lunedì 30 ottobre 2023

Storia di Uccellino


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Jarib Key da Pexels


Una cosa del genere, in tanti anni di attività della Fattoria Valle Felice, non era mai accaduta.
Certo, una nascita è sempre un evento, ma quella nascita fu l'evento più incredibile che si fosse mai visto.
Quando il puledrino venne al mondo, tutti gli animali della fattoria esclamarono "orca l'oca!" - tutti tranne il papero, che evidentemente sapeva qualcosa che gli altri non sapevano.
Strano a dirsi, il puledrino era tutto candido come le piume di un cigno, e di un cigno aveva anche le ali.
La sua mamma, con assai poca fantasia e ancor meno riguardo per la crisi d'identità e la confusione che avrebbe potuto causare nel giovane puledro, lo chiamò Uccellino.
E se pensate che il nome gli calzasse a pennello, provateci voi a dire a tutti "Io sono Uccellino" o "Io sono Gattino", specialmente se avete un paio d'ali o i baffi, le orecchie e la coda di un felino.
Ma a quel punto per lui era ancora presto per pensarci. Uccellino, appena nato, non aveva idea che i cavalli non avrebbero dovuto avere le ali.
Per lui ci pensarono le altre giumente nella stalla, che nitrirono in coro tutta una serie di consigli e avvertimenti alla neo mamma. Tra questi, l'idea di coprirgli la schiena con una mantellina quando uscivano dalla stalla, e non certo per proteggerlo dal freddo.
– Se lo vede il fattore, mia cara – dicevano, – di sicuro lo scambierà per un pollo e lo metterà nel pollaio con i galli e le galline.
Capite da voi quanto l'idea fosse campata in aria. Un cavallo, anche se con le ali, rimane sempre un cavallo, e un cavallo non assomiglia per niente a un pollo.
Ma tanto lo ripeterono che la fecero convinta, e così la mamma di Uccellino alla loro prima uscita lo vestì di tutto punto con la più bella mantellina che le riuscì di trovare.
Uccellino, che non ne aveva compreso il motivo recondito, trottò dietro alla sua mamma tutto contento di quella premura, pronto a esplorare il mondo come ogni giovane puledro; ma come ogni giovane puledro, le quattro zampe lunghe e sottili ancora non gli obbedivano a dovere, e così al primo capitombolo, la mantellina gli finì a terra e si sporcò tutta.
La sua mamma, giunta a vedere cosa fosse accaduto e se Uccellino si fosse fatto male, nel notare la mantellina infangata osservò: – Ecco che fine fanno certi consigli dati in malafede.
E di coprirgli le ali non si curarono più né Uccellino né la sua mamma.
In giro per la fattoria, ogni animale aveva una sua opinione su quella strana faccenda e tutti ne parlavano senza farsi pregare.
– Non far tanto il superiore, piccoletto – grugnivano i maiali. – E non ti credere tanto speciale. Una volta anche noi avevamo le ali e sapevamo volare. Eh, bei tempi quelli. Si stava meglio, allora. Ma torneremo a farlo, volare, intendo, non stare meglio, quando ne avremo voglia. Il fattore e la sua famiglia se lo aspettano da un momento all'altro, non fanno che ripeterlo: quando i maiali voleranno qua, quando i maiali voleranno là... per questo stiamo aspettando, bisogna scegliere il momento giusto, sai, quando meno se lo aspettano...
– Beeeeeato beeeeestiolino – belavano le pecore. – Poveretto, non è colpa tua, ma dei tuoi parenti. I cavalli vogliono fare sempre di più, togliendo spazio e ragion d'essere a noialtri. Non gli basta galoppare, tirare calessi e aratri, no, si sono pure messi a brucare i prati, a raspar terra con gli zoccoli e ora hanno perfino trovato il modo di volare. Parola mia, il prossimo nascerà con un vello morbido e lanoso, e in men che non si dica, noi qui saremo di troppo e andrà a finire che non serviremo più.
Le mucche invece scrutavano Uccellino con aria critica e al suo passaggio muggivano: – Che cavallo brutto! Eh sì, è proprio un brutto cavallo, non vi sembra che abbia qualcosa fuori posto? Qualcosa di troppo, magari, o qualcosa di meno, o qualcosa di diverso. Può pure provarci quanto vuole, ma non sarà mai come tutti gli altri cavalli, non sarà mai normale, figuriamoci bello! Che disgrazia è toccata alla sua mamma, meno male che i nostri vitellini non si sono mai sognati di essere nient'altro che perfette mucche o tori.
I conigli dicevano che aveva un bel coraggio, ma quel che intendevano era l'opposto dell'ammirazione. Dicevano anche che per com'era conciato Uccellino faceva ridere i polli, ma nemmeno questo era un complimento. Insomma, tutti non facevano che criticarlo. Perfino gli asini, i parenti poveri e meno nobili della famiglia equina, evitavano di farsi vedere in sua compagnia.
Quanto a papere, oche, galline, tacchini, colombe e pavoni, che avrebbero dovuto provare una maggior simpatia rispetto agli altri animali nei confronti di Uccellino, a seconda di come si arruffavano loro le piume di mattina, di volta in volta litigavano con grandi schiamazzi su chi avrebbe potuto guadagnarsi l'immenso onore, oppure sobbarcarsi l'ingrato compito, di insegnare al puledrino a volare.
E dato che un giorno lo volevano fare tutti, e il giorno dopo battibeccavano per non essere scelti, andò a finire che nessuno insegnò a Uccellino a volare e dunque al puledrino toccò imparare da sé.
Per fortuna era un cavallo. Come aveva imparato presto a camminare, pur con qualche inciampo e capitombolo iniziale per le zampe che non gli obbedivano, così imparò a volare, muovendo le ali e sbatacchiandole un po' a caso finché non gli capitò di sollevarsi da terra, e con la pratica e con il tempo divenne sempre più bravo a non cadere.
Papere, oche, galline, tacchini, colombe e pavoni erano ancora lì a contendersi il poco desiderato incarico da maestro quando Uccellino già sorvolava da tempo la fattoria e i campi nei dintorni.
Uccellino crebbe e divenne in un bel cavallo bianco degno di un principe, non fosse stato per le sue ali. Comunque, da principe era trattato, e non aveva mai dovuto tirare l'aratro o condurre un calesse o portare in giro i figli del fattore seduti su una sella, e per questo gli altri cavalli lo invidiavano non poco. Non sapevano che se il fattore davanti a Uccellino lo lodava per la sua bellezza e unicità, alle sue spalle brontolava su come fosse impossibile agganciar finimenti o sellare quell'animale inutile con quelle ali di mezzo. E non serviva a niente che Uccellino a differenza degli altri cavalli potesse volare, perché in cielo non c'erano campi da arare né strade da percorrere.
Uccellino era dunque libero di fare quel che gli pareva, e volare gli piaceva, ma lo faceva sentire anche molto solo e parecchio incompreso.
Probabilmente, alla fine, Uccellino avrebbe scelto di rinunciare al volo pur di stare assieme agli altri cavalli. Ma capitò un giorno, mentre stava riflettendo su questa scelta e volando forse per quella che si diceva sarebbe stata l'ultima volta, che una principessa di passaggio nei pressi della Fattoria Valle Felice alzò gli occhi e lo vide.
E, nel vederlo, si disse che quel cavallo così speciale doveva essere suo.
Così la principessa andò dal fattore e acquistò Uccellino a peso d'oro, e Uccellino fu tanto onesto da non volare nemmeno un po' sopra la bilancia. Il cavallo alato salutò tutti gli animali della fattoria, salutò i suoi più o meno simili, salutò la sua mamma, e lì nella fattoria non si vide più né lui né un altro prodigio come lui, sebbene il fattore avesse tentato più volte in seguito di ricreare il miracolo.
La principessa portò Uccellino al suo castello, dove fu ammirato e coccolato... vorrei dire fino alla fine dei suoi giorni, ma sarò onesta, la principessa non ci mise molto a invaghirsi di un'altra bestia unica al mondo e a donarle tutta la sua attenzione, dimenticandosi del nostro Uccellino.
Che restò comunque con un castello in cui vivere, e con tutto il cielo in cui levarsi in volo.

sabato 28 ottobre 2023

Imponderabile

Imponderabile [im-pon-de-rà-bi-le] agg., s. 1. agg. Di peso minimo, tanto da non essere rilevabile. 2. agg. fig. Che apparentemente è senza importanza e perciò sfugge all'attenzione, mentre può rivelarsi determinante; difficilmente valutabile. 3. s.m. (solo sing.) Ciò che è imprevedibile.

Etimologia: dal tema del verbo latino ponderare, "pesare", con il suffisso -bilem e la particella prefissa in consenso negativo.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Petr Ganaj da Pexels


Ero stato in molti luoghi, vivendo talvolta vite parallele in località distinte, perciò ero abituato a giostrarmi tra le valute di diverse nazioni. Paradossalmente il mondo a cui sentivo di appartenere più di tutti, quello celato alla vista umana, non aveva una moneta per trattare i suoi scambi. E di scambi, in quel mondo, se ne facevano parecchi.
Favori, magia, desideri, anime... tutto ciò che di imponderabile esisteva al mondo, tra il piccolo popolo così come tra gli Inferi aveva un peso e un valore. Ma ciò che esisteva di più prezioso per entrambi era qualcosa che gli esseri umani offrivano spontaneamente, senza curarsene troppo, senza far caso a chi poteva appropriarsene e al modo in cui sarebbe stato usato: il proprio nome.
Pur appartenendo per metà a quel mondo nascosto, io non ne avevo uno.
Non ce l'avevo perché mia madre era morta prima di darmelo, e perché Belial, l'Infero che mi aveva cresciuto, mi aveva sempre chiamato "bambino" e poi "ragazzo" in ogni lingua in cui ci capitava di parlare, per cui nessun suono si era mai attaccato a me. Non erano il mio nome nemmeno quelli che usavo nella società degli uomini per fingere vite effimere, qualche mese alla volta, per poi abbandonarli e dimenticarmene quando cambiavo luogo ed esistenza.
Senza un nome da custodire, avevo sempre creduto di essere il più povero degli Inferi. C'era voluta una yuki-onna per farmi capire quanto in realtà la mia mancanza fosse un vantaggio.
Un vantaggio che Belial intendeva sfruttare: solo per questo ero ancora vivo. Solo per questo mi aveva sopportato e nascosto per tutti questi anni.
Neve era l'imponderabile di cui Belial non aveva tenuto conto nei suoi piani.

giovedì 26 ottobre 2023

Audioracconto - Sciamannato


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Foto di cottonbro studio da Pexels


Ci sono amicizie che non si dimenticano, e storie che fanno crescere.

