lunedì 30 marzo 2020

Passeggiata artistica


Immagine ritagliata, originale liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
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Non so come sono arrivata fin qui. Camminando, presumo.
Quello in cui mi trovo sembra un parco, ma di sicuro non è un parco comune. Passeggio lungo il viale con la testa all'insù perché gli alberi allineati ai miei fianchi sono matite dalle cui punte fioriscono rami colorati, la stessa tinta del tronco, un arcobaleno che mi sfila accanto al ritmo dei miei passi. Il cielo e il prato sfumano l'uno nell'altro in una delicata, liquida tavolozza acquerello, tanto che non riesco a distinguere l'orizzonte, perso in una scia sfocata. Non vedo un singolo edificio qua attorno, non c'è la città, nessun tetto che possa fungere da punto di riferimento. Senza, mi sento persa. Ma è una sensazione dolce questo smarrimento, e la meraviglia mi afferra per le caviglie nel rendermi conto che, sotto i miei piedi, il viale è lastricato di gessetti colorati, e nel volgermi indietro scorgo una scia di impronte di colori rubati e depositati sul gessetto successivo: rosso sul giallo, giallo sul rosa, rosa sul blu, blu sull'arancione, arancione sul verde, verde sul viola...
Ai lati del viale, su steli che si curvano mollemente, si allargano corolle di pennelli macchiati da tempera variopinta. Raggiungo una panchina, ma seduta e schienale sono due lunghe tele dipinte a metà, sormontate da un cartello con su scritto "vernice fresca". Non mi siedo, per non sporcare i miei abiti bianchi. Attirata da zampilli e sciabordii musicali proseguo tra cespugli di pastelli dalle foglie di carta. Le file di alberi matita si aprono in prossimità di un lago dai riflessi impressionisti. La superficie è pittura a olio, densa e pesante, e ho la sensazione che potrei quasi camminarci sopra. Ma non ho bisogno di provarci: un ponte di gomme e grafite conduce a un'isola, dove tra gli immancabili alberi matita di ogni varietà e sfumatura scorgo la sommità di un gazebo formato da un intreccio di pennarelli.
Ancora mi stupisco perché, nonostante la sensazione di familiarità che mi scorre sottopelle indelebile come un tratto di china, io sono altrettanto certa di non essere mai stata questo luogo.
Io non lo conosco. Non so come sono arrivata fin qui.
E poi ricordo. Non si può uscire di casa, niente passeggiate al parco in questi giorni. Stavo dipingendo un quadro nel mio studio, un paesaggio e, chissà come, devo esserci scivolata dentro.

sabato 28 marzo 2020

Malerba


Malerba [ma-lèr-ba] s.f. 1 Erbaccia. 2. fig. Persona disonesta o invadente; cosa nociva e fastidiosa.

Etimologia: parola composta da mala, femminile di malo, ed erba.

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La gente che non mi conosceva mi chiamava Weed, erbaccia, perché vivevo in una baracca circondata da un giardino incolto, un piccolo pezzetto di terra in cui cresceva rigogliosa ogni tipo di malerba, e in cui prima che la occupassi si riunivano i balordi a fumare. Tutti sapevano che ero stata io a cacciarli, anche se non sapevano come avesse potuto farlo una ragazzina gracile come me. E un'altra cosa ignoravano: che a far crescere così tanto l'edera e il vilucchio e la gramigna e il sorgo selvatico e ogni genere di piante infestanti, ero stata io.
Per i pochi amici che mi venivano a trovare io ero Daisy, la margherita, il fiore di campo che rideva con loro e che passava il tempo tra chiacchiere e consigli. Alcuni di quegli amici erano stati una volta i balordi che fumavano erba, e che avevo convinto a stare alla larga dal mio giardino. Non c'era niente per loro da me, nulla da rubare, niente di valore, e lo sapevano che se mi avessero tradita mi avrebbero persa per sempre. Perché una margherita è così, puoi giocare con lei a m'ama non m'ama, ma una volta tolti i petali la margherita non c'è più.
Nessuno di loro sapeva che un tempo ero stata un fiore più nobile, uno di quelli che si coltivano nelle serre delle ville per bene. Nessuno di quelli che mi disprezzava poteva immaginare che la malerba che infestava il loro sobborgo con il suo sguardo sfrontato e la sua selva di erbacce inutili era stata un tempo, per i suoi genitori, la preziosa Rose Wineland.
Ma quello era il passato, e io me n'ero andata perché la mia famiglia non avrebbe capito cos'ero diventata, non mi avrebbero mai accettato selvatica com'ero, e non avrebbero mai compreso che ormai mi sentivo più pianta che umana.

giovedì 26 marzo 2020

Qualcosa per cui festeggiare


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Non mi sentivo dell'umore adatto quando Ariele se ne uscì fuori con un: – Dobbiamo festeggiare!
Mi guardai attorno. Anna era in ginocchio, con le mani che le tremavano e lacrime silenziose che le scorrevano sulle guance. Sellit le aveva appoggiato la giacca sulle spalle, e senza muoversi dal suo fianco dirigeva con i gesti e con poche parole gli sconosciuti che avrebbero dovuto essere i veri eroi di questa faccenda, i nostri salvatori, se solo non fossero arrivati in ritardo.
Stavano avvolgendo il corpo di Dhamantin in un sudario. Non avrei più rivisto la sua orribile faccia, se non nei miei incubi, ma questa era una magra consolazione.
– Non c'è niente da festeggiare – mormorai, e il mio sguardo corse ad Alex. Era piegato in due, a vomitare con le scarpe immerse nel sangue di Dhamantin, ma anche nel vederlo così, pallido e sofferente, il mio cuore sembrò fare un balzo verso l'alto. Una cosa da festeggiare ce l'avevamo: Alex era vivo. Anna gli aveva scoccato una freccia dritta nel cuore, e lui era vivo.
Cercai in tasca un pacchetto di fazzoletti e mi mossi verso di lui, ma uno degli sconosciuti fu più veloce di me.
Alle mie spalle, Ariele esclamò: – Come non c'è niente da festeggiare? Ragazzi, abbiamo salvato il mondo! Non capita tutti i giorni, no?
Feci una smorfia. Ne avrei volentieri fatto a meno, e di sicuro anche Anna.
Ma Alex si pulì la bocca, si raddrizzò e disse: – Ariele ha ragione. Dovremmo.
Lo vidi sparire, proprio come aveva fatto, per un attimo appena, quando la freccia l'aveva raggiunto. In questo caso rimase nella distorsione un po' di più di qualche secondo. Riapparve di fronte a me, barcollante e senza scarpe: le aveva lasciate nel sangue. Gli tesi un braccio, ma lui non ne ebbe bisogno per reggersi in piedi. Era ancora pallido e scarmigliato, ma sorrideva.
– Mi hai visto? Posso farlo, ne sono in grado, io... – Alex si lasciò sfuggire un sospiro. Sembrava diverso dal suo solito modo di fare composto e controllato, e di sicuro era molto diverso dal relitto umano che era diventato quando Dhamantin aveva rotto il suo Simpler, il marchingegno che era stato il suo unico modo per accedere alla distorsione fino a quel momento. – Mi sembra incredibile.
– Lo sapevo che eri uno di noi. Ben fatto, ragazzo. – Sellit gli diede una pacca sulla spalla, prima di allontanarsi verso gli sconosciuti che stavano ripulendo la stanza. – Andate a festeggiare. Io vi raggiungo più tardi.
– Sì, si festeggia! – esultò Ariele, battendo le mani.
Alex guardò in basso, e anche io, quando Anna gli si avvinghiò alle gambe e le sue lacrime furono accompagnate dai singhiozzi.
– Ho ucciso... io ho... e potevo... – la udii mugolare, tra un respiro soffocato e l'altro.
Mi inginocchiai e la abbracciai.
– Anna – disse Alex, e proseguì solo dopo che era certo di aver ottenuto la sua attenzione. – Tu mi hai salvato. E mi dispiace, mi dispiace di averti chiesto una cosa così stupida...
Anna scosse la testa e si asciugò le lacrime con le mani. – Non sei stato tu. Lo avevo già promesso. – Anna accenno a Sellit. – A lui.
Solo allora mi ricordai della telefonata. Era logico: Anna era l'unica tra noi che avesse un'arma vera, e non un set caricato nel Simpler che funzionava solo nella distorsione. Sellit voleva Dhamantin morto, e nel caso i rinforzi non fossero arrivati in tempo per coglierlo alla sprovvista mentre noi facevamo da esca, il bastardo si era preparato un piano B.
Stavo per andare a dirgliene quattro, ma Anna mi afferrò per una manica. – Io voglio – mormorò. – Fe... festeggiare.
Un grido d'entusiasmo da Ariele mi fece alzare gli occhi al cielo. – Andiamo, allora! Conosco un bel locale qui in zona... e non faranno domande, da quelle parti!
Scorsi Anna allungare la mano verso l'arco, per poi ritrarla e lasciarlo lì. Io e Alex l'aiutammo a rimettersi in piedi, poi ci incamminammo dietro alla quattordicenne che non la smetteva un attimo di blaterare: – Però, quanto puzzate! Devo portarvi a darvi una ripulita prima, altrimenti mi farete fare proprio una bruttissima figura! E poi tutti alla festa per il salvataggio del mondo! Anche se non lo possiamo dire a nessuno, faremo finta che sia un compleanno, però, ehi! La festa segreta per il salvataggio del mondo suona bene, no?
Nessuno ebbe il coraggio di ricordarle che lei non aveva fatto niente. O forse era soltanto che la sua allegria contagiosa ci stava risollevando almeno un po' il morale, e noi non volevamo che finisse.

lunedì 23 marzo 2020

Storia di un'apocalisse mancata


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La vita umana è una serie di apocalissi mancate. Prendete il 1989, per esempio.
Ogni anno ha il suo carico di problemi e disgrazie e scenari da fine del mondo, ma il 1989 fu un anno speciale. La nostra fortuna è che siamo veloci a dimenticare una volta scampato il pericolo. Oggi, in questi mesi di inizio 2020 da epidemia globale, probabilmente sono pochi quelli che ricordano il giorno in cui la Terra fu quasi colpita da un asteroide. Era il 23 marzo 1989, ancora in piena emergenza per le conseguenze del disastro nucleare di Chernobyl e con il muro di Berlino che già iniziava a traballare, e mentre il governo italiano annunciava nuovi pesanti tagli alla sanità (che con il senno di poi avremmo volentieri evitato) e dall'altra parte del mondo i ricercatori Stanley Pons e Martin Fleischmann rivelavano il raggiungimento della fusione fredda, tutta l'umanità era beatamente inconsapevole di quanto vicina fosse andata all'estinzione, e che il pericolo proveniva non dalla Terra e dai suoi abitanti, bensì dal cosmo.
Sopra le nostre teste, proprio quel giorno, l'asteroide 4581 Asclepius, un bestione di 300 metri di diametro sparato a una velocità di 20.500 metri al secondo, stava passando a una distanza di appena 700.000 km dalla Terra. Può apparire tanto, 700.000 km, ma in termini di distanze astronomiche questi 700.000 km equivalgono a uno sfiorarsi, considerato che la Terra si trovava in quel punto esatto appena sei ore prima. Proprio così, l'asteroide 4581 Asclepius ha mancato la terra di appena sei ore. E tutto ciò noi non lo scopriamo che otto giorni più tardi.
Riuscite a immaginare gli astronomi che hanno scoperto il fatto tirare un sospiro di sollievo tardivo? Perché loro lo sanno, che enorme differenza hanno fatto quelle sei ore di ritardo. Per loro, quelle cifre di cui vi ho parlato non sono soltanto cifre: sono terra e piante e animali vaporizzati nell'impatto, e piogge acide, e tempeste di fuoco, e un lungo, buio inverno nucleare. Sono intere specie spazzate via, e tra gli esseri umani, sopravvissuti prossimi allo zero. Nessun romanzo distopico può rendere l'idea del pericolo che abbiamo scampato.
Io, però, vi chiedo di immaginare anche qualcos'altro. Forse quest'idea surreale me l'ha messa in testa il video educativo che ho visto qualche giorno fa, sul problema di dimostrare se la nostra realtà sia o meno parte di una simulazione, ma io vi chiedo di immaginare una qualche divinità, o se siete atei un alieno dalla pelle verde o grigia, di fronte a un vecchio videogioco arcade, impegnato a fare più punti possibili in una partita di "Guida l'asteroide".
Come al solito, qualcun altro, divinità o alieno, sbircia da dietro una spalla e attende il suo turno, e alla collisione mancata di quel 23 marzo 1989, segno di un game over evitato all'ultimo istante, impreca e mugugna: – E insomma, fai giocare un po' anche a me. È da almeno sessanta milioni di anni che non mi cedi il posto.
Al che il primo, senza staccare gli occhi dallo schermo, replica: – No, zitto tu, tu non sei capace! L'ultima volta hai fatto estinguere i dinosauri. Non mi distrarre, sto per fare il record di punti e inoltre... gli ominidi che ci sono sul pianeta in questo livello potrebbero fare qualcosa di intelligente, prima o poi. Se qualcuno non gli butta in testa un asteroide prima.

...d'accordo, forse dovrei smettere di guardare video educativi su ipotesi improbabili.

sabato 21 marzo 2020

Aedo


Aedo [a-è-do] s.m. Nell'antica Grecia, poeta epico che cantava accompagnandosi con la lira; estens. poeta, vate.

Etimologia: deriva dal greco antico aoidós, che a sua volta viene da aéidein, "cantare".

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Nessuna data su questo foglio, perché questa non è una pagina del mio diario. È una lettera, o almeno, vorrei che lo fosse. Non so se e quando potrà essere consegnata a te, Taliesin, mio mentore, bardo e aedo, anche se da quest'ultima definizione sei sempre rifuggito, trovandola troppo pretenziosa.
Ho tante cose da dirti.
Ti ricordi del luogo che cercavo, la mia meta in terre sconosciute, il motivo per cui mi hai lasciato libera di esplorare il mondo come tu non avevi mai fatto? L'ho trovata.
Questa città di meraviglie non cessa mai di stupirmi, e la gente di qui è così varia che le mie ali non sono più una vista inaspettata. Dovunque mi giri accadono magie e miracoli. Qui vivono streghe e angeli e, oh, altre fate! Ebbene sì, ho incontrato altre mie simili.
Ancora non ho trovato la persona che cercavo, ma sono sicura che sia qui, da qualche parte, e che prima o poi la incontrerò. Continuo a fantasticare su che tipo di persona sia. Il suo viso è ogni volta diverso, ma la immagino sempre in grado di praticare incantesimi, perché altrimenti, come avrebbe fatto a dare vita a me con un pensiero?
A volte, il viso che immagino è... no, lascia perdere, è una cosa sciocca.
Piuttosto, oggi è stato il mio primo giorno da aedo di questa città. Eh già, chi lo avrebbe immaginato che fra maghi e cavalieri, nobili e artigiani questo luogo fosse anche la patria di un gruppo di bardi?
In loro ho trovato una specie di famiglia, ed è come se tutto ciò che ho imparato viaggiando con te non fosse stato invano. Rammento ognuna delle tue ballate, parola per parola. Rammento le melodie, e sto imparando a suonarle. Presto, le taverne e le piazze di questa città risuoneranno dei miei ricordi di te, e io potrò finalmente dire di essere a casa.

giovedì 19 marzo 2020

Come funziona un libro


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Già qualche giorno dopo il suo arrivo capii di dover trovare in fretta qualcosa con cui distrarre Talon per evitare che smontasse pezzo per pezzo Sabrina, la mia barca. Ma a bordo non avevo giochi di società, né carte, né nient'altro che si potesse definire un'attività ricreativa per più persone. In fondo, non avevo previsto ospiti nella mia traversata in solitaria, soprattutto non ospiti da un altro mondo.
Fu solo dopo l'incidente delle vele, mentre procedevamo a rilento verso il porto più vicino per le riparazioni, che mi tornarono in mente i libri. Ne avevo portati più che a sufficienza nel mio lettore ebook, ma sapevo che quella "invenzione" avrebbe attirato la curiosità di Talon in modi che si sarebbero rivelati poco salutari per il dispositivo elettronico. Dato che preferivo continuare a possedere un lettore ebook, decisi che sarebbe stato preferibile ricorrere alle uniche due copie fisiche di cui disponevo a bordo: L'isola del tesoro di Stevenson e Capitani coraggiosi di Kipling, che portavo con me più per un fattore scaramantico e affettivo che per la necessità di rileggerli ancora una volta. Scelsi il secondo, visto che al primo tenevo troppo per offrirlo agli artigli di Talon, e lo portai con me nel pozzetto.
Come previsto, Talon accorse subito col suo grattare di zampe artigliate sul ponte e lo sbatacchiare delle ali da pipistrello contro la battagliola  per vedere che nuova invenzione avessi tirato fuori. Considerato che gli avevo annunciato di avere una cosa per lui, mi sorprese che non fosse rimasto appena fuori dalla cabina in trepidante attesa.
Il suo aspetto, invece, non sorprendeva più me, né mi faceva più trasalire quando me lo trovavo davanti all'improvviso. Si poteva dire che mi ero ormai abituata ad avere a bordo un gremlin della Terra del Vapore, con il suo accento strano e le sue fattezze che sembravano appartenere per metà a un normale ragazzo e per metà a un miscuglio di bestie varie, oppure a un demone.
Era più facile dal momento che almeno il suo volto era per intero il volto di un essere umano, e in quell'istante, di un essere umano accigliato.
– Che cos'è? – chiese Talon, e allungò verso il libro una mano le cui unghie erano artigli neri, appuntiti e ricurvi.
– Ah-Ah. Non si tocca – lo ammonii, sollevando il volume sopra la mia testa. – Questo è un libro. Contiene una storia. Due giorni fa mi hai detto che ti piace ascoltare le storie dei gremlin più vecchi e coraggiosi a casa tua, così ho pensato che questo potrebbe piacerti.
– Sì, però loro le storie me le raccontano con la voce, non le mettono dentro una cosa come quella. Come funziona? – Di nuovo, Talon tentò di afferrare il libro, ma io mi tirai indietro.
– Facciamo che per cominciare lo uso io, d'accordo? D'altra parte, non so nemmeno se tu sappia leggere...
Il dubbio mi colpì solo in quel momento, anche se probabilmente avrei fatto meglio a pensarci prima: che Talon sapesse parlare la mia lingua, sebbene con un misto di inflessioni regionali tanto varie quanto lo erano le parti del suo corpo, non garantiva che la conoscesse in una forma scritta, o che anche l'alfabeto fosse lo stesso nei nostri mondi. Il che significava che avrei dovuto leggere io per lui, almeno all'inizio. Piano piano forse sarei riuscita a insegnarglielo, se Talon avesse dimostrato abbastanza pazienza da apprendere, cosa di cui dubitavo.
– Siediti qui, vicino a me.
Gli feci spazio sulla panca vicino al timone. Si stava stretti pigiati lì, io lui e le sue ali ingombranti; d'altra parte, Sabrina era pensata per me soltanto. Era la mia gemella, la mia barca-gemella, che mi ricordava costantemente di quella bambina mai nata con cui sarei dovuta crescere.
Ma non in quel momento; in quel momento, mentre aprivo il libro, con Talon curvo sulle pagine che osservava con meraviglia, la mia attenzione era concentrata su di lui.
Come un bambino, Talon cominciò a fare mille domande. – Dov'è la storia? Quando comincia? Chi la racconta? C'è un piccolo umano lì dentro per raccontare la storia? E che tipo di storia è? Ci sono gremlin, nella tua storia?
Scoppiai a ridere per la sua curiosità, poi gli indicai le parole stampate. – Vedi questi segni? Questi segni, ecco, sono la storia.
Vidi la sua espressione delusa mentre si raddrizzava, allontanandosi dal libro con un mugolio. Capii all'improvviso come lo vedeva: come un brutto disegno astratto, nemmeno una figura comprensibile da interpretare ma una serie di lineette nere senza senso.
– Ah, ma devi sapere come funziona un libro, se vuoi conoscere la storia che contiene – rivelai a bassa voce, come se fosse un segreto per soli iniziati. Avrei potuto parlargli di magia delle parole, di musica della lingua, ma no: non erano parte del suo linguaggio, quelle cose. Invece gli parlai di ciò con cui Talon aveva più familiarità in assoluto, da quanto avevo capito. – Guarda qui. Ognuno di questi segni è la rotella di un ingranaggio, vedi, e ce ne sono di uguali e di diversi, e quando lavorano tutti assieme formano una storia. Ascolta, – dissi, e seguendo la riga col dito, fra lo sciabordio delle onde contro lo scafo e il soffio potente del vento sulle poche vele che ci erano rimaste, iniziai a leggere.

lunedì 16 marzo 2020

Qualcosa da nascondere

 
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Quella donna era un fantasma.
Non ero riuscito a scovare nemmeno un frammento di informazione su di lei, e recuperare informazioni sulle persone era il mio lavoro. Innanzitutto, non avevo trovato un certificato di nascita, ma questo non era un fatto così insolito dopo l'invasione. Nemmeno che non avesse parenti da presentarmi lo era: dopotutto, chiunque aveva perso almeno una parte della famiglia e degli amici in quei giorni, e in molti erano rimasti da soli. No, la parte più inquietante era che di lei non esisteva alcuna foto, né su un foglio olografico racchiuso in una cornice in casa sua, né su un supporto digitale portatile, e nemmeno nella rete sociale, lì dove quasi ogni uomo o donna della nostra generazione si scambiava di continuo una serie di autoritratti ritoccati, tali da farci apparire eternamente giovani e più belli di quanto fossimo mai stati.
Lei, però, non esisteva in nessuna di quelle reti sociali.
Per avere una prova che in quell'assenza ci fosse qualcosa di losco le avevo anche chiesto di fare una foto assieme, ma pur assicurandole che non l'avrei condivisa con il mondo, lei aveva rifiutato e si era affrettata a cambiare argomento. Avevo considerato l'ipotesi che fosse soltanto una persona riservata, anche se di primo acchito non lo sembrava. Pareva, al contrario, molto sicura di sé, sempre a suo agio in ogni situazione, e non aveva il tono di voce flebile che era tipico di una donna timida.
Non mi restava da pensare che avesse qualcosa da nascondere.
Per la mia esperienza, chi aveva qualcosa da nascondere, chi cancellava in modo così accurato la propria vita, o fuggiva da qualcuno, o aveva commesso un atto imperdonabile. Mentre me ne stavo lì a guardarla dall'altra parte di un tavolino da caffè in una giornata piovosa, non riuscii a fare a meno di chiedermi se fosse in pericolo, o se non fosse piuttosto lei il pericolo.
Quello che non sospettavo minimamente, e che scoprii solo mesi più tardi, era che il suo segreto avesse qualcosa a che fare con me.

sabato 14 marzo 2020

Falena


Falena [fa-lè-na] s.f. Nome comune di molte specie di farfalle crepuscolari o notturne.

Etimologia: il termine proviene dal latino phalaena, attraverso il greco phàlaina, "farfalla notturna", derivato di phalos, "chiaro, splendido".

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Non l'avevo vista. Forse, perché era tutt'altro che appariscente. Come una falena, era grigia, e bruna, e riservata, e immobile ad ali aperte nella notte.
Nel bosco, lei si mimetizzava perfettamente. Mi chiesi da quanto tempo fosse lì ad osservarmi. Forse, da quando ero entrato in quello che, ora lo riconoscevo, era il suo territorio.
– Non volevo disturbarti – mormorai, sollevando lentamente una mano. Dei due, ero io quello più rumoroso, e questa era una novità.
La donna falena non si mosse. Si limitava a fissarmi, senza battere le palpebre. Avrei potuto scambiarla per una statua scolpita nel legno, se non ci fossero state le ultime faville del mio fuoco a illuminarla. La mia mano tesa verso di lei rimase sospesa nel nulla, mentre la cenere danzava un ultimo giro di gavotta sopra la fiamma prima di posarsi sulle braci spente.
Se i miei occhi fossero stati umani, a quel punto, non avrei visto altro che ombre. E invece la vidi chiaramente spalancare la bocca irta di zanne e balzare in aria.
Mi girai e corsi.
Avevo capito troppo tardi che non guardava me. La falena era rimasta ipnotizzata dalle fiamme e la luce, finché era durata, l'aveva attirata ma anche tenuta a bada. E a quel punto, senza più il fuoco a trattenerla, non avevo difese che non fossero le mie gambe e il mio ingegno e quella poca magia che era parte del mio retaggio.
Mi riparai dietro a un pino e mi augurai di riuscire a evocare in fretta la luce danzante tra le mie dita, perché l'alba era ancora lontana e nel buio le creature notturne erano degli ottimi cacciatori.

giovedì 12 marzo 2020

Oro trasparente

 
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Era poco più di un buco, un foro circolare scavato nella roccia che scendeva nelle profondità buie della terra. Da tempo erano andati distrutti ogni forma di abbellimento e ogni struttura sopraelevata che lo facesse risaltare anche a distanza, come un muretto circolare o un arco di metallo che sorreggesse un secchio per attingere l'acqua, e del pozzo non era rimasto che quel foro, coperto da una lastra di metallo per evitare che la sottile sabbia grigiastra del mare asciutto lo riempisse. Così, quando il vento passava e le dune si spostavano, si poteva anche camminargli sopra senza nemmeno notarlo. Bisognava sapere esattamente dove scavare nella sabbia fino a sentire il clangore di metallo che indicava che avevamo trovato il nostro tesoro.
Ci volevano quattro uomini per smuovere la lastra. Ogni volta, rivedere il cielo riflesso dal prezioso liquido in fondo al pozzo era quanto di più vicino al paradiso potessi immaginare.
Eppure, recarsi al pozzo era pericoloso.
Ci andavamo solo durante la stagione più arida, quando l'acqua piovana accumulata nelle cisterne stava per finire, e ci andavamo armati, e in gruppo. Mentre la pompa risucchiava l'acqua dal pozzo e la riversava nella cisterna mobile, noi ragazzi trattenevamo il fiato e sbirciavamo ansiosi le vedette, una per ogni punto cardinale e un'altra davanti alla cisterna, che ci davano le spalle e scrutavano l'orizzonte. Solitamente non proferivano parola e potevamo andarcene indisturbati, ma quella volta fu diverso. Taja, che guardava verso nord, gridò un avvertimento per farsi sentire sopra al frastuono gorgogliante della pompa, e subito due uomini con i fucili la raggiunsero. Noi che controllavamo il livello dell'acqua nella cisterna e ci assicuravamo che il tubo calato nel pozzo non pescasse a vuoto, non riuscivamo a vedere ciò che aveva visto Taja, ma eravamo certi che fosse un altro gruppo venuto a prendere l'acqua.
– Aspettate – mormorò la vecchia San, rivolta non a noi ma agli estranei che sopraggiungevano, come se avessero potuto udirla. – Aspettate.
Sapevamo tutti quanto fosse pericoloso avvicinarsi a un gruppo proveniente da un luogo diverso. Ogni comunità era portatrice sana di uno o più patogeni mortali, con i quali ormai si conviveva senza danno; i sintomi, se mai si presentavano in un nuovo nato, erano assai lievi, e passavano entro il primo anno. Noi che vivevamo assieme non potevamo contagiarci l'un l'altro, dato che avevamo già tutti la stessa malattia e le stesse difese. Ma gli estranei avevano altre malattie e altre difese.
Entrare in contatto con loro poteva significare la distruzione di entrambi i gruppi.
Sentii un altro grido spezzato provenire da Taja, e uno dei due che l'affiancava disse: – Che fanno... caricano i fucili?
– Non possono spararci, vero? – chiesi a San. – Siamo troppo vicini al pozzo!
Se uno di noi fosse caduto dentro, o se anche solo il nostro sangue fosse stillato nell'acqua, avrebbe contaminato la fonte rendendola inservibile per chiunque altro. E tanti saluti alla regola non scritta che rispettavamo tutti, di lasciare il pozzo il più possibile pulito, e disinfettare la lastra di metallo e ovunque avessimo toccato.
In fondo, cercavamo solo di sopravvivere tutti nel mondo del dopo.

lunedì 9 marzo 2020

La maledizione del cuore infranto


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– Ops.
Alcyone mi fissò con la stessa aria spensierata di sempre, con appena una traccia di rossore sulle guance. Non sembrava nemmeno preoccupata da quello che aveva appena combinato. Io, invece, già mi vedevo con il cappio al collo.
– Ops? Tutto qui quello che sai dire, ops?
Mi era sembrato un lavoro facile. Un regno come tanti, che offriva una ricompensa al mago che avesse saputo sciogliere la maledizione gettata sul suo principe da un'amante scaricata, una donna che per combinazione si era rivelata essere una strega vendicativa e molto gelosa. Ci avevano spiegato che la strega aveva reso il principe insensibile e rigido come una statua di pietra, affinché tutti potessero vedere com'era davvero. Dato che avevo a mia disposizione una maga specializzata nelle metamorfosi, quando riusciva a concentrarsi per due minuti di seguito sullo stesso argomento, avevo concluso che per noi sarebbe stato facile ottenere la ricompensa.
Avevo sottovalutato la capacità di Alcyone di complicare anche gli incarichi più semplici.
– Perché? – mugolai, gettandomi in ginocchio. – Perché non ce ne va mai bene una?
– Dai, non farne una tragedia. – Alcyone mi si avvicinò e mi posò una mano su una spalla. – È solo che... dove prima c'era un cuore infranto, ora c'è anche un principe infranto. Però, qualcuno dovrebbe seriamente riprogettare questa stanza. Mi chiedo chi ha deciso di mettere un argano con braccio girevole proprio qui sopra. E quelle colonne! Dovrebbero essere meno instabili, e chi è il matto che ha reso così affilata la spada di quella statua di rame? Qualcuno poteva farsi male, per fortuna che è caduta solo sulle corde che tenevano su il lampadario sopra il, emh... principe... ma certo, tutto poteva essere evitato se qualcuno avesse messo un cartello con scritto "vietato appoggiarsi a questa leva", non credi?
Digrignai i denti, e con un rantolo inarticolato le indicai proprio il cartello che lei chiedeva, giusto accanto alla leva incriminata.
Alcyone seguì la direzione in cui puntavo il dito, e tutto quello che riuscì a dire fu: – Ma guarda, c'è il cartello! Non l'avevo proprio visto.
Si inginocchiò accanto a me e radunò alcuni frammenti dell'ormai ex principe. – Forse possiamo rimetterlo assieme. Se mi aiuti. Non sono mai stata brava con questo genere di cose... si fa troppa fatica. Oooooh, guarda, questo pezzo luccica!
Qualunque replica mi fosse venuta in mente, fu soffocata dai colpi delle guardie sulla porta chiusa. – Maga! – sbottò in tono rude il capitano delle guardie. – Maga, vieni fuori di lì, il re deve parlarti!
Io e Alcyone ci fissammo. – Lo hanno già saputo? – sussurrai io. Alcyone fece per alzarsi, ma io mi aggrappai alle maniche della sua camicetta. – No, non aprire! – le ingiunsi mentre i colpi alla porta si ripetevano. – Siamo morti. Morti, morti, morti. Stavolta siamo morti-morti sul serio.
– No, andrà tutto bene, vedrai
Alcyone sorrideva. Mi accarezzò la testa, e per un attimo invidiai la sua totale incapacità di provare panico. Quello, prima di ripiombare nel panico e immaginare in maniera vivida tutti i modi in cui potevano giustiziarci per aver ucciso il principe.
Naturalmente, alla fine, venne fuori che aveva più o meno ragione lei. Avevamo equivocato. La buona notizia era che quello non era il principe, bensì una statua costruita in suo onore per il suo compleanno. Il vero principe giaceva a letto rigido e insensibile come una statua, e non trasformato in una statua. La ricompensa sarebbe stata sufficiente a ripagare la statua che avevamo distrutto, lasciandoci con niente in mano, se solo la maledizione non fosse stata di un tipo che andava al di là delle competenze di Alcyone.
E questa era la cattiva notizia.

sabato 7 marzo 2020

Leggiadro


Leggiadro [leg-già-dro] agg. Dotato di grazia, di eleganza.

Etimologia: deriva dal tardo latino levis, "leggero, snello" tramite la forma leviarius.

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La creatura si teneva su a malapena, in equilibrio su uno stelo, con la grazia di una ballerina. Lunghe ali trasparenti e un corpo esile e leggiadro dalle sfumature iridescenti.
Pareva un miracolo.
– Non ne ho mai viste così lontane dall'acqua, – mormorai con meraviglia. – E tu?
Il mio compagno di esplorazione sbuffò. – Non siamo qui per ammirare il paesaggio, ma per prelevare campioni. Sbrighiamoci, non vedo l'ora di tornare sulla nave.
La sua voce mi giunse con un fastidioso timbro metallico attraverso l'interfono del mio casco, e mi rese acutamente consapevole della goffaggine che le nostre tute ci imponevano, in netto contrasto con la leggerezza della minuscola creaturina aliena. Pareva una libellula, ma io sapevo che non lo era.
La maggior parte di quel mondo era morto, una distesa di finissima sabbia argentea, quasi impalpabile, che si sollevava in una nebbiolina rarefatta a ogni nostro passo. Ma, di tanto in tanto, compariva una visione inaspettata come quella: un singolo ramo dai fiori candidi che spuntava dal terreno, e una creatura che si librava in un volo leggiadro sostenuta da trasparenti ali di drago.
E mentre la guardavo allontanarsi da noi col suo moto ondivago, un po' mi dispiaceva che tutto l'incanto di quel mondo sarebbe sparito una volta iniziata la terraformazione.

giovedì 5 marzo 2020

Le conseguenze


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


– Tu... tu hai la faccia tosta di ripresentarti qui?
Vivienne non si aspettava quell'accoglienza. In genere, in sala insegnanti passava per quella invisibile, quando qualcuno non aveva una notizia da comunicarle o un favore da chiederle. Ma in quel momento, tutti gli occhi erano su di lei, e non si trattava di sguardi amichevoli. No. Niente affatto amichevoli.
– Che succede? – chiese Vivienne, al colmo della confusione.
A gruppi, gli insegnanti si misero a parlottare, mentre la preside ribatteva con un tono di voce esasperato: – Che succede? La scuola rischia una marea di denunce per colpa tua. Dio solo sa che cosa hai fatto per spaventare tanto quei ragazzi...
– Io... cosa? – Vivienne sbirciò gli altri insegnanti. Nessuno si degnò di darle una spiegazione più comprensibile. Vivienne cercò un qualche segno che si trattasse di uno scherzo: un mezzo sorriso, o un'occhiata divertita, ma erano tutti troppo seri e troppo cupi. Perfino Mark, che dopo il primo sguardo non le aveva più rivolto gli occhi.
– La maggior parte di quella classe non vuole nemmeno parlarne! – sbottò la preside. – E non è tutto... vieni con me.
La preside le si avvicinò, l'afferrò per il gomito e la condusse di malagrazia lungo i corridoi. Mentre cercava di tenere il passo, Vivienne si voltò indietro: gli altri insegnanti la stavano seguendo.
Senza aggiungere una parola, la preside si fermò di fronte alla porta della biblioteca, prese le chiavi, l'aprì e spinse Vivienne all'interno.
Poi accese la luce.
Vivienne si portò una mano alla bocca e sentì le lacrime pungerle gli occhi non appena lo vide.
Il pavimento era cosparso di pagine strappate e volumi spaccati in due lungo il dorso. Gli scaffali giacevano vuoti, per la maggior parte rovesciati a terra, ma almeno due erano ridotti a monconi di legno che spuntavano spezzati tra il caos di carta e d'inchiostro, come relitti di una nave dopo la tempesta.
Vivienne si inginocchiò e raccolse un frontespizio senza più pagine. Lo girò e lesse il titolo in lettere dorate. "Il dottor Jekill e Mr Hyde". Che genere di mostro poteva aver compiuto quello scempio?
La parola le uscì come un singhiozzo. – Chi...?
– Oh, non metterti a piangere adesso – la rimproverò la preside. Incrociò le braccia. – Potevi pensarci prima di vandalizzare una proprietà della scuola.
Vivienne rivolse uno sguardo incredulo agli insegnanti rimasti in corridoio. Dalle loro espressioni severe capì che erano tutti convinti che fosse stata lei, ma doveva esserci un errore.
Lei si era svegliata quella mattina e aveva scoperto di aver saltato un giorno, quindi era impossibile che fosse stata lei.
Forse... forse aveva una sosia. Una specie di gemella malvagia che aveva preso il suo posto, sì, approfittando del fatto che lei aveva dormito tutto il giorno. Forse era stata proprio quell'altra, spregevole persona che l'aveva narcotizzata per impedirle di sventare il suo piano, di smascherarla.
Ma quella spiegazione che pareva perfettamente sensata a lei sarebbe apparsa folle a tutti gli altri, e così Vivienne non riuscì a parlarne.
Eppure, lei sperava tanto che fosse la spiegazione giusta. Perché l'altra che le era venuta in mente... Vivienne guardò la copertina del romanzo. L'altra era che fosse stata lei il mostro che aveva devastato la biblioteca, anche se non era esattamente lei. Quella spiegazione era la più spaventosa, perché Vivienne poteva cercare e fermare un'estranea con il suo volto, ma non aveva difesa contro un'estranea nel suo corpo. E non sapeva se sarebbe accaduto di nuovo, né quando.
– Questa è solo una delle conseguenze del tuo comportamento irresponsabile – sentenziò la preside. – Dobbiamo ancora quantificare i danni. Intanto, non possiamo lasciarti avvicinare agli studenti finché non avremo chiarito cosa è successo. Per ora ti occuperai di sistemare questo disastro, e fare un elenco dei libri distrutti. Ma non da sola. – La preside si voltò verso gli insegnanti. – Mark, tu hai la prima ora libera, potresti tenerla d'occhio tu finché non hai lezione?
– Non voglio più avere niente a che fare con quella... persona – ribatté Mark, la voce distorta dal disgusto. Vivienne alzò gli occhi: non la stava guardando. Non l'aveva più guardata. Mark si girò e se ne andò, lasciandola a chiedersi che cosa fosse accaduto tra Mark e l'altra lei da indurlo a reagire così.
La preside chiese ancora, ma nessuno volle restare da solo con lei.
Alla fine, la lasciarono alla sorveglianza della robusta collaboratrice scolastica che aveva tutta l'aria di un arcigno secondino.

lunedì 2 marzo 2020

La soffitta


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Marta mi sorprese alle spalle, facendomi trasalire. Le bottiglie impolverate e i soprammobili di vetro che avevo nello scatolone tintinnarono quando mi salutò con un sonoro: – Ehilà Amelia! Anche tu qui?
E dire che, a scuola, nemmeno mi parlava. Come tutti gli altri, del resto.
Non mi aspettavo di trovare qualcuno di loro al mercatino dell'antiquariato della terza domenica del mese, e invece, eccola lì.
– Oh, ehm, ciao! – Mi girai a metà, cercando di proteggere con il braccio e con la spalla il contenuto dello scatolone, un'accozzaglia di vecchiume scadente, al suo sguardo.
Avrei dovuto sapere che non era possibile, e infatti lei si alzò in punta di piedi e sbirciò oltre la mia spalla.
– Sei venuta a svuotare la soffitta? – mi chiese.
La soffitta, appunto. La soffitta c'entrava, ma tutta quella roba non veniva da lì. Perché la nostra soffitta era viva, e aveva regole tutte sue.
Ma questo a lei non lo potevo dire. Avrei anche potuto lasciarle credere che ero venuta al mercatino per liberarmi di qualche cianfrusaglia, se in quel momento mia madre non fosse arrivata con una giostrina di latta in una mano e un vecchio orologio da tavolo mezzo rotto nell'altra.
– Ne ho trovati altri due! – cantilenò, nel depositarli nel mio scatolone, prima di rituffarsi tra la folla che vagava da un banchetto all'altro.
Sbirciai Marta, che mi fissava con un sopracciglio inarcato.
– Mia zia ha la passione per questa anticaglia – le spiegai in fretta. Era una scusa già collaudata, che avevo imparato a memoria anni fa. – La restaura e poi la rivende. In qualche caso fa dei regali agli amici, e ogni tanto uno o due pezzi se li tiene, almeno per un po'.
– Ah – fece Marta, poco convinta. Doveva aver notato che in mezzo al resto c'era anche una decina di riviste con le pagine macchiate dall'umidità, che puzzavano di muffa e stantio in modo soffocante.
Non certo il genere di oggetti vintage degni di una seconda occasione.
– Be', mi sa che devo andare. – Marta indietreggiò di un paio di passi, prima di girarsi con un "ciao!" e sparire via di corsa.
Sospirai. Sapevo che il giorno dopo la classe avrebbe avuto un pettegolezzo di più da diffondere sulla mia famiglia. Era comunque meglio della verità che tenevamo accuratamente nascosta.
E la verità era che eravamo lì per fare scorta di tutta la cianfrusaglia più economica che potessimo trovare, perché l'ultimo scatolone era finito da due giorni, e la soffitta aveva fame.
E quando aveva fame, non era consigliabile andare di sopra senza averla prima nutrita. Il prozio Ascanio, che era salito in soffitta cinquant'anni prima e non ne era più sceso, avrebbe potuto testimoniarlo. Se mai lo avessimo trovato.
Qualcuno avrebbe potuto argomentare che era meglio chiuderla a chiave, quella porta, e non andare in soffitta mai più, se era così pericoloso. Ma la soffitta ci serviva.
Da lì veniva tutta la magia della mia famiglia.