lunedì 23 ottobre 2023

La mascotte dei Bastioni Rossi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Wallace Chuck da Pexels


Quando tornammo dal fabbro, l'anno seguente, la mia posizione nella compagnia dei Bastioni Rossi era totalmente cambiata. Non ero più uno scudiero, anche se stavo tuttora imparando l'arte della guerra.
E finalmente i miei compagni d'armi mi vedevano come mi aveva visto il fabbro, quella mattina, seduti su una panca fuori dalla sua casa di mattoni viola: come un guerriero. Un loro pari.
Era iniziato tutto il giorno in cui avevo salvato la vita del Guercio, o il suo unico occhio sano, a seconda di chi ascoltava la storia e di chi la raccontava.
– ...proprio così, è saltata fuori dal nulla e si è presa una stilettata in piena faccia, e poi un colpo di maglio da quell'altro, era un minotauro, giusto Novedita? – chiese il Guercio, nel raccontare la vicenda al volto di sinistra del fabbro. Gli altri due visi della creatura dalla pelle blu zaffiro erano troppo impegnati a seguire il lavoro delle sue otto braccia che battevano il ferro, lo tempravano, azionavano il mantice, tergevano le tre fronti e a turno avvicinavano a una delle tre bocche un calice di vino.
Non vedevo il volto di destra del fabbro, ma conoscendolo, immaginai che stesse facendo una smorfia beffarda.
Dopo qualche istante, Novedita annuì con un mugolio e il Guercio riprese a raccontare: – Un colpo che avrebbe fratturato le costole a chiunque, stavamo già per darla per morta, e invece la nostra Senzaferro qui si alza come niente fosse, non dico senza un graffio perché aveva tutta una metà della faccia coperta di sangue, sangue che le colava giù dal mento, e lo stiletto che ancora le spuntava dall'occhio. Così se lo è strappato via con un urlo e si è avventata contro il minotauro. E quello invece di combattere questa ragazzina che non dico che era la metà di lui, ma quasi, si è buttato in ginocchio neanche fosse stato di fronte alla regina dei barbari, avresti dovuto vedere la scena...
– Gli avevo già piantato Ossasangue nella coscia prima che mi colpisse – precisai, standomene vicina alla porta aperta, perché l'odore del ferro rovente che veniva dalla fucina del fabbro mi faceva star male. Quella era la massima vicinanza che riuscivo a concedermi a una tale quantità di quel metallo da darmi la nausea. Sfiorai l'elsa del pugnale, fatto delle mie ossa e della mia carne, che ormai non nascondevo più ai miei compagni di ventura. – È facile quando la loro forza diventa la mia. Ma la lama dello stiletto era d'acciaio, e ci ho messo tre giorni e mezzo a guarire del tutto.
Il Guercio, molto più vicino al fabbro di me, roteò l'occhio sano e ridacchiò. – Sentitela, lo dice come se fosse un'eternità! Perché certo, chiunque altro ci avrebbe messo di meno!
Mancina, uno degli arcieri della compagnia, rise con lui.
Scrollai le spalle, e attesi che i colpi che il fabbro batteva sulla lama incandescente di una futura spada si diradassero, prima di dire: – Per me è tanto tempo. Fosse stato di bronzo, la ferita si sarebbe rimarginata in un attimo.
– Facile combattere come un berserker quando non ci sono conseguenze – brontolò Salnitro, che fin dalla rivelazione della mia natura alla compagnia non aveva mai nascosto la sua ripugnanza. Ma era l'unico a pensarla così, o almeno lo speravo, perché a parte un paio degli scudieri più giovani che non riuscivano proprio a guardare Ossasangue senza provare un brivido, tutti gli altri non avevano mai mostrato altro che entusiasmo o curiosità nei miei confronti.
– Sta' zitto, Sal! – ribatté il Lestofante, di ritorno dall'ispezione delle armi in vendita con un nuovo bastone animato per sostituire quello che aveva perduto in uno dei nostri ultimi incarichi. Levò la voce sopra il martellare costante di due delle otto braccia del fabbro che lavoravano contemporaneamente nel forgiare due armi diverse nel proseguire: – Le fa male quanto a noi, e anche di più se è ferro. Solo non altrettanto a lungo. E io dico che non c'è niente di male ad avere un vantaggio e sfruttarlo.