Sciamannato
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Sciamannato: Disordinato, trasandato; persona disordinata nell'abbigliamento e nel modo di comportarsi.


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/09/sciamannato.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Skylines di Alex-Productions (https://onsound.eu/track/skylines/)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=KN209Zxhd88).

Relaxing Smooth Lo-Fi |Skylines by Alex-Productions |
https://youtu.be/FYwm3Ky88a4
Music promoted by http://onsound.eu/

Immagini di: cottonbro studio (https://www.pexels.com/photo/boy-in-brown-jacket-and-black-helmet-sitting-on-brown-wooden-bench-4874229/) e (https://www.pexels.com/photo/man-in-gray-jacket-and-blue-cap-standing-in-front-of-brown-wooden-door-4874338/), Nicat Guseynov (https://www.pexels.com/photo/blonde-in-sportswear-18779064/) e (https://www.pexels.com/photo/blonde-looking-at-ferris-wheel-in-seaside-18779065/), Alesia Kozik (https://www.pexels.com/photo/woman-in-white-knit-winter-hat-and-gloves-blowing-a-kiss-6532661/), Moe Magners (https://www.pexels.com/photo/elderly-woman-wearing-jacket-5333762/), George Dolgikh (https://www.pexels.com/photo/selective-focus-photography-of-woman-taking-photo-of-herself-1310521/), Allan Mas (https://www.pexels.com/photo/active-girl-climbing-tree-on-street-5623711/), Felicity Tai (https://www.pexels.com/photo/selective-focus-photo-of-a-person-spraying-blue-paint-on-a-wall-7951262/), Pixabay (https://www.pexels.com/photo/adult-alone-autumn-brick-262075/), Jakson Martins (https://www.pexels.com/photo/portrait-of-a-man-wearing-a-blue-hoodie-6187450/), juan mendez (https://www.pexels.com/photo/smiling-woman-looking-upright-standing-against-yellow-wall-1536619/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 23 ottobre 2023

La mascotte dei Bastioni Rossi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Wallace Chuck da Pexels


Quando tornammo dal fabbro, l'anno seguente, la mia posizione nella compagnia dei Bastioni Rossi era totalmente cambiata. Non ero più uno scudiero, anche se stavo tuttora imparando l'arte della guerra.
E finalmente i miei compagni d'armi mi vedevano come mi aveva visto il fabbro, quella mattina, seduti su una panca fuori dalla sua casa di mattoni viola: come un guerriero. Un loro pari.
Era iniziato tutto il giorno in cui avevo salvato la vita del Guercio, o il suo unico occhio sano, a seconda di chi ascoltava la storia e di chi la raccontava.
– ...proprio così, è saltata fuori dal nulla e si è presa una stilettata in piena faccia, e poi un colpo di maglio da quell'altro, era un minotauro, giusto Novedita? – chiese il Guercio, nel raccontare la vicenda al volto di sinistra del fabbro. Gli altri due visi della creatura dalla pelle blu zaffiro erano troppo impegnati a seguire il lavoro delle sue otto braccia che battevano il ferro, lo tempravano, azionavano il mantice, tergevano le tre fronti e a turno avvicinavano a una delle tre bocche un calice di vino.
Non vedevo il volto di destra del fabbro, ma conoscendolo, immaginai che stesse facendo una smorfia beffarda.
Dopo qualche istante, Novedita annuì con un mugolio e il Guercio riprese a raccontare: – Un colpo che avrebbe fratturato le costole a chiunque, stavamo già per darla per morta, e invece la nostra Senzaferro qui si alza come niente fosse, non dico senza un graffio perché aveva tutta una metà della faccia coperta di sangue, sangue che le colava giù dal mento, e lo stiletto che ancora le spuntava dall'occhio. Così se lo è strappato via con un urlo e si è avventata contro il minotauro. E quello invece di combattere questa ragazzina che non dico che era la metà di lui, ma quasi, si è buttato in ginocchio neanche fosse stato di fronte alla regina dei barbari, avresti dovuto vedere la scena...
– Gli avevo già piantato Ossasangue nella coscia prima che mi colpisse – precisai, standomene vicina alla porta aperta, perché l'odore del ferro rovente che veniva dalla fucina del fabbro mi faceva star male. Quella era la massima vicinanza che riuscivo a concedermi a una tale quantità di quel metallo da darmi la nausea. Sfiorai l'elsa del pugnale, fatto delle mie ossa e della mia carne, che ormai non nascondevo più ai miei compagni di ventura. – È facile quando la loro forza diventa la mia. Ma la lama dello stiletto era d'acciaio, e ci ho messo tre giorni e mezzo a guarire del tutto.
Il Guercio, molto più vicino al fabbro di me, roteò l'occhio sano e ridacchiò. – Sentitela, lo dice come se fosse un'eternità! Perché certo, chiunque altro ci avrebbe messo di meno!
Mancina, uno degli arcieri della compagnia, rise con lui.
Scrollai le spalle, e attesi che i colpi che il fabbro batteva sulla lama incandescente di una futura spada si diradassero, prima di dire: – Per me è tanto tempo. Fosse stato di bronzo, la ferita si sarebbe rimarginata in un attimo.
– Facile combattere come un berserker quando non ci sono conseguenze – brontolò Salnitro, che fin dalla rivelazione della mia natura alla compagnia non aveva mai nascosto la sua ripugnanza. Ma era l'unico a pensarla così, o almeno lo speravo, perché a parte un paio degli scudieri più giovani che non riuscivano proprio a guardare Ossasangue senza provare un brivido, tutti gli altri non avevano mai mostrato altro che entusiasmo o curiosità nei miei confronti.
– Sta' zitto, Sal! – ribatté il Lestofante, di ritorno dall'ispezione delle armi in vendita con un nuovo bastone animato per sostituire quello che aveva perduto in uno dei nostri ultimi incarichi. Levò la voce sopra il martellare costante di due delle otto braccia del fabbro che lavoravano contemporaneamente nel forgiare due armi diverse nel proseguire: – Le fa male quanto a noi, e anche di più se è ferro. Solo non altrettanto a lungo. E io dico che non c'è niente di male ad avere un vantaggio e sfruttarlo.
Sapevo di poter contare su di lui. Il Lestofante era il nostro esperto in combattimento sleale, tanto che aveva una vera collezione di armi nascoste in oggetti comuni, non disdegnava l'uso dei veleni, e si rammaricava enormemente di essere nato umano. Avrebbe preferito di gran lunga avere la forza di un minotauro, o la corazza di un demone, ma non la loro bruttezza; e da quando sapeva la verità su di me, l'ibrido con sangue di fata era entrato a far parte dei suoi desideri per la prossima vita, o per questa, "se mai incontrerò un genio", come diceva lui.
E poi c'era il Bianco, che mi aveva sempre fatto un po' da maestro e un po' da nonno nella compagnia, e che da quando quella storia era venuta fuori aveva preso a guardarmi con rispetto. Come se fossi stata io il veterano dei Bastioni Rossi, e non lui.
– ...e comunque lo sapevamo che era un pochettino imparentata con le fate – stava dicendo il Guercio, a conclusione del suo racconto. – Insomma, quella storia che non poteva toccare ferro... era ovvio, no? Solo, chi se lo immaginava che una fata è anche una furia quando combatte?
La Mancina e il Guercio risero di nuovo, e a loro si unì anche il Lestofante. Gli altri, a parte Salnitro che aveva messo il broncio, sogghignavano. Solo il fabbro non rideva, e mi fissava serio col volto di mezzo, prima di tornare a concentrarsi sul metallo che si stava sciogliendo in un crogiolo. Quando lo tolse dal forno con un paio di pinze e lo colò in uno stampo con uno sfrigolio acuto, all'ennesima zaffata ferrosa che si levò in vapori roventi nell'aria soffocante della fucina, non resistetti più, mi scusai e uscii a sedermi sulla solita panca.
Più tardi, all'ora di cena, fu il fabbro che mi raggiunse per portarmi qualcosa da mangiare. Avrebbe potuto mandare uno scudiero, ma era venuto di persona, poiché voleva parlarmi.
– Sai, avevi ragione – esordii io, prima ancora che potesse aprire una delle sue tre bocche. – Avevo così tanta paura che scoprissero chi sono, e poi lo hanno scoperto, e... ciò che temevo, è stata invece la cosa migliore che potesse capitarmi.
Il fabbro mi lasciò il vassoio con il cibo, rigorosamente di legno e di ottone posate comprese, e si sedette al mio fianco. Proprio come quella mattina, di un tempo che sembrava una vita fa. Solo che stavolta era il tramonto, non l'alba.
Come allora, fu il volto di mezzo, dalla voce pacata e seria, a parlare per primo. – Le mie congratulazioni, figlia delle nebbie. Hai ottenuto ciò che desideravi.
Non aveva ancora terminato la frase, però, che la voce beffarda del volto di destra si intromise: – Congratulazioni, sì, congratulazioni davvero. Ma attenta a quel che desideri...
– Che cosa vorresti insinuare? – lo apostrofai nello spezzare il pane che accompagnava lo stufato di capra.
– Io non insinuo niente – proseguì il volto di destra, falsamente mellifluo. – Ma quante volte il Guercio o altri hanno raccontato quella storia?
Sbuffai. – Così tante che ho perso il conto.
Li divertiva, all'inizio, ripeterla nelle taverne in cui passavamo il tempo tra un incarico e l'altro. Poi Novedita aveva scoperto che far circolare quella storia, con tanto di dimostrazioni quando necessario, ci assicurava di ottenere più lavoro di prima, soffiando ad altre compagnie di mercenari più antiche e meglio organizzate della nostra gli incarichi più remunerativi.
Dopo un momento di silenzio fu il volto di sinistra a parlare, la voce dolce come una carezza: – L'altra volta che ci siamo visti, non sapevi chi sei, e io ti ho aiutato a scoprirlo. Mi dispiace, ma la risposta che ti posso dare oggi è diversa, e forse non ti piacerà.
Ero stufa di tutto questo girarci attorno, perciò mandati giù il boccone e chiesi: – E va bene: chi sono?
– Una mascotte! – Rispose subito il volto di destra. Il fabbro batté un paio di mani, un battito ripetuto ma leggero, come a voler solo simulare un applauso. – Sì, la mascotte dei Bastioni Rossi, il loro portafortuna, il simbolo da esibire per farsi aprire le porte.
– Non è vero, io combatto con loro. Non sono solo un trofeo, sono... – Presi un bel respiro e poi gli ripetei la definizione che il fabbro mi aveva dato quel mattino. – Sono un guerriero.
– Lo sei? – mi interrogò il volto di mezzo. Una delle mani di sinistra si sollevò alla gola e da sotto il colletto trasse un cordino da cui pendeva un monile a forma di ancora. Me lo avvicinò per mostrarmelo meglio, mentre con gentilezza il volto di sinistra precisava: – È di ottone, non temere.
– Lo so. – Non aveva bisogno di dirmelo. Avrei avvertito immediatamente la repulsione verso quell'oggetto, se fosse stato di ferro.
– Ti voglio raccontare una cosa – mormorò il volto di sinistra, ma fu quello di mezzo a proseguire, con voce chiara e sicura, mentre le sue mani, salvo quella che reggeva il pendente, tracciavano nell'aria i disegni di quella storia. – Nella terra da dove vengo è considerato di buon auspicio avere a bordo di una nave uno della mia gente. Nessuna tempesta si abbatterà sulle navi che ci ospitano, si dice, né la bonaccia rallenterà il viaggio, perché noi siamo i favoriti del signore dei venti. Solo una leggenda, che però, che lo volessi o meno, mi ha condotto in gioventù a fare molti lunghi viaggi per mare. Oh, sì, ero un marinaio come gli altri, e lavoravo come gli altri, anzi, meglio, dato il mio evidente vantaggio in quantità di arti e occhi. Ma mi chiedo: mi avrebbero voluto lo stesso su quelle navi se non fossi servito loro per un motivo diverso da quello del lavoro di un comune marinaio?
A quella domanda mi girai leggermente indietro, verso la casa di mattoni viola, nelle cui stanze sul retro probabilmente stavano ancora cenando i miei compagni. Io ero con i Bastioni Rossi da prima che scoprissero il mio segreto; se anche lo avevano sospettato, non avevano mai fatto niente per sfruttarlo, prima. Di questo ero certa, non mi avevano presa con loro perché ero l'invulnerabile figlia di una fata.
– Non è la stessa cosa – ribattei, e per aggirare una conversazione che non mi stava piacendo per nulla, aggiunsi: – Meglio che adesso io mangi, il mio stufato si fredda.
– Dico solo... – Nel parlare, il volto di sinistra dai tratti delicati e la voce quasi femminile esibì un sorriso triste. – Che potresti avere qualcosa di più che essere una mascotte, o che potresti esserlo per te stessa, per una causa in cui davvero credi.
Lì per lì non ci feci caso, ma le sue parole si depositarono in me come un seme, e solo molti anni più tardi quel seme diede frutti.
Il fabbro si alzò e il suo volto di mezzo disse: – Buonanotte, figlia delle nebbie.
Sapeva che, come la volta precedente, non sarei riuscita a dormire in casa, con l'odore di ferro che permeava perfino le stanze adibite a residenza.
Prima di andarsene, però, il volto di sinistra soggiunse, mezzo ridacchiando: – Ah, sai il villaggio di pastori qui dietro, a pochi passi da casa mia? Anche loro avevano una mascotte.
– Ah sì? – Non riuscivo a immaginarmi chi potessero aver eletto a mascotte. Forse il più giovane tra loro, il più bravo a scacciare i lupi o a farsi seguire dalle pecore?
Tutti e tre i volti annuirono, poi quello di destra concluse in tono beffardo, indicando il mio piatto di stufato: – La stai mangiando adesso.

