che il messaggero non viene accolto molto bene, è dire poco.

La veggente o il messaggero talvolta consegnano un messaggio dal futuro (questo soprattutto nel caso della profezia, che anticipa ciò che deve ancora accadere), oppure dal passato. Nel film Ritorno al futuro - Parte II si trovano entrambi, con Biff Tannen che porta al sé stesso più giovane l'almanacco sportivo dal futuro, e il corriere che dà a Marty la lettera di Doc bloccato nel passato.

In rari casi, la storia non sarebbe nemmeno iniziata se non fosse stato per il messaggio o la profezia rivelata da questo personaggio. Come accade per le vicende di Edipo, generate dalla stessa predizione ripetuta dall'Oracolo di Delfi ai suoi genitori e allo stesso Edipo da adulto: entrambe le volte, agendo per evitarla, le persone coinvolte contribuiscono a farla realizzare. O come si scopre per la profezia di Sibilla Cooman nella saga di Harry Potter, una veggente che condivide con la mitologica Cassandra la maledizione di non essere creduta... anche, se, nel caso di Sibilla, il problema sta nella sua personalità eccentrica e nel fatto che spesso sembra che tiri a indovinare con scarsi risultati. Un'altra veggente con scarsa credibilità è quella Oda Mae Brown interpretata da Whoopi Golberg in Ghost. Almeno, finché un vero fantasma non bussa alla sua porta con un messaggio da consegnare.

Non sempre il messaggio è comprensibile. Nel telefilm Lost, alcuni personaggi chiave riferiscono o trasmettono un'informazione importante agli altri sopravvissuti pochi istanti prima della loro morte, e quindi è normale che il risultato sia un disastroso equivoco, oppure una rivelazione incompleta, da ricostruire. In altri casi il messaggio non è comprensibile perché formulato in un modo molto vago, o aperto alle interpretazioni, come la soluzione che la veggente Mama Odie offre ai protagonisti in La principessa e il ranocchio. E infine, in alcuni casi il messaggio non viene recapitato per cause di forza maggiore: basti pensare a Frate Giovanni che in Romeo e Giulietta avrebbe dovuto informare Romeo del piano di Frate Lorenzo, ma non gli riesce... con il risultato che tutti conosciamo.


La veggente, o il messaggero, è un personaggio tanto versatile quanto il contenuto di ciò che è chiamato a riferire. L'importante però è non esagerare, e non affidarsi completamente alle loro rivelazioni per mandare avanti una storia. Ah, a proposito: veggente e messaggero mi informano che è ora di tagliare corto e di passare al doppio esercizio.

Se sei uno scrittore, cerca esempi di una veggente o un messaggero (o perché no, un veggente o una messaggera) nelle tue storie. Descrivi la consegna del loro messaggio, e la reazione di chi lo riceve.

Se sei un lettore (o uno spettatore), ripensa alle storie che hai seguito di recente o a quelle che ti piacciono di più o che ricordi meglio: in quali casi hanno un personaggio che ricopre il ruolo di veggente o messaggero? Scrivimi pure nei commenti quelli che ti vengono in mente.

sabato 15 giugno 2019

Lesina

Questa parola è forse più nota sotto forma di verbo, "lesinare". La sua prima definizione dà un'idea sull'origine delle altre due, nonché sul significato del verbo: risparmia chi usa la lesina da sé.

Lesina [lè-si-na] s.f. 1. Strumento del calzolaio costituito da una piccola asta di ferro atta a forare il cuoio per farvi passare le cuciture. 2. fig. Parsimonia eccessiva, spilorceria. 3. estens. Persona molto avara, taccagno.

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Mi ci è voluto un po' per capire come collegare il lavoro di un calzolaio con un avaro. Non volevo adagiarmi sull'ovvio di un cliente che tira sul prezzo, o di un taccagno che si aggiusta le scarpe da solo. Ne sono uscita scovando un nuovo personaggio, qualcuno che avesse i suoi motivi per tacciare un altro di spilorceria, diversi da quelli riguardanti il proprio lavoro. La parte più divertente, e più impegnativa, è stata trovargli un nome che gli calzasse a pennello.


