lunedì 26 febbraio 2018

Le ultime parole

Buongiorno, buon lunedì, e benvenuto!

Spero che tu sia pronto, e che abbia scaldato i muscoli (delle dita) e il tuo orecchio interiore, perché questa settimana ti propongo come missione... quella di ascoltare. Sì, proprio così, dovrai spiare due personaggi in un momento molto particolare della loro vita (niente di troppo privato, a meno che tu non decida in quel senso), e riferire ciò che si sono detti l'un l'altro.

Ma ecco i dettagli della missione:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 

Scrivi un dialogo tra due persone che si conoscono e che si rivedono per la prima volta dopo molto tempo.

Che cosa potranno mai dirsi, e, soprattutto: qual è la relazione tra i due? Sono amici? Parenti? Innamorati? Oppure nemici?
Non scriverlo apertamente. Lascia che siano le loro parole e i loro atteggiamenti a mostrare chi sono l'uno per l'altro.


Almeno uno dei due, se non entrambi, sa che sarà il loro ultimo incontro.

Se solo uno dei due ne è a conoscenza, lo dirà all'altro, o manterrà il segreto? E come mai è certo, o lo sono entrambi, di non rivedersi? Quali saranno le loro ultime parole?


Bene, penso di averti lasciato abbastanza domande e spunti di riflessione per cominciare, e se non ti sembrano sufficienti, seguimi giovedì, quando approfondirò l'argomento del dialogo e della relazione tra i personaggi. Attendo il resoconto della tua missione completata, ovvero il tuo brano, nei commenti qui sotto. E se non te la senti di mostrare a qualcuno ciò che hai scritto, lasciami almeno qualche parola su come ti sembra l'esercizio, se lo hai usato per ispirarti o se hai già scritto in precedenza un dialogo simile. Sapere di averti dato uno spunto (creativo o di riflessione) con questo esercizio ispira me a continuare a crearne!

Come al solito, giovedì della settimana prossima a un testo e al suo autore (con una breve biografia e collegamento a blog e pagine personali/altre opere edite, per chi lo desidera) sarà offerto rifugio all'ombra della Piuma.

sabato 24 febbraio 2018

Eburneo

Per oggi ho scelto un aggettivo ideale per ambientazioni antiche e narratori colti. Deriva dal latino ebur, avorio. Da non confondere con ebano: quanto a colore, è l'esatto opposto!

Eburneo [e-bùr-neo] o eburno agg. lett. Di avorio, del suo colore.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Prometto che starò molto lontana dall'abusata "pelle eburnea"! Più che un personaggio, il mio primo pensiero è stato  per un paesaggio. Un paesaggio desolato e bianco avorio. Ovviamente, su un altro pianeta. Eccolo qui.


L'intero pianeta era... eburneo.
Le pietre dai bordi frastagliati ammassate fino all'orizzonte erano bianco avorio, così come la sabbia che Cinde, accosciata, raccolse e lasciò scivolare tra le dita. Vecchi tronchi spezzati si elevavano pallidi verso un cielo candido ma senza nubi. Un sole impietoso, abbacinante, fisso sulla sommità del cielo aveva fatto svanire ogni speranza d'ombra.
– Sei certa che il posto sia questo? – Handel osservò la distesa eburnea e sistemò la tracolla del fucile a impulsi.
– Le coordinate sono giuste. – Cinde si alzò. Controllò il rilevatore. – Non riesco a capire. Eppure...
– Inutile che guardi quel coso. – Handel scivolò su una pietra piatta e levigata. Lo stivale gli si infilò in un foro tondo, dai bordi netti. Handel imprecò. – Guardati attorno. Non verrà nessuno.
Cinde scrutò il cielo eburneo, poi la loro navetta color ruggine, che assieme alla divisa nera di Handel era l'unica macchia in quel candore. Quanto a lei, il bianco e l'argento le donavano di più. – Non possiamo andarcene. Quel carburante ci serve.
– Sì? Non quanto ci serve la vita. – Handel lottò per liberare il piede, poi indietreggiò. – È chiaro che qui non abita nessuno. Non c'è acqua, cibo, niente di valore. Perché darci appuntamento qui? Dammi retta, siamo in un dannato cimitero.
– Potresti avere più ragione di quanto pensi – disse una voce. Cinde si voltò, e Handel puntò il fucile a impulsi contro il nuovo arrivato.
Sarebbe potuto passare per umano, non fosse stato per le squame sul collo, gli occhi come quelli di un serpente e quattro lunghe dita a ogni mano.
– Dannato Arturiano – brontolò Handel, e abbassò l'arma.
– Mod! – Cinde gli andò incontro. – Nessuna traccia del venditore?
– No, ma... – Mod indicò un punto alle sue spalle. – Da quella parte ho trovato un mausoleo. E la sabbia su cui camminiamo? L'ho analizzata. È polvere d'ossa.
Handel guardò il foro in cui era incappato. Ce n'era un altro, identico, al suo fianco. Erano orbite. Le orbite di un enorme teschio.

