lunedì 30 maggio 2022

Spirale di ghiaccio


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Era una meraviglia della natura quella galleria spiraliforme tra gelidi muri azzurri, una formazione naturale nel ghiaccio non scavata dalle mani degli uomini né dal lavorio di alcuna bestia conosciuta. Ne eravamo certi, poiché nessuno strumento avrebbe potuto produrre pareti così perfette, senza tracce di solchi né di fusione da calore.
Per accedervi avevamo dovuto rompere il ghiaccio nel punto in cui la galleria iniziava, il punto più alto della spirale discendente diretta nelle profondità della crosta gelida che ricopriva, o almeno in parte costituiva, il territorio più a nord del continente. Anche quello era un indizio che nessun uomo o bestia aveva creato quello spazio cavo, perché se così fosse stato, vi sarebbe rimasto intrappolato all'interno.
Prima di ricevere tutta l'attrezzatura necessaria all'esplorazione, nonché i permessi a correre questo rischio dalla nostra Accademia del Sapere, avevamo chiesto informazioni su questo posto nei due villaggi di Chokeera e Chapokaa, ma il popolo del ghiaccio era stato piuttosto reticente in proposito. A loro dire nessuno si avventurava mai quassù, il posto era maledetto, era dimora delle ondine.
Superstiziosi e sciocchi uomini del nord. Non avevamo dato retta ai loro avvertimenti, quella gente vedeva ondine ovunque, ma mai nessuno era stato in grado di provare davvero la loro esistenza.
Io preferivo concentrarmi su problemi più concreti e immediati. Il fiato che si condensava in sbuffi di vapore mi ricordava quanto l'aria fosse gelida lì dentro, e quanto poco io e Làdine saremmo sopravvissute senza gli abiti termici e i filtri dei respiratori. Il percorso seguiva una curva appena percepibile all'inizio, in senso orario, con una pendenza minima, ma non avevamo alcuna idea di quanto sarebbe sceso in profondità né di quali ostacoli avremmo incontrato lungo la strada. Sotto i nostri passi scricchiolavano frammenti di ghiaccio, che probabilmente si erano staccati dalle stalattiti traslucide che pendevano sopra le nostre teste, le cui gocce andavano a ingrossare un ruscello che ci scorreva accanto, occupando metà della galleria.
La torcia di Làdine danzava da una parete all'altra, traendo bagliori adamantini dal ghiaccio. Ogni tanto la mia compagna di esplorazione prorompeva in un'esclamazione di gioia o di meraviglia. Io non condividevo il suo stupore, se non per quanto riguardava l'acqua del torrente, che se da un lato poteva spiegare l'esistenza di quel vuoto nel ghiaccio, dall'altro generava più domande di quante ne rispondeva. E la più importante di tutte non era come mai il torrente, invece di scavare una galleria dritta, ne avesse generata una che somigliava alla conchiglia di una chiocciola enorme, né cosa avremmo trovato una volta raggiunto il centro, nonché il punto più basso, del percorso. No, quello che mi tormentava, che mi inquietava, che mi terrorizzava, era un unico, impossibile dettaglio.
L'acqua scorreva in salita.
Lo feci notare a Làdine, sottovoce, poiché la galleria moltiplicava e spezzava ogni nostra parola in echi cristallini, e a differenza sua io preferivo non udire la mia voce distorta dalla grotta a spirale. Per me era già sufficiente che nonostante l'aria immota in cui si congelavano i nostri respiri di nebbia si udiva costantemente il soffio di un vento fantasma, sempre davanti a noi, sempre oltre la curvatura del nostro percorso.
– È un'illusione ottica – mi rassicurò Làdine, dopo un breve esame del torrente. – Non vorrai dare retta alle dicerie sulle strane proprietà dell'acqua di Varelya, vero? Qui l'acqua è esattamente come in qualsiasi altra parte del mondo, e non potrebbe essere altrimenti.
Concordai con lei, ma era difficile mantenere una mente lucida e scientifica tra quelle pareti azzurre dalle origini misteriose. Camminando dietro a Làdine, accompagnate dal gorgoglio del ruscello, dal cric cric del ghiaccio sotto i nostri stivali, da quell'onnipresente impossibile vento che mi ricordava sempre di più il rumore del mare che si ode dalle viscere delle grandi conchiglie a spirale accostandovi l'orecchio, mi sorpresi a rivolgere la mente a pensieri strani. Ricordai l'infausta spedizione alla ricerca dei preziosi cristalli azzurri qui a Varelya, molti anni fa. Ricordai come nessuno fosse uscito vivo da quella caverna, e come le Accademie del Sapere proibirono ulteriori tentativi di sfruttamento di quella risorsa sul suolo di Varelya. La motivazione ufficiale fu un mancato accordo con le autorità locali, ma in molti arrivarono a sostenere che i rettori delle Accademie fossero a conoscenza di una verità che preferivano non divulgare. Quel pensiero era tanto assurdo quanto l'idea che quell'enorme conchiglia di ghiaccio fosse abitata da una creatura sconosciuta, proporzionata in dimensioni alla sua dimora. Le Accademie del Sapere erano state create per diffondere la conoscenza, non per nasconderla!
Mentre riflettevo su questi pensieri, ipnotizzata dalla luce di Làdine e dai mille riflessi scintillanti nel ghiaccio, ormai intirizzita nonostante gli abiti termici che avrebbero dovuto impedirmi di provare freddo, non mi accorsi che il suono del vento era cessato, né che Làdine si era fermata.
Andai a sbatterle contro, e lei mi rimproverò con stizza. La galleria ormai era così stretta che potevo toccare entrambe le pareti ai miei fianchi allargando le braccia, e non era raro doversi abbassare per evitare le stalattiti di ghiaccio.
Il tunnel proseguiva ancora, ma un enorme ghiacciolo che pendeva dal soffitto bloccava la strada alla mia compagna di esplorazione, e più avanti il torrente occupava interamente il fondo della galleria.
– Non possiamo proseguire oltre – disse Làdine. – Torniamo indietro.
Ci voltammo, e non potendo scambiarci di posto per via del sentiero troppo stretto, toccò a me guidarla nella strada del ritorno. Làdine mi passò la torcia, e io m'incamminai di buona lena. Ormai non vedevo l'ora di tornare in superficie e riscaldarmi davanti a un fuoco.
Non avevamo fatto molta strada, che subito dovemmo fermarci di fronte a una sottile lastra di ghiaccio traslucido che chiudeva interamente la galleria.
– Ma che cosa...?
Non c'era stata prima, ed era impossibile che si fosse formata in così poco tempo o che noi avessimo sbagliato strada, dato che non avevamo incontrato alcun bivio. Tastai la lastra, che si rivelò solida, e non un'illusione ottica o un miraggio. Battei un pugno, ma non riuscii nemmeno a incrinarla.
– Rompighiaccio – mi suggerì Làdine, ricordandomi l'attrezzatura nei nostri zaini. – Dai, non ti perdere in un bicchiere d'acqua... fredda.
Lei aveva ancora la presenza di spirito per fare battute, ma io no. Era tutto così assurdo, impossibile, e mentre rovistavo nello zaino alla ricerca del rompighiaccio, mi parve di scorgere oltre la lastra azzurrina la sagoma di una figura umana. Chiamai, invocando aiuto, ma quella non rispose, e mi parve svanire nell'aria, non allontanarsi, proprio... sciogliersi.
Forse il popolo del ghiaccio aveva ragione. Forse questo posto era davvero maledetto, forse le ondine esistevano davvero, forse avremmo fatto la fine dei nostri colleghi di quell'altra famosa esplorazione, non saremmo mai tornate a casa, e tutto perché avevamo invaso la dimora di quelle creature.
Ero sempre stata una persona razionale, ma quel giorno scoprii che per evitare un tale fato avrei fatto di tutto, anche diventare superstiziosa e supplicare una leggenda di lasciarci andare.

sabato 28 maggio 2022

Nemesi

Nemesi [nè-me-si] s.f. inv. Vendetta che ripara i torti mediante la punizione dei colpevoli.

Etimologia: dal greco Némesis, nome della dea della giustizia compensatrice o riparatrice, derivato da némein, "distribuire, assegnare".



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In altre circostanze avrei potuto credermi una dea. Ma non m'interessava essere adorata, anche se in effetti, con l'andare del tempo e con il diffondersi della leggenda che mi riguardava, fu proprio ciò che finì per accadere.
Io mi sentivo più come qualcosa di inanimato. Un raggio di sole, un soffio di vento, le radici di una foresta. Non provavo nulla che potesse definirsi umano, se non le sensazioni spiacevoli che mi trasmettevano le voci che invocavano il mio aiuto. Sentivo il loro dolore, la disperazione, l'angoscia. L'unico modo per farle smettere era eliminare la causa del loro dolore.
Karen piangeva nello sgabuzzino del bar quando la trovai, e non posso dire che fu per caso. Mi parlò di lei, Mary Autumn, e mi disse che sarebbe stato bello se fosse davvero esistita. Nessuno le aveva creduto quando lo aveva denunciato.
Le sussurrai che io le credevo, e la convinsi a dirmi il suo nome.
Passando sotto la statua che sorvegliava piazza dall'alto, sollecitata dalla mano bramosa di lui sulla mia schiena, alzai lo sguardo al volto bendato della dea di pietra. Con gli occhi coperti, non si accorgeva reggere una bilancia truccata.
"Lascia perdere, a lui ci penso io", mormorai nella mia testa.
Lei era la giustizia degli uomini. Io ero la giustizia degli alberi, una nemesi impietosa e impersonale come una tempesta, come un terremoto.
Quando lo portai a casa mia, quando capì che io non ero indifesa come credeva, lui mi supplicò, minacciò, cercò di negoziare per la sua vita. Quante lusinghe, quante offerte di denaro e favori gettò al vento prima di tacere per sempre io non lo so, perché non lo ascoltai. Non aveva niente che io potessi volere se non il suo corpo per fertilizzare la terra.
Non fu omicidio, non fu nemmeno una nemesi, poiché io non potevo disfare il male che aveva già fatto. Fu più un disporre dei rifiuti.
Riportai la sua auto dove l'avrebbero trovata e svanii dalla vita di Karen come un fantasma, senza nemmeno attendere un grazie.