Gaius pungeva il cuoio con la stessa foga di un assassino che pugnala qualcuno. Più e più volte. Sbuffando, con gli occhi stretti e una smorfia sui denti digrignati.
Poco lontano, una donna corpulenta seduta su uno sgabello stringeva il filo che legava due pezzi di cuoio. All'ennesimo sbuffo, la donna alzò gli occhi e scosse la testa. – Non ci pensare. Ti farai solo cattivo sangue.
Gaius piantò la lesina nel cuoio e si voltò. – Sta' zitta, donna! Smettila di sputare sentenze, che non sei d'aiuto, no, per niente.
La donna inarcò le sopracciglia ma non fece una piega quando Gaius sbatté i pugni sul banco di lavoro e s'incurvò fin quasi a toccarli con la fronte. Era andato tutto a rotoli da quando quel miserabile di suo cugino Dom, che doveva ritenersi grato di avere almeno un mestiere per mandare avanti la baracca, per quanto sgradevole fosse fare il conciatore, aveva osato piazzare non uno, bensì due figli alla corte del re.
Era iniziato con Anna, quella bambina selvatica che nessun marito sarebbe mai riuscito a trasformare in una donna. Gaius era andato a battere cassa quando le voci in paese l'avevano informato che Dom l'aveva venduta come sguattera alle cucine di palazzo. Era tornato a casa a mani vuote, borbottando che quella lesina di suo cugino mentiva, che diceva che non gli avevano dato un soldo per prendersela. Sua moglie Norma gli aveva detto che poteva anche essere vero, che nessuno avrebbe pagato una moneta bucata per quel castigo, e che Dom ne aveva solo approfittato per togliersi di mezzo una bocca da sfamare. Ma poi era venuto fuori che Anna non faticava in cucina, che era non si sa come diventata la preferita tra le dame di compagnia della principessa; e che Dom era riuscito pure a piazzare un altro figlio come scudiero.
A quel punto Gaius non ci aveva visto più. Dom doveva avere un qualche segreto che non voleva rivelare, e la lesina del cugino che si rifiutava di aiutare la famiglia con la fortuna che gli era toccata lo rodeva dentro come un tarlo.

giovedì 13 giugno 2019

Personaggio: Zia Alice

Per il secondo Guardiano della soglia ho cercato un personaggio che fosse agli antipodi rispetto al primo. Un amico, invece di un nemico. Una donna, invece di un uomo. Una persona normale, invece di una creatura bizzarra che parla in modo strano. Beh, due su tre non è male, no?
Quindi, sono lieta di presentarti:

Immagine creata con Holiday Avatar Creator di Rinmaru Games


Zia Alice (da non confondere con Alice Della Corte, che appartiene a un'altra storia... in questo caso il nome si legge all'inglese, essendo lei britannica) è una delle dieci bellissime donne rapite dagli angeli caduti e portate a vivere assieme a loro sulla collina chiamata Tana del Diavolo. Come tutte le altre, Alice ha appreso dal suo Caduto i segreti di un'arte che potremmo definire "magia". A differenza delle altre, Alice ha deciso di incarnare fino in fondo lo stereotipo della strega, motivo per cui si veste spesso di nero, si circonda di gatti e tende a dare l'impressione di essere saggia e misteriosa.
Zia Alice si rivela un aiuto fondamentale, all'inizio della storia, per una decisione che il protagonista dovrà prendere: ovvero un viaggio da una realtà per lui ordinaria, a una straordinaria che noi definiremmo invece normale. Per questo motivo può essere considerata un Guardiano della soglia, uno di quelli che spronano a scoprire ciò che si desidera davvero e che mettono alla prova per insegnare che si possiedono già le capacità necessarie a raggiungere la meta. E il mezzo con cui ottiene questo scopo sono le parole.


Questi i brani già scritti in cui compare o viene nominata zia Alice:
Sincerità brutale
Il modo strano di parlare di zia Alice


L'esercizio richiede di scrivere un brano che riguarda il primo incontro con il guardiano della soglia oppure l'esito della prova. Stavolta ho scelto il secondo caso, tanto per cambiare. Questo racconto si colloca nel mezzo tra i due già scritti.


