giovedì 31 agosto 2017

C'era una volta...

...un lettore che amava leggere. E che amava le storie che leggeva. E i personaggi che si muovevano in quelle storie. Ed era anche uno spettatore, che amava guardare storie e assistere a rappresentazioni teatrali in cui si muovevano i personaggi che amava.

Un giorno, mentre il lettore-spettatore guardava i personaggi e le loro avventure nello schermo o su un palco o dentro la sua mente, accadde qualcosa. Accadde che alla fine della storia non era ancora pronto a dire addio ai suoi personaggi preferiti. Oppure, che aveva visto e letto talmente tante storie, da cominciare a immaginare quello che sarebbe accaduto prima ancora di vederlo o leggerlo. A volte indovinava, altre volte no; e le volte in cui non indovinava, si rammaricava di non poter scoprire come la storia sarebbe potuta proseguire, se fosse andata nel modo in cui aveva immaginato.

Altre volte, il lettore-spettatore provava a inserire un personaggio estraneo nella storia, e a riflettere su come si sarebbe comportato in quella situazione, come il suo intervento avrebbe cambiato la sequenza degli eventi. E venne il giorno in cui al lettore-spettatore non bastò più solo immaginarlo. E fu allora che cominciò a scriverlo.


Il lettore-spettatore ancora non lo sa, ma quella che ha creato si chiama "Fanfiction", ovvero "un'opera scritta dai fan prendendo come spunto le storie o i personaggi di un'opera originale, sia essa letteraria, cinematografica, televisiva o appartenente a un altro medium". Ti basta una rapida ricerca per scovare interi siti dedicati a questo tipo di opera, con risultati che variano dal "chi ha scritto quest'obbrobrio dovrebbe seriamente pensare di ricominciare la scuola. Dalla prima elementare!" al "wow, questo è meglio dell'originale!" (e qui sto pensando a Luminosity di Alicorn, la fanfiction di Twilight in cui Bella è estremamente razionale, al punto che le sue tre domande preferite sono "che cosa voglio? Che cosa ho? Come posso usare quest'ultima per ottenere la prima?" Non sorprende come la trama proceda molto più spedita, con questa premessa... e come Alicorn abbia dovuto incasinare la vita dei protagonisti molto di più, per evitare di arrivare al lieto fine in poche pagine).

È altrettanto facile snobbare l'intera categoria perché "tanto non c'è niente di originale, sono tutte copie di qualcosa di già visto o letto". Io non credo affatto che sia inchiostro sprecato. Almeno, non se fatto con cognizione di causa, e con l'intento di analizzare una storia, smontarla e usare i pezzi per costruire qualcosa di diverso. Negli ultimi anni attraverso il grande schermo del cinema è passata un'ondata di film creati in questo modo, soprattutto sulla base di alcune fiabe molto note: da Maleficent, a Cappuccetto rosso sangue, alle varie versioni di Biancaneve.

Nel peggiore dei casi, rimane pur sempre un esercizio di scrittura (o sceneggiatura), un trampolino di lancio per arrivare un giorno a personaggi, mondi e trame originali. Chi lo sa, magari persino i tuoi scrittori preferiti, autori affermati di best seller di fama mondiale, hanno iniziato con una fanfiction che non hanno mai fatto leggere a nessuno, o almeno, a nessuno al di fuori di una ristretta cerchia di parenti o amici.

E tu, che ne pensi? Hai mai letto o scritto fanfiction?


Concludo con un breve schema, riguardo all'esercizio di lunedì Riscrivi la trama, ovvero alcuni modi in cui è possibile alterare una storia:
  • cambiare il finale
  • proseguire dopo il finale
  • raccontarla dal punto di vista di un altro personaggio
  • inserire un personaggio estraneo al racconto originale
  • ambientarla in un'epoca/mondo differente
  • modificare la personalità del protagonista o di un altro personaggio
  • cambiare un dettaglio in un punto critico
  • mescolare elementi appartenenti a più storie

Sono sicura che ce ne sono altri che per ora non mi vengono in mente. Ma questi spunti dovrebbero già essere sufficienti per darti una mano con l'esercizio. Scrivi pure il tuo brano qui sotto, o nei commenti al post precedente!

lunedì 28 agosto 2017

Riscrivi la trama

Benvenuto, viaggiatore!