giovedì 26 maggio 2022

Il dono del fuoco


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Fa caldo. Tanto caldo, e nell'aria c'è puzza di fumo. Qualcuno mi guarda all'alto, una donna, lunghi capelli neri, all'inizio non la riconosco ma poi connetto. È Rheia, e il suo cipiglio preoccupato si spiana in un sorriso tirato mentre batto le palpebre per schiarirmi la vista e mugolo.
– Ben svegliato – fa la sua voce melodiosa, poi il volto si allontana, lei si mette in piedi e mi tende la mano. – Meno male. Non avevo voglia di trascinare il tuo bel culo per tutto il bosco.
La testa mi pulsa in modo doloroso, e mentre afferro la sua mano e mi alzo, reprimendo un conato di vomito e un senso di vertigine, le chiedo: – Che cosa è successo?
Mi tocco la tempia, umido, un rivolo di sangue.
– Vuoi proprio saperlo qui e ora? – La sua voce ha un tono divertito. Alle sue sue spalle, oltre le prime file di alberi intatti, una sinistra luce rossastra ha invaso il bosco, accompagnata da forti crepitii e schiocchi di legno che si spezza. Piove cenere.
A lei sembra non importare. Quasi come non fosse lì. Ma io tossisco, e mi porto la manica della felpa davanti alla bocca.
– Ce la fai a camminare? – Alla sua domanda, annuisco. – Allora andiamo.
Mi prende per un braccio e cominciamo a correre, lei procede sicura scartando di lato quando coglie con la coda dell'occhio che l'incendio si è fatto più spavaldo e tenta di chiuderci la strada. È bizzarro, ma mentre corro, mezzo tossendo nell'aria dal calore infernale e mezzo incespicando su quelle dannate radici, che possano bruciare, mi coglie il pensiero che la cosa, l'incendio, sembra avere una mente propria. Come allunga le sue dita sulla nostra strada, costringendoci a tornare sui nostri passi e cercare un'altra via. Come ci chiude in una morsa sempre più stretta, gettandoci addosso, negli occhi e nelle narici, nubi di fumo nero. Come fa crollare rami in fiamme giusto dov'eravamo appena un attimo prima.
Sì, la cosa ha una mente sua, una mente maligna, che sta cercando di ucciderci.
Inciampo in una zolla sollevata e crollo a terra. Rheia si ferma e cerca di rimettermi in piedi, ma io rotolo sulla schiena, tossisco e respiro in affanno.
– Non ce la faccio – mormoro. Fa troppo caldo, rivoli di sudore appiccicoso si sono uniti al sangue sulla fronte, e i vestiti mi si sono incollati addosso. L'aria è rovente. Per quanto ne so, forse sto già bruciando da dentro. – Vattene, lasciami qui, non ce la faccio.
– Idiota – brontola Rheia, tende entrambe le braccia, mi afferra per le spalle. È sopra di me, la vedo in controluce tra le fiamme. E poi accade.
Inizia tutto con un cigolio sordo. Lo segue uno schianto, e vedo le fiamme precipitare rapide, non posso fare niente, è un ramo intero, uno di quelli grossi, ed è completamente ricoperto dal fuoco. Si abbatte su Rheia e penso "è finita", lo penso quasi con sollievo, ma lei non cade su di me, resiste, mi protegge. Urla di dolore, i vestiti prendono fuoco, i suoi capelli prendono fuoco, attorno a noi piovono briciole di fiamme, le foglie, le foglie del ramo che si consumano a terra, in cerca di altro legno da offrire in sacrificio all'incendio.
Il crepitio delle fiamme è ovunque, attorno a noi. Rheia smette di urlare.
Il suo volto è una maschera surreale in mezzo a quell'inferno. Respira veloce, gli occhi socchiusi come se provasse... piacere, e sulle labbra un sorriso che si allarga sempre di più. Qualcosa si muove dietro la sua schiena, qualcosa tra lei e il ramo in fiamme, e di colpo si spalanca in un paio d'ali cremisi come il cuore dell'incendio, ali da pipistrello, ali da demone.
Sono scioccato. Forse è la ferita alla testa, mi dico, forse è tutto il fumo che ho respirato, sto delirando.
Ma lei mi protegge, con quelle ali, dal calore asfissiante e dalla pioggia di foglie di fuoco. Raddrizza la schiena e spinge indietro il ramo, che cade a terra tra gli arbusti già in fiamme.
Non ci mette niente a tirarmi su con una mano sola.
– Andiamo. Ti porto fuori da qui – mi dice, con un breve sguardo verso l'alto.
Intuisco quello che intende dire, ma io non posso crederci, è tutto così insensato. Poi il suo sguardo si focalizza su qualcosa alle mie spalle, e Rheia urla: – No!
Sento una botta alla nuca, la testa pulsa ancora più forte, e infine precipito nel buio.

– Sta' ferma... hai proprio combinato un disastro, qua dietro.
Una voce di donna. Non la conosco. E neanche quella che le risponde, parlando in tono autoritario.
– Hamar, com'è la situazione?
– La pelle della schiena è andata. Anche con il mio aiuto, ci vorranno mesi prima che torni presentabile.
La mia testa martella forte, è come un dopo sbornia, e le voci non fanno che peggiorare la situazione. Non vedo nulla, ma sento le mani e i piedi legati. Sono sdraiato, probabilmente in un letto, non lo so. Nella gola un colpo di tosse, ma lo trattengo, non voglio che sappiano che sono sveglio.
La mia prima ipotesi è che qualcuno ci abbia rapiti, poi sento la voce di Rheia che discorre tranquilla con le altre.
– Se mi mettessi un mantello?
– Non sfidiamo la sorte – replica la voce autoritaria. Anche quella è una voce femminile, ma non ho mai sentito alcuna donna con un tono così adatto al comando. – La nostra situazione qui è già abbastanza precaria senza che i nativi del pianeta se ne vadano in giro a blaterare di aver visto un mostro. Juste?
Un'altra voce si unisce alla conversazione. Anche questa, una donna. – Ho neutralizzato la minaccia. Una forma di vita metallica, mai vista prima. Non so da dove venga, ma di certo non era amichevole. Kindra, Cometh e Heru hanno aiutato a contenere l'incendio, e i locali lo hanno spento. Non ci ha visto nessuno, e la zona è comunque soggetta a incendi, anche quando Rheia non esagera con il suo dono. Nulla di anomalo, e in un paio di giorni l'incidente sarà dimenticato. – Il tono è sbrigativo, professionale, monocorde. Mi ricorda un colonnello che faccia rapporto al suo generale. – Resta soltanto lui.
C'è un istante di silenzio. Al termine, la voce autoritaria sentenzia: – Se ne occuperà Vyoll.
– No! – sbotta subito Rheia. Chiunque sia quel "Vyoll" e qualunque cosa intendono con "se ne occuperà", sono felice che ci sia lei a perorare la mia causa.
– Deve dimenticarti, non c'è altra soluzione. Totalmente. Se ricorda anche solo un frammento, potrebbe arrivare a recuperare il resto.
– Non puoi farmi questo. – La voce di Rheia è rabbiosa. – Non lo faresti al tuo poliziotto.
– È un agente governativo, e lui ci serve. Questo signor nessuno, no.
– Serve a me! Lui... sai che cos'è per me, vero? Lo sai!
La donna autoritaria, che evidentemente tra quelle signore è il capo, sospira e si rivolge a un'altra di loro. – Kindra, puoi guardare in avanti e assicurarmi che non ci metterà in pericolo?
Ancora silenzio, per qualche istante. Infine una voce melodiosa e gentile, quasi eterea, mormora: – Io... non ne sono sicura. La visione non è chiara.
Di nuovo silenzio. Non resisto, e il colpo di tosse che trattenevo mi sfugge dalle labbra, seguito da numerosi altri. Alla fine biascico, con voce roca: – Se posso dire la mia, signore... ci terrei a restare in vita.
Un momento di concitazione. Sedie che si spostano, tacchi di scarpe, o quelli che mi sembrano tali, che battono sul pavimento. – Rheia! La tua mente è assieme alla sua?
– Non ne avevo idea Christel... credimi, non lo sapevo! – Rheia. La sua voce solitamente divertita è incrinata dal panico. E la fonte di quel panico sono io. Perché ha paura, che cosa posso fare io contro una donna che può sopravvivere al fuoco?
Ricordo le sue ali. Mi umetto le labbra. – Non lo dirò a nessuno.
– È sincero – la voce di Rheia è quasi un sospiro di sollievo. – Ascoltatelo... dice la verità.
– Per ora, non intende farlo – replica ancora la voce autoritaria, una fiacca, ultima resistenza. – Ma in futuro potrebbe cambiare idea. È umano. Facilmente spaventabile da ciò che non conosce.
– Allora mi conoscerà – sentenzia Rheia. – Me ne occuperò io.
Tutte le voci tacciono, sento che si allontanano, ma è un'impressione, più che un suono. Una mano mi toglie la benda dagli occhi, e lì accanto al letto c'è lei, Rheia, capelli neri molto più corti, occhi rossi dalla pupilla verticale, e ali cremisi come un mantello dietro la schiena.
Mi aiuta a sedermi, e a bere un sorso d'acqua, che scivola fresco nella mia gola secca.
– Stai bene così – biascico non appena riesco a parlare. Lei sorride.
– Mi chiamo Rheia Shan'Marieth – Rheia si mette seduta accanto a me, e comincia a raccontare. – Un tempo, nel posto che chiamo casa, ero una sacerdotessa del tempio del sacro Fuoco, e il fuoco è il mio dono.
Chissà perché, non ne sono sorpreso. Sto per chiederle da dove viene, ma lei mi precede.
– Si chiama Earanphies. È un altro mondo, molto lontano, attorno a una stella diversa.