sabato 21 ottobre 2023

Viatico

Viatico [vi-à-ti-co] s.m. (pl. -ci) 1. Nell'antica Roma, quanto (provviste, indumenti ecc.) era necessario per il viaggio. 2. fig. Sostegno morale. 3. eccl. Comunione amministrata ai moribondi.

Etimologia: dal latino viaticum, "provviste per il viaggio", che deriva da via, "strada, cammino".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Anna Kanifatova da Pexels


Il carro era pronto, caricato con ceste di pane, marmellata, miele, frutta e carne essiccata, e con un baule d'abiti di cambio per presentarsi al meglio al mercato. Come al solito toccava alle gemelle di accompagnare Alcyone, poiché una delle due poteva rendersi invisibile e dunque, alla bisogna, escogitare un diversivo per far fuggire le altre prima di sparire. Preparato il viatico per il lungo cammino, non restava che salutare le sorelle che rimanevano a casa.
– Tornerò presto! – diceva ognora Alcyone con un gran sorriso, abbracciando la minore, la sola che sembrava dare segno di preoccuparsi per la più sbadata tra le sette sorelle.
Non era la prima volta che mettevano in pratica quel giochetto. Sempre si allontanavano di molto dal villaggio in cui risiedevano, per paura di essere riconosciute e perseguitate per quello che, in fondo, era un inganno. Anche se, a chiederlo ad Alcyone, per lei era soltanto un gioco, uno scherzo divertente.
Quante risate si faceva con le sorelle una volta fuggita dalle gabbie o dalle stalle in cui l'incauto proprietario, pensando di aver acquistato una bestia regolamentare, l'aveva rinchiusa!
Quante risate si facevano le sorelle, contando le monete ottenute dalla vendita della più ingenua tra loro!
Erano molte le cose di cui Alcyone non si rendeva conto, prima tra tutte, l'invidia delle sue sorelle, risentite alla scoperta che a lei riusciva la più grande tra le magie, la trasformazione, che a loro era negata. Altresì non si era accorta che la più giovane tra le sorelle, fattasi donna, aveva attirato le attenzioni dello scapolo più ricco della contrada. Con un tale pretendente a risollevare le sorti della famiglia, non c'era più alcuna necessità di correre i rischi connessi alla truffa. Porre fine a quella storia e liberarsi dell'odiata sorella sarebbe stato facile quanto trovare un cuoco che aveva bisogno di un'oca per cena.
Alcyone non aveva idea che in quel viaggio, per lei, le sorelle avevano preparato ben altro tipo di viatico.

giovedì 19 ottobre 2023

Audioracconto - Beccata a leggere


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Foto di ready made da Pexels


Una ragazza, un viaggio in treno, e un libro altrui che nasconde un segreto molto interessante.

Beccata a leggere
(racconto breve di genere rosa)


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/05/beccata-leggere.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Never Go Away di HolFix (https://soundcloud.com/holfix)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=hIw7-tHJvHQ).

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lunedì 16 ottobre 2023

Evento Omega


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Foto di cottonbro studio da Pexels