La tua missione di oggi consiste nel rimescolare le carte in tavola... o meglio, le trame. Nel disfare e ricucire una storia. Qui di seguito, i dettagli della missione:

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Scegli una storia che conosci (o due, o tre).
Prendi come modello una favola, un mito, un classico della letteratura. O perché no, più di uno.

Crea la tua variante, diversa dall'originale.
Puoi semplicemente cambiare il finale. Raccontare dal punto di vista di un altro personaggio. Mescolare personaggi e situazioni appartenenti a più di una storia. O qualunque altra variazione la tua fantasia ti suggerisca.


Sei pronto ad accettare la missione? Se ancora sei titubante, ti aspetto giovedì per ulteriori dettagli sul territorio inesplorato che ti accingi ad affrontare. Se invece pensi di avere già tutti gli strumenti necessari, buona fortuna, viaggiatore!

Aspetto il resoconto della tua missione completata, ovvero il tuo brano, nei commenti qui sotto. E ti ricordo che, come al solito, giovedì della settimana prossima a un testo e al suo autore (con una breve biografia e collegamento a blog e pagine personali/altre opere edite, per chi lo desidera) sarà offerto rifugio all'ombra della Piuma.

sabato 26 agosto 2017

Anacronismo

Non si può pensare di scrivere una storia fantascientifica di viaggi nel tempo senza conoscere questo termine. La prima volta che l'ho letto, si riferiva a una serie di dipinti con un dettaglio fuori posto, o meglio, fuori epoca.

Anacronismo [a-na-cro-nì-smo] s.m. 1 Errore cronologico per cui si collocano in un periodo storico avvenimenti o fenomeni accaduti in un'altra epoca. 2 fig. Estraneità, diversità rispetto alla propria epoca.

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Di solito, quando mi accingo a scrivere qualcosa, comincio da un personaggio. Questa volta invece mi è venuto spontaneo iniziare visualizzando un luogo. E da lì, ricostruire ogni dettaglio: dove mi trovo, quando, chi sta narrando...


La piccola piazza al centro della metropoli era un anacronismo con le sue panchine di legno, i suoi lampioni a gas, la sua statua equestre talmente consumata dal vento e dalle intemperie da essere irriconoscibile e il suo orologio con i numeri romani e il quadrante offuscato da macchie verdastre. Il suo ticchettio, come un vecchio cuore malato di un sogno cresciuto troppo in fretta, scandiva il ritmo del brulicare nei grattacieli attorno alla piazza.
Mi piaceva, quel posto. Nel tardo pomeriggio, soprattutto in inverno, quando le ombre dei colossi di vetro e metallo eclissavano il sole e forzavano la notte a calare più in fretta, io mi sedevo su una di quelle panchine e osservavo. Mi chiedevo se almeno uno di coloro che passavano senza guardare e senza fermarsi conoscesse il segreto di quel luogo. Perché era stato conservato, mentre tutto ciò che lo circondava era mutato, passato oltre.
Io lo sapevo. Sapevo che, sebbene l'impressione fosse quella di una piazza antica, vecchia di secoli, in realtà era già così all'epoca della sua costruzione; e ancora adesso, tanta fatica e tanto denaro vengono spesi per conservarla com'è stata creata.
Avevamo qualcosa in comune, io e quella piazza. A mio modo, ero anch'io un anacronismo, un oggetto fuori posto in un'epoca che non mi apparteneva. È difficile spiegare, e pensavo che non avrei mai dovuto farlo. Ma Alan era curioso. Troppo, per la sua salute.
Mi raggiunse una di quelle sere. Si sedette accanto a me sulla mia panchina preferita e mi tese un foglio olografico.
– Spiegami questo – mi disse.
Sopra il foglio danzava l'immagine di una me stessa più giovane che stringeva la mano, in quella stessa piazza, a una versione di Alan molto più vecchia.

giovedì 24 agosto 2017

La lucertola sul tetto... - Chimera

Oggi il racconto ospite è di... Chimera! Lo so, non è una novità, ma per me è sempre una piacevole sorpresa trovare uno dei suoi brani. Questa volta, ispirata dall'esercizio Dalla vita alla pagina, ha condiviso un ricordo tra realtà e fantasia.
Non aggiungo altro, segui la lucertolina!