"Sei libero come i gatti." Era il modo di zia Alice di dirmi che potevo scegliere di restare, contrariamente a quello che tutti volevano che facessi, oppure anche lei stava cercando di mandarmi via?
Io non volevo andarmene. Il mio desiderio di partire e vedere quel mondo di cui avevo sempre soltanto letto era morto anni fa, quando mia madre mi aveva negato quella vacanza. Il prezzo per andare altrove era restare lo stesso per tutta la durata del viaggio, e io non ci ero riuscito nemmeno per una sola giornata. Mi ero rassegnato, anzi, col tempo, avevo gioito di non esserne stato in grado.
Mescolarmi alla gente fuori da Tana del Diavolo non faceva per me. Lo credevo ancora di più, da quando mia madre mi aveva rivelato quella sconvolgente verità. L'identità di mio padre.
Io non c'entravo niente con tutti loro.
– Il mio micino è confuso, mh? Molto confuso – mormorò Alice, accarezzando e cullando il gatto nero tra le sue braccia. La bestiola allungò la zampa verso un ciuffo biondo che ricadeva dalle spalle della donna, ma io sapevo che Alice non stava parlando al gatto. Non parlava mai al gatto, quando non era da sola con il gatto.
– Non sono confuso – sbottai, alzandomi dal letto su cui era posata la valigia, aperta in mezzo al suo contenuto sparso in giro. Mi guardai nello specchio a figura intera della mia camera: avevo ancora i capelli e gli occhi scuri dalla mia recente furia, e i tratti del volto induriti dal risentimento. Tutte le donne di Tana del Diavolo sapevano come si manifestavano le mie emozioni. Zia Alice non poteva credere davvero che fosse la confusione a dettare i miei gesti.
Alice sorrise in modo enigmatico. – Ah, ma non sempre i gatti mostrano quello che pensano, non è vero, piccolo mio? A volte, tengono immobile la coda prima di un balzo, o sfoderano le unghie anche quando non intendono fare del male.
Zia Alice mi sbirciò, prima di riprendere con le moine al felino. Scossi la testa. Avevo deciso che non le avrei lasciato piantare i semi del dubbio dentro di me, né le avrei permesso di farmi sentire in colpa. Non ero io quello che aveva tenuto nascosto una verità che apparteneva ad altri.
– Non ho tempo per gli indovinelli, zia. Ho da fare – replicai in tono brusco, avvicinandomi a lei a grandi passi per cacciarla dalla stanza. Ma Alice non si mosse, non mi assecondò. Si limitò ad alzare lo sguardo, e a fissarmi con un'occhiata gelida e invadente, in silenzio. Avrei dovuto capire che non sarebbe stato così semplice.
– Dimmi, Ethan: da quanto il mio bel gatto è dello stesso colore? – mormorò zia Alice, nell'interpellare me direttamente, per la prima volta da quand'era entrata nella mia camera.
– Ti ho detto... che... – Sentii il mio respiro farsi pesante. – ...non ho... tempo... – Non volevo spingerla come avevo fatto con mia madre, perciò slanciai il braccio destro di lato. Alle mie spalle, un tonfo mi fece capire che la valigia era caduta dal letto, rovesciando a terra il resto del suo contenuto. – ...per gli indovinelli!
Alice non si scompose, anzi. Sottrasse una mano alle carezze al gatto e mi sfiorò i capelli. – Da quanto tempo il mio micino è nero di rabbia?
Stavo per liberare un'altra scarica di furia, quando le parole di Alice colpirono nel segno. Avevo ceduto al furore nel pomeriggio, di questo ero certo. Subito dopo il litigio con mia madre, me n'ero andato per evitare di fare del male a qualcun altro, e avevo girato per i boschi di Tana del Diavolo, distruggendo di tanto in tanto un masso o un tronco che mi capitava a tiro. Ero stato via tutta la notte, e nonostante non avessi avuto uno specchio a mia disposizione, sapevo che quello che provavo non era mai cambiato. Mi ero crogiolato nella rabbia. Me n'ero rivestito, letteralmente.
Ero tornato la sera successiva. Ancora arrabbiato. Ancora lo stesso me cupo e spaventoso che vedevo allo specchio. Ero rimasto identico a com'ero per più di una giornata.
La sorpresa di quella scoperta mi schiarì un poco i capelli, ma fui lesto a riafferrare quell'astio sfuggente, e a riportare i miei tratti a quelli di un istante prima. Alice aveva ragione. Potevo controllarlo, e mostrare al mondo sempre lo stesso volto. Ma non serviva a molto se quel volto era il volto della rabbia.
– E tu vorresti che andassi in giro così, perennemente infuriato?
Zia Alice abbassò lo sguardo a un miagolio del gatto e gli fece i grattini dietro la testa. – E perché no, gattino mio? Saresti un perfetto adolescente, se fossi umano.
Sbuffai. Io, però, ero anche carico di potere, e pericoloso, quand'ero in quello stato. Non glielo dissi: Alice ne era consapevole.
– Ma un gatto che impara a graffiare sempre, può anche imparare a non graffiare mai.
Quando zia Alice lo disse, mi girai vesto lo specchio, e repressi la mia collera, la placai, raffreddai il mio animo finché non rimase altro che un volto inespressivo, macchie di lentiggini sulla pelle chiara circondata da una massa rossiccia e spettinata.
Era così che dovevo essere? Non provare nulla, né gioia né tristezza, né rabbia né amore, se volevo camminare per il mondo senza essere considerato un mostro ingannatore come mio padre?
Sentii Zia Alice mormorare alle mie spalle. – Oh, bravo il mio micino. Ha capito, finalmente.
Distolsi gli occhi dallo specchio. Dovevo almeno provarci, se non altro, per evitare il ripetersi di ciò che avevo combinato il giorno prima.
– Dì a mia madre che farò come vuole – replicai, mentre rigiravo la valigia rovesciata e ripiegavo gli indumenti sparsi a terra. – Proverò ad allontanarmi, a vivere tra le persone normali. Ma se non mi piace, o se qualcosa va storto... tornerò a casa. Qui, al posto a cui appartengo. E né lei, né una di voi, potrà più impormi di lasciare la Tana del Diavolo.

lunedì 10 giugno 2019

Personaggio: Thiss

Come al solito mi concentro prima sulle anomalie rispetto alla rappresentazione tradizionale di ogni tipo di personaggio, così anche il mio primo Guardiano della soglia non fa eccezione.