Lo avevano chiamato Evento Omega, dal nome dell'ultima lettera di un alfabeto ormai caduto in disuso. Era l'ultima cosa che un essere umano avrebbe mai potuto contemplare prima di esserne consumato.
Il dottor Djasvr Mreuk, della Società di Ricerca e Intervento Emergenze Cataclismatiche, si aggirava già da diverse migliaia di battiti di cuore al limite della zona di sicurezza, o meglio, di quella che per lui era la zona di sicurezza. Una densa polvere giallo arancio era tutto ciò che restava dei quartieri residenziali della città di Destino, la prima a essere colpita dall'ordigno dimensionale. Davanti ai suoi occhi pulsava il mostro, un'immenso squarcio nel tessuto della realtà che pompava materia inversa da chissà quale universo. Erano quelle microscopiche particelle letali che al contatto dissolvevano tutto ciò che era stato un tempo case, giardini, strade, uomini e donne, per trasformarlo nella finissima e irrespirabile polvere carica di radiazioni gamma. Djasvr controllò sullo schermo agganciato alla sua manica l'integrità delle bombole e il livello di ossigeno al loro interno. Aveva perso il 45% dei nanobot riparatori, minuscoli aiutanti che ripristinavano in continuazione la superficie del suo equipaggiamento logorata dal contatto con nuove particelle di materia inversa che fuoriuscivano dallo squarcio. Inspirò a fondo dalla maschera collegata alle bombole, e cercò di ignorare il distante lamento delle sirene di evacuazione che andava spegnendosi lentamente man mano che la zona contaminata si espandeva.
Quel fastidio, e la pressione che sentiva nelle orecchie a ondate, era molto meno allarmante del prurito che avvertiva sotto il pesante cappotto che lo schermava dalla maggior parte della materia inversa che lo raggiungeva. Qualcosa comunque riusciva a passare, il dottor Mreuk ne era consapevole, ma sapeva anche che non poteva far altro che avere fiducia nella terapia genica che aveva conferito al suo corpo la capacità di rigenerarsi rapidamente da ogni ferita.
Certo, guarire comportava un anomalo dispendio di energia, quando si veniva feriti da migliaia di spilli a ogni battito di cuore. Djasvr frugò nella sacca che aveva a tracolla, spostò il respiratore dalla bocca e ingoiò un'altra nutri-gelatina.
Stava morendo di fame e di sete, e il preparato ipercalorico gli diede solo un limitato sollievo.
Si umettò le labbra. Da un quarto di giorno, dal momento esatto in cui era caduto l'ordigno dimensionale, aveva smesso di parlare.
Fu uno sforzo ritrovare la voce, che in un primo momento gli grattò in gola, rauca.
– Hyphotesis – mormorò il dottor Mreuk, nel fissare lo schermo sulla manica. – Attiva la barriera. Mi avvicino per cercare di rilevare altri dati sull'attività extradimensionale nel pressi dello squarcio.
– Ne è sicuro, professore? – replicò una voce femminile, lievemente metallica, con una simulata intonazione preoccupata. – Ho il dovere di ricordarle che dal momento dell'attivazione, ha esattamente quattro quarti di tempo al totale esaurimento dell'energia, e che la barriera non può essere disattivata per risparmiare le celle energetiche. Le consiglio di allontanarsi dalla zona contaminata prima di tale evento.
– Lo so Hyphotesis – replicò Djasvr. Non poteva disattivare la barriera ed esporsi a una dose letale di materia inversa per deviare l'energia ai rilevatori e alla matrice di analisi dei dati. Aveva progettato lui quel sistema di sicurezza, in modo da non mettersi in pericolo pur di avere altro tempo a disposizione per raccogliere dati una volta superata la zona di sicurezza. Perché si conosceva, c'era sempre qualcos'altro da scoprire. Ma una volta esaurita l'energia, non solo avrebbe perso la barriera, ma anche l'automatismo che regolava le valvole delle bombole, e i nanobot riparatori, e la stessa connessione con la sua unica compagna di viaggio, l'intelligenza artificiale che lui stesso aveva addestrato e migliorato. Anche superare il tempo limite equivaleva a morte certa.
– Attivala – ordinò all'intelligenza artificiale che lo accompagnava.
Il sollievo fu immediato: dalla barriera, nulla poteva entrare o uscire. Il che significava che le dannate particelle inverse avevano smesso di martoriare il suo corpo, ma anche che le bombole avrebbero iniziato a immagazzinare l'anidride carbonica che lui emetteva, e che non gli era più possibile mangiare o bere. La barriera era a pochi millimetri dal suo corpo, e si muoveva con lui. Nelle orecchie però continuava a risuonare quel tono altalenante, fastidioso, e sempre più forte, che con tutta probabilità era emesso dallo squarcio nella realtà che Djasvr aveva soprannominato "il mostro".
Era un enorme vortice di dense nubi arancio e gialle, alto quanto un grattacielo e largo quanto due campi sportivi. Era impossibile vedere la realtà oltre il turbine, ma Djasvr Mreuk sospettava che in quel momento i suoi abitanti, se ce n'erano, fossero funestati da un'identica ondata distruttiva, senza nemmeno averne colpa.
– Hyphotesis, se c'è un modo di riparare questo danno, devi aiutarmi a trovarlo – mormorò Djasvr. E poi iniziò la lenta avanzata verso i piedi del mostro.
Forse stavolta era la volta buona. Forse sarebbe riuscito ad avvicinarsi abbastanza da avere almeno un'impressione di ciò che si trovava oltre, dell'altra realtà coinvolta nell'esplosione.
Poteva essere un mondo molto simile al suo, o estremamente diverso. Nella peggiore delle ipotesi, al di là dello squarcio anche il tempo scorreva all'inverso, il che voleva dire che chiuderlo non sarebbe stato possibile, perché il suo futuro era il loro passato, e lo squarcio dall'altro lato era sempre stato aperto. Dal loro punto di vista, anzi, avvicinandosi al momento dell'esplosione dell'ordigno dimensionale lo squarcio si sarebbe chiuso, ma ciò non avrebbe risolto il problema nel suo mondo, anzi, avrebbe solo bloccato dal lato sbagliato chiunque attraversasse lo squarcio.
Djasvr deglutì. Era così vicino al mostro che non riusciva a coglierlo tutto in una singola occhiata. Ma anche così, i suoi strumenti non potevano offrirgli alcun indizio su ciò che si trovava al di là.
– Professore – trillò Hyphotesis. – Le sconsiglio di avvicinarsi ulteriormente. Non ho dati sufficienti per azzardare un'ipotesi sull'universo collegato al nostro dallo squarcio.
Il dottor Djasvr Mreuk la ignorò e tese una mano verso lo squarcio. Anche con la barriera, avvertiva la pressione delle particelle inverse che gli sciamavano attorno, e quel suono profondo e modulato che non era esattamente un suono salì di volume in modo quasi intollerabile. Non poteva farci niente: per quanto spaventoso, come scienziato era immensamente affascinato dalla mostruosità che stava distruggendo il loro universo.
Se solo potessi studiarla così da vicino, se solo potessi capire... pensava, anche se ciò che era stato inviato a fare era trovare un modo di rimediare all'Evento Omega, se proprio non era possibile impedirlo. Dal momento in cui entrambi i blocchi che controllavano il mondo avevano scoperto in maniera indipendente il principio per la fabbricazione dell'ordigno dimensionale, non era stato più possibile impedire alla minaccia definitiva di essere adombrata come deterrente durante ogni trattativa e in seguito a ogni scaramuccia di confine.
Non importava chi avrebbe colpito per primo: usare quella bomba significava la disfatta per il mondo intero. Possibile che i capi di stato dei due schieramenti fossero tanto idioti da non rendersene conto?
– Professore, dati insufficienti per elaborare un'ipotesi plausibile – protestò l'intelligenza artificiale. – Sono costretta a interrompere la simulazione.
Djasvr non fece in tempo a opporsi che si svegliò sul lettino nel suo laboratorio. Aprì gli occhi e mugolò. L'esperienza non era durata che poche decine di battiti di cuore, rapida come un sogno, ma tornare alla realtà era sempre faticoso.
L'ordigno dimensionale non è ancora stato lanciato, ricordò Djasvr Mreuk, nell'alzarsi a fatica dal lettino. Eppure sembrava impossibile evitarlo.
Aveva vissuto e registrato più di un centinaio di quelle simulazioni, e tutte si concludevano nella stessa maniera. In qualunque modo tentasse di avvertire il governo del pericolo insito in quella tecnologia, o proponesse un programma di diplomazia e disarmo, c'era sempre qualcuno che colpiva per primo.
La forma fisica di Hyphotesis, un robot dalle sembianze umane, stava lavorando a una versione migliorata della barriera. Djasvr le si sedette accanto e la osservò per qualche istante. Ricordava un tempo in cui l'intera sala ferveva di attività e di vita, con almeno una ventina di colleghi che lavoravano ciascuno a un progetto diverso. Poi i fondi investiti nella Società erano stati dimezzati, e di nuovo tagliati, e ridotti ancora. Finché non erano rimasti solo Hyphotesis e lui, inguaribile ottimista, a cercare di salvare il mondo da sé stesso.
Djasvr afferrò un ago dal ripiano sterile dell'armadietto e si punse il braccio, poi cronometrò il tempo che gli occorreva per guarire. Si era via via ridotto da quando aveva iniziato la terapia genica sperimentale su sé stesso, ma non era ancora sufficiente per sperare di resistere di fronte alla forza distruttiva del mostro.
Insoddisfatto dal tempo di reazione della propria carne, il dottor Djasvr Mreuk ordinò, alzandosi dal tavolo e tornando a sdraiarsi sul lettino: – Hyphotesis, prepara un altro ciclo di terapia R. Poi carica il prossimo scenario. Non c'è tempo da perdere.
– Subito, professore – replicò servizievole l'intelligenza artificiale. Non aveva bisogno di far alzare dalla sedia la sua forma robotica, interrompere il lavoro in corso, e neppure di voltarsi, per azionare le braccia artificiali che praticavano l'iniezione della terapia genica e stimolavano la corteccia cerebrale dell'uomo a passare alle onde theta della fase di sonno REM.
Djasvr chiuse gli occhi e si rilassò. Facile come sognare, si diceva ogni volta, ma non era vero. Era stressante affrontare la fine, affrontare il mostro, ancora, e ancora, e ancora. Rivedere l'Evento Omega, la realtà sbriciolarsi e andare in polvere. Era difficile, qualcuno però doveva farlo, doveva continuare a provarci, affinché un tale futuro non diventasse reale. Scongiurare la fine di non uno, ma di ben due mondi, e assicurare a entrambi un avvenire, era un obiettivo per cui valeva la pena di perdere il sonno, valeva la pena di correre qualunque rischio, valeva la pena anche di morire.

sabato 14 ottobre 2023

Vanesio

Vanesio [va-nè-sio] agg., s. (pl.m. -si) lett. 1. agg. Di persona sciocca che si compiace stoltamente di sé; vanitoso. 2. s.m. (f. -sia) Nel significato dell'aggettivo.

Etimologia: deriva dal nome del protagonista della commedia di G.B. Fagiuoli "Ciò che pare non è" del 1724.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di parsa aref da Pexels


13° giorno di Dorato, Casa dell'Uomo Vanitoso, La Capitale

Finalmente oggi lasceremo la casa dell'Uomo Vanitoso per riprendere il nostro viaggio. Non sono mai stata tanto contenta di andare via da un luogo come questa volta.
Non che mi trovi troppo male qui. Il problema è che stavo cominciando a sentirmi troppo bene.
Quando mi hanno fatto provare tutti quei vestiti strani, all'inizio non mi piacevano e non mi sentivo me stessa, anche se tutti mi dicevano che così ero più bella. Anche l'Uomo Vanitoso mi ha riempito di complimenti, e mi ha detto che avremmo dovuto posare insieme per un quadro, ma tutti gli specchi della sua casa mi rimandavano un'immagine che non riconoscevo.
Poi le altre donne hanno cominciato a legarmi i capelli in modi strani con tanti fiocchi, a dipingermi il viso e perfino le ali, e ogni volta mi mettevano davanti a uno specchio e mi dicevano così tante volte che ero carina che ho finito per crederci anch'io. E allora ho iniziato a imitarle, a seguirle nella stanza dei vestiti e degli specchi spontaneamente, e a commentare con loro che cosa fosse bello e cosa no, sia tra di noi che negli altri visitatori della casa.
Me ne vergogno tanto, ma ci è voluto Taliesin per svegliarmi da questo sonno e dalle sue illusioni. Taliesin che quando mi ha visto conciata a quel modo, ha intonato la ballata di un uomo che aveva la figlia vanesia, e che per lei si era sacrificato scoprendo che alla fine lei non aveva imparato nulla. Conoscevo quella ballata, non era la prima volta che Taliesin la cantava, ma era la prima volta che aveva senso per me.
Non aveva bisogno di dirmi altro. Non era così che volevo essere il giorno in cui avrei incontrato quella persona speciale che con un suo pensiero aveva dato vita a una fata, a me.
Di vanesio, in questa casa, ne basta uno.
Però che strano che per essere belli bisogna diventare diversi da sé stessi!

giovedì 12 ottobre 2023

Audioracconto - Tienimi la mano


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Masha Raymers from Pexels


Un rituale sacrilego, una vendetta, una figlia riportata in vita. Con questi ingredienti, ti lascio immaginare come andrà a finire.