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Ho dato un nome alla mia casa... la chiamo Il Covo Delle Lucertole... non pensate che sia una casa misteriosa e sinistra... è una semplice casetta a schiera in seconda posizione da destra... e non è nemmeno una metafora: semplicemente si trovano lucertole negli angoli più impensabili... oggi per esempio, stavo stendendo il bucato sul grande terrazzo anteriore...
La mia gatta stava beatamente sdraiata sul cuscino del dondolo quando la vidi mettersi a sedere guardando la colonna sinistra...
"Mmmm... guarda che bel bocconcino..."
Sembrava dire tra sé...
Mi guardò con occhioni dolci.
"Me la vai a prendere mamma?"
Io le restituii lo sguardo e guardai la colonna: c'era una piccola lucertola... Lasciai il bucato: saltai agilmente sul marmo del parapetto. Quindici cm più in basso il tetto. Posso camminare tranquillamente basta prestare un po' di attenzione...
Lei mi ha già vista...
Le lucertole e i rettili in generale, hanno bisogno del sole per attivare il loro metabolismo e con esso i loro riflessi e la loro attenzione. È cosa comune che, siano erbivori o carnivori, dopo che hanno "ricaricato le pile" cerchino di dare al loro metabolismo qualcosa su cui lavorare... ecco perché quella giovane lucertola era finita sul pilastro del mio terrazzo... cercava qualche insetto da mangiare...
"Qui non troverai cibo... e se non ti porto via diventerai il giocattolo di Yume..."
"La prendi! Prendila dai!"
Continuava a ripetere la mia gatta.
"Perciò lasciati prendere da me..."
Ma la lucertola fece il giro della colonna... allora Abbracciai il pilastro... trovandosi in trappola e avendo poca esperienza, la giovane lucertola mi saltò addosso e la bloccai contro la maglietta con la mia mano...
Yume era entusiasta.
"La lasci per terra mamma? La lasci? Posso averla?"
E continuò così fino in fondo alle scale... fino alla siepe di gelsomino... e quando mi vide liberare il rettile tra le foglie, si sedette delusa...
Mi avvicinai alla porta e lei mi guardò.
"Ho fame! Mi dai da mangiare?"

lunedì 21 agosto 2017

Cianfrusaglie

(racconto ispirato dall'esercizio Dalla vita alla pagina)
 
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Una giornata di pioggia mette spesso nella condizione di riorganizzare la propria vita, a partire dall'armadio. Opera immane ed estremamente laboriosa, che già so di non poter portare a termine per l'imbrunire; ma dal momento che chi ben comincia è a metà dell'opera, dunque, meglio rimboccarsi le maniche e cominciare.
L'inizio è facile. Gli strati più esterni sono quelli che uso quotidianamente: boccette di profumo, trousse di trucco, un portagioie. È facile, e già so che c'è poco da riordinare o gettare. Proseguendo, è come portare alla luce gli strati geologici di una montagna. Estraggo scatoloni zeppi di tempere, pennelli, pennarelli e matite residui dalle più svariate ere scolastiche. Ricordi di viaggi, souvenir di gite. Buste ricolme di biglietti d'auguri di ricorrenze ormai trascorse, alcune dimenticate, altre indimenticabili. E infine, in fondo in fondo, una valigetta di cartone che non ricordavo più di avere. La apro, ed ecco vecchi pupazzetti, anellini di plastica, pettinini da bambola, e un fascio di fogli che scopro essere un gioco da tavolo inventato tanti anni prima con mio fratello.
– Non lo buttare quello – dice una voce di bambina alle mie spalle. Che strano. Uno, pensavo di essere sola in casa. Due, qui non abita nessuna bambina.
Mi si avvicina trascinando i piedi. E appena mi volto so di conoscerla. Sono io, io da bambina.
La me stessa di tanti anni prima stringe tra le braccia il tesoro ritrovato. – Questo è mio, non lo puoi buttare via –  ripete imbronciata. Non lo lascia finché non le assicuro che lo terrò, almeno fino al prossimo riordino. Poi spiega il tabellone sul pavimento, lisciando il foglio con le manine, mescola le carte, mette i segnalini sulla casella di partenza e mi porge i dadi.
– Dai, giochiamo? – mi chiede con la stessa espressione che un tempo sapevo fare e alla quale gli adulti non potevano resistere.
E adesso che sono adulta anch'io, ho la prova che funziona.
Non riuscirò a finire per l'ora di cena.

sabato 19 agosto 2017

Zenit

Come buona parte dei termini usati in astronomia, adoro zenit e nadir. E pensare che ho quasi scartato questa in favore di altre parole, solo perché "è troppo tecnico, non credo di essere in grado di ricavarne un racconto". Alla fine ho scoperto che mi sbagliavo.