Immagine creata con Mega Anime Avatar Creator di Rinmaru Games


Thiss è un guardiano della soglia di tipo antagonistico, un emissario del male o un malvagio egli stesso eppure, a differenza di altri personaggi con queste caratteristiche, Thiss non si pone come un ostacolo sul cammino della protagonista, non la  combatte né cerca di imporle di rinunciare alla sua ricerca. Al contrario, Thiss ne è proprio la causa, colui che le rivela l'esistenza dell'oggetto che può sconfiggerlo e la motiva a rintracciarlo al più presto. Ha i suoi fini, ovviamente, che tuttavia non posso spiegare per non rovinare il finale.
L'aspetto di Thiss è di quelli che fanno pensare subito a un cattivo, talmente tanto da risultare quasi una somma di cliché: tratti da serpente nella lingua e nella pronuncia sibilante, occhi rossi con pupille a forma di fiamma, un mantello con cappuccio che all'occorrenza può renderlo invisibile. Per lui mi sono potuta sbizzarrire senza problemi dato che Thiss è un personaggio del viaggio onirico della protagonista, quindi non ho bisogno di dare spiegazioni sul perché appare come appare, a parte quella che "è malvagio". E da tale si comporta.


Questo il brano già scritto in cui compare Thiss:
Thiss si diverte a tormentare un innocente


L'esercizio richiede di scrivere un brano che riguarda il primo incontro con il guardiano della soglia oppure l'esito della prova. Ho preferito il primo caso, perché il secondo rischia di rivelare troppo. Questo racconto si colloca subito prima rispetto al brano già scritto.