Tienimi la mano
(racconto breve di genere horror)


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2021/11/tienimi-la-mano.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: We Will Be di Puddle of Infinity dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=EnooyLeMbqQ);
Ruined Temple di Josh Kirsch & Media Right Productions dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=G2zff2VkjpU):
Moog Night di The 129ers dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=WuqKr8KcV_A).

Immagini di: Masha Raymers (https://www.pexels.com/photo/group-of-people-standing-on-beach-9406085/), Dids (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-di-donna-in-camera-oscura-1707791/), Johannes Plenio (https://www.pexels.com/it-it/foto/porta-illuminata-in-vetro-2268842/), Kaique Rocha (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-seduta-su-grey-rock-formation-775204/), Davner Ribeiro (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-sfocatura-terreno-giovane-4574412/), Evgeny Tchebotarev (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-di-montagna-sotto-il-cielo-nuvoloso-4101555/), Sandro Tedeschini (https://www.pexels.com/it-it/foto/tramonto-persona-sagoma-sera-18305057/), Mike Bird (https://www.pexels.com/it-it/foto/forma-umana-nera-e-chiara-con-sfondo-blu-cielo-e-nuvole-bianche-191756/), Riccardo (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-alpinismo-303040/), Adriano Brodbeck (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-bikini-bianco-che-si-trova-sulla-formazione-rocciosa-vicino-al-corpo-d-acqua-4736967/), Diep Minh Chien Tran (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-coppia-donna-sagoma-18588910/), Gustavo Fring (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-della-famiglia-che-si-diverte-con-il-pallone-da-calcio-4148842/), * Doğukan * (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-coppia-donna-in-piedi-18597784/), PNW Production (https://www.pexels.com/it-it/foto/mano-rock-dita-tiro-verticale-8981399/), Alan Cabello (https://www.pexels.com/it-it/foto/mano-tra-le-foglie-di-arancio-1492364/), Pitt Rom (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-castello-cancello-costume-18457396/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-chiesa-costume-halloween-18625249/), Rodrigo Arrosquipa (https://www.pexels.com/it-it/foto/arte-bianco-strisce-abbaiare-18139938/), Rachel Claire (https://www.pexels.com/it-it/foto/spettrale-raccapricciante-cranio-corni-8113068/) Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/primo-piano-di-una-rosa-rossa-su-sfondo-nero-247122/), cottonbro studio (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-in-scala-di-grigi-della-donna-sorridente-3692749/), RDNE Stock project (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-solo-depresso-triste-6670318/), Engin Akyurt (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-del-primo-piano-della-donna-avvolta-con-la-corda-1435460/), Fábio Oenning (https://www.pexels.com/it-it/foto/scuro-misterioso-faccia-ritratto-4743360/), Maria Eduarda Loura Magalhães (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-monocromatica-di-donna-dietro-il-gambo-dell-albero-3679189/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 9 ottobre 2023

Sott'acqua


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Evelyn Chong da Pexels


Ho sempre vissuto la mia vita come se fossi sott'acqua. Testa bassa, muto come un pesce, zitto e lavora, cerca di non farti notare.
Difficile, quando sei alto due metri e dieci e hai la pelle nera. Nella fabbrica di scatolette di tonno e sgombro, tra immigrati messicani, cinesi e indiani, io spiccavo come una goffa balena in un banco di merluzzi. Ero altrettanto innocuo, ma questo la gente non lo sapeva. Gli bastava guardarmi, per avere paura. E la gente che ha paura agisce in modi stupidi.
Questo lo sapevo per esperienza, per essere già capitato in situazioni brutte solo perché ero quello che ero. Ne avrei da raccontare, su quanto c'è da avere paura di chi ha paura di te, e in più ha un'arma, e in più ha la legge. Ma sono storie che appartengono ormai a un altro mondo, e altri le hanno raccontate meglio di me.
Io ti voglio parlare di quel giorno. Quello in cui tutto è cambiato. Il giorno della fine del mondo.
Gli hanno dato tanti nomi, ma per me resterà sempre il giorno della fine del mondo.
Ero di turno in fabbrica a lavorare quel giorno, come il giorno prima, quello del terremoto. La fabbrica era uno dei pochi posti in cui potevo stare tranquillo, in cui più mi sentivo come sott'acqua. Con le orecchie tappate dal frastuono dei macchinari non sentivo i commenti dei miei colleghi da altre nazioni, con gli occhi fissi al mio compito non mi accorgevo delle loro occhiate e delle loro espressioni, e nuotavo, le gambe e le braccia che si muovevano in maniera automatica in gesti ripetuti già milioni di volte, così che la mia testa, lassù in alto, leggera, era libera di pensare. Quasi non udii la sirena quando suonò l'allarme, mi svegliò dai miei pensieri la scossa sotto i miei piedi che si faceva più intensa, precipitandomi di colpo dall'acqua alla terra. Rimasi lì per una frazione di secondo, smarrito come una balena spiaggiata, poi il fuggi fuggi dei miei colleghi verso l'esterno e un frastuono di tipo diverso, un cozzare metallico delle linee dell'impianto, e il rovesciarsi di scatolette giù dagli scaffali, mi convinsero a prendere la stessa via già percorsa da altri. Nessuno, vedendomi lì imbambolato, aveva avuto il coraggio di venire a dirmi di fuggire; al contrario, quando toccò a me scorgere due dei ragazzi più giovani rimasti indietro, due fratelli filippini o forse vietnamiti che si erano rifugiati sotto i banchi da lavoro, li sollevai di peso e li portai fuori con me. Ci ritrovammo tutti in strada quel giorno, quello prima della fine del mondo, il giorno del terremoto. Confusi, spauriti, in attesa.
In attesa, sì, ma non sapevamo nemmeno noi di cosa.
Alla fine era solo un terremoto, non c'erano stati danni, e meno di un'ora dopo eravamo di nuovo tutti dentro a lavorare. Vero, qualche scossa d'assestamento c'era stata in serata, ma dopotutto, era normale, no?
Il giorno dopo, in fabbrica, eravamo di meno. Qualcuno si era dato malato, e i più scaltri ironizzavano sul fatto che avessero avuto paura del terremoto.
Non lo sapevamo, ma era già iniziato.
Di quelli che c'erano, fui il primo a sentirmi male. Non lo so perché, polmoni più grandi, forse, o forse ero semplicemente più sensibile al gas che si era liberato nell'aria. Mana lo chiamano adesso, ma allora non c'era un nome, non sapevamo nemmeno quale fosse la causa. Ricordo che la mia pelle iniziò a formicolare, e poi, prima che potessi chiedermi il perché di quella strana sensazione, il fastidio si trasformò in dolore. Alcuni mi dissero che fu come bruciare; per me, invece, furono punteruoli infilati nella carne. Urlai e caddi in ginocchio, e continuai a urlare, e urlare, e tutti si fecero indietro con occhi colmi di terrore, lontano dal mio braccio teso che chiedeva aiuto. Vedevo la mia pelle scura scintillare come cosparsa di stelle, ma non potevo dirlo, non riuscivo a spiegare che cosa avessi, mentre il dolore penetrava sempre più a fondo dentro di me.
Nessuno provò ad aiutarmi. Certo, io ero grande e grosso. Io facevo paura.
E un uomo della mia stazza che urlava in quella maniera era ancora più spaventoso.
Poi alle mie urla ne risposero altre, da altri reparti, e finalmente qualcuno si degnò di chiamare un'ambulanza.
Gli ospedali funzionavano ancora, grazie a Dio, ma quando arrivammo scoprii che erano sovraffollati da gente che aveva il nostro stesso morbo. Dolore, dolore straziante, improvviso, senza causa apparente.
Qualcuno, di quel dolore, era già morto. Altri, invece, pareva ne fossero deformati, ciascuno in un modo diverso. Nel mio caso, la mia pelle si stava facendo più spessa, come ricoperta di squame coriacee, scure alla luce e lucenti al buio. Uno dei due fratelli che avevo portato fuori il giorno prima, trasportato nella mia stessa ambulanza, stava invece mettendo le piume. Non scoprì fino a qualche giorno dopo la fine del mondo che conoscevamo che suo fratello era morto.
Era uno dei tanti che non aveva superato il Giorno delle Urla.
Quando iniziarono a fare un censimento dei sopravvissuti e a identificare che cos'erano diventati, io fuggii dal campo in cui mi avevano messo.
Sapevo cos'ero, e sapevo che avrebbero avuto ancora più paura di me quando lo avessero scoperto.