lunedì 23 maggio 2022

Guarigioni


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Al sicuro, di giorno e dall'alto della torre centrale del palazzo reale di Laeverth, la nostra situazione non sembra poi così disperata. Le urla e l'occasionale boato del proiettile di una catapulta o di un trabucco che si schianta contro le mura giungono attutiti alle nostre finestre, e l'esercito degli assedianti, composto da alcune tra le più immonde creature partorite dalla terra e dagli esseri umani presi come schiavi, o soggiogati dalle promesse di coloro che sono diventati i loro padroni, non appare più minaccioso di uno schieramento di formiche. In assenza dei demoni, i loro sforzi per fiaccare la nostra resistenza non sono degni di nota, tanto che più di una volta i cavalieri di Laeverth sono usciti dalle mura con l'intento di distruggere le macchine da guerra del nemico e di ingaggiare in battaglia quelle creature, numerose ma molto meno addestrate. Il solo suono dei corni che annuncia la carica è sufficiente a spaventare e mettere in fuga i pochi che si azzardano a farsi più vicini alle mura per scalarle o tentare di sfondare le porte con un ariete, e l'olio bollente si prende cura dei più temerari. Sono lontana dalla battaglia, è vero, ma so tutto di quelle incursioni dai capitani dei valorosi cavalieri di Laeverth, che mi ragguagliano ogni sera sui progressi fatti per rompere l'assedio. Dalle loro parole trapela il clangore di metallo delle spade, il tremore della terra sotto gli zoccoli dei loro destrieri, la loro esultanza al crollo di un trabucco di legno dato alle fiamme e le urla di agonia di quelle orribili creature massacrate e dei nostri feriti. Di sera possiamo rallegrarci di una buona giornata.
Di notte, i demoni si svegliano, escono dalle loro tane e ogni nostro progresso viene vanificato. Sotto gli occhi dei loro crudeli padroni, i nostri nemici riprendono vigore e coraggio. Le catapulte colpiscono senza sosta, dardi incendiari oltrepassano le mura e le fiamme ardono alte tra le case per ore prima di aver ridotto in cenere le dimore della nostra bella città, o essere state spente da una squadra di volontari che portano acqua dai pozzi.
Siamo esausti. I guaritori lavorano senza sosta, giorno e notte, per rimettere in piedi i feriti che torneranno a combattere fino alla morte. Chi non è in grado di combattere, di notte si rifugia nelle cantine, o dietro le solide porte dei templi, poiché i demoni calano nelle strade e uccidono chiunque capiti loro a tiro. L'oro che abbiamo fuso per ricoprire le spade è l'unico metallo che riesca a scalfire le loro corazze, ma in città è sempre più raro trovarne ed è molto difficile mantenere affilate armi simili. È il simbolo più adatto per i soldati che difendono Laeverth: sempre più pochi, sempre più stanchi. Da giorni attendiamo rinforzi da Ossimoro che tardano ad arrivare.
– Sono degli ingrati! – mi dice mia figlia. – Dopo tutto quello che hai fatto per loro!
Invano la invito ad avere pazienza, a confidare nel messaggero che abbiamo inviato. Jossintaur non tradirà la mia fiducia, ne sono certa. Lui conosce tutta la storia, lui sa qual è la posta in gioco.
Siamo finiti nel mezzo di una guerra che non ci appartiene, non è alla caduta di Laeverth che mira il re dei demoni, bensì ad ottenere l'attenzione di Julian e a conquistare ciò che proteggiamo per suo conto. Julian di Ossimoro, cresciuta qui a Laeverth, la figlia di uno dei miei cavalieri. Era ovvio che avrebbe pensato alla regina della città di cristallo per custodire ciò che aveva di più prezioso, una volta capito che sarebbe stato in pericolo presso di lei. Pensava che i demoni avrebbero attaccato lei e la nuova città appena fondata, Ossimoro. Ma lui la conosceva bene, e prima di combatterla ancora una volta, voleva assicurarsi il controllo di ciò che io proteggevo, o la sua distruzione. Il Prisma, così piccolo, così importante.
La frattura tra il re dei demoni e Julian non poteva essere sanata nemmeno con il più potente dei cristalli magici, e ciò che chiamavamo "il Prisma" non faceva eccezione. Non si sarebbe fermato di fronte alla sua miracolosa perfezione. Ma non avevo considerato che non lo avrebbe fatto nemmeno mia figlia, non avevo pensato che sarebbe stata pronta a sacrificare un innocente per le nostre vite.
A mia insaputa, era uscita da sola dalla città per fare un accordo con i demoni.
Ma i demoni non fanno accordi.

***

Mi avrebbero restituito mia figlia in cambio della resa di Laeverth. Non mi dissero che me l'avrebbero restituita moribonda, al di là di ogni speranza di salvezza persino per il migliore dei guaritori che mi era rimasto accanto, assieme a una piccola scorta della mia guardia personale, che si assottigliava sempre di più nel tentativo di difendere la residenza estiva della mia famiglia, un palazzo non fortificato fuori dalle mura.
– Non possiamo fare nulla, maestà. Avete sacrificato Laeverth invano – mi rimproverano i guaritori.
– Ho sacrificato bianche mura, e torri dalle vetrate scintillanti. Uno scheletro vuoto, ma i suoi abitanti sono al sicuro, a piccoli gruppi, diretti a Escalona e alle città vicine. I demoni hanno seguito noi.
Pensano che io abbia il Prisma, ma non lo dico. Non è così.
La battaglia si è fatta più vicina, sento il clangore delle lame d'oro contro gli esoscheletri dei demoni appena fuori dalle porte della biblioteca, sento le urla, il fuoco che brucia. Non ho più bisogno di immaginarlo dai racconti dei capitani. Non mi restano che pochi momenti, e io so come spenderli.
Cerco un libro di incantesimi proibiti, conservato tra gli scaffali della mia biblioteca. Mostro ai guaritori la pagina nel cuore del grosso tomo che odora d'incenso, e loro spalancano gli occhi, spaventati.
– Pronuncerò io le parole, ma ho bisogno che mi aiutiate a predisporre il rito.
– Maestà... l'incantesimo prenderà la vostra vita... – mi ricordano, come se ce ne fosse bisogno.
– Siamo già morti, tutti noi, quando sfonderanno quelle porte. Ma lei... – Indico mia figlia che rantola sul tavolo della biblioteca. – Ha una possibilità. Vivrà di nuovo, e crescerà, e tornerà a casa, quando sarà pronta.
Jossintaur la proteggerà e l'aiuterà a ricordare. È la sua ultima promessa, e io so che non mi deluderà.
L'anima di mia figlia rinascerà questa notte oltre il confine che separa i due mondi, e avrà una possibilità di rimediare al suo errore e guarire la nostra terra martoriata dalla guerra.

sabato 21 maggio 2022

Stillicidio

Stillicidio [stil-li-cì-dio] s.m. (pl. -di) 1. Lento e costante gocciolamento. 2. fig. Successione ripetuta e monotona, spesso importuna o angosciosa.

Etimologia: dal latino stillicidium, composto da stilla, "goccia", e da un derivato del verbo cadĕre, "cadere".



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Osservo lo stillicidio di gocce minute dal rubinetto alla vasca d'acqua tiepida, e le increspature che rimbalzano sulle pareti di ceramica richiamano echi di memorie che non riesco pienamente ad afferrare. Momenti di un'altra vita, di altre mille vite che sono entrate in me guastandomi il presente.
Non ho bisogno di guardarmi allo specchio per sapere che il mio volto è una maschera inespressiva. Non ho bisogno di setacciare le impressioni di déjà-vu che mi salgono agli occhi a ogni istante per capire che non avrò mai più una prima volta.
Tutto è già stato fatto, visto, vissuto da qualcun altro che non ero io, ma che ora è me. Sospiro e mi alzo dal pavimento del bagno. C'è una cicatrice là dove la "cosa" che è la maledizione e l'eredità della nostra famiglia è entrata in me. Non riesco a vederla, ma la sento se la cerco con le dita. L'unico segno esteriore che da ieri sono una persona diversa, non più la ragazzina spensierata e ignara, ma una donna consapevole e mortalmente annoiata. Gli altri pensano che il mio umore cupo sia transitorio e dovuto al lutto; io glielo lascio credere, tanto grazie alla "cosa" sopravvivrò a tutti loro, proprio come ha fatto la mia bisnonna fino al giorno in cui non ha passato questo fardello a me.
Infilo i piedi nell'acqua tiepida, un altro piacere guastato da troppe memorie inafferrabili. Mi immergo e medito di porre fine a questa sequenza infinita di vite, di uccidere la "cosa" con me. Pensiero futile che mi dà un nauseante senso di frustrazione. Posso azzardare di non essere stata la prima a pensarci, ma naturalmente la "cosa" non ha alcuna intenzione di essere fermata. Potrebbe guarirmi, mantenermi in vita fino all'arrivo di un nuovo ospite idoneo, e allora sarebbe stato tutto inutile. Non ha mai funzionato prima, non funzionerà adesso.
Tutto ciò che mi resta è uno stillicidio di giorni monotoni nell'attesa di diventare troppo vecchia per trattenerla, nell'attesa del giorno in cui sarò costretta a rovinare la vita a qualcun altro.

giovedì 19 maggio 2022

La voce


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Foto di Chia Jung Chang da Pexels