Le sembrava di aver corso da sempre. La foresta era scura, densa di rami e di nebbia, e pesante del suo respiro in affanno. La foresta non aveva inizio, né fine.
Rischiarata appena dalla tenue luce blu della Bacchetta del Giglio tra le sue mani, Whiteray correva, senza riuscire a ricordare se fuggiva da qualcosa, oppure era lei a inseguire. Le foglie le schiaffeggiavano il volto, le liane le frustavano le braccia e le caviglie, eppure, nonostante questo, nessun albero le si parava mai davanti, costringendola a deviare la sua corsa. Era come se la foresta si aprisse al suo passaggio, guidandola in quella direzione.
E, all'improvviso, la foresta si aprì davvero. Gli alberi rigogliosi non erano più al suo fianco, si erano fatti da parte, persi nella nebbia di un'ampia radura. Dall'alto, la luce della luna splendeva argentea sulla bruma, e su un ragazzo che le stava dinnanzi a testa china. I piedi nudi non toccavano terra, tanto che in un primo momento Whiteray pensò che stesse volando; poi si accorse che le caviglie e i polsi delle braccia allargate erano legati a una struttura di pietra dietro di lui, che sembrava formata dall'unione delle lettere V e T al riparo della lastra di roccia di un dolmen.
Whiteray non si chiese chi fosse, né perché il ragazzo fosse stato legato così barbaramente, con addosso solo un paio di jeans strappati. Infilò la Bacchetta del Giglio alla cintura e si precipitò a liberare il ragazzo.
Lui alzò la testa, rivelando uno sguardo spento e stanco, non appena Whiteray mise mano ai nodi che gli stringevano le caviglie. Il ragazzo si umettò le labbra, poi mormorò, a malapena udibile: – Scappa.
Alle spalle di Whiteray, un sibilo fece eco a quell'unica parola. La ragazza si alzò in piedi e si girò di scatto, in tempo per vedere materializzarsi dalla nebbia un individuo alquanto bizzarro. Era pallido quanto la nebbia, tranne per i capelli folti e scuri come un cielo senza stelle, e gli occhi rossi in cui le pupille si agitavano come due fiammelle, e dal suo ghigno compiaciuto di tanto in tanto guizzava una lingua biforcuta da serpente. Il suo mantello, lungo fino ai piedi e con un cappuccio che in quel momento era abbassato sulle spalle, si stava lentamente scurendo, e Whiteray comprese che era grazie a quello che il nuovo arrivato aveva potuto nascondersi nella nebbia e sorprenderla.
Lo strano individuo batté le mani e pronunciò con voce sibilante, cacciando fuori di tanto in tanto la lingua biforcuta: – Ssssplendito! Meravigliosssso! Ne ho presssa un'altra!
Quindi avanzò di un passo, intrappolandola tra sé, le pietre del dolmen, e il ragazzo legato alle sue spalle. Whiteray agì d'istinto: afferrò la Bacchetta del Giglio e gliela puntò contro, rischiarando di blu le fiamme nei suoi occhi rossi. L'estraneo dalla lingua di serpente alzò una mano a proteggersi, e Whiteray ebbe una fugace visione di un nome: Thiss.
Un nuovo sibilo accompagnò il ritorno del ghigno compiaciuto sul volto di Thiss, che rilassò il braccio e la fissò con quegli occhi inquietanti, scuotendo la testa: – White, White... cosssa sssperavi di fare? Quesssto non è lo Ssscettro Verde. Quesssto è sssolo un giocattolo!
Whiteray non si chiese come Thiss potesse conoscere il suo nome, o se l'avesse chiamata così per via dei suoi capelli. Si chiese solo una cosa: – Scettro... verde?
Il ghigno di Thiss si contorse in una smorfia. Sollevò di nuovo la mano, ma non per proteggersi dalla luce della Bacchetta del Giglio che ancora gli tingeva il volto di una sfumatura blu, bensì per colpire con il dorso le mani di Whiteray. La Bacchetta del Giglio le cadde di mano e la sua luce si spense.
Whiteray si buttò a terra, a cercarla carponi, frugando tra l'erba e la nebbia. – Non posso perderla. Non posso perderla. Non posso perderla – mormorò tra sé, con la disperazione che le incrinava la voce.
– Asssolutamente patetico – commentò Thiss. – Quesssta ragazza non sssa nulla del vero potere, non è cossì?
Whiteray non interruppe la sua ricerca, finché un urlo di dolore non le strappò gli occhi da terra, per rivolgerli al ragazzo imprigionato. Una scia di sangue gli colava dal braccio, e macchiava anche una delle dita dalle unghie affilate di Thiss. Whiteray non se n'era accorta in precedenza, ma la pelle del ragazzo legato sotto al dolmen era costellata di numerose cicatrici.
Si chiese da quanto tempo fosse lì, a subire una lenta, continua tortura da parte di Thiss.
Si chiese se lei poteva fare qualcosa per evitargli altro dolore.
– Lo Scettro Verde... lo Scettro Verde è il vero potere? – chiese Whiteray.
Thiss sogghignò, e fece guizzare la lingua serpentina all'angolo della bocca. – Per te, equivale al potere di fare uno sssscambio.
Thiss rivolse gli occhi da Whiteray al prigioniero, che alzò la testa e supplicò debolmente: – No, non devi...
Non riuscì a proseguire quando Thiss gli pizzicò un fianco, graffiandogli la pelle. La sua voce si spense in un mugolio spezzato.
– Ma sssicuro che non lo troverai lì a terra dove ssssei, piccola, piccola White – proseguì Thiss. Con un sibilo, rivolse gli occhi di lato, e come se le fiammelle delle sue pupille avessero potuto bruciarla, la nebbia si diradò in un corridoio sottile, che terminava di fronte a un altro dolmen. Tra le sue pietre non c'era alcun prigioniero, solo oscurità.

sabato 8 giugno 2019

Ieratico

La parola di questo sabato viene dal greco, e se ti dico che il significato del termine da cui deriva è "forte", "vigoroso", difficilmente riuscirai a indovinare il senso che ha assunto oggi nella nostra lingua.

Ieratico [ie-rà-ti-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) 1. Del sacerdote, specialmente delle antiche caste e religioni. 2. fig. Assorto, austero, solenne.

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Chi mi conosce ormai lo sa, non mi piacciono le soluzioni troppo semplici. E così ho scartato tutte le varie figure di sacerdoti e sacerdotesse che si muovono nelle mie storie, poi ho scartato gli elfi che anche quando non sono figure religiose un che di ieratico ce l'hanno per natura... e sono rimasta con il verso di una canzone: "I've the face of a sinner but the hands of a priest" ("Moon Over Bourbon Street", di Sting). E se sai di cosa parla la canzone, non ti sarà difficile indovinare che cos'è almeno uno dei personaggi che popolano questo brano.