giovedì 22 febbraio 2018

Arden il coraggioso

(racconto ispirato dall'esercizio Scene da brivido)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Mi ricordo di Arden, sì. Non era un bambino pauroso, anzi: era tra i più spavaldi, soprattutto quando c'era da arrampicarsi, camminare su muretti alti più di un metro, o saltare la cavallina nelle ore di ginnastica. Quando si trattava di fare cose pericolose, Arden era sempre il primo della fila. Eravamo ragazzi, e non c'era modo di fermarci, né qualcuno che ci mettesse un po' di sale in zucca. E se ci facevamo male, ci rialzavamo, e pochi giorni dopo, eccoci lì di nuovo. Oggi tremo al pensiero delle ragazzate che chiamavamo avventure, ma allora... ah, allora, era tutto diverso.
Arden, sì, stavamo parlando di Arden. Lui era il più spericolato di tutti. Non c'era albero, per quanto alto, su cui non si voleva arrampicare, o torre pericolante che non voleva esplorare. Qualcuno diceva che una volta fosse persino entrato in un fienile in fiamme. Dicerie, ma quel che c'era di vero era che quel ragazzino faceva di tutto.
Ma non lo si poteva portare al fiume, questo no.
Non nel tratto di fiume dove noialtri andavamo a fare il bagno, almeno. Ricordo che sul fondo c'erano delle pietre rosse, larghe e piatte, a forma di goccia. Non so che minerale fosse, ma so che i sassolini più piccoli, di un rosso brillante, erano spariti tutti: li avevamo presi noi, per regalarli alle ragazze in cambio di un bacio. Erano rimaste solo le pietre più grosse, quelle ficcate nel letto del fiume. A me erano sempre sembrate le squame di un enorme pesce rosso. Non so cosa sembrassero ad Arden, ma lui ne aveva il terrore. E noi... ah, noi avevamo invidia di lui. Arden era troppo temerario, troppo bello agli occhi delle ragazze, troppo tutto.
Sapete come sono i ragazzi. Si gioca, e non si pensa mai che si possa far del male. E anche quando lo si pensa, si continua perché è divertente, e far del male è quello che si vuole.
Quel giorno avevamo sfidato Arden a trovare una ragazza nel bosco, bendato. E così, con quell'inganno, lo avevamo portato al fiume. Io ero con loro quando la ragazza si fece prendere sulla riva del fiume, e lui si tolse la benda. Non si era reso conto di essere vicino a quella parte del fiume, quella con le pietre rosse, finché non si tolse la benda e le vide. Allora Arden, il temerario Arden, iniziò a tremare. Si voltò e fece per scappare, ma noi eravamo in tanti. È così che si fa, tanti contro uno, no?
Lo afferrammo e lo strattonammo. Lui si dimenò, lottò, diede anche qualche pugno, sì, e ruppe il naso di Armando, ma noi eravamo in tanti. Arden piangeva quando lo trascinammo in acqua, e si lamentava, e a me che lo tenevo con un braccio sotto l'ascella pareva di sentirlo dire: "No, mi prenderanno, mi prenderanno!". Non ci posso giurare, perché la voce del fiume era più forte, ma questo è quello che sembrava a me. Noi, invece, che non capivamo come potesse uno come lui avere paura di qualche sasso di fiume, prendemmo a sfotterlo: "Arden il coraggioso! Ecco che arriva Arden il coraggioso! Arden il coraggioso che strilla e piagnucola come una ragazza!"
E poi accadde qualcosa. Non lo so cosa, esattamente, e forse la mia memoria non è tanto buona e mi confondo... ma Arden era caldo. Più si avvicinava all'acqua, gridando e agitandosi, più la sua pelle scottava. La sentivo anche attraverso la camicia ruvida. Lo mollammo in acqua come un sacco di patate, perché era troppo caldo, e poi noi, i coraggiosi che avevano affrontato un ragazzino spaventato, scappammo sulla riva e restammo a guardare. E giuro... sì, lo giuro, che vidi l'acqua attorno al ragazzo ribollire, e i pesci venire a galla.
Scappammo via, lasciandolo lì. Quella fu l'ultima volta che lo vidi.
C'è chi dice che Arden esplose, proprio come le bombe che lanciavano i soldati dagli aerei. Secondo altri, invece, si era sciolto nell'acqua, e di lui non era rimasto più niente. Io, per un po', pensai che lui aveva ragione, e che le pietre rosse lo avevano preso. E mi dispiaceva di avergli fatto quello scherzo, di essermi messo assieme agli altri.
Il giorno dopo, la sua famiglia andò via. Ah, non chiedere, non lo so dove. Ma dovunque siano andati, adesso, so che Arden il coraggioso se n'è andato con loro, lontano dal fiume e dalle pietre rosse che lo spaventavano tanto.