Puoi sentirmi?
Mi voltai indietro, a guardare la mia famiglia o quel che ne rimaneva, sebbene ormai sapessi che la voce non veniva da nessuno di loro. C'era mio cognato su un ronzino grigio, con suo figlio accanto a lui a cavallo di un baio. La mia sorella più piccola, quindici anni appena, che ormai si era immedesimata nel suo ruolo di amazzone e sedeva in sella fiera, cercando di trattenere la smorfia di dolore per quella caduta a inizio viaggio ogni volta che la guardavo. E la vecchia Ma', la suocera di mio fratello, che teneva davanti a sé sul mulo un frugoletto di quattro anni dagli occhi azzurri, così piccolo e già orfano di entrambi i genitori. Mi seguivano tutti, anche se non sapevano dove stessi andando, e a dire il vero, nemmeno io lo sapevo.
Con un colpetto sui fianchi spronai Qele, la giumenta dal manto Isabella che era stata l'orgoglio delle mie scuderie, a precedere di qualche metro gli altri lungo il sentiero sterrato che stavamo percorrendo.
– Sì, ti sento – bisbigliai, certa che alle orecchie degli altri la mia voce sarebbe stata coperta dai colpi ritmici degli zoccoli. – Dove sei?
Vieni, fu la sola risposta. Sospirai.
– Chi sei? – chiesi, e restai in attesa. Nulla. Come sempre. – Ti avverto, se non avrò da te delle risposte, smetterò di fare quello che mi dici.
Ancora una volta la voce eluse le mie domande. Forse non era in grado di sentire me, o forse, era consapevole che il mio era soltanto un bluff. Avrei continuato a seguirla, a percorrere le strade che mi indicava, perché non avevo altro. Finora ci aveva sempre guidato in luoghi sicuri, dove avevamo trovato cibo e un riparo per la notte.
Avevo iniziato a sentirla il giorno in cui il mondo era precipitato nel caos. Se le avessi dato retta subito, forse avrei potuto salvare molta più gente. Ma non avevo creduto a quello che allora mi sembrava soltanto un pensiero folle.
Sella i cavalli, prendi l'indispensabile e vattene. Porta tutti quelli che ami se vuoi, ma vattene da lì.
Più tardi avevo interpretato quell'idea irragionevole come un mio istinto, e avevo ceduto all'urgenza di quelle parole, maledicendomi, quando ormai tutto stava già precipitando.
La campagna era così calma. I fischi e i canti degli uccelli, la brezza tra gli alberi, il lento dondolio di Qele che si muoveva al passo e il suo odore così familiare mi davano l'illusione di essere uscita solo per una passeggiata. Poi però mio cognato mi raggiunse, e il suo fucile a tracolla mi rammentò la nostra situazione precaria.
– Dovremmo fermarci – disse, e accennò indietro. – Ma' è stanca, e i cavalli hanno bisogno di mangiare. E anch'io non direi di no a uno spuntino.
Mi guardai attorno, mentre in silenzio interrogavo la voce.
Non fermarti. Ci sei quasi.
– Siamo troppo allo scoperto, non mi sento al sicuro qui – replicai all'uomo che cavalcava al mio fianco. Dovevo far apparire logiche le mie decisioni: se avessero saputo su che basi le prendevo non mi avrebbero seguito con tanta fiducia. Era molto probabile anzi che proprio mio cognato e suo figlio, così dipendenti dal mio giudizio, mi avrebbero dichiarato pazza e avrebbero iniziato a dettar legge e a comandare a bacchetta tutti gli altri. – Proseguiamo un altro po'. Dovremmo trovare un riparo più avanti.
Odiavo essere così vaga, ma non avevo altro modo di dare informazioni che io stessa non possedevo. Avevamo ormai superato da un pezzo le strade che conoscevo e che avevo percorso così tante volte a cavallo, in un altro tempo. Non era passato molto, ma sembrava una vita intera.
Presto. Vieni da me, presto. Puoi sentirmi, vero?
Non sapevo quello che avrei trovato alla fine della mia strada. Un amico, una trappola, o il nulla. Ma non avevo altra scelta, davvero non ce l'avevo, tornare indietro, in città, era la morte. Sbagliare strada e infilarsi in un vicolo cieco poteva condurre allo stesso risultato. Finora quella voce non mi aveva tradito, e potevo solo confidare che non iniziasse a farlo proprio al momento di rivelare la sua natura.
Qele nitrì e scosse il muso, solleticando con la criniera le mie mani sulle briglie. I suoi zoccoli non battevano più il ritmo sulla terra dura, ma affondavano in un terreno umido. Tirai le briglie per farla fermare.
Attorno a noi la campagna si era coperta di alti alberi, i cui tronchi si facevano sagome grigie nella nebbia in lontananza. Il sentiero si inerpicava verso l'alto in una scalinata di terra e legno consumata dal tempo. Scesi da cavallo e affidai le briglie di Qele a mia sorella.
Vieni. Vieni, vieni, vieni!
La voce aveva un'urgenza tanto fastidiosa che mi sembrava di sentire uno sciame di formiche mordermi le gambe. Mi trattenni quel tanto che bastava per guardare gli altri.
– Riposatevi. Io vado a vedere cosa c'è più avanti.
Le mie parole strapparono un gemito acuto a mia sorella. Non ci eravamo più separate da quando eravamo sfuggite assieme all'apocalisse, nemmeno per esplorare i casolari isolati ai quali la voce mi aveva condotto. Ma stavolta dovevo andare da sola.
Mio cognato mi tese il fucile, ma io scossi la testa.
– Tienilo. Proteggi gli altri. E se si avvicina qualcosa che non sono io, spara.
Li guardai tutti, ancora una volta, a uno a uno. Mio cognato, e il giovanotto che assomigliava molto più a mia sorella maggiore che a lui. La mia sorellina che nascondeva così bene la paura a tutti, tranne che a me. Ma', un pilastro di saggezza e conforto, e i grandi occhi azzurri di mio nipote, spalancati su un mondo che non era più quello che io avevo conosciuto alla sua età.
Sperai ardentemente che quello non fosse un addio.
Poi mi voltai e cedetti all'urgenza della voce, perché non potevo farci niente, perché sarei andata anche fino alla fine del mondo se quella sirena me lo avesse comandato.

lunedì 16 maggio 2022

La lettera mai scritta


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Cara sorella, e così, alla fine, sei venuta. Sei qui, a Mediaterram, proprio dove non saresti mai voluta andare. Non dopo quello che è successo il mese scorso.

Sospirai, cacciai quelle parole dalla mia testa e mi guardai attorno. La sala dal perimetro pressoché circolare era scarsamente illuminata dalle fiamme scoppiettanti del caminetto, da una serie di candele al centro del tavolo e da altre sopra la mia testa, su un lampadario di metallo brunito. Quel poco di luce che filtrava dalle vetrate alte e strette aveva una sfumatura azzurrina, e il tamburellare della pioggia sulle finestre continuava a distrarmi. C'era troppo rumore in quelle stanze del sapere, per me che ero abituata al candore asettico e muto del centro raccolta dati.

Va bene, mi dispiace di non essere qui con te, ma... dai, non fare quella faccia schifata, non puoi negare che Mediaterram non abbia un certo fascino. È come fare un viaggio nel tempo. In quale altro posto del mondo puoi dire di sperimentare in prima persona la vita di secoli fa?
E no, non dire che ci sono le simulazioni nel commlink, per quanto dettagliate non sono come la realtà.


– La realtà è molto peggio – mormorai nel rispondere a quelle parole con un sorriso malinconico.
– Giiiiàààà, Gaaaardy! – fece un uomo allampanato con un ciuffo verde e arancio in testa, che si innalzava sopra un cranio per metà rasato per poi ricadere sul lato destro, lì dove i riccioli biondi si attorcigliavano in spirali dalle punte azzurrine. Mi si affiancò con passo molleggiato e sollevò sulla fronte la copia, rigorosamente priva di tecnologia, dei suoi occhiali a iperrealtà. Era solo un inutile scheletro, la montatura e basta, eppure lui aveva preferito tenersela addosso. – Molto peggio di come te lo descrivono le brochure informative via commlink. La temperatura non è nel range ottimale. L'illuminazione va riconsiderata per essere funzionale alle nostre esigenze. I pacchetti di dati non sono chiaramente identificabili. – L'uomo, abbigliato in abiti troppo larghi e male assortiti, indicò gli scaffali colmi di libri sistemati in nicchie nelle pareti, tra una finestra e l'altra. – Esiste almeno un indice di ricerca?

Non riesco a credere che tu ti sia portata dietro Zed Ter. Non lo sopportavi quando stavamo assieme. Ti ha persino spaventato quella volta che se n'è venuto fuori con la sua assurda teoria sul killer del cinema. Quella che a uccidere non sarebbe una persona, ma un programma difettoso. Non ci avrai creduto, vero? Io non ci credevo.
Zed Ter, insomma, è bravo nel suo lavoro, ma certe idee sono un po' troppo estreme persino per uno fuori da tutti gli schemi come lui. Forse quella volta non avrebbe dovuto parlartene.
Mi è dispiaciuto quando hai smesso di venire al cinema con me.


– Mettiamoci al lavoro – gli dissi, per evitare di pensare al motivo che mi aveva indotto a recarmi fin lì. La questione fondamentale, la domanda alla quale cercavo risposta. Potevo pormela in forma astratta, come un enigma o un rebus, ma se la accostavo a mia sorella Dalia ero certa che non sarei riuscita a ricacciare indietro le lacrime.
Senza aggiungere altro Zed si diresse agli scaffali di sinistra, tra le finestre da cui si avvertiva ancora il forte tamburellare della pioggia, mentre io mi recai agli scaffali di destra, sotto la scala di pietra. C'era un intero secondo piano di scaffali, a cui si accedeva tramite la scalinata e una passerella larga a malapena un metro, prive di corrimano o balaustra. Non avevano proprio idea di che cosa fossero le norme di sicurezza, a Mediaterram.
Sperai di trovare quello che cercavamo tra i volumi sugli scaffali in basso, perché non avevo affatto voglia di arrampicarmi lassù.

Non puoi vivere solo di quello che è sicuro. Non puoi vivere senza correre qualche rischio, senza fare qualcosa di nuovo, azzardato, spaventoso. Non puoi vivere senza provare.
Altrimenti, come saprai quello che puoi riuscire a fare?
Non penso che tu abbia mai capito questo di me, sorella, almeno... non fino a oggi.
Sono felice che tu sia qui a Mediaterram per me. Che tu sia qui grazie a me.