La prima volta che lo vidi, il giorno in cui mi salvò, pensai di lui che fosse un prete. Non indossava un abito talare, non portava un collarino ecclesiastico, eppure tutto in lui, il suo portamento distinto, la sua voce pacata, la forza che emanavano i suoi gesti lenti, le parole ricercate che deponeva con cura nelle mie orecchie, sembrava indicare la sua appartenenza a un qualche tipo di clero. Era ieratico il suo incedere, ed era nobile il suo profilo, e fu casto quel primo bacio con cui mi sfiorò la fronte nel riaccompagnarmi a casa.
Avrei voluto chiedere se lo avrei rivisto, ma ero troppo scossa per parlare. Non mi girai nemmeno: preferivo immaginarlo lì, a seguirmi con il suo sguardo intenso dal cancello, piuttosto che voltarmi e scoprire che era svanito come polvere nel vento.
Una parte di me non voleva illudersi. L'altra, invece, aveva una certezza: lui sapeva dove trovarmi.
Vennero altri incontri, e altri baci, meno casti. Venne la rivelazione, sotto forma di un dagherrotipo, che mi chiarì la verità circa la sua natura. No, decisamente non era un prete.
Poi venne il giorno in cui mi presentò a sua figlia. Vanessa, pallida e regale quanto lui, mi attendeva al centro della stanza oscurata da tende pesanti e rischiarata dai lumi.
Non era affatto più vecchia di me, mi aveva assicurato lui; eppure il suo cipiglio austero e la postura ieratica mi fecero dubitare che la ragazzina in abiti di merletto nero avesse davvero l'età che dimostrava. Mi feci avanti per salutarla, ma Dimitri mi strinse forte una spalla. Padre e figlia si scambiarono uno sguardo feroce, senza parole. In un battito di ciglia, lui scattò e inchiodò la ragazzina al muro, sollevandola da terra con una mano sulla sua gola.
– Non farle del male! – strillai angosciata. Non m'importava che lei avesse in mano un pugnale, né che il suo sguardo feroce fosse rivolto a me.
Senza lasciarla, Dimitri si voltò. – Mia amata – disse, mellifluo come al solito. – L'unica che corre quel rischio, in questa casa, sei tu.

giovedì 6 giugno 2019

Idea vs esecuzione

Periodicamente, in ogni gruppo che conosco legato alla scrittura, riaffiora una domanda. Di solito è una persona giovane a porla, o comunque qualcuno che si approccia per la prima volta alla scrittura di un testo lungo come può essere un romanzo. La domanda, più o meno, è questa:

Ho un'idea per una storia. Penso sia una bella idea, tanto che ho già sviluppato per bene la trama, l'ambiente, i personaggi. Ma non sono uno scrittore professionista, non credo di avere le capacità per scriverla e penso che se ci provassi rischierei di rovinarla. Mi potete indicare qualcuno che mi possa aiutare a scrivere la storia che ho in mente?


Ora, tanto ci sarebbe da dire sull'insicurezza e sui dubbi che attanagliano prima, durante e dopo la scrittura di un romanzo, e io ne so qualcosa, ma non è questo il punto principale sottinteso in domande o riflessioni di questo genere. Perché se il problema fosse davvero quello di non essere un "professionista", di non conoscere gli "strumenti del mestiere", come può essere certo chi pone la domanda che quella trama, quei personaggi, quell'ambientazione già ideati siano così buoni come crede?

Il problema vero, a mio avviso, è che l'idea è facile. L'idea è immediata. L'idea, finché resta un'idea, è sempre perfetta e meravigliosa. E non serve quasi nessuno sforzo per trovarla. Persino qualcuno che non è esordiente può cadere in questa trappola. Una volta, in un laboratorio di scrittura a cui ho partecipato, ho sentito qualcuno che già aveva scritto più racconti, tutti pregevoli, parlare dell'idea che aveva avuto e che non aveva trasformato in un testo, come era invece richiesto per quell'incontro. Ce ne ha parlato, e ha descritto la scena nei minimi dettagli, e spiegato come si collegava alla trama, e ha concluso dicendo che, avendola già immaginata così completa nella sua mente, non aveva più alcun desiderio di scriverla.

Perché, mi sono chiesta, non aveva voluto scrivere quel racconto, nonostante ne avesse un'idea già così ben sviluppata? All'epoca per me era un mistero, ma oggi la risposta che posso darmi è questa: perché l'esecuzione è molto meno facile dell'idea. L'esecuzione, ovvero la scrittura di un romanzo, necessita di tempo per essere completata. E nelle sue prime fasi è tutto fuorché perfetta. L'esecuzione, all'inizio, può essere goffa e incompleta. Come in un blocco di marmo a cui man mano si tolgono schegge e frammenti per far emergere una figura invisibile, nascosta nella mente dell'artista e in un pezzo di materia informe, non è semplice vedere il romanzo che avevi immaginato in quella prima stesura. È facile pensare che non sei in grado, che non sei all'altezza, se ti fermi a metà. Che non sei un "professionista", qualunque cosa quella parola possa indicare nel campo della scrittura.

L'esecuzione necessita di pazienza. Devi essere disposto a fare uno sforzo, e sopportare la ripetizione: dopo la prima stesura, ti può capitare di dover rileggere un passaggio più volte, e di modificarlo più volte. Con la tranquillità che dona il sapere di non dover riuscire al primo tentativo. Al contrario dello scultore alle prese con la sua idea di statua intrappolata nel marmo, uno scrittore che commette un errore può sempre rimediare, aggiungere invece di togliere, per avvicinarsi sempre di più a quel romanzo ideale che non sarà comunque raggiungibile. Perché la perfezione non esiste. Esiste il miglioramento. Ma migliorare è possibile solo se quell'idea la scrivi tu, solo se ci provi, invece di rinunciare all'inizio del percorso e scegliere la strada in apparenza più semplice, la scorciatoia, quella che non ti insegnerà niente: dare l'idea a qualcun altro affinché la scriva al tuo posto.