lunedì 19 febbraio 2018

Il ponte

(racconto ispirato dall'esercizio Scene da brivido)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non ci riesco.
Sono a metà del ponte quando mi blocco. Non posso andare avanti. Non posso tornare indietro. Non posso muovere un passo in una qualsiasi direzione. I miei piedi sono pesanti come macigni, impossibili da sollevare. Sudo freddo, e ho la bocca secca.
Sento le mani stringere forte i cavi, l'acciaio che mi graffia la pelle. Tento di chiamare mia sorella ma riesco solo a balbettare mentre lei va avanti, sempre più lontana. Cammina tranquilla, senza nemmeno tenersi, e mi chiedo come diavolo faccia a non sentirlo. C'è il vuoto, sotto di noi.
Un abisso pronto a inghiottirci il cui fondo, se davvero esiste, si allontana sempre più dal ponte e da me.
Mi gira la testa, il ponte ondeggia. Quello stupido consiglio di non guardare giù non sta funzionando. Come faccio a non vederlo se è dappertutto? Lo vedo se guardo avanti, dritto di fronte a me, intorno alla schiena di Shana e sotto i suoi piedi, sotto questo fragile ponte. Lo vedo, anche se sui miei occhi cala un velo.
Dietro di me, sento una voce: – Shana! Shana, fermati. Tuo fratello lo sta facendo di nuovo.
La vedo, attraverso la nebbia e molto lontana. Mia sorella si gira, sbuffa, e replica: – Ancora? Andiamo, questa cosa sta diventando ridicola.
Shana appoggia la schiena ai cavi di destra, e l'appiglio sotto la mia mano oscilla. – Non... non farlo! – la supplico, allarmato. Stringo il cavo più forte e sento il sangue correre nelle vene, martellare contro i fili d'acciaio. Fatico a respirare, come se qualcosa mi stritolasse il petto, costringendomi a buttar fuori tutta l'aria e a non riprendere fiato.
Lontano, Shana trotta allegramente verso di me. Sembra sicura che le nuvole l'afferrerebbero, se dovesse cadere. Fissa la donna alle mie spalle.
Non la vedo, ma sento il suo fiato rovente mentre chiede a mia sorella: – Sicura?
Giro a metà la testa. – Sicura di cosa? Maedbe, che ti ha detto? – domando, e la mia voce ha un tono stridulo. So che Shana le ha bisbigliato nella testa, ma non so cosa, e il non saperlo mi preoccupa.
Shana è di fronte a me, con un ampio sorriso. – Per tutti gli Shanekth, Yorosh, è ora che tu impari! – esclama, e con quel sorriso compiaciuto, traditore, appoggia una mano sulla mia. Sento la scossa, la schiena che s'inarca, e perdo la presa sui cavi. Sto male, e loro sono troppo veloci per fermarle. Mi afferrano, mi sollevano, mi spingono al di là del cavo.
Le supplico di non farlo. Grido. Piango.
Tutto inutile.
Sarebbe più sensato chiedere all'abisso di non prendermi.
La mia pelle si lacera, squame verdi la ricoprono, e le due donne mi buttano di sotto.
L'aria mi sibila nelle orecchie e vedo la faccia preoccupata di Maedbe allontanarsi sopra di me, e Shana accanto a lei che urla: – Apri quelle dannate ali e vola, idiota!

sabato 17 febbraio 2018

Dimestichezza

Come altre che ho già inserito in questa rubrica del sabato, trovo che questa parola abbia un sapore antico, ricercato, nonostante il suono un po' comico. Da usare con parsimonia sulle labbra di personaggi colti o di un narratore dal linguaggio raffinato. O almeno, questa è l'impressione che dà a me.

Dimestichezza [di-me-sti-chéz-za] s.f. 1. Rapporto di intima familiarità con qualcuno. Confidenza. 2. estens. Ottima conoscenza di una materia, che consente di essere perfettamente addentro a tutte le sue tematiche, implicazioni ecc. Pratica.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.



Forse per un'assonanza con "addomesticare" (in effetti etimologicamente hanno la stessa origine, anche se non si direbbe), l'immagine che mi fa venire in mente è quella di un animale, e di una mano che si avvicina per accarezzarlo. Dovevo solo capire di che tipo di bestia si tratta, e a chi appartiene la mano.