– Trovato qualcosa? – chiese Zed, che già stava tornando al tavolo con una pila di libri. Lessi qualche titolo, ma dalla mia parte a quanto pareva c'erano solo manuali tecnici su invenzioni meccaniche dell'era previrtuale. Troppo avanzati per lo stile di vita di Mediaterram, non abbastanza per noi. Come tutti gli altri libri ritenuti inutili, invece di venire gettati via erano stati accantonati nell'area abbandonata della biblioteca, il che per noi era una fortuna.
Zed non era riuscito a provare la sua teoria con le informazioni a sua disposizione nel centro raccolta dati. Al punto in cui eravamo arrivati la programmazione di base non veniva nemmeno più effettuata da una fallibile mente umana, ma da un programma generatore perfetto e infallibile creato a sua volta da altri programmi.
Gli esseri umani intervenivano solo per adattare l'interfaccia ai gusti e alle esigenze degli utenti. Non sapevano quasi nulla di quello che si celava sotto la superficie. Non serviva: tutto era sempre filato liscio.
Ci si poteva fidare che un programma facesse esattamente quello per cui era stato creato. Gli esseri umani erano complicati, imprevedibili. I programmi no.

Spero tanto che tu e Zed Ter possiate trovare quello che cercate. Che in quei vecchi libri polverosi dalle pagine ingiallite si celi la risposta che tutto il mondo sta cercando. Sarebbe bello se le persone potessero tornare al cinema senza paura.
Inoltre... be', non pensare che sia un po' egocentrica adesso, ma sapere che quella risposta voi l'avete trovata per merito mio almeno un po' mi riempie d'orgoglio. Vorrebbe dire che quello che è successo non è successo invano. Che il mio essere lì, su quel volo diretto a Mediaterram, con quei caschi commlink sui quali è stato proiettato proprio quel film ha avuto un senso.
E che quello che è accaduto a me non accadrà più a nessuno.


Zed Ter mi fissò. Ero seduta al tavolo, di fronte a lui, ma non mi ricordavo di aver camminato fino al centro della sala né di essermi seduta.
Mi era capitato fin troppo spesso, negli ultimi tempi, di immaginare le lettere che mia sorella non poteva più scrivermi. Era con una lettera che mi aveva salutato prima di partire, e avevo riletto le sue ultime parole così tante volte da conoscerle a memoria. Era naturale che nel cercare un impossibile contatto con lei io non immaginassi di sentire la sua voce, bensì di leggere le sue parole.
Abbassai gli occhi e allungai una mano a trascinare verso di me un libro. Davanti a me trovai una vecchia penna stilografica e una pila di fogli su cui prendere appunti, probabilmente sistemati sul tavolo dai custodi che avevano aperto e illuminato quell'ala della biblioteca appositamente per noi.
Mi venne in mente che non ero certa di saperli usare. Le lettere virtuali via commlink si scrivevano da sole, bastava il pensiero.
A Mediaterram tutto era più lento, più faticoso, ma anche... più gratificante. Sì, riuscivo ad afferrare il suo fascino, capire perché in tanti preferissero vivere nel continente più arretrato della Terra invece di accogliere il progresso, le comodità e le distrazioni di un mondo moderno, rapido e volatile.
Iniziai a sfogliare il libro.

Se ci riesci, se trovi la risposta che cerchi, per favore... fai una cosa per me. Manda una mia virtuacopia che fa il segno della vittoria ad Aron Venedig e a tutti quelli che mi conoscevano a malapena ma che pensavano di conoscermi, con la scritta "Io ho contribuito a fermare il killer del cinema, e tu cos'hai fatto di buono nella tua vita?"
Ah, quanto sarebbe bello vederli diventare paonazzi dalla vergogna! Sarebbe proprio un bello scherzo, non credi?
Ma ora ti lascio alla tua ricerca, non voglio più distrarti, hai bisogno di concentrazione, lo so!
Ti ho voluto bene, non dimenticarlo mai. Lo so che tu continui a volermene, anche se non ci sono più.
Grazie per tutto quanto. Addio.
La tua adorata sorella
Dalia Fleur

sabato 14 maggio 2022

Facondia

Facondia [fa-cón-dia] s.f. Facilità di parola, scioltezza ed eleganza d'espressione.

Etimologia: dal latino pecunia, "facundia", derivato dal verbo fari, "parlare".



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Foto di Henri Mathieu-Saint-Laurent da Pexels


Altro che facondia, da bambino tendevo a balbettare. Non so se la mia insicurezza fosse dovuta ai continui trasferimenti della nostra famiglia, che mi relegavano sempre nella spiacevole condizione di "quello nuovo", il ragazzino che non aveva amici e che non si sapeva orientare. O, più probabilmente, la mia incapacità di esprimermi dipendeva dai miei amici segreti, quelli con cui non condividevo i banchi di scuola, bensì le notti stellate. Loro non avevano bisogno di parole per essere intesi, e un po' mi stavo adattando anch'io a parlare senza aprire bocca.
Questo a scuola mi mise in una brutta posizione: essere silenzioso, in un mondo di urlatori e primedonne, veniva spesso confuso con l'essere stupido. Fu uno dei miei insegnanti, il migliore che potessi trovare sulla mia strada, ad accorgersi di quanto fossi sveglio dietro la mia facciata taciturna.
Era un giovane insegnante di musica, forse alle prime esperienze dopo l'accademia, sebbene come tutti gli adulti a noi ragazzi sembrasse molto più vecchio di noi. Io, chiuso in un mondo che ai più sarebbe parso incomprensibile, invidiavo la sua passione e l'incredibile facondia con cui narrava di musicisti e compositori vissuti secoli addietro. Sembrava quasi che li avesse conosciuti, che avesse parlato con loro, e talvolta il suo eloquio assumeva i toni elaborati di un libro stampato, pur senza perdere un'oncia della sua spontaneità. Ascoltarlo era... magico.
Era come quando di notte ascoltavo i miei amici da lassù sussurrare i loro segreti alla mia mente.
Nonostante mi vedesse solo due volte la settimana, lui capì che assorbivo dalle sue lezioni molto più dei miei smarriti coetanei. E un giorno mi disse una cosa che non ho più dimenticato.
Fu grazie a lui se da quel momento mi iscrissi ai corsi di teatro e di retorica in ogni scuola che mi sono trovato a frequentare. Oggi gliene sono immensamente grato.
Perché puoi conoscere i misteri dell'universo, ma non puoi proteggerli se non conosci le parole per farlo.

giovedì 12 maggio 2022

Parole perdute


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Foto di Jimmy Chan da Pexels


Sono sicuro che conoscete la sensazione di aver smarrito una parola, da qualche parte nei meandri della vostra mente. Di essere lì lì per recuperarla, ma di non riuscire ad afferrarla del tutto, di sapere esattamente quel che volete dire, ma non come dirlo. Quel che si definisce, comunemente, "avere una parola sulla punta della lingua", sebbene in realtà non è tra le papille gustative che si è incastrata la malandrina che vi sfugge. Di certo l'avrete provata almeno una volta nella vita questa sensazione, se non molte di più.
Talvolta, a distanza di minuti o anche di ore, vi sarà capitato di ricordare la giusta sequenza di lettere che intendevate pronunciare in quel discorso ormai abbandonato, e che probabilmente lì per lì avrete sostituito con un generico "la cosa", spiegando in breve a cosa serve o come è fatta per farvi intendere. In altri casi, a un certo punto avrete smesso di pensarci, troppo presi dagli affanni della vita. E quella parola, quella che non siete riusciti a recuperare, si è davvero perduta per sempre.
È scomparsa. Svanita dai dizionari, dai libri e dalla mente delle persone.
Lo so, non ci credete. Allora fate una prova. Cercate in un dizionario, uno qualunque, il verbo "sbontecare". Nessun risultato, vero? Oppure cercate "lassuelo". O "storporato". O ancora "combeloria".
Se non ci riuscite, se non vi dicono niente pur sembrando a tutti gli effetti parole della nostra lingua, è perché tutte queste parole, un giorno, sono state perdute da qualcuno, e sono state perdute per tutti.
Come faccio io a conoscerle? Per dirvelo, devo prima raccontarvi la mia storia.
Ho avuto anch'io, come tutti, la mia dose di parole sulla punta della lingua. Ma che alla fine le ricordassi o meno, non mi è mai importato. Erano solo parole. Finché quello sulla punta della lingua non è stato il nome di una persona. Qualcuno che per me era stato importante, qualcuno che era uscito dalla mia vita all'improvviso, ma che a distanza di anni, dopo storie disastrose e brevi solitudini, sentivo il bisogno di ricontattare. Se non altro, per concludere quella storia come si deve, se proprio non c'era alcuna possibilità di riprenderla da dove l'avevamo lasciata. Perché sentivo che era rimasta aperta, ed era quella possibilità ancora in sospeso che stava rovinando tutte le altre.
Non c'era confronto. Nessuna era paragonabile a lei. Lei... che continuavo a chiamare soltanto con quel pronome, "lei", perché per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare il suo nome. E senza il suo nome, non c'era possibilità alcuna di ritrovarla, di scoprire in quale parte del mondo vivesse, tanti anni dopo il nostro ultimo incontro.
Non starò a raccontarvi di tutti i giri che feci presso amici e conoscenti per estorcere a loro il nome che era svanito dalla mia mente. I più non la ricordavano nemmeno, e quelli che si rammentavano di lei, non seppero dirmi come si chiamava o dove si fosse trasferita. Fu allora che cominciai la mia ricerca sulle parole perdute. Dapprima con esercizi per potenziare la memoria, per recuperare ricordi sepolti sotto strati di ciarpame, o per rilassarsi e lasciare che le parole venissero a galla da sé, senza sforzo.
Provai di tutto. Senza successo.
Finché non trovai, in un volume oscuro di un autore sconosciuto, un riferimento a un luogo che si diceva avere un effetto prodigioso sulla memoria di singole parole. L'autore indicava una foresta nel cuore della taiga, con tanto di coordinate e istruzioni per raggiungerla.
Feci i bagagli e partii. Avevo tentato di tutto, tanto valeva provare anche quello.
Imbacuccato in un giaccone pesante per difendermi dal freddo che mi condensava il respiro in nuvolette di vapore, risalii il torrente che scorreva tra i tronchi di pini e abeti secolari. Tra i loro rami cantava uno stormo di merli, e da qualche parte un cervo lanciava i suoi richiami d'amore, e di sfida ai rivali.
Mi ficcai le mani più in profondità nelle tasche. Faceva davvero freddo per quella che da queste parti viene considerata la bella stagione. Esalazioni pungenti di resina fresca dalle scaglie cadute da un pino mi fecero prudere il naso intirizzito.
Ma non mi diedi per vinto, e proseguii, facendo leva sulle gambe stanche. Proseguii anche quando il gorgoglio del ruscello e il canto dei merli mi parvero acquisire un senso, quasi fossero, invece di versi e suoni casuali, parole di senso compiuto. Ma non riuscii ad afferrarle, non riuscii a decifrarle.
Non almeno finché non mi appoggiai al tronco di un abete per riposarmi. Allora, come quando dalla punta della lingua sale alla mente quella parola a lungo cercata, rimembrai una parola che ero certo di non aver mai sentito: lascofante. E ne ero certo, sapevo che quella era una parola reale, o almeno lo era stata finché qualcuno non l'aveva perduta. La conoscevo, e conoscevo anche il suo significato, io e nessun altro al mondo. Toccai un altro albero, ed ecco un'altra parola. Tofanare. E poi evendio, e solcamido, e ingelcotato. Ogni albero della taiga era una parola perduta.
Non so come sia stato possibile, come quella foresta di parole abbia preso vita in quel luogo sperduto del pianeta. Se ci pensate, non è così strano. È agli alberi che affidiamo le nostre parole quando le scriviamo sulla carta. Questi hanno soltanto il vantaggio di conservarle da vivi.
Da allora vivo qui, nella gelida taiga, l'unico custode delle parole dimenticate, che raccolgo dalla corteccia albero dopo albero.
Ma quel nome, quello che sono venuto a cercare, ancora non l'ho trovato.