Non capisco perché se per un musicista è normale l'idea di dover apprendere le note e la posizione delle mani sullo strumento, il pensiero di ripetere all'infinito le scale e le melodie più semplici e la sopportazione di mesi o anni di stridori e stonature in privato, sempre meno frequenti, prima di essere pronto a esibirsi di fronte a un pubblico... ci sia la presunzione, da parte di chi scrive o vorrebbe farlo, che tutto ciò non abbia un parallelo nell'arte che ha scelto. L'idea che scrittori si nasce, che ci voglia talento e non apprendimento, che l'ispirazione sia una realtà oggettiva calata dal cielo su un prescelto, per come la penso io, sono tutte scuse per evitare di impegnarsi sul serio. Non cominciare nemmeno è facile. Farsi venire un'idea e fermarsi a quella è facile. Passare dall'idea all'esecuzione, e arrivare fino in fondo, e continuare finché non sei diventato la persona che è in grado di suonare con sicurezza, di scrivere quella storia in una maniera che ritieni soddisfacente... questo per me, è talento. Questo è essere un professionista. E a quel punto, le mille prove in cui hai sbagliato una nota o le parti del romanzo che hai buttato e riscritto  non sono fallimenti, ma gradini nella tua scala di apprendimento.

Se sei al tuo primo romanzo e stai ancora imparando, il mio consiglio è di non arrenderti. Non lasciarti scoraggiare dalle prime fasi dell'esecuzione, anche se il tuo non ti sembra bello come i romanzi che leggi, e soprattutto se non assomiglia per niente alla storia della tua bellissima idea. Vai avanti. Un giorno, tra correzioni e limature, arriverai a un romanzo che forse sarà diverso da quella prima scintilla, ma che potrebbe davvero piacerti. E, ancora meglio, che potrebbe piacere davvero anche agli altri.

lunedì 3 giugno 2019

Il guardiano della soglia

Alcuni personaggi compaiono solo per un breve, ma importantissimo, passaggio della storia; oppure ricoprono più di un ruolo nel corso della vicenda.
Il guardiano della soglia è uno di costoro.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons ZeroPhoto by Malcolm Garret from Pexels


Il guardiano della soglia è un tipo di personaggio tanto antico da poter essere rintracciato nei miti e nelle favole. Sono guardiani della soglia le creature affrontate da Eracle nelle sue Dodici Fatiche, così come Euristeo, colui che lo spinge a compiere quelle imprese; o Cerbero nella Divina Commedia di Dante.

La sua funzione è quella di mettere alla prova il protagonista, testare la sua risoluzione, il suo coraggio, o qualunque altra caratteristica sia richiesta per affrontare la missione. Il guardiano della soglia può usare vari metodi: una serie di domande come quelle poste da O'Brien al protagonista di 1984, o una scelta tra lo straordinario e la realtà quotidiana, la pillola rossa e quella blu che Morpheus offre a Neo in Matrix. Una tentazione come quella a cui cedono i bambini invitati da Willy Wonka in La fabbrica di cioccolato, un indovinello tipico della Sfinge in tanti miti e racconti, oppure una sequenza sfide enigmatiche, si vedano ad esempio le prove che il Cavaliere del Graal usa per testare la tempra morale e la saggezza di coloro che cercano la suddetta coppa nel film Indiana Jones e l'ultima crociata. In alcuni casi, il guardiano della soglia deve essere direttamente affrontato e sconfitto per poter proseguire, come i Cavalieri d'oro in I Cavalieri dello Zodiaco.

Sebbene sembri un ostacolo sul cammino dei personaggi, il guardiano della soglia non è necessariamente un nemico. Ci sono guardiani della soglia che desiderano il successo di coloro che stanno testando, e svolgono il loro ruolo esclusivamente per assicurarsi che il protagonista sia pronto ad affrontare ciò che lo attende, come l'Alchimista nel romanzo omonimo di Paulo Coelho; altri, invece, tentano di fermarlo o di allontanarlo dal suo compito. In questo caso, spesso il guardiano della soglia è un emissario di colui che l'eroe dovrà sconfiggere al termine della storia, come accade con lo spadaccino Inigo Montoya, al soldo dell'antagonista di La storia fantastica. Talvolta questa prima battaglia è uno specchio, più un piccolo, di quella finale. E, come in questo caso, può capitare che il guardiano della soglia vinto dall'eroe passi dalla parte di quest'ultimo.