Non ne avevo mai visto uno. Non da vicino. Perciò restai indietro quando Jossintaur si accostò alla creatura serpentiforme, passò la mano tra i peli candidi della criniera e appoggiò la fronte al suo muso leonino, dai riflessi verdi e azzurri.
Poi si voltò e mi tese la mano. – Coraggio Sara, vieni qui!
Sbirciai la fila di zanne nella bocca larga e scossi la testa. – Non ho dimestichezza con i Lung.
Lui rise e mi si avvicinò. Indietreggiai e strinsi tra le dita il velluto della gonna. – No... no, ti prego, ho paura...
Lo supplicai, ma lui non mi diede retta. Intrecciò le sue dita alle mie, mi rivolse quel sorriso e disse: – E non l'avrai mai se non provi a conoscerne uno, principessa.
Jossintaur mi tenne per mano, mi condusse alla creatura e immerse le nostre dita nel suo manto soffice e lieve, che pareva fatto di nuvole. Le frange piumate sulle sue squame d'argento mi solleticarono la pelle mentre Jossintaur muoveva le nostre mani avanti e indietro. Lui fu scaltro come al solito: non lasciò la presa finché non mi vide schiudere le labbra in un sorriso, e a quel punto ero io che facevo scorrere, da sola, la mano sul manto dai riflessi argentei.
Il drago orientale rivolse il grosso muso indietro e ci scrutò. Immaginai che si chiedesse che cosa stessero facendo quelle due creaturine curiose.
– Visto? – mi chiese Jossintaur. – I Lung sono pacifici. Non sono come i draghi che conosci tu.
Annuii. – Mi chiedo... – Morsi il labbro inferiore e mi girai verso di lui.
– Desideri volare sul suo dorso? Si può fare, se lo vuoi.
Scossi la testa e allacciai le mani in grembo. – Non oggi. Permettimi di acquisire dimestichezza con i Lung un passo alla volta. – Guardai il sacchetto che portava alla cintura. – Devi aver fatto qualcosa di molto speciale per avere una perla di drago.
– È una storia lunga, principessa – disse Jossintaur. – E bizzarra. La vuoi sentire?
Annuii. Lui iniziò a raccontare, dimostrandomi che il Lung non era l'unico argomento con cui aveva una certa dimestichezza.

giovedì 15 febbraio 2018

Combatti o fuggi

Quando ho scritto l'esercizio precedente, Vorrei... ma non posso, mi sono resa conto di aver trascurato un dettaglio. Per quanto riguarda la costruzione di un personaggio e il conflitto che anima una storia, ma anche per quanto riguarda le persone al di fuori di un libro, non esiste solo uno o più obiettivi e gli ostacoli sulla strada per realizzarli. Non esiste solo ciò verso cui un personaggio si muove, ma anche ciò da cui si allontana. Ciò di cui ha paura, ma senza alcun motivo razionale e fondato per farlo. Per rimediare, ho ideato l'esercizio di questa settimana, Scene da brivido.

La paura. La paura può essere considerata come un altro tipo di ostacolo alla realizzazione dell'obiettivo del personaggio, uno di tipo interiore invece che esteriore. Il nemico invisibile, il più difficile da affrontare, quello che è dentro di te. In effetti, l'oggetto della paura non è il vero avversario del personaggio che la prova, ma è solo una scusa per far emergere il conflitto interiore. Come reagirà il tuo personaggio di fronte a ciò che lo spaventa?

Scapperà?

Resterà impietrito, senza poter reagire?

Si nasconderà?

Lotterà contro ciò che lo terrorizza?

Oppure... si renderà conto che quella cosa, quella che gli fa paura, non è poi così spaventosa o pericolosa come credeva?

L'ultima sembrerebbe la scelta più logica. Ma... c'è un ma. Se il tuo personaggio provava in principio una paura irrazionale, vuol dire che tanto logico non è. E una paura del genere, una fobia, si mantiene per un semplice meccanismo. Il terrore porta a evitare di affrontare ciò che ti spaventa, rendendo impossibile riconoscerlo per ciò che è: qualcosa di innocuo, nella maggior parte dei casi. Chi ha paura di volare non prenderà mai un aereo, e se per caso vi fosse costretto, il panico potrebbe rendere l'esperienza talmente spiacevole da rafforzare la paura, invece di spegnerla. Chi ha paura di qualche animale cercherà di stargli il più lontano possibile; figuriamoci se può pensare di studiarlo per capire se è così rischioso avvicinarlo come crede. Chi ha paura di essere colpito da un fulmine non legge le statistiche.

Come agirà il tuo personaggio dipende dalla situazione e dalla sua indole. Combattere o fuggire sono le reazioni istintive di fronte a ciò che terrorizza, e dipendono dallo stesso meccanismo. Tutta colpa dell'adrenalina. Ricordati di descrivere non solo che cosa fa, ma anche come si sente: l'aumento del battito cardiaco, il respiro più rapido, il sudore, una stretta allo stomaco, le gambe che tremano... a questo proposito, il modo che usi per raccontare la storia può influenzare l'effetto che ottieni:
  • se desideri coinvolgere il lettore, fargli provare le stesse sensazioni del personaggio, perfino renderlo ignaro di quanto sia irrazionale la sua paura, prova a narrare in prima persona ciò che sta vivendo. In alternativa, una terza persona focalizzata su quel determinato personaggio può andare, anche se secondo me è meno efficace della soluzione precedente.
  • se desideri dare una visione più obiettiva, mostrare quanto sia illogico o ridicolo provare paura in quella situazione, un narratore in terza persona, o anche in prima persona ma diversa dal personaggio che è nel panico, è la scelta che fa per te.