lunedì 9 maggio 2022

Croste di focaccia e unicorni


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Foto di Gareth Willey da Pexels


Giuro sui sette dei che non sono mai stato schizzinoso, da bambino. Mi ricordo anzi che mi mettevo in bocca di tutto, anche cose poco commestibili come un aspro frutto di aglar che ancora doveva maturare, o lo stufato colloso e assai troppo speziato di nonna Hilda, che poi nessuno ha mai saputo di che carne fosse fatto e forse è stato meglio così. Non era mia abitudine lasciare cibo nel piatto, anche a costo di scoppiare. Sensazione che avevo provato piuttosto raramente, dato che possedevo uno stomaco senza fondo e una famiglia senza fondi. Non che abbia mai patito la fame, di questo non posso lamentarmi, ma nemmeno sono stato mai vergognosamente satollo. Il più delle volte leccavo anche il piatto, fino a renderlo quasi più lustro di com'era stato estratto dalla dispensa.
Adesso che sono qui, abbandonato contro il tronco di un salice ad ascoltare il gioioso canto dei fringuelli che allieta la radura, non posso fare a meno di pensare alle tre croste di focaccia che ho lasciato nel piatto, più che per sazietà, per la fretta di partire per questa avventura. Le immagino ancora a casa, a invecchiare e rinsecchire su quel misero piattino, lasciate intatte quasi con rispetto dai miei numerosi fratelli e zii e cugini, in attesa del mio ritorno. Quanto vorrei averle qui con me, quelle tre croste di focaccia! Le sgranocchierei con gusto pur se vecchie di giorni e dure come sassi, tanto non sono mai stato schizzinoso. Il mio stomaco brontola, le mie budella si contorcono dal desiderio al solo pensiero.
Ma io sono bloccato qui in questa stupida landa di arcobaleni, scintillii e ruscelli zampillanti, e quel piatto tanto desiderabile è un miraggio troppo lontano.
Altre volte, mentre mi struggo dilaniato dalla fame, ripenso a quanto sono stati fortunati quelli che perdendosi nel bosco sono giunti a una casetta di marzapane. Affronterei una decina, ma che dico, un centinaio di streghe, pur di mettere le mani anzi, i denti e la lingua, su quel miracolo di edilizia dolciaria. Non mi lamenterei nemmeno se l'intera dimora mi crollasse addosso dopo aver azzannato un muro portante. Morirei felice, almeno, e con la pancia piena.
E invece no, noi dovevamo proprio perderci nel bosco e arrivare all'infame radura degli unicorni, un luogo terribile da cui non c'è ritorno. Oh, non lasciatevi fuorviare dai fiorellini profumati nei prati verdi, dal fruscio lieve del vento tra le fronde intrecciate l'una all'altra come in un dipinto, dai freschi ruscelli con le loro gaie cascatelle, dall'onnipresente dolce melodia degli uccellini che cinguettano tra le frasche, accompagnata a tratti da un misterioso magico arpeggio che si ode nell'aria. Qui nulla è reale, l'acqua non disseta e i frutti d'oro che pendono dai rami non saziano. Sì, sono dolci, non c'è che dire, buonissimi, tutt'altra cosa rispetto a un frutto di aglar acerbo o a una vecchia crosta di focaccia. Ma sono come aria nella pancia, che imperterrita continua a reclamare qualcosa di sostanzioso di cui nutrirsi. Lo so, ormai lo so, non c'è che un solo modo per sopravvivere nella radura degli unicorni: cedere alla magia di questo luogo, e diventare una creatura immaginaria. Solo così si può sperare di saziarsi brucando l'erba dei prati e addentando i frutti d'oro, e leccare la dissetante acqua zuccherina delle fonti.
L'ho visto accadere ai miei compagni di viaggio, uno alla volta.
Per primo ad Amos, che osò dire che se fosse stato un unicorno, forse questo posto non gli sarebbe sembrato così brutto. Inutile ricordargli che gli unicorni non esistevano da nessuna parte se non qui, appunto perché al pari di questo luogo, non erano reali. Detto fatto: al posto del nostro amico Amos c'era un cavalluccio bianco con un corno in fronte che se ne andava zampettando qua e là a sgranocchiare fili d'erba, nitrendo con gusto. Non ha più parlato, né dato segno di intendere quel che gli dicevamo, e in breve tempo ne abbiamo perso le tracce. Toccò poi a Delfo, e quindi a Folco, che preferirono un'esistenza immaginaria nella pelle di uno stolido unicorno piuttosto che patire un po' di fame. Herman sparì senza avvertire un giorno che eravamo addormentati, non so quanto tempo dopo, poiché qui è sempre giorno, un luminoso, limpido e tiepido giorno. Miro, stessa sorte, si addormentò uomo e si risvegliò equino munito di corno, chissà cosa aveva sognato. E Ruben, l'ultimo che era rimasto con me a condividere i morsi della fame, che aveva giurato e spergiurato "meglio morto di inedia che unicorno!", si è tramutato non troppo tempo fa con un luccichio d'arcobaleno e un riecheggiare d'arpa.
Sono rimasto da solo, qui, sotto le fronde di questo salice, a rimembrare con desiderio le mie tre croste di focaccia e a struggermi per non averle portate con me o mangiate quando ne avevo l'occasione. Lo so, non mi avrebbero salvato da questo splendido e irreale incubo.
La radura degli unicorni. Non cercatela, non c'è niente qui che valga la pena di essere trovato. Non esiste nemmeno, questo posto.
Ho troppa fame... quasi quasi mi mangio un po' d'erba.
Chissà perché non ci ho pensato prima.

sabato 7 maggio 2022

Panoplia

Panoplia [pan-ò-plia] s.f. 1. Armatura completa di un guerriero; in particolare quella degli antichi opliti. 2. Insieme di armi bianche o di parti di un'armatura, disposte su una parete o raffigurate a scopo ornamentale.

Etimologia: deriva dal greco panoplia, composto da pan, "tutto", e da oplon, "arma".



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Durante tutta la cerimonia me ne ero rimasta in disparte, al fianco della principessa come prevedeva il mio ruolo, che ufficialmente era quello di dama di compagnia. Invidiai Eric, poiché lui poteva essere se stesso, senza dover portare una maschera. Mio fratello, il nuovo cavaliere al servizio del re.
Non mi avvicinai per fargli le mie congratulazioni, ma ci scambiammo un cenno, da lontano. Solo a tarda notte, quando i festeggiamenti erano terminati e la mia signora dormiva al sicuro nel suo letto, sgattaiolai via per i corridoi deserti, diretta all'armeria. Conoscevo la strada, ci ero andata tante volte, specialmente a notte fonda, a fantasticare di fronte alla panoplia in bella mostra contro le pareti, lucida e luccicante alla luce di una candela. Mi ero immaginata indossare la cotta di maglia, allacciare gli schinieri, sollevare una spada e affrontare un misterioso avversario. Il più delle volte, il mio rivale aveva la brutta faccia di uno di quei signorotti che mi guardavano dall'alto in basso, tronfi nelle loro lucide armature indossate solo in occasione delle giostre.
Non avevano idea di che cosa significava davvero combattere. Io dovevo combattere ogni giorno per il diritto di stare dov'ero.
– E così, finalmente ce l'hai fatta – dissi, non appena scorsi mio fratello che rimetteva al loro posto le varie parti della panoplia da cerimonia.
– Già, e senza prendere scorciatoie. – Quando mio fratello si voltò e vide l'effetto che quelle parole avevano avuto su di me, scosse la testa e aggiunse: – Scusa. Non intendevo dire che per te è stato facile.
– Non lo è neppure adesso – replicai mentre mi avvicinavo per sciogliere gli ultimi lacci. Mormorai al ragazzino che lo stava aiutando a svestirsi di andare a dormire, che ci avrei pensato io. Quello protestò un poco, ma quando al mio ordine si aggiunse quello di mio fratello, il marmocchio si girò e filò via.
– Vedi? Nessuno dà retta a me – biascicai contrariata. – Non finché continuerò a indossare una gonna.