Sapevo di poter contare su di lui. Il Lestofante era il nostro esperto in combattimento sleale, tanto che aveva una vera collezione di armi nascoste in oggetti comuni, non disdegnava l'uso dei veleni, e si rammaricava enormemente di essere nato umano. Avrebbe preferito di gran lunga avere la forza di un minotauro, o la corazza di un demone, ma non la loro bruttezza; e da quando sapeva la verità su di me, l'ibrido con sangue di fata era entrato a far parte dei suoi desideri per la prossima vita, o per questa, "se mai incontrerò un genio", come diceva lui.
E poi c'era il Bianco, che mi aveva sempre fatto un po' da maestro e un po' da nonno nella compagnia, e che da quando quella storia era venuta fuori aveva preso a guardarmi con rispetto. Come se fossi stata io il veterano dei Bastioni Rossi, e non lui.
– ...e comunque lo sapevamo che era un pochettino imparentata con le fate – stava dicendo il Guercio, a conclusione del suo racconto. – Insomma, quella storia che non poteva toccare ferro... era ovvio, no? Solo, chi se lo immaginava che una fata è anche una furia quando combatte?
La Mancina e il Guercio risero di nuovo, e a loro si unì anche il Lestofante. Gli altri, a parte Salnitro che aveva messo il broncio, sogghignavano. Solo il fabbro non rideva, e mi fissava serio col volto di mezzo, prima di tornare a concentrarsi sul metallo che si stava sciogliendo in un crogiolo. Quando lo tolse dal forno con un paio di pinze e lo colò in uno stampo con uno sfrigolio acuto, all'ennesima zaffata ferrosa che si levò in vapori roventi nell'aria soffocante della fucina, non resistetti più, mi scusai e uscii a sedermi sulla solita panca.
Più tardi, all'ora di cena, fu il fabbro che mi raggiunse per portarmi qualcosa da mangiare. Avrebbe potuto mandare uno scudiero, ma era venuto di persona, poiché voleva parlarmi.
– Sai, avevi ragione – esordii io, prima ancora che potesse aprire una delle sue tre bocche. – Avevo così tanta paura che scoprissero chi sono, e poi lo hanno scoperto, e... ciò che temevo, è stata invece la cosa migliore che potesse capitarmi.
Il fabbro mi lasciò il vassoio con il cibo, rigorosamente di legno e di ottone posate comprese, e si sedette al mio fianco. Proprio come quella mattina, di un tempo che sembrava una vita fa. Solo che stavolta era il tramonto, non l'alba.
Come allora, fu il volto di mezzo, dalla voce pacata e seria, a parlare per primo. – Le mie congratulazioni, figlia delle nebbie. Hai ottenuto ciò che desideravi.
Non aveva ancora terminato la frase, però, che la voce beffarda del volto di destra si intromise: – Congratulazioni, sì, congratulazioni davvero. Ma attenta a quel che desideri...
– Che cosa vorresti insinuare? – lo apostrofai nello spezzare il pane che accompagnava lo stufato di capra.
– Io non insinuo niente – proseguì il volto di destra, falsamente mellifluo. – Ma quante volte il Guercio o altri hanno raccontato quella storia?
Sbuffai. – Così tante che ho perso il conto.
Li divertiva, all'inizio, ripeterla nelle taverne in cui passavamo il tempo tra un incarico e l'altro. Poi Novedita aveva scoperto che far circolare quella storia, con tanto di dimostrazioni quando necessario, ci assicurava di ottenere più lavoro di prima, soffiando ad altre compagnie di mercenari più antiche e meglio organizzate della nostra gli incarichi più remunerativi.
Dopo un momento di silenzio fu il volto di sinistra a parlare, la voce dolce come una carezza: – L'altra volta che ci siamo visti, non sapevi chi sei, e io ti ho aiutato a scoprirlo. Mi dispiace, ma la risposta che ti posso dare oggi è diversa, e forse non ti piacerà.