Zenit [zè-nit] s.m. inv. astr. Punto d'intersezione della sfera celeste con la perpendicolare passante per il luogo d'osservazione posto sulla superficie terrestre (si contrappone al nadir). Sole allo zenit, direttamente sopra la testa dell'osservatore.

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Ci sono personaggi persi nei miei appunti da anni. Ma per questi due (quattro?) è diverso: loro sono persi in un racconto bloccato da anni nel momento in cui sono dispersi. Tanto vale farli proseguire un po'... anche se non so ancora come la loro storia andrà a finire. Ad ogni modo, questo è ciò che il calore dell'estate mi ha ispirato!


Il sole era quasi allo zenit sul deserto. Non c'era una strada davanti a noi, nessuna oasi, né ombra, né un segno della nostra meta. Arrancavamo sudando sull'ennesima duna, del tutto identica alle cento altre che l'avevano preceduta. L'elementale del ghiaccio era alto la metà di quando eravamo partiti: vedevo goccioline staccarsi continuamente da lui e volare nel barattolo incantato di Jashira. Al vederlo la gola mi doleva, ma non ero abbastanza assetato da arrischiarmi a bere quell'acqua.
Jashy era stanca, ma aveva lo stesso sguardo caparbio di quando le avevo detto che non sarebbe mai riuscita a far piovere rane. Che giorno fu quello, per gli abitanti di Shonai!
Ho imparato allora a non dirle mai che non può fare qualcosa. Per quello non avevo detto niente quando aveva proposto di prendere "una scorciatoia". Speravo di dissuaderla, concordando con lei.
Non aveva funzionato.
L'elementale di fuoco non se la passava meglio. Avrei giurato che in un posto rovente un elementale del fuoco si sarebbe trovato come a casa, ma... Jashira aveva ragione: era affamato. Avevo già sventato un paio di attacchi ai bagagli. L'ultima volta gli avevo lanciato una manciata di sabbia. L'elementale l'aveva trovata di suo gradimento e s'era messo a ingurgitare sabbia, ma non era un cibo salutare, per lui. Si stava vetrificando, le creste fiammeggianti sostituite da una pasta trasparente che si solidificava sempre più. Jashira mi aveva rimproverato, e io le avevo chiesto scusa mille volte, ma per il momento non potevamo farci nulla.
Raggiungemmo la sommità della duna. Nessuna traccia della città-oasi di Timing. Scoppiai in una risata nervosa. – Ehi, Jashy! Non sarebbe divertente se schiattassimo e tra mille anni gli archeologi di Timing ritrovassero i nostri scheletri e i bagagli e un coso di vetro? Potrebbero indire una sfida per capire cos'è...
– Zitto e cammina!
Sbuffai. Il sole era allo zenit sul deserto e chi ci aveva ficcato in quel guaio non voleva ammettere che ci eravamo persi.

giovedì 17 agosto 2017

Ricordare una storia (tra invenzione e realtà)

Storie. Ne sei immerso ogni giorno. Le respiri, le vivi. E non mi riferisco solo a libri o film a cui ti può capitare di appassionarti.

Fin dai tempi del "che cosa hai fatto a scuola?" e del "allora, facciamo che io ero..." hai cominciato a imparare gli strumenti del narratore. Più o meno capace, più o meno aderente alla realtà, non importa: quel che conta è che, senza rendertene conto, hai fatto il tuo debutto nella tela di racconti che anima ogni conversazione umana.

La prima storia della tua vita è memoria, e gioco.

Il primo modo di tramandare il ricordo e l'esperienza, storicamente, è il racconto orale.

Poi è venuta la scrittura. Per i nostri antenati, come per te. La scrittura che proietta un racconto lontano nello spazio e nel tempo, ben oltre la portata della tua voce. La scrittura che conserva le parole sotto vetro, come in un barattolo. La verità e la bugia, il ricordo e le invenzioni fantastiche della mente, tutte lì, nero su bianco, sulla carta o su uno schermo.