La fabbrica, come tante altre delle strutture di un tempo, era stata abbandonata. Era un luogo che conoscevo bene, pieno di posti dove nascondersi, e con una scorta sufficiente di cibo a lunga conservazione, sebbene un po' monotono, ma sapevo come integrare la mia dieta. Per anni la fabbrica fu la mia base, e il quartiere lì attorno, il mio territorio di caccia. No, non mangiavo esseri umani, contrariamente a quanto raccontano le storie. E non solo perché di veri esseri umani dopo la fine del mondo non ne avevo più visti, prima che arrivassero loro.
Fuori dalla fabbrica cacciavo uccelli, scoiattoli, gatti e altri animali domestici divenuti randagi, ma non cani.
Mai i cani.
Su questo le storie hanno ragione, mi basta sentirne l'odore per averne una fottuta, immotivata paura. Perciò giro alla larga dai cani. Chissà cosa direbbero quelli che avevano timore di me un tempo nel vedermi fuggire inseguito da un chihuahua.
La fabbrica abbandonata era diventata la mia casa, e mi piaceva. L'eco nelle ampie sale dell'officina mi risuonava liquido nelle orecchie, ed era come stare sott'acqua. Quando poi una parte del tetto e una sezione del pavimento crollarono, aprendo una voragine nelle fondamenta che si riempì in pochi giorni d'acqua piovana, ottenni anche la mia piscina personale in cui immergermi e nuotare. Il mio nuovo corpo anelava l'acqua, non avevo branchie ma i miei polmoni erano fatti per trattenere a lungo il fiato, ed ero certo che se avessi dovuto cacciare in quell'elemento, avrei fatto un lavoro di gran lunga migliore di quel che facevo sulla terraferma. In più, nella penombra delle profondità marine, le briciole di stelle che luccicavano sulle mie squame da coccodrillo avrebbero confuso anche il più accorto dei pesci.
Ma, se era fantastica per cacciare sott'acqua, la mia pelle costituiva un problema nelle notti in cui camminavo sopra la terra. Ancor più di prima, mi era impossibile non essere notato.
Per questo non uscivo quando faceva buio se non ero coperto di indumenti da capo a piedi, compresi guanti, un mantello, e una maschera scura che mi coprisse tutto il viso.
Non uno scintillio di bagliore lunare poteva essere visto provenire da me quando uscivo coperto a quel modo. E io sapevo muovermi in modo silenzioso nonostante la mia mole, e avvertivo subito l'odore di chiunque tentasse di avvicinarsi a me nel mio territorio. Perciò non c'era modo di sorprendermi, o così credevo.
Ancora oggi, non so come mi abbiano trovato.
Li scoprii quando erano già in casa mia, che si aggiravano guardinghi, in formazione e armati. Due di loro, almeno, quello grosso dalla pelle di pietra, che adesso chiamano troll, e quello che aveva tutto l'aspetto di essere un uomo, un uomo vero come ce n'era una volta e non un'assurda variante umana con orecchie a punta o ali o chissà cos'altro, erano armati. Per terza veniva una donna, lunghi capelli neri stretti in una treccia, tratti del volto e abbigliamento che denunciavano l'appartenenza a una qualche tribù di nativi americani, e odore di pesce. Delizioso, succulento pesce.
I tre procedevano nella loro esplorazione della fabbrica come dei soldati, o dei poliziotti. Li sentii bisbigliare dell'aberrazione che erano venuti a prendere, e capii che si riferivano a me.
Non ero rimasto tanto isolato da non sapere che cosa stava succedendo nel mondo. Da non essere a conoscenza delle squadre speciali che davano la caccia e uccidevano le Aberrazioni, quelli come me, ritenute più pericolose. E chi decideva cos'era pericoloso e cosa no erano gli elfi, che si erano impadroniti del potere nel vuoto lasciato dal vecchio governo i cui membri erano morti, o trasformati, o... qualcuno di loro era diventato uno di quei diavoli dalla pelle candida, le orecchie a punta e l'eterna giovinezza senza dover ricorrere al chirurgo. Qualche anno fa c'era stata la fine del mondo, eppure certe cose non cambiavano mai.
Eravamo solo passati da un'élite bianca all'altra.
E quei tre erano i loro cani da guardia.
Perciò feci come facevo sempre con i cani, mi nascosi, e li costrinsi a giocare a rimpiattino da una sala all'altra, da un nascondiglio all'altro, mandandoli a inseguire gli echi di un luogo che io conoscevo troppo bene. Scricchiolii di lamiere percosse dal vento, gocciolii d'acqua piovana, ululati malinconici dell'aria nelle condutture erano i miei compagni, ma per loro, potevano essere i passi o il lamento di colui che stavano cercando.
Riuscii a eluderli, a sfuggirgli fino ad arrivare alla sezione allagata della fabbrica, lì dove potevo tuffarmi e restare al sicuro per ore, irraggiungibile. Ma mi immersi troppo tardi, e loro mi videro, e anche se lì sotto ero al sicuro, capii di essere in trappola. Potevo resistere a lungo, ma prima o poi avrei dovuto riemergere per respirare.
Sul fondo della pozza, mi liberai del mantello, dei guanti, delle scarpe e della maschera, inzuppati e pesanti. Ormai non serviva più celare il bagliore che scintillava come stelle e luna sulla mia pelle squamosa nel buio, e volevo essere il più possibile libero di muovermi nel mio elemento, se a uno di loro fosse venuta la sciagurata idea di affrontarmi dove avevo il vantaggio, invece di attendere. Con l'acqua che attutiva piacevolmente ogni suono alle mie orecchie, sentii ovattato quello che doveva essere il vocione del troll urlare: – Isaac Adams! Isaac Adams, vieni fuori, vogliamo solo parlare!
Non gli credetti. Dicevano sempre così, loro, prima di spararti.
Ci fu una discussione tra loro, non compresi le parole mentre le voci si sormontarono, poi si levò quella della donna, che da sott'acqua però mi parve un sussurro suadente.
– Stan, Brian, state qui. Vado io.
– Ursula, fa attenzione – si raccomandò il terzo, e poi avvenne qualcosa che non mi aspettavo, e che non dimenticherò mai. In alto, sopra la superficie dell'acqua, danzava un bagliore simile al mio, eppure diverso. Mi passò per la mente che la donna fosse come me, ma non era così, avevo visto il suo volto e le sue mani, solo pelle, niente squame coriacee da rettile, e quel bagliore che si muoveva lassù sembrava muoversi da solo, sembrava vivo. Poi la donna si tuffò e in un attimo fu accanto a me, ed era quasi umana, ma aveva branchie sul collo e squame azzurre su parte delle braccia e delle gambe, e allora capii perché aveva odore di pesce, e la guardai con ammirazione, senza nemmeno pensare a fuggire o a combatterla. Lei mi strinse per un braccio, così forte la sua stretta, poi nuotò verso la superficie tirandosi me dietro, io che a quel punto lottavo per fuggirle, per trascinarla a fondo, tutto inutile, lei senza sforzo mi tirò sul pavimento della fabbrica, poi mi trattenne a terra con una sola mano.
– Come hai fatto – mi lamentai, – sei così forte, che razza di creatura sei?
– Sono un'acquatica – rispose la donna. – O almeno così mi definiscono, anche se io avrei altri nomi, ma ormai sembra sia ufficiale questo. Però di solito non ho tutta questa forza, ho pregato gli spiriti per fortificare il mio corpo. Sono una sciamana. La mia gente si preparava da tempo al cosiddetto Giorno delle Urla, e ha tramandato le storie e le preghiere antiche, perciò pochi di noi sono morti quel giorno.
I suoi compagni ridacchiarono, poi quello che pareva umano si schiarì la voce e la interruppe: – È questione di genetica, Ursula, non c'entra niente conoscere le favole oppure no.
Le sue parole dovevano averla irritata perché la donna, Ursula, aumentò la pressione della mano sulla mia schiena schiacciandomi a terra, e ignorando le mie proteste replicò: – Vuoi forse negare il potere degli spiriti? Eppure lo hai visto così tante volte, ormai...
– Ho visto altre aberrazioni fare qualcosa di simile, e non erano sciamani, e nemmeno pellerossa – fu la risposta pacata dell'uomo, di fronte alla voce di Ursula che si scaldava sempre più. – Un giorno riusciremo a spiegare anche questo. Nel frattempo, che ne dici di lasciarlo?
La donna mugugnò e sollevò la mano. Alzai la testa e mi guardai attorno. I due uomini avevano messo via le pistole e sorridevano, o meglio, quello umano era un sorriso, quello del troll era più un ghigno inquietante. Non sembravano intenzionati a spararmi, né a scuoiarmi a tradimento come nelle favole.
– Sono Brian Eddings – mi disse quello che aveva battibeccato con Ursula. – E il mio amico, qui, si chiama Stan Brooks.
Ignorai il troll che mi aveva presentato e mi concentrai su di lui. Più lo guardavo e meno riuscivo a trovare qualcosa di fuori posto, eppure doveva esserci qualcosa, proprio come l'indiana che si stava rivestendo e i cui abiti, ora lo vedevo, sembravano cuciti apposta per celare le squame e le branchie.
L'uomo però sembrava nasconderlo ancora meglio, nemmeno il suo odore lo tradiva, perciò mi arresi e gli chiesi: – Tu sei... umano? Come quelli di prima?
L'uomo, Brian, si morse un angolo del labbro, roteò gli occhi, poi disse: – Invariato. Sì, praticamente sì. Uno dei pochi. Che fortuna, vero? – concluse in tono di scherno.
– Almeno non sei morto – replicò Ursula.
Brian sospirò e concluse le presentazioni, indicandola: – E lei è Ursula – cosa che avevo già compreso, per poi proseguire – Non parliamo del cognome o comincerà a farti una lezione di storia e tradizioni della tribù. Ed è un'aberrazione e un'acquatica, e tu sei...
– Nanabolele – bisbigliai. Era la prima volta che lo pronunciavo ad alta voce, il nome della terribile creatura mangiauomini delle favole di mia nonna di cui sembravo incarnare tutte le caratteristiche.
– Cosa? – fece Brian, poi scosse la testa. – Stavo per dire un'aberrazione come la nostra Ursula, diverso, ma sempre un tipo di variante umana rara, a differenza di quelli come Stan che ha un'esercito di suoi simili. Ma pensavo ti chiamassi Isaac Adams, questo era il nome nelle carte del vecchio ospedale...
– Siete poliziotti? – chiesi, mentre mi alzavo in piedi per poter avere dalla mia almeno la mia altezza intimidatoria, anche se il troll mi superava di un po' e la donna seguiva con attenzione ogni mia mossa, pronta a riagguantarmi con la sua super forza innaturale.
Il troll e l'umano si scambiarono uno sguardo, poi Brian rispose: – Io e Stan lo eravamo. Ma le cose sono cambiate negli ultimi anni, e adesso stiamo con Ursula e i suoi. L'aiutiamo a trovare le aberrazioni e a portarle al sicuro, e magari a insegnargli a fare... quello che possono fare.
– Non ti costringeremo – aggiunse Ursula, e detto da lei che mi aveva trascinato fuori dall'acqua a forza sembrava piuttosto comico. – Ma se ti va di venire... le porte della riserva sono aperte.
Dissi loro che avevo bisogno di un istante per riflettere. Il trio male assortito si fece da parte e mi diede spazio e tempo.
Avevo vissuto per anni nella fabbrica abbandonata. Da solo. Quella era la mia casa, e ne conoscevo ogni anfratto, ogni sussurrante, liquida eco. Era il mio territorio. Lì ero a mio agio, era come stare sott'acqua, proprio come avevo vissuto per tutta la vita, prima ancora di diventare quello che ero. Chiuso, isolato, silenzioso. Invisibile, le rare volte in cui mi riusciva di non essere notato. Invisibile, in fondo, a chi stava sopra l'acqua, perché d'altra parte, ero solo una delle tante balene in un vasto oceano.
Ma stavo trattenendo il fiato da troppo tempo, a vivere così. Era giunto il momento di riemergere e respirare.
– Aspettate. Vengo con voi – dissi al trio, che si stava volgendo verso le porte che conducevano all'uscita della fabbrica, perché l'alba stava sorgendo, e il suo chiarore che penetrava dal tetto sfondato già smorzava in un'anonima oscurità i bagliori sulla mia pelle.