Allora, come racconterai la tua storia? Di che cosa ha paura il tuo personaggio? Buttati nella scrittura, non ci pensare. Non aver paura di scrivere. Solo così potrai scoprire che, in fondo, la pagina bianca non era un nemico così difficile da affrontare.
Io sono qui, e aspetto il tuo racconto!

lunedì 12 febbraio 2018

Scene da brivido

Buona giornata a te, avventuriero del lato oscuro!

Oggi ti affido una missione spaventosa. Non aver timore, tu puoi stare comodamente seduto davanti a uno schermo o a un foglio di carta. Sarà la tua creatura a dover affrontare... cosa? Questo, solo tu puoi saperlo.

La tua missione di oggi sarà identificare ciò che forse un personaggio non ammetterebbe mai, e scoprire la sua reazione.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 

Scegli un personaggio che hai già ideato, oppure creane uno di nuovo.

Fin qui è facile. Se si tratta di un personaggio del quale hai già scritto qualche avventura, probabilmente conosci già la risposta al prossimo passo. Altrimenti, dovrai trovarla al momento.

Ora chiediti: qual è la sua paura più irrazionale?

Quella che non ha motivo di esistere. Quella che non è determinata dal buon senso o da una pensiero razionale. Quella che è illogica, forse anche sciocca, ma molto, molto potente.

Scrivi un brano in cui il tuo personaggio si trova faccia a faccia con l'oggetto della sua paura.

Che cosa farà? Fuggirà, si nasconderà, l'affronterà, o... cos'altro? Questo sta a te scoprirlo e mostrarlo.


Bene, per oggi è tutto. Attendo il resoconto della tua missione completata, ovvero il tuo brano, nei commenti qui sotto. E ti ricordo che, come al solito, giovedì della settimana prossima a un testo e al suo autore (con una breve biografia e collegamento a blog e pagine personali/altre opere edite, per chi lo desidera) sarà offerto rifugio all'ombra della Piuma.

sabato 10 febbraio 2018

Celiare

Prima per molte settimane non trovo un solo verbo su cui basare un brano, poi me ne capitano due di seguito! Questo pare che derivi da una commediante di nome Celia, che faceva la parte di una serva arguta e scherzosa.

Celiare [ce-lià-re] v.intr. (aus. avere; cèlio ecc.) [sogg-v] Avere comportamenti scherzosi.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Questo verbo mi fa sempre pensare a dame di corte e nobildonne, giochi di potere e corteggiamento. Ho seguito quella scia per scrivere il brano ispirato al termine celiare.


Erano in due. Una aveva morbidi boccoli biondi come l'oro. L'altra, ciocche di rame spettinate. Una era di nobile lignaggio, l'unica erede di un'antica stirpe. L'altra era lo scarto della nidiata del conciapelli. Una era raffinata, elegante, bellissima. L'altra, a malapena una donna. Una era colei che volevo.
Ma per averla, sapevo che avrei dovuto conquistare l'altra.
La regina pendeva dalle labbra di Anna. Non sapevo come fosse accaduto, ma le voci dicevano che la popolana era entrata nel castello quand'era una bambina, era cresciuta con la principessa e aveva plasmato il suo pensiero. Quando era morto il vecchio re, Anna le aveva messo in testa l'assurda idea che al regno e alla sua regina non ne servisse un altro. Ma che cosa ne poteva sapere una stracciona delle faccende di corte?
– Nobile Zohar delle Torri di Smeraldo. – La voce della regina risuonò imperiosa dall'alto del trono. Anche in ginocchio, notai la sua occhiata alla nefasta consigliera dai capelli rossi e il cenno d'assenso di costei. La regina mi fece segno d'alzarmi, nel proseguire celiando: – Alle Torri di Smeraldo non coltivate la terra, non allevate bestiame, non pescate e non commerciate. Da dove viene dunque il vostro sostentamento? Ho sentito dire che la ricchezza della vostra terra è costituita da stregoni, e che voi stesso lo siate.
– Maestà – replicai con un sorriso. – Se lo fossi, vi avrei recato in dono le stelle del cielo, e avrei messo la mia magia al vostro servizio. Ma tutto quello che posso portarvi sono gioielli, e uomini, e lame.
Vidi l'interesse risvegliarsi negli occhi di Anna. Non era stato difficile scoprire la sua passione assai poco femminile per le armi.
La regina si alzò. – Voi mi onorate con i vostri meravigliosi doni, ma ancora non mi avete parlato del motivo della vostra visita. Che cosa volete da me?
– Nulla di ciò che altri hanno già chiesto, e mai ottenuto – celiai, riferendomi ai numerosi pretendenti che aveva già respinto. – Tutto ciò che ancora non vi è stato domandato.