giovedì 5 maggio 2022

Due bicchieri e una tazza di veleno


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Gli affari migliori si facevano nei posti peggiori, questo era un dato di fatto. Specialmente in una città come Arend, dove la vita notturna era molto attiva e non sempre si svolgeva dal lato giusto della legge. Tanto meglio. Un po' di illegalità era ciò di cui avevo bisogno nelle ore più buie della mia vita.
Alla periferia della città, dal lato opposto rispetto all'ufficio-prigione in cui fino al giorno prima avevo lavorato, in un vicolo maleodorante e buio si apriva l'ingresso scalcagnato di una taverna così vecchia e male in arnese da non avere più nemmeno un nome. I pochi che avevano la necessità di nominarla, e che per qualche motivo non potevano riferirsi ad essa come "al solito posto" o "là dove sai", la chiamavano in genere "La taverna del vicolo", oppure "La vecchia signora", per via di un'insegna le cui lettere erano ormai sbiadite da tempo, ma che conservava ancora sul legno marcito una sagoma di donna che avrebbe dovuto accompagnarle. Ci ero già stata qualche volta, perlopiù in cerca di traditori che valutassero più il mio oro che la loro lealtà a un uomo dai giorni contati. Era risaputo che quando un Bollatore ti dava la caccia eri un uomo finito. E io mi ero beata sovente dell'effetto che le insegne sulla mia giacca e i miei riconoscibilissimi capelli azzurri avevano sulla gente che conduceva una vita meno che onesta, del timore che potevo incutere, delle occhiate furtive e dei bisbigli ridotti al silenzio.
Ma non quella volta.
Erano anni che non spegnevo il chip-colore che alterava la tinta della mia chioma, e non riuscivo a riconoscermi con il mio colore naturale, un castano chiaro dai riflessi color topo. Lo odiavo. Tirai sulla testa il cappuccio di un mantello di feltro marrone, ruvido e scomodo, ma anonimo, ed entrai dalla porta mezza scardinata della vecchia signora, che si richiuse con un tonfo dietro di me. Nessuno interruppe i suoi bisbigli, nessuno mi rivolse più di una mezza occhiata o smise di giocare ai dadi o di scambiarsi somme di denaro per quelle che erano di sicuro attività illecite. Individuai il mio bersaglio al tavolo grande accanto al caminetto, circondato dai suoi sodali, a bere, gozzovigliare e ridere sguaiatamente. Erano la compagnia più rumorosa dell'intera taverna, difficile non accorgersi di loro.
Sotto al mantello, sfiorai il mio timbro da Bollatore. Lo avevo portato, com'ero solita fare, nella fondina alla cintura, sebbene fossi lì in veste tutt'altro che ufficiale.
Ignorai la smorfia seccata della cameriera che spazzava cenere e briciole sulle assi del pavimento davanti ai miei piedi, e mi avviai incontro a quella che mi auguravo essere la mia salvezza.
L'uomo dai riccioli neri e un velo di barba sul volto pieno, conosciuto come Mister Forse, fu il primo ad alzare gli occhi quando mi fermai davanti al loro tavolo. Diede una gomitata al tizio biondo, capelli cortissimi, giacca di un rosso sgargiante e un braccio sulle spalle di una brunetta dalla risata facile. Prima di costui, però, mi ritrovai addosso lo sguardo arcigno della sua guardia del corpo, uno spilungone ingessato con una cicatrice che scendeva dalla fronte alla guancia, sfiorando appena l'angolo dell'occhio sinistro. Era il famigerato Messer No, e a lui bastò schioccare due volte le dita, pur nella confusione che regnava attorno alla tavola, per attirare l'attenzione del biondo.
Quest'ultimo, ovvero la persona che ero venuta a incontrare, mi fissò brevemente dal basso, senza riconoscermi.
– Prova a un altro tavolo – mi disse infine. – Non faccio la carità, ragazza.
Replicai al suo commento condiscendente con un sorriso sfrontato. – Mai avuto bisogno di soldi, Signor Sì. – Tipico di una persona arrogante, darsi un soprannome che costringesse gli altri a giurare obbedienza ogni volta che lo chiamavano. – Se ricordo bene, e io ho una buona memoria, di solito sono io a elargirli qui dentro.
Più che le mie affermazioni, fu il timbro della mia voce a sortire il suo effetto. Già dalle prime parole il Signor Sì tolse il braccio dalle spalle della brunetta e si protese in avanti, a guardare meglio il mio volto sotto il cappuccio. Tirò un fischio e disse: – Ma guarda chi abbiamo qui, la famosa Maryna Hìevis, il Furetto dai Capelli Azzurri!
Al sentir pronunciare quel nome furono in parecchi a voltarsi e a fissarmi, e tanti saluti all'anonimato.
Afferrai una sedia libera da un tavolo vicino e mi sedetti a quello del Signor Sì e dei suoi compari.
– Come si sta dall'altra parte, tesoro? – ironizzò il biondo. – Il look da ricercata ti dona.
Strinsi i pugni sotto al tavolo. Speravo che quel brandello di informazione non fosse ancora di dominio pubblico, e invece la notizia si era diffusa più velocemente del previsto. Non persi tempo a dirgli che ero stata incastrata, quello lo dicevano tutti. Tirai fuori qualche moneta e la misi sul tavolo.
– Ne ho duemila per te se mi dai l'indirizzo del migliore falsificatore di firme in circolazione. Altrettanti per il tuo uomo, più altri mille per te se sarò soddisfatta del lavoro.
Non lo dissi, ma per soddisfatta io intendevo che il Signor Sì doveva condurmi al primo colpo al tizio che aveva usato la mia autorizzazione per l'ingresso al deposito bolli dell'ufficio-prigione di Arend proprio il giorno della grande fuga, quando tutti i criminali vecchi e nuovi erano stati liberati dalle loro minuscole celle. Ci avrei pensato io poi a cavargli di bocca il nome di chi lo aveva ingaggiato.
– Quattromila – replicò il Signor Sì, e in tono di voce roco e canzonatorio aggiunse: – Hai il fiato dei Bollatori sul collo, ragazza, non puoi permetterti di fare la schizzinosa.
– Quattromila, va bene – concessi, perché lui aveva ragione. Dovevo sbrigarmi a provare la mia innocenza, o non avrei avuto altre occasioni di farlo.
Il Signor Sì si allungò all'indietro, chiamò l'oste e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. Il calore del fuoco che crepitava nel caminetto mi infastidiva, ma non quanto un'intera sala piena di persone senza scrupoli che non avevano molta simpatia per i Bollatori, e non vedevano l'ora di poter regolare i conti con uno di noi senza conseguenze. La mia caduta in disgrazia era proprio l'occasione che stavano aspettando, perciò ascoltai con attenzione i bisbigli più vicini, e scrutai la cameriera che ancora spazzava il pavimento a poca distanza dal nostro tavolo, girando ora da un lato ora dall'altro dei tavoli più vicini in un malcelato tentativo di ascoltare i nostri discorsi. Mi interruppi quando arrivò l'oste a posarmi di fronte il bicchiere.
– Gin, il tuo preferito. Offro io. Ho appena concluso un buon affare – annunciò il biondo, ridendo.
Afferrai lesta il suo bicchiere, versai il contenuto nel mio e poi divisi di nuovo il mix alcolico nei due calici. – Un brindisi? – gli chiesi, sollevando il mio bicchiere.
Fu lì che cominciai a capire che qualcosa non andava, perché il Signor Sì fece una smorfia schifata e spinse di lato il bicchiere che gli avevo restituito.
– Ah, io non lo bevo, capo – borbottò Mister Forse.
Sollevai il bicchiere che ormai non conteneva più un liquido del tutto trasparente, mischiato com'era al liquore color ocra del Signor Sì. – Peccato, sembra un'ottima annata – dissi, in tono divertito. – Qual è l'ingrediente segreto?
Come se non avessi appena rivelato che ero consapevole della trappola che mi avevano teso, presi dalla borsa sotto il mantello una cannuccia, la ficcai nel bicchiere e con quella succhiai un sorso del liquido. Non ero più un'apprendista, eppure avevo conservato quel vezzo dal tempo in cui lavoravo con Hashum il Lupo. In pochi sapevano che quella cannuccia di mia invenzione nascondeva una serie di filtri antiveleno, più uno che abbassava il grado alcolico delle bevande che trangugiavo. Molto utile per fingere di ubriacarsi e non esserlo affatto, ma al momento non era a quell'ultimo filtro che stavo affidando la mia vita.
Da un angolo della taverna provenne il rumore metallico di un coltello che veniva affilato. Bevvi un altro sorso, e un terzo, poi appoggiai il bicchiere sul tavolo, ondeggiai, e infine mi abbandonai sullo schienale della sedia. Messer No rivolse un cenno a qualcuno nell'ombra. Il rumore metallico cessò, e qualcuno si avvicinò a me di soppiatto da dietro.
O almeno, provò a farlo.
Quando sentii che era a portata di mano, mi alzai lesta, afferrai la sedia su cui stavo seduta fino a un istante prima e mentre l'energumeno caracollava in avanti per la sorpresa, compii una giravolta e la calai sulla sua schiena con tutta la forza che avevo, il che vuol dire molta di più di quella di cui disponeva una donna della mia taglia, considerando che indossavo un paio di polsiere acceleranti.
Estrarre dalla fondina il mio timbro da Bollatore e marchiare la sua nuca fu un attimo. Un lampo, e l'energumeno non c'era più. Al suo posto, raccolsi da terra un quadratino sottile che lo raffigurava.
Non so quale duevite avesse inventato la tecnologia, perché di certo doveva essere stato uno di noi, ma quella dei bolli era stata una trovata geniale. Le persone che infrangevano le regole venivano semplicemente tolte dalla circolazione e finivano in una sorta di animazione sospesa nel deposito bolli dell'ufficio-prigione. Nessuno spreco di spazio, di cibo per mantenere i prigionieri, e nessun corpo di cui disfarsi. Non serviva neanche più un tribunale, solo una richiesta di cattura da parte di un'autorità cittadina o regionale. E un Bollatore che si prendesse la briga di mettersi sulle tue tracce.
– Tutto a posto, gente, era sulla mia lista – annunciai in tono allegro, per tranquillizzare i clienti, l'oste e le cameriere che erano rimasti di sasso alla cattura. Quelli, almeno, che non se l'erano data a gambe rovesciando bicchieri e sbattendo la porta. Era piuttosto raro che una simile operazione avvenisse in mezzo alla gente, di solito chi sapeva di essere braccato fuggiva o si nascondeva alla vista di un Bollatore, quindi nessuno di coloro che erano rimasti si lamentò che non avevo seguito la procedura, o provò a chiedermi di mostrargli la richiesta di cattura. Non avevano idea che da quando ne era stata emanata una per me, tutte le catture che avevo in sospeso mi erano state tolte.
Mi trovavo proprio là, nell'ufficio-prigione, a registrare le mie ultime catture quand'era arrivata. Se mi ero salvata dall'essere bollata all'istante, era stato solo per merito di Nadir che mi aveva avvisato, e di Hashum il Lupo che aveva rifiutato di accettare la richiesta di cattura di un altro tra quelli che erano stati suoi apprendisti. L'ufficiale aveva perso tempo per andare in cerca di qualcuno che si prendesse l'incarico, e io non ero rimasta là a farmi trovare. Non sarei stata sorpresa se alla fine fosse stata Zondra a offrirsi per la mia cattura. E mi dispiaceva, mi dispiaceva immensamente che Hashum, il mio maestro, fosse stato portato a credere di aver fallito con un altro apprendista.
In piedi tra i pezzi di legno della sedia in frantumi, intascai il bollo e la cannuccia.
Il Signor Sì allargò le mani e fece spallucce. – Scusa, Furetto dai capelli non più azzurri, ma mi è già stata fatta un'offerta migliore.
La brunetta al suo fianco sghignazzò.
– Raddoppio la mia offerta – annunciai serafica, e rigirandomi tra le dita il timbro da Bollatore, aggiunsi: – E se non dovessi trovare la cifra sufficiente, potrei trovare io per te un posto nella mia lista.
Il Signor Sì sbiancò e deglutì a vuoto. Ricordavo quanto si fosse vantato, in un precedente incontro, di aver sempre camminato sulla sottile linea tra lecito e illecito, tale da non attirare mai sulla sua testa una richiesta di cattura, nemmeno per una detenzione temporanea. "Le persone più intelligenti tra noi sanno quando tirare la corda e quando mollarla per non essere buttati a gambe all'aria", aveva detto. "E io sono molto intelligente".
Per mia fortuna, non abbastanza da capire che non avevo inchiostro per un secondo timbro.