Ero stufa di tutto questo girarci attorno, perciò mandati giù il boccone e chiesi: – E va bene: chi sono?
– Una mascotte! – Rispose subito il volto di destra. Il fabbro batté un paio di mani, un battito ripetuto ma leggero, come a voler solo simulare un applauso. – Sì, la mascotte dei Bastioni Rossi, il loro portafortuna, il simbolo da esibire per farsi aprire le porte.
– Non è vero, io combatto con loro. Non sono solo un trofeo, sono... – Presi un bel respiro e poi gli ripetei la definizione che il fabbro mi aveva dato quel mattino. – Sono un guerriero.
– Lo sei? – mi interrogò il volto di mezzo. Una delle mani di sinistra si sollevò alla gola e da sotto il colletto trasse un cordino da cui pendeva un monile a forma di ancora. Me lo avvicinò per mostrarmelo meglio, mentre con gentilezza il volto di sinistra precisava: – È di ottone, non temere.
– Lo so. – Non aveva bisogno di dirmelo. Avrei avvertito immediatamente la repulsione verso quell'oggetto, se fosse stato di ferro.
– Ti voglio raccontare una cosa – mormorò il volto di sinistra, ma fu quello di mezzo a proseguire, con voce chiara e sicura, mentre le sue mani, salvo quella che reggeva il pendente, tracciavano nell'aria i disegni di quella storia. – Nella terra da dove vengo è considerato di buon auspicio avere a bordo di una nave uno della mia gente. Nessuna tempesta si abbatterà sulle navi che ci ospitano, si dice, né la bonaccia rallenterà il viaggio, perché noi siamo i favoriti del signore dei venti. Solo una leggenda, che però, che lo volessi o meno, mi ha condotto in gioventù a fare molti lunghi viaggi per mare. Oh, sì, ero un marinaio come gli altri, e lavoravo come gli altri, anzi, meglio, dato il mio evidente vantaggio in quantità di arti e occhi. Ma mi chiedo: mi avrebbero voluto lo stesso su quelle navi se non fossi servito loro per un motivo diverso da quello del lavoro di un comune marinaio?
A quella domanda mi girai leggermente indietro, verso la casa di mattoni viola, nelle cui stanze sul retro probabilmente stavano ancora cenando i miei compagni. Io ero con i Bastioni Rossi da prima che scoprissero il mio segreto; se anche lo avevano sospettato, non avevano mai fatto niente per sfruttarlo, prima. Di questo ero certa, non mi avevano presa con loro perché ero l'invulnerabile figlia di una fata.
– Non è la stessa cosa – ribattei, e per aggirare una conversazione che non mi stava piacendo per nulla, aggiunsi: – Meglio che adesso io mangi, il mio stufato si fredda.
– Dico solo... – Nel parlare, il volto di sinistra dai tratti delicati e la voce quasi femminile esibì un sorriso triste. – Che potresti avere qualcosa di più che essere una mascotte, o che potresti esserlo per te stessa, per una causa in cui davvero credi.
Lì per lì non ci feci caso, ma le sue parole si depositarono in me come un seme, e solo molti anni più tardi quel seme diede frutti.
Il fabbro si alzò e il suo volto di mezzo disse: – Buonanotte, figlia delle nebbie.
Sapeva che, come la volta precedente, non sarei riuscita a dormire in casa, con l'odore di ferro che permeava perfino le stanze adibite a residenza.
Prima di andarsene, però, il volto di sinistra soggiunse, mezzo ridacchiando: – Ah, sai il villaggio di pastori qui dietro, a pochi passi da casa mia? Anche loro avevano una mascotte.
– Ah sì? – Non riuscivo a immaginarmi chi potessero aver eletto a mascotte. Forse il più giovane tra loro, il più bravo a scacciare i lupi o a farsi seguire dalle pecore?
Tutti e tre i volti annuirono, poi quello di destra concluse in tono beffardo, indicando il mio piatto di stufato: – La stai mangiando adesso.

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