Di solito il protagonista riesce a superare la prova o battere il guardiano della soglia, ottenendo la libertà di proseguire e talvolta anche un premio, quale può essere la lampada magica custodita dalla Caverna delle Meraviglie in Aladdin. Però esistono esempi in cui l'eroe subisce una sconfitta parziale, segno che dimostra come non sia (ancora) all'altezza. È ciò che accade a Luke Skywalker in L'Impero colpisce ancora, quando affronta Darth Vader in una visione e viene da questo battuto, ma nel farlo apprende comunque qualcosa. E altri in cui il fallimento è inevitabile, come accade a Pandora, messa alla prova da Zeus con l'omonimo vaso e il divieto di aprirlo: una tentazione per la quale Pandora era stata creata apposta per cedere.


Il guardiano della soglia può assumere molti volti, e sebbene ho scelto di concentrarmi sui personaggi che ne assumono il ruolo, non sempre è uno di loro: può essere anche un oggetto, una situazione o un'emozione. Ma ci vorrebbe troppo tempo per elencarli tutti, ed è meglio che mi fermi qui. A questo punto resta solo il doppio esercizio.

Se sei uno scrittore, cerca esempi di guardiano della soglia nelle tue storie. Trovane uno, e scrivi a tua scelta il primo incontro tra il protagonista e il guardiano della soglia, oppure il momento culminante e l'esito della prova.

Se sei un lettore (o uno spettatore), ripensa alle storie che hai seguito di recente o a quelle che ti piacciono di più o che ricordi meglio: in quali casi hanno un personaggio che ricopre il ruolo di guardiano della soglia? Scrivimi pure nei commenti quelli che ti vengono in mente.

sabato 1 giugno 2019

Homunculus

Poche parole riescono a coniugare la scienza con il misticismo soprannaturale. Quando avviene, spesso si tratta di un prestito da una disciplina sorpassata a un'altra attuale. E la parola di oggi non fa eccezione.

Homunculus s.m. inv. 1. st. Essere simile a un piccolo uomo ma dotato di poteri sovrannaturali che, secondo gli antichi alchimisti, si sarebbe potuto creare per mezzo dell'alchimia. 2. med. Rappresentazione grafica schematizzata della distribuzione delle aree motorie e sensitive nella corteccia cerebrale.

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Ti dirò la verità: non ho proprio idea se riuscirò o meno nell'impresa di inserire nella stessa storia l'uno e l'altro dei due significati del termine di oggi. Uno è molto semplice per me, dato che rappresenta il pane quotidiano di alcuni dei miei personaggi. L'altro... staremo a vedere.


Eravamo giunti a Timing in tempo per iscriverci alla sfida, ma dato che Jashira era stata l'ultima a farlo ci sarebbero voluti dei giorni prima che arrivasse il suo turno. Nel frattempo, rifocillati e riposati, giravamo per il mercato di Timing, ma non in cerca di souvenir.
– No, no, non questa chincaglieria di dieci anni fa – sbottò Jashira, gentile come al solito. – Quest'anno. Voglio vedere la roba che avete tirato su quest'anno.
"Provare per ultima ha i suoi vantaggi", mi aveva detto Jashy, orgogliosa come se arrivare tardi fosse parte del suo piano. "A nessuno viene in mente di cercare indizi tra i reperti rinvenuti assieme all'oggetto della sfida. Noi abbiamo tutto il tempo."
E così eravamo finiti a girare tra gli scarti, non potendo dare un'occhiata ai pezzi da museo non ancora catalogati. Ma cocci e punte di frecce non erano granché come indizio.
Finché, nel banchetto piû sgangherato alla periferia dell'oasi, non trovammo quelle due cose.
Una era una testa di terracotta quasi intatta, con una figura umana allungata e deformata tra i simboli dipinti sul cranio. Jashy mi spiegò che era un homunculus, una credenza degli antichi secondo cui avevamo tutti un omino nella testa, e non lo degnò di una seconda occhiata. L'altro era una bambolina di legno a cui mancava un braccio e una gamba. A parte i glifi magici, assenti nel giocattolo rotto, sembrava la copia di uno degli artefatti della sfida.
Mentre Jashira esaminava concentrata il pupazzetto, tentando ogni incantesimo a sua disposizione, io mi trastullavo con la testa dipinta. – Ehi, Jashy... il mio omino mi dice che mi sto annoiando – bofonchiai, mostrandole quel lato della testa.
Jashy la respinse con una mano. – Lasciami in pace...
S'interruppe prima di riuscire a inventare un insulto. L'omino di legno si era alzato a sedere.
– Holy, sono un genio! Lo sapevo che portarti con me non era uno spreco di provviste, che mi saresti servito a qualcosa. L'oggetto della sfida... è un homunculus!