giovedì 8 febbraio 2018

Il passato perduto

(racconto ispirato dall'esercizio Vorrei... ma non posso

Esito dei dadi:

Obiettivo:
6 Risolvere un mistero

Ostacolo
2 Un consiglio che rimette tutto in discussione)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Raggi di luna scivolavano lungo i gradini che conducevano alla sala sotterranea e rischiaravano a malapena uno spicchio del pavimento di pietra. Potevo solo supporre che altri occhi, occhi che probabilmente venivano considerati "normali", avrebbero avuto bisogno di una torcia. Non i miei.
Accovacciato nella penombra della sala, sfiorai i frammenti bianchi e ricurvi che parevano cocci di un vaso, o pezzi del guscio di un uovo. Li rigirai e li osservai a lungo, quasi avessi potuto trovare scritto, su di loro, la storia di una vita che non conoscevo più.
Sentii Liri avvicinarsi alle mie spalle. Non la sentii con le orecchie: i suoi passi erano anche più silenziosi dei miei. Avvertii il suo calore in un modo che era difficile da ignorare.
– Non è qui che troverai quello che cerchi – disse Liri.
– Ma è da qui che ho cominciato ad accumulare i miei ricordi. – Restando accovacciato, mi girai e la guardai dal basso. Piedi nudi, una tunica bianca che le arrivava fino alle caviglie e celava le curve del suo corpo, un volto dall'età indefinibile e i lineamenti delicati, ma senza dubbio giovane e privo di rughe, occhi cangianti dalla pupilla verticale che tradivano una saggezza antica e una fascia rossa sulla fronte che spiccava sotto lunghi capelli verdi. Mi ero visto riflesso nell'acqua e sapevo di somigliarle molto. Come se fossi la sua versione maschile, o lei la mia versione femminile. Come se fossimo gemelli.
– Ah – mormorò Liri. –  E pensi, da qui, di poter risalire indietro nel tempo per riavere la tua memoria perduta, così come si risale la corrente di un fiume.
– Hai altre idee?
– Una, sì. – Liri s'incamminò lungo una parete della sala, strusciando una mano sul muro come se ne avesse avuto bisogno per orientarsi nel buio. Mi girai a seguirla con gli occhi.
– Lascia perdere.
Sgranai gli occhi alle parole di Liri.
– Smetti di cercare – proseguì lei. – Accetta chi sei ora.
Guardai in basso. Afferrai uno dei frammenti e lo stritolai tra le dita, spezzandolo. – Non posso. Non lo so chi sono ora.
– Non sai quello che potresti trovare. E una volta trovato, non potrai più tornare indietro. – Liri sospirò e si addossò alla parete con la schiena. – Non hai pensato che forse c'è un motivo se il fuoco di drago ha bruciato la tua memoria quando è entrato in te? E se fosse stato questo ciò che tu cercavi? Un'occasione per ricominciare da capo. Esattamente come me.
Liri mi tese le braccia. Conoscevo già la sua carne perfetta e inumana. – Il fuoco di drago non ha cancellato la mia memoria, ma ha cancellato i miei lividi e una promessa che mi avrebbe incatenato fino alla morte. Ero stata destinata dalla mia famiglia e dagli dei a un uomo che non amavo. Un uomo crudele. – Liri erse la testa e venne avanti. – Non avevo altro modo di sciogliere quella promessa, se non cercandone una che fosse più forte. Offrendo me stessa al fuoco di drago, sperando di essere giudicata pura abbastanza da ricevere l'onore di divenire pari agli dei. E una dea, nessun mortale la può toccare.
Lasciai cadere a terra le briciole del frammento spezzato e mi alzai. – Non so chi sono, ma dubito fortemente che le mie motivazioni per venire qui siano state simili alle tue.
Liri mi sorrise. – E infatti, hai ottenuto qualcosa di diverso.
– Credi davvero che possa essere stato io a chiedere di dimenticare tutta la mia vita? – le domandai. Liri annuì. – Se così fosse, perché non ho lasciato un messaggio a me stesso, che so, una pergamena di spiegazioni, o la richiesta di non cercare di ricordare il mio passato?
 – Forse lo hai fatto. – Liri avanzò di un altro passo e alzò la testa per guardarmi negli occhi. Così vicina, che sentivo forte sulla pelle il calore del suo fuoco, come se mi fossi trovato dinanzi a una fiamma. – Ma ora, sai quanto me che le pergamene e gli abiti comuni non resistono al calore del fuoco di drago come i nostri nuovi corpi, o i tessuti nuovi che indossiamo.
Distolsi gli occhi da lei. – Sarà.
Non avevo più argomenti, ma non volevo dirglielo. Feci un passo indietro, mi voltai e m'incamminai verso le scale. – Si tratta della mia vita. Non puoi chiedermi di rinunciare.
Alle mie spalle sentii la voce la voce di Liri che mi supplicava: – Prometti almeno che rifletterai su quanto ti ho detto.
Non lo promisi. Non ce n'era alcun bisogno: ci stavo già pensando.

lunedì 5 febbraio 2018

La damigella in pericolo

(racconto ispirato dall'esercizio Vorrei... ma non posso

Esito dei dadi:

Obiettivo:
1 Salvare qualcuno o qualcosa

Ostacolo
3 Un equivoco che porta il protagonista e/o altri fuori strada)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


L'avevo vista in un sogno. Uno di quei sogni che si avverano.
Era là, in piedi nella sala della Stazione Centrale. Di fronte a lei una creatura abominevole, come ne avevo viste solo nei miei incubi peggiori, da bambino. Un gigante viscido e bianco, con le spalle larghe e un solo occhio, enorme e rosso, in una testa priva di bocca, naso e orecchie. Le braccia erano composte di tentacoli intrecciati, che si svolsero e si allungarono verso di lei. Sentii un grido e vidi la donna alzare le braccia davanti al volto.
Io ero in mezzo a loro. Avevo paura, e volevo aiutarla, ma non sapevo come, se non facendole scudo col mio corpo. Pessima idea, ma era l'unica che mi fosse venuta in mente.
Almeno lei avrebbe avuto il tempo di scappare, al contrario di me.
 
Ero passato spesso dalla Stazione Centrale, dalla notte in cui mi ero svegliato urlando dall'incubo. Cercavo lei, e il mostro, per quanto assurdo potesse sembrare. Ero sicuro che il sogno si sarebbe avverato, come i tanti altri che nel corso degli anni mi avevano lasciato quella sensazione dolceamara al risveglio. Non mi ero mai sbagliato, e temevo che, se non fossi stato lì in quel fatidico giorno, lei sarebbe morta.
Ero un idiota. Neanche la conoscevo, ma non volevo che le accadesse nulla di male, se potevo evitarlo. Nel frattempo avevo ideato un piano migliore, uno che non comprendesse il mio sacrificio, o almeno lo speravo.
Portavo sempre con me una pistola.
 
E un giorno, avvenne. Cominciò con le urla e la fuga disordinata della marea di gente che affollava la stazione. Vidi una ragazza cadere e venire calpestata, un uomo brancolare e sbattere contro la parete della sala, una madre che chiamava disperata i figli svaniti tra la folla. Al riparo dietro una colonna, aspettai che fossero passati; poi, con la pistola in pugno, m'incamminai nella direzione opposta.
Il mostro era più alto, più massiccio e più spaventoso di come mi era apparso nel sogno. Il suo candore mi abbagliava come la neve su cui splende il sole. Scaricai sul suo corpo molle tutti i proiettili che avevo nel caricatore. Non funzionò: non riuscii nemmeno a rallentarlo.
A quel punto sentii una voce di donna gridare.
– Sta' giù! No, non guardare l'occhio del ciclope, ti accecherà, guarda me!
Mi voltai e la vidi. La donna del mio sogno. La vidi alzare le braccia mentre mormorava in quella che mi parve una lingua straniera, e mentre bisbigliava, dalle sue mani emanò una nebbia in spirali di fumo che si incendiarono allontanandosi da lei e saettando verso la creatura.
E allora mi resi conto di aver sbagliato tutto. Io non ero lì per salvarla. Lei non ne aveva alcun bisogno.
Io ero la "damigella" in pericolo.

sabato 3 febbraio 2018

Bramire

Finalmente, dopo mesi di assenza, un verbo! Bramire, da non confondere con bramare, che ha tutt'altro significato.

Bramire [bra-mì-re] v.intr. (aus. avere; bramisco, bramisci ecc.) [sogg-v] Emettere bramiti, riferito ad animali selvatici, specialmente ai cervi.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ho fatto questo ragionamento: se si sente bramire, è molto probabile che ci sia un cervo; se c'è un cervo, allora è plausibile essere in una prateria o un bosco. E se qualcuno è in un bosco dove c'è un cervo, è possibile che sia un esploratore, un osservatore della fauna selvatica o un cacciatore. Se io fossi il cervo, comincerei a sperare di non essere nella favola di Biancaneve!