Ma perché partire da un ricordo per creare un racconto di fantasia, come ti ho chiesto di fare nell'esercizio Dalla vita alla pagina?

Perché sono fermamente convinta che qualunque volo pindarico, per quanto bizzarro, abbia le sue radici in un'esperienza, fosse anche soltanto indiretta, come lettura o visione di una storia. Come già mi è capitato di scrivere in questo blog, in fondo che cos'è un drago, se non una lucertola con ali di pipistrello? O una fata, se non una donna con ali di farfalla? O una sirena, se non... e va bene, la smetto, hai capito.

Vale però anche l'opposto. Ovvero che, per quanto aderente alla realtà tu scelga di rimanere con il tuo ricordo scritto, ciò che metti sulla pagina non sarà mai ciò che hai vissuto. Sarà qualcosa d'altro, filtrato attraverso le parole. La tua interpretazione di ciò che è stato. O di ciò che ancora è.

E a proposito di ricordi: mi ritorna in mente la frase di un professore del corso di Psicologia dell'arte e della scrittura. Portando a esempio la Dublino di James Joyce, lui spiegò che la città di cui Joyce ha scritto, per quanto rassomigliante, per quanto descritta in dettagli che realmente esistono, o esistevano, in realtà NON È la Dublino in cui un suo contemporaneo avrebbe potuto camminare. La Dublino di cui James ha scritto esisteva solo nella testa dello scrittore.

E allora, se anche scrivendo di un evento realmente accaduto noi stiamo mettendo su carta qualcosa che esiste solo nella nostra testa, non ha uguale dignità lo scrivere di un evento accaduto non esattamente in quel modo, o lo scrivere di un evento mai davvero avvenuto?

In fondo, secondo qualcuno, ogni storia mai scritta si è realizzata davvero... da qualche, nel multiverso.

lunedì 14 agosto 2017

Dalla vita alla pagina

Oggi al centro dell'esercizio ci sei tu. Tu con le tue esperienze, con la tua memoria, con il tuo passato.
In fondo, questa è la prima base di partenza quando cominci a scrivere: attingere da te stesso, da ciò che conosci, per andare oltre.

Ma è un esercizio che può non essere così semplice come pensi.

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Scegli un ricordo.
Uno qualunque, davvero. Non importa che sia il tuo primo frammento dell'infanzia o ciò che hai mangiato oggi per pranzo. Qualunque memoria, per quanto banale, può fornire materiale per un racconto.

Usalo come ispirazione per una storia.
A seconda delle tue inclinazioni, puoi limitarti a riportarlo in una forma gradevole da leggere, sistemarlo un pochino per narrare ciò che sarebbe potuto essere, e non è stato (...oh, quanto lo facevo, da bambina, nei miei diari!), oppure distorcerlo quasi del tutto per creare un racconto originale, anche con elementi fantastici, se è questo il tuo pane quotidiano in scrittura.

Bonus per te se fai il contrario di quello che sei abituato a fare: c'è sempre da imparare a esplorare forme letterarie con cui non hai confidenza.


E adesso avanti, che aspetti? Va' a pescare il tuo ricordo. Io aspetterò il tuo testo nei commenti.

sabato 12 agosto 2017

Vociferare

Nell'iniziare questa sezione del blog pensavo che avrei scelto solo parole che, oltre a essere poco usate, fossero anche belle sonoramente. Parole gradevoli da ascoltare e pronunciare. Le cellar door della lingua italiana (cellar door, porta della cantina, è stata citata da Tolkien come esempio di espressione che nella lingua inglese ha un bellissimo suono, ancor più di beautiful).
La parole che ti propongo oggi, a mio avviso, non è tra quelle. È una sequenza di consonanti e vocali così regolare da risultare noiosa. Ma volevo un verbo, ed è interessante riuscire a riconoscerne l'etimologia da quel poco di latino che mi ricordo.

Vociferare [vo-ci-fe-rà-re] v.tr. (vocifero ecc.) [sogg-v-arg] Dire, diffondere notizie incerte.

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Ti dirò, non ho idea di chi sia questo personaggio. Dove viva, cosa faccia, in che razza di mondo si muova. Ho il sospetto che sia un nuovo arrivato... di cui forse un giorno conoscerò la storia.