sabato 7 ottobre 2023

Invischiare/Invischiarsi

Invischiare [in-vi-schià-re] v.tr. (invìschio ecc.) [sogg-v-arg] 1. Ricoprire qualcosa di vischio, specialmente per catturare uccelli; estens. catturare uccelli mettendo il vischio sui rami. 2. fig. Attirare, coinvolgere qualcuno in situazioni losche o pericolose.

Invischiarsi [in-vi-schià-rsi] v.rifl. [sogg-v-prep.arg] fig. Restare imbrogliato, impelagato in situazioni difficili o pericolose.

Etimologia: verbo derivato dal sostantivo "vischio", con l'aggiunta del prefisso in.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Dids da Pexels


Non avrei dovuto chiedere: – Come facciamo a superare la Foresta Impenetrabile?
Davvero, non avrei dovuto chiederlo. A mia discolpa stavo parlando tra me e me. Riflettevo. Non lo stavo chiedendo ad Alcyone.
Ma si sa, quando c'è lei nei dintorni, è meglio fare attenzione a quello che si dice, o si chiede.
– Facile: voliamo! – disse Alcyone, e prima che potessi fermarla si era legata il nastrino rosso alla caviglia e aveva iniziato a salmodiare una formula magica.
Le mie proteste furono inutili. In quattro e quattr'otto ci ritrovammo trasformati in minuscoli e indifesi passerotti.
– Un passero? – cinguettai lamentoso. – Davvero non ti è venuto in mente nulla di meglio di un passero?
– Abbiamo le ali, no? L'importante è quello – replicò Alcyone, che anche da uccelletto trillava in tono allegro e svagato.
Non aveva detto, però, che avere le ali e saperle usare erano due cose differenti. Non so quanto maledissi il giorno in cui mi ero lasciato invischiare da quella ragazza mentre svolacchiavo storto e a fatica. Se non avete mai sentito un passerotto imprecare, be', meglio per voi. Non è un bello spettacolo di canto.
Perlomeno la Foresta Impenetrabile non era affatto tale dall'alto.
I problemi iniziarono quando ci fermammo a riposare le ali su un ramo. Subito avvertii qualcosa di appiccicoso sotto le zampe, ma non ci feci caso. Solo al momento di ripartire, quando non riuscii a staccarmi dal trespolo, notai i residui delle bacche bianche e capii che quel ramo era stato invischiato... per prendere noi.
– Presto, sciogli il nastrino! – cinguettai ad Alcyone. Sotto di noi qualcuno si avvicinava grugnendo e ridacchiando al nostro albero, e quello era l'unico modo per diventare un po' meno appetibili.
Alcyone beccolò per un po' il nastrino rosso, poi replicò: – Che strano... dev'essersi incollato.
Non era possibile. Con tutte le volte che lo aveva perso interrompendo nel momento meno opportuno una trasformazione, proprio allora doveva ritrovarselo appiccicato addosso?

giovedì 5 ottobre 2023

Audioracconto - La Poesia in tasca


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Steshka Willems from Pexels


Perché la Poesia è così, puoi anche chiuderla nello spazio di una pagina, ma lei cercherà sempre orizzonti più ampi.

La Poesia in tasca
(racconto breve di genere fantastico)


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/04/la-poesia-in-tasca.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: The Cave of Poetry di Savfk (https://soundcloud.com/savfk) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=2OX0n9RiI3g).

Immagini di: Steshka Willems (https://www.pexels.com/it-it/foto/margherita-bianca-oxeye-nella-tasca-della-persona-1308714/), Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/carta-bianca-su-custodia-per-pantaloni-in-denim-grigio-164605/), (https://www.pexels.com/it-it/foto/testo-nero-su-sfondo-grigio-261763/), (https://www.pexels.com/it-it/foto/ali-ambientale-amicizia-animali-532548/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/terreno-edificabile-259280/), Matheus Bertelli (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-in-possesso-di-sparkler-illuminato-durante-la-notte-3792580/), (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-business-sorridente-incontro-15141548/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/gruppo-di-persone-multietniche-che-si-riuniscono-intorno-a-altoparlante-femminile-in-studio-3856027/), Rachel Claire (https://www.pexels.com/it-it/foto/luce-natura-persona-spiaggia-4846157/), David Bartus (https://www.pexels.com/it-it/foto/scatola-toracica-interna-leggera-366791/), Leyla Qəhrəmanova (https://www.pexels.com/it-it/foto/luce-donna-acqua-sera-18449126/), Maksim Goncharenok (https://www.pexels.com/it-it/foto/alba-tramonto-coppia-amore-4883691/), mali maeder (https://www.pexels.com/it-it/foto/due-fiori-rossi-sulle-scale-68470/), Ever Amador (https://www.pexels.com/it-it/foto/fiori-giardino-foglie-piante-7702416/), Sitthan Kutty (https://www.pexels.com/it-it/foto/fotografia-in-primo-piano-di-foglie-bagnate-913807/), Pérez-Saravia (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-studio-interni-barba-9650091/), Thirdman (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-finestra-stanza-aprire-6598905/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-donna-seduto-pavimento-8011797/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 2 ottobre 2023