lunedì 2 maggio 2022

Soggetto da esperimenti


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Chokniti Khongchum da Pexels


Da quando sono nato, la mia vita è stata una continua serie di esami ed esperimenti. No, non è esatto dire che sono nato. Io sono stato creato.
La mia specie ha un altissimo fattore rigenerativo, il che è di notevole aiuto per un popolo che tende a mettersi in situazioni pericolose solo per testare i limiti del proprio fisico e della propria mente e documentare i risultati nel modo più dettagliato e preciso possibile, ma ciò che è stato fatto nel mio caso è estremo persino per noi.
Quattro volontari hanno donato un occhio ciascuno, e da quella materia organica, immersa in una soluzione di nutrienti e stimolata da apposite proteine con le necessarie istruzioni codificate, per mezzo del processo di rigenerazione mi sono formato io: un bambino con gli occhi da adulto. Una chimera, poiché nel mio corpo coesistono quattro sequenze di geni differenti. E questo particolare, per gli scienziati che mi hanno creato, era interessante da studiare quanto la mia creazione.
Intendiamoci, non mi lamento. Ritengo che esistere sia preferibile all'alternativa. Inoltre, per il precetto morale della trasparenza, ho pieno accesso a tutti i miei dati, e una volta che avrò soddisfatto la curiosità dei miei creatori, potrò decidere autonomamente che cosa fare della mia vita. Ma non è ancora giunto quel tempo, e ciò mi aggrada, poiché il mio interesse nel conoscere quanto più possibile su me stesso è pari a quello degli scienziati che mi stanno studiando, e in più di una occasione ho suggerito test ai quali non avevano pensato.
Che posso dire, sono un soggetto degno di nota. L'esperimento che mi ha dato vita non era mai stato tentato prima, e già il fatto che sia stato un successo ha prodotto un notevole avanzamento delle nostre conoscenze in campo medico e biologico.
Chissà cos'altro ne scaturirà negli anni a venire.
Negli ultimi tempi ho cambiato dimora molto di frequente, per via di una serie di esperimenti volti a indagare le reazioni del mio fisico agli ambienti più estremi del nostro pianeta. Ero stato nella fascia tropicale, dove il caldo e l'umidità erano asfissianti; ero stato in deserti di sale, in claustrofobiche grotte sotterranee e persino nei pressi di sorgenti solforose che avvelenavano l'aria con i loro miasmi.
Nessun luogo mi aveva impressionato come la distesa di ghiaccio della tundra gelata.
A vederla dall'alto, con i riflessi azzurrini sul suo manto candido, sembrava quasi bella. Al sicuro, nel ventre dell'aviotrasporto che ci aveva condotto fino alla stazione di studio numero 47, non dava affatto l'impressione di un luogo inospitale, ostile alla maggior parte delle forme di vita. La sua apparente uniformità, venata da crepacci e interrotta da spuntoni di ghiaccio che s'innalzavano frastagliati e taglienti come lame nella pianura, la facevano apparire ai miei occhi una pacifica, tranquilla meraviglia. Naturalmente, mi sbagliavo.
Lo capii il giorno in cui feci la mia prima uscita dal bunker sotterraneo che costituiva la mia nuova casa. Gli scienziati avevano scelto un giorno in cui le condizioni erano molto diverse rispetto a quelle che avevamo trovato al nostro arrivo. In quell'occasione il freddo pungente di una bella giornata di sole non aveva fatto in tempo a penetrare sotto ai miei abiti termici nel breve tragitto dall'aviotrasporto all'ingresso della stazione di studio.
Il mio primo impatto ufficiale con la tundra gelata invece avvenne in durante una bufera. Gli scienziati non avrebbero potuto trovare un momento migliore per mettere alla prova la mia resistenza e il mio orientamento. Flagellato dal vento che mi fischiava nelle orecchie e che minacciava di buttarmi a terra a ogni passo, la lenta avanzata verso il vecchio sito di ricerca che mi era stato mostrato nelle mappe fu lunga e penosa. Non era distante, e in una giornata serena ci sarei arrivato comodamente senza perdere di vista l'ingresso al bunker, ma la tormenta mi disorientò e mi portò fuori strada. Riuscii a raggiungere il sito compensando il mio errore non appena me ne resi conto, ma nonostante i miei calcoli esatti sul tempo impiegato e la distanza percorsa, quella passeggiata mi parve comunque eterna. Indossavo i guanti termici, eppure le mie dita erano intirizzite e rigide quando mi chinai a prelevare il campione di ghiaccio richiesto. Ritrovare l'ingresso del bunker con il vento che dalle mie spalle mi spronava a correre e a incespicare nei mucchi di neve, e fermarmi prima di superarlo, fu anche più faticoso.
Ero stato creato come soggetto da esperimenti, sì, ma non mi ero mai sentito un pezzo di carne in balia di forze più grandi di me, prima di quel momento.
Quando rientrai nella stazione di studio mi affrettai a sottopormi agli esami prima che l'effetto del gelo sopportato svanisse dal mio corpo, poi ebbi il tempo di esaminare il campione che avevo raccolto come prova di aver effettivamente raggiunto il sito che era il mio obiettivo. Incastonato nel ghiaccio trovai i minuscoli rami di una specie vegetale che mi era ignota. Ne chiesi notizia agli scienziati che stavano studiando i miei parametri vitali, e loro mi risposero con un codice molto simile a quello che identificava me come soggetto sperimentale, e che era diventato il mio nome.
I dati degli studi effettuati erano disponibili a tutti, perciò non ebbi difficoltà nel reperire informazioni sul vecchio progetto, ormai abbandonato, di creare una specie vegetale in grado di sopravvivere e prosperare nello strato di ghiaccio, e da cui gli scienziati avevano tentato di ricavare energia per alimentare le stazioni di studio disseminate nella tundra. Il progetto com'era stato inteso dai suoi creatori era stato un fallimento, ma la nuova specie era sopravvissuta e si era diffusa.
Quell'alga era responsabile dei riflessi azzurri che avevo visto dall'alto.
Oggi, a ripensarci, posso rintracciare in quella scoperta la genesi di un'idea che si fa sempre più concreta, man mano che il tempo del mio affrancamento si avvicina. In quell'alga abbandonata che nel tempo libero tra un test e l'altro studiai a mia volta, cercando un modo di riuscire là dove altri scienziati del mio popolo avevano fallito. Non ha importanza che fu un tentativo futile, ciò che conta fu che nel tempo che mi fu concesso mi presi cura di una creatura artificiale quanto me, con la quale condividevo la genesi in un laboratorio in vista di un preciso scopo. Eravamo due mostri che per caso si erano incontrati.
E forse, quando sarei stato anch'io il soggetto di uno studio abbandonato, avrei potuto cercarne altri, radunarli, proseguire nella ricerca della conoscenza che potevano fornire oppure, semplicemente... prendermene cura.