Arg era uscito da solo quel giorno, poiché era il giorno degli spiriti, e nessun altro aveva osato mettere il naso fuori di casa. Arg non si era mai ritenuto un uomo coraggioso; ma era un uomo affamato, e la fame in certi casi poteva essere un valido sostituto dell'ardimento. Così, Arg non solo aveva lasciato la propria casa, ma si era addirittura inoltrato nel bosco.
Gli abitanti del villaggio dicevano che il bosco era pieno di strane presenze nel giorno degli spiriti, di ululati e lamenti misteriosi, di volti spettrali che osservavano tra i rami, di mani gelide pronte a ghermirti. Arg non aveva visto nulla di tutto ciò, però teneva una freccia pronta e l'arco stretto in mano.
Arg avvertì un bramito lungo e cupo e lo scambiò per uno di quei lamenti da spettri di cui aveva sentito parlare. Il cacciatore pensò di tornare indietro, ma le gambe non gli obbedirono e andarono avanti. Arg scorse la sagoma tra i tronchi. Nel rendersi conto che era solo un cervo quello che bramiva, gli sfuggì dalle labbra una risata nervosa.
Il cervo voltò il muso, vide Arg, e scalpitò nervoso. Era la stagione degli amori e delle lotte; così, di fronte al cacciatore, il cervo non scelse la fuga, ma abbassò il palco di corna ramificate e caricò l'intruso. Arg voleva andare via, ma di nuovo le gambe non gli obbedirono e lo tennero inchiodato dove stava.
In seguito, Arg raccontò che il bosco si riempì di cervi che bramivano, spuntati da chissà dove per riunirsi in quel concerto assordante, e che quello che lo stava caricando si placò alla comparsa di una donna che somigliava così tanto ai ritratti di Carecnus al Tempio, che Arg intuì non potesse essere altri che la dea della caccia in persona. Lei condusse via il cervo, e Arg li seguì, e fu così che trovò la bambina che adottò e chiamò Anyla.
Arg era partito per trovare da mangiare, ma era tornato con una bocca in più da sfamare. Sua moglie Lami non ne fu contenta, ma quello era il volere di una dea, perciò dovette arrendersi e accettare Anyla.

giovedì 1 febbraio 2018

Cuore e muscoli

Ritengo che una storia non dovrebbe essere costruita a tavolino. Non, almeno, senza tener conto dei personaggi che la animano.

Nel mio modo di intendere la parola scritta, i personaggi sono l'anima e il cuore di una storia. Quando inizio un racconto, quando leggo oppure scrivo, lo faccio perché ho qualcuno di interessante sottomano, le cui vicende vale la pena di seguire. E per poter capire dove sta andando, quale sarà la sua prossima mossa, è importante conoscere due cose: che cosa desidera, e che cosa vuole a tutti i costi evitare. Questi sono, se mi è consentito il paragone, la carota e il bastone in grado di spronare un determinato personaggio. Quando ha ottenuto ciò che desidera e ha evitato ciò che teme, il personaggio ha raggiunto quel punto di equilibrio che si chiama lieto fine, e non ha più motivo di muoversi, di cambiare la sua situazione.

Ma prima, per far si che una storia duri più di qualche frase, entra in gioco il conflitto. Un ostacolo, un nemico, una difficoltà oggettiva, esteriore, oppure psicologica. Se i personaggi sono l'anima e il cuore di una storia, il conflitto ne è i muscoli. Senza, non si va da nessuna parte. La storia si affloscia e resta immobile.

Qualche anno fa esisteva in un programma comico uno sketch chiamato "Teatro senza conflitto", che consisteva nel riproporre alcuni classici del teatro e della letteratura eliminando o risolvendo il conflitto centrale della storia in pochi istanti e una battuta. L'operazione aveva un senso molto più profondo di ciò che appariva in superficie.

Ammettilo, se Cappuccetto Rosso avesse dato più retta alla madre e meno a lupi sconosciuti; se nessuna strega o matrigna avesse ostacolato l'amore tra la fanciulla di turno e il principe; se nessun cattivo avesse voglia di conquistare il mondo, e l'assassino confessasse il delitto subito dopo averlo commesso (o meglio ancora, si pentisse prima e rinunciasse), le rispettive storie non avrebbero modo di esistere. Riconosco che il conflitto, se pure nella vita è preferibile evitarlo, è una buona cosa per una storia, è ciò che la rende interessante. Non devi aver paura di essere un po' crudele con i tuoi personaggi, di metterli in difficoltà, di porre sul loro cammino proprio ciò che più temono. Viziarli, anche se ti può sembrare più gradevole, non è un buon modo di procedere, e dà vita a storie noiose, in cui tanto "si sa che al protagonista non può succedere niente di male". In fondo, è proprio nelle difficoltà che si tempra il carattere, no? Da' loro modo di dimostrare chi sono davvero.

Il lieto fine, se arriverà, sarà in questo modo molto più soddisfacente.