Paura della paura


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Tobias Bjørkli da Pexels


Dicono che non ci sia niente di cui aver paura, se non della paura stessa. Non so chi l'abbia detto in origine, ma questo è ciò che mi ripeteva la gente, quando veniva a sapere della maledizione che affliggeva la mia famiglia. "Sono solo coincidenze, i mostri non esistono, vedrai che andrà tutto bene".
Quanto si sbagliavano.
Mio padre, mia zia, mio nonno, i suoi fratelli, i loro figli, il bisnonno e varie altre generazioni di ascendenti erano tutti morti all'età di trent'anni, in circostanze diverse, ma tutti alla stessa età, e questa non era una coincidenza. Quanto al mostro, iniziai ad avvertirne la presenza attorno alla vecchia dimora di famiglia già qualche mese prima del mio compleanno. Lugubri latrati che spezzavano improvvisi la tranquillità della notte, e la sensazione di una creatura malevola che si aggirasse inquieta nella brughiera in cerca della sua preda, e tre paia di occhi rossi il cui baluginio appariva solo per qualche istante, in lontananza, funesto annuncio di quel che avrei dovuto affrontare di lì a poco.
Ero consapevole che non sarebbe andato tutto bene per me, e ormai non avere paura non era più un'opzione. Le mie notti si popolarono di incubi, quando non erano insonni.
Ne parlai con Jane, l'unica di cui potessi fidarmi, più per sfogarmi che nella speranza di ricevere un consiglio sensato. Inaspettatamente, Jane mi credette.
– Se c'è un modo di tirarti fuori da questo guaio, io lo troverò – mi disse, ragazza caparbia. Lei fece ricerche, interrogò estranei, elaborò piani quando io riuscivo solo a barricarmi in casa. E alla fine mi convinse che una soluzione c'era, e mi trascinò dall'altra parte del mondo, io che non ero nemmeno stato nel sud del continente, nella terra di origine di quella "sposa greca" che si diceva avesse portato la maledizione nel nostro sangue irlandese. Prima di quella donna che si gettò dalla scogliera pur di sfuggire alla bestia, anche se la versione ufficiale narra che fosse infelice per un matrimonio imposto e la lontananza dalla sua patria, i miei antenati avevano goduto di lunghe e soddisfacenti vite.
Jane era sicura che sarebbe stato così anche per me, se solo l'avessi seguita in quell'avventura nella giungla alla ricerca di un mito. A casa, l'idea mi parve sensata: era una creatura mitologica quella che mi perseguitava, dunque era solo logico che per liberarmene avrei dovuto far ricorso a un'altra creatura mitologica. Una dea, nientemeno, o un'entità che si era fatta passare per tale.
Ma più mi allontanavo da casa, e più quella ricerca assomigliava a un sogno impossibile. Se una leggenda era reale, non era detto che lo fossero tutte. Inoltre, avevo segretamente sperato di distanziare la bestia, di farle perdere le mie tracce, almeno temporaneamente, e invece non smisi di avvertire i latrati nella notte, tra gli urli delle scimmie e inquietanti versi selvaggi di chissà quante altre belve, seppur meno temibili di quella che conoscevo bene, nascoste nell'ombra; non cessai di sentirmi pedinato con implacabile ferocia da quell'essere infernale.
Non so dire quanti crolli nervosi la mia amica sventò con la sua forza d'animo e la testardaggine. Fossi stato più forte, mi sarei posto io alla guida di quella spedizione, ma ero provato da tutta una vita passata in attesa di quel fatale trentesimo compleanno. Ma ero esausto, accaldato, perso in quel mondo che non mi apparteneva di verdi muri di liane, umidità gocciolante che persisteva per giorni dopo i frequenti acquazzoni, il primo dei quali ci sorprese appena sbarcati dalle canoe, e dovemmo affrettarci sotto una pioggia violenta e improvvisa a mettere al riparo le nostre imbarcazioni e l'attrezzatura che avevamo con noi. Perso in un mondo di orizzonti ristretti, io che ero abituato a sorvegliare la brughiera dalla finestra più alta della mia dimora in cerca di segni della bestia, lì invece avrebbe potuto arrivarmi quasi addosso senza che io la vedessi, quando ormai sarebbe stato troppo tardi per trovare riparo. In quel mondo sconosciuto non avevo idea di quale suono fosse fuori dall'ordinario nel complesso tappeto ordito di ringhi, schiamazzi, schiocchi, ruggiti, fischi, ronzii, ululati, perciò temevo tutto, trasalivo a ogni rumore appena un po' più forte e improvviso degli altri. E sotto i diluvi che ci costringevano a sedere per ore al riparo in una piccola tenda, che riducevano la visibilità già scarsa a zero e appiattivano alle mie orecchie tutto ciò che non era scroscio d'acqua battente e scoppi improvvisi di tuoni, maledetti tuoni che mi facevano battere il cuore a mille, secondo Jane avrei dovuto approfittarne per riposare ma chi poteva riposare sapendo che cosa c'era in agguato là fuori?
E se non dormivo io, non dormiva nemmeno Jane, così stavamo seduti per ore a fissarci.
Colpa di quella notte attorno al fuoco in cui le avevo confessato la mia debolezza. Avevo ceduto alla paura e le avevo detto che avrei preferito farla finita piuttosto che lottare inutilmente contro l'inevitabile, e così Jane si era prodigata a combattere la mia resa, a inculcarmi un po' del suo spirito combattivo, ma da allora di me non si fidava, e preferiva non lasciarmi solo a combattere i miei demoni.
La sua fortuna, la mia, non lo so se posso definirla tale data la fine che mi attendeva altrimenti, fu che non avevamo una pistola. Un proiettile sarebbe stata una conclusione allettante.
Ma avevamo solo una coppia di machete per aprirci la strada nella fitta boscaglia, e io avevo troppa paura di usarli in un altro modo, così come ce l'avevo per andare a stuzzicare un serpente velenoso.
Ne avevo visti molti, di serpenti, ma nessuno che sembrasse intenzionato a fare a tradimento quello che io non avevo il coraggio di fare.
Forse sapevano per istinto che un altro predatore era già sulle mie tracce.
Non sapevo che cosa mi attendeva alla fine della strada, ma i giorni che mi separavano dal mio compleanno erano sempre di meno, e tutto, in quella giungla, pareva volerci ostacolare affinché non giungessimo in tempo.
A cominciare dai nativi, che in ogni villaggio più o meno civile in cui eravamo stati, fino all'ultimo in cui cui Jane era riuscita a contrattare per un paio di canoe, alla prima menzione della nostra meta si erano categoricamente rifiutati di farci da guida nella giungla o accompagnarci. Per proseguire con le piogge intense e frequenti che ci costringevano a interrompere la marcia, e al fango che si lasciavano dietro che ci rallentava, ai guasti vari che affliggevano la parte più delicata della nostra attrezzatura, e alle liane e al sottobosco che ostruivano il passaggio, sempre più fitti, guarda caso, nella direzione in cui dovevamo andare.
Nessuna meraviglia che in cuor mio mi fossi già arreso. Quando arrivammo nel cuore silenzioso della giungla, era solo Jane che mi trascinava avanti, che mi impediva ostinatamente di abbandonarmi al mio destino. Le sue ricerche ci avevano condotto in un luogo nascosto dove persino gli animali si rifiutavano di andare, persino la pioggia non osava cadere. Un luogo cupo e spaventoso quasi quanto la bestia che ancora, persino lì, mi inseguiva. Qualcosa di ostile nel fitto della giungla cercava di tenerci lontani con gragnole di sassi dalle rupi che svettavano tra gli alberi, e un'aria irrespirabile e densa, e urla e sussurri che parevano provenire dalle stesse piante. Difficile immaginare che fosse un animale qualunque a emettere quei versi inquietanti, non si muoveva nulla che non fosse una foglia. Solo io, Jane, e la bestia il cui fiato mefitico ormai avvertivo alle mie spalle, pur senza riuscire a vederla.
E infine trovammo quel che cercavamo. Il tempio, e lei.
Pareva una statua, e io per un istante dubitai. Come poteva essere viva dopo tutto questo tempo?
Ma Jane non si arrese. Non poteva credere di avere fatto tutta quella strada per niente, sospettai, dopotutto l'idea era stata sua. Così parlò e parlò e parlò alla dea immobile tra le pareti del tempio in rovina, alberi per colonne e per tetto un baldacchino di lussureggianti fronde. Le raccontò di me e della mia maledizione, una lunga preghiera a una dea sorda.
Quando a dispetto delle apparenze la forma che pareva scolpita nel legno si animò di vita, non ebbe altra risposta per noi se non che voleva essere lasciata in pace, nella solitudine che lei stessa si era creata, e che non avrebbe mosso un dito in mio aiuto contro la bestia.
Anzi, fece qualcosa di più che non fare nulla: la cosiddetta dea ci tradì, bloccando sul posto i nostri piedi e lasciandoci inermi alla mercé della bestia.
Non avevo più contato i giorni, persi nella semioscurità verde della giungla più fitta, senza più un orologio funzionante e nessun punto di riferimento per distinguere il giorno dalla notte. Ma quando vidi per la prima volta, distintamente e da vicino, l'enorme cane a tre teste dagli occhi di brace e le fauci che vomitavano fiamme di cui si raccontava nelle storie di famiglia, seppi che era arrivato il giorno.
Sarei fuggito senza ritegno se avessi potuto, o caduto in ginocchio a supplicarlo di fare presto, o chissà che altro, e invece non potevo far nulla di diverso dal fissarlo.
Il Cerbero rimase sulla soglia del tempio a fissarmi a sua volta. Tre paia di occhi rossi, spaventosi, e la sua mole enorme che occupava tutto il varco verso l'esterno. Un ringhio che puzzava di zolfo scaturì da tutti e tre i musi.
Jane, sciocca Jane, la mia testarda amica che aveva creduto di potermi salvare, non trovò altro di meglio da fare che insultare la creatura, attirando così la sua attenzione.
Il Cerbero si mosse, ma non per attaccare me.
Non so dove trovai il coraggio in quel momento. So solo che non gli avrei mai permesso di farle del male. A costo di immolare me stesso tra atroci tormenti.
Tanto, la mia morte era già prevista, ma quella di Jane, no... o almeno, non per quel giorno.
– Ferma, bestia immonda! – urlai, ritrovando la voce, e che voce! Non avevo mai, in tutta la mia vita, comandato qualcuno con un tono così imperioso.
Proprio come avevo fortemente desiderato di vedergli fare, il Cerbero mi obbedì, si fermò, e chinò tutte e tre le teste. Proseguii: – Tu vuoi me. Lasciala stare e attacca me, se proprio devi.
La bestia non se lo fece ripetere due volte, raspò a terra con la zampa possente e poi caricò. Chiusi gli occhi, non volevo guardare, il cuore mi batteva a mille e pensai che mi sarebbe scoppiato nel petto, sudavo e tremavo ma tutto sarebbe finito presto, mio dio, almeno sarebbe finito.
Pensavo di non volere altro.
Forse solo sentire la voce di Jane un'ultima volta. Guardarla un'ultima volta.
Mi girai e sbirciai appena con un'occhio, e sul suo volto vidi lo stupore, subito sostituito da un cipiglio pensoso. Infine, Jane accennò a qualcosa sopra la mia testa, e bisbigliò: – Credo che stia aspettando che tu faccia un infarto.
Alzai gli occhi e vidi le tre teste orribili che mi sovrastavano, con le fauci aperte ma immobili. Urlai.
– Sta' indietro, vattene, non mi man...
Non feci in tempo a finire la frase che Jane lanciò un fischio stridente, poi sbottò: – Ehi, no, guardami, non ci pensare nemmeno!
Perché, se alle mie prime parole il Cerbero si era ritratto da me come gli ordinavo, al pensiero che avrebbe potuto anche divorarmi vicino com'era, il Cerbero si era mosso in avanti come per azzannare.
E allora capii quello che Jane aveva già compreso, e che la dea alle nostre spalle aveva tentato di dirci nel suo modo oscuro.
"I pensieri sono vivi".
Io avevo creato quel mostro. Reale o no, il Cerbero mi obbediva, facendo ciò che mi aspettavo facesse.
Credevo di essere perseguitato dalla bestia, e così la bestia mi aveva perseguitato.
Credevo che sarei morto, e così avevo cercato la mia fine.
Sapevo, finalmente, che cosa aveva ucciso davvero mio padre, mia zia e tutti gli altri. E non gli avrei permesso di uccidere me.
– Vattene. Non tornare mai più.
E mentre glielo ordinavo, prima ancora di vedere il cerbero voltarsi, trottare via e sparire oltre la soglia del tempio, già sapevo che non l'avrei più rivisto. Perché io volevo così.
Dovevo solo insegnare ai miei cugini più giovani, e poi ai miei figli e nipoti, la verità sulla maledizione di famiglia.
Dietro di me la dea rise, quindi ci liberò dall'immobilità che mi aveva costretto ad affrontare il mio fato, in un modo o nell'altro. Ci rivelò che non sapeva affatto come sarebbe andata, ma che alla fine, da morti o da vivi, l'avremmo lasciata in pace, a pensare la sua solitudine, come lei desiderava.
Ce ne andammo: era chiaro che nel suo tempio dimenticato da tutti non eravamo i benvenuti.
Non ho mai detto a nessuno dove trovare la dea della giungla: questo è un segreto che Jane e io ci porteremo nella tomba, dopo una vita lunga e soddisfacente.
E non ho mai detto a tutti quelli che cercavano di consolarmi con una citazione quando avevo tanta paura di una leggenda... che, in fondo, avevano ragione.