Quando ero bambino esisteva un gioco che si chiamava "telefono senza fili". Ci mettevamo in fila e sussurravamo all'orecchio di chi seguiva la frase sentita da chi veniva prima. L'ultimo della fila la ripeteva ad alta voce, e di solito era completamente diversa da com'era in partenza.
È un buon esempio di come funzionano le voci. Lo sapevo, perciò non mi stupii più di tanto la mattina in cui la signora Emilia mi raggiunse trafelata mentre facevo colazione, strillando: – Orm... Orm, hai sentito?
Cercai di ignorarla, ma quella continuò a sfarfallarmi attorno, pungolarmi e chiedere. Posai il tramezzino e alzai gli occhi. – Sentito cosa, signora Emilia?
Fuori dalla veranda, il camion della spazzatura si allontanava con il motore scoppiettante. Eppure la sua voce si levò al di sopra del frastuono. – Ma davvero non hai ancora sentito niente?
Scossi la testa.
– Santo cielo, Orm! – Emilia si prese il volto tra le mani. – Sei sempre l'ultimo a sapere le cose! Ah, se non ci fossi io...
Afferrai il tramezzino e ripresi a mangiare, spaparanzato sulla sedia. Sapevo di non avere alcuna speranza di interrompere quel flusso di parole, una volta che avesse rotti gli argini; per cui, tanto valeva che mi mettessi comodo e mi godessi la tumultuosa discesa del fiume nel territorio del pettegolezzo e del "si vocifera che".
– ...e Arturo lo ha detto a Luciana, che lo ha detto ad Alberta, che lo ha riferito a me. È sicuro, Orm. Sono tornati! – Emilia scosse la testa. – Santo cielo... come faremo adesso?
Le posai una mano sulla spalla. – Vediamo se ho capito. Dunque. Michele ha trovato alcune spighe piegate. Il catorcio di Anna si rifiuta di mettersi in moto. Sabina la veggente dice di aver notato delle luci in cielo, di notte. Come siamo arrivati da questo al vociferare di omini grigi?
Sbirciai il capanno degli attrezzi fuori dalla finestra, dove qualcun altro attendeva la colazione. Incredibile. In quel caso, il vicinato era arrivato pericolosamente vicino ad azzeccare la frase giusta.

giovedì 10 agosto 2017

Una mano nel buio

(racconto ispirato dall'esercizio Questione di tatto. Altro oggetto, riesci a indovinarlo? Stavolta ho inserito la descrizione in un breve racconto)

 
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Non riesco a vedere niente. Dove sono? Come sono arrivata qui?
Allungo le mani nell'oscurità. Davanti a me, solo il vuoto.
Poi la mia mano destra incontra qualcosa. Qualcosa che sembra sospeso nel vuoto, senza nulla a sostenerlo.
È un piccolo oggetto dalla superficie curva, avvolto in una pellicola liscia che si solleva e crepita se la stringo tra le dita. Avvolgo la mano attorno all'oggetto, un cilindretto sdraiato su un lato. Come supponevo, nessun sostegno, nessun filo a tenerlo in aria, eppure non riesco a smuoverlo. Stringo più forte, e i miei polpastrelli incontrano un'apertura nella pellicina liscia che lo avvolge. Al di sotto, la superficie curva del cilindro è ruvida, tanto da darmi fastidio sulle dita, in qualunque verso io l'accarezzi. Mi graffia. Perciò decido che non vale più la pena di toccarlo, e mi dirigo a cercare qualcos'altro in quella bizzarra stanza oscura, che pare tanto grande da avere un pavimento, sì, ma nessuna parete.
Non pensavo di aver vagato in cerchio, ma quando con le dita della sinistra avverto un oggettino cilindrico sospeso in aria, mi viene da chiedermi se non sia lo stesso.
Mi sono persa. Ma come posso esserlo più di quanto lo fossi prima, se già non sapevo dov'ero?
Forse avrò qualche indizio dall'oggetto, penso, mentre ne esploro le estremità. Sono lisce, al contrario del corpo cilindrico, con un piccolo spuntone dalla sezione quadrangolare al centro di ognuna. Mi chiedo se non vadano infilati in un foro, se non sia un qualche tipo di bizzarra chiave. Ma come posso usarla, se non riesco a prenderla, né a trovare la porta?
D'improvviso una luce mi abbaglia, scopro cos'è davvero e la mia confusione aumenta.
Di fronte a me, oltre l'oggetto, una stramba creatura bitorzoluta siede su uno scranno. Ha il viso allungato a forma di fagiolo, con cinque cornetti carnosi di varie dimensioni, in fila in ordine decrescente, al posto dei capelli. Mi indica con una mano dalle lunghe dita callose e urla: – Sacrilegio! La straniera ha toccato la sacra reliquia! All'armi! All'armi!
Al suo richiamo, tante piccole creature simili a lui sciamano verso di me da ogni direzione. Non sono più alte di mezzo metro, ma ognuna porta con sé una picca, o uno spadino, o un arco in formato mignon.
Non so dove sono, ma so che mi conviene iniziare a correre.

lunedì 7 agosto 2017

Il coso nel sacco

(racconto ispirato dall'esercizio Questione di tatto. Aspetto il tuo brano, perché sono certa che dopo aver letto questo, ti verrà voglia di ricambiare e farmi scervellare su un rompicapo anche più complesso)

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Liscio e concavo, la prima impressione sotto le mie dita. Seguo più volte quell'insenatura rigida, poco più larga del polpastrello del mio indice. Avanti e indietro, poi  di lato, dove sale più dolcemente verso una superficie piatta, tiepida sotto la mia mano. I bordi sono arrotondati, abbastanza vicini che posso stringere l'oggetto, dalla forma di cilindro appiattito, con una sola mano. Se però lo lascio e allargo le dita, non riesco a toccarne contemporaneamente le due estremità.
Continuo l'esplorazione dall'estremità più vicina al mio indice. Ha un bordino rialzato, molto sottile. Lo percorro con l'unghia, che si blocca su un lieve rialzo sul lato inferiore dell'oggetto. Lo rigiro tra le mani, rovesciandolo. C'è questa irregolarità che cerco di graffiare, ma l'unghia si blocca ogni volta su due zigrinature distanti la lunghezza del mio polpastrello. Accarezzo l'oggetto verso l'altra estremità. Nessuna traccia della depressione questa volta, ma a metà incontro una linguetta che si solleva sopra le mie dita. Sottilissima, ha in parte il bordo arricciato, e quando la lascio, torna giù, ma non del tutto. Sento che prosegue oltre il bordo arrotondato dell'oggetto. Infilo di nuovo un dito sotto: mi pare un po' appiccicosa, e fa resistenza se cerco di sollevarla di più, o di strapparla.
Proseguo verso l'estremità opposta, dalla parte del mignolo. Anche qui c'è un bordino, ma più spesso e meno definito, e all'interno del bordino la superficie non è liscia. Riesco a distinguere una linea centrale in rilievo, nel senso della lunghezza; sopra e sotto, altre forme più irregolari emergono, indefinibili sotto le mie dita.
Afferro l'oggetto e lo sollevo. Pesa, ma non tanto da rendermi difficile o faticoso tenerlo in mano. Lo stringo: cede un po' al centro, meno ai lati.
Lo poso dal lato dell'incavo che ho percepito per primo, e provo a tirare verso l'esterno quell'estremità. Cede con un lieve scatto, rimanendo attaccata al corpo principale dell'oggetto lungo il lato inferiore del bordino, dove ho incontrato con l'unghia le due zigrinature. All'interno, l'estremità in parte staccata dell'oggetto è cava, con uno spuntone rotondo e sottile, che corrisponde ad un foro in quel che resta dell'oggetto. Se lo premo, ora cede di più, e sbuffa e borbotta, prima di lasciarmi sulle dita una goccia untuosa, che svanisce pian piano mentre le strofino.
Le porto al naso e un profumo floreale, dolce e morbido, mi accarezza le narici.


Riesci a indovinare il mio oggetto misterioso?

sabato 5 agosto 2017

Umbratile

Questa parola ha tutta l'aria di essere antica e poetica. Perciò mi piace. La vedo bene in un romanzo storico, o se in una ambientazione moderna, pronunciata da un personaggio più vecchio di come appare.

Umbratile [um-brà-ti-le] agg. 1 Ricco di ombra, ombroso. 2 fig. Amante della solitudine, solitario; meno freq. scontroso.

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Una delle due definizioni è più interessante dell'altra, ma entrambe mi hanno ispirato nello scegliere i personaggi di questo brano. Non si può infatti pensare a ombra e solitudine, senza che venga in mente una determinata categoria fra le creature immaginarie. Non dirò apertamente che cosa sono Vanessa e Dimitri, ma forse ci sono abbastanza indizi nel brano da riuscire a indovinarlo.


Vanessa squadrò i vestitini disposti sul letto. Tutti neri, decorati da pizzi e ricami antichi. Così piccoli. Non li ricordava così piccoli.
Si chinò ad accarezzare il manico del parasole, e seppe, senza voltarsi, che suo padre la studiava dalla soglia.
Un palpito di nostalgia. "Te lo ricordi, vero?"
Non c'era bisogno di parole tra loro, non di quelle pronunciate. Vanessa annuì, soppesando tra le dita il parasole poco più lungo del suo avambraccio. Si chiese perché, poi si posò una mano sul ventre, e capì che era ovvio. Dimitri lo sapeva.
E aveva aspettato che Denis, il suo marito umano, fosse fuori casa prima di presentarle i vestiti di quand'era bambina. Perché voleva che sua nipote fosse vestita bene, come si faceva una volta, non come in questi folli tempi odierni.
Vanessa curvò un angolo delle labbra. – E se fosse un maschietto? – gli chiese. La sua voce suonava così strana quand'erano da soli. – Non puoi certo passargli i tuoi vecchi di secoli, papà.
Vanessa seppe di averlo fatto sorridere ancor prima di avvertire il divertimento nella sua voce: – Mi andrà bene qualunque cosa sia. Purché non sia umbratile e brontolone come lo eri tu da bambina, mia cara.
 – Davvero? Qualunque cosa? – Vanessa posò il parasole e si voltò: – E se fosse umano, lo...
Le parole le morirono tra le labbra quando scorse Amanda aggrappata a lui. Amanda, che non aveva mai avuto fortuna con i figli, e che nonostante tutto era rimasta a invecchiare accanto a un mostro.
– Allora conosci le regole, figlia mia. Nessuna eccezione. – Dimitri sfiorò il rubino rosso sangue incastonato nell'elsa del pugnale che portava alla cinta. – Un predatore non alleva una preda. Se non lo farai tu, lo farò io.
Se ne andò, lasciando Amanda sulla soglia della camera umbratile, rischiarata solo dalle lampade accese nell'altra stanza. Tutta la loro casa era oscurata, per difenderli dall'odiata luce del sole.
– Come hai potuto lasciare che lui... – mormorò Vanessa, la mano premuta sul ventre.
– Dio mi perdoni. Lo amo.

giovedì 3 agosto 2017

Toccare per credere

Non ci crederai, ma l'esercizio che ti ho proposto è la mia variante di uno a cui partecipai anni fa, e non durante un corso o un laboratorio di scrittura creativa. Era qualcosa di un po' più... insolito, per me. Te lo dirò. Ma non subito. Prima, raccogliamo un po' le idee sull'unico tra i sensi a essere esteso all'intera superficie del nostro corpo.

Ho lasciato il tatto per ultimo, eppure è il primo mezzo con cui conosci il mondo, e quello di cui ti fidi quando dubiti degli altri. Non a caso si dice "toccare con mano", o anche "sto sognando, dammi un pizzicotto!". Quando senti qualcosa "a pelle", non c'è bisogno di spiegarlo a parole.

Ogni lettore te lo saprà dire. Avere un libro fra le mani, sfogliarlo, è un piacere che nessun e-book può sostituire. E che dire del riscaldarsi con una tazza di cioccolata tra le mani in inverno, o della carezza liquida di un'onda fresca nella torrida estate? Dell'abbraccio di un amico, o della consistenza, quella giusta, del proprio materasso e del proprio cuscino? Nessun altro letto sarà mai come il tuo.

Crescendo, impari a non far caso a buona parte delle sensazioni tattili che quotidianamente ti avvolgono (pensa ai vestiti, a un soffio d'aria sulla pelle, ai tuoi piedi nelle scarpe o ai gomiti appoggiati sul tavolo). A meno che qualcuno non te le ricordi, o che qualcosa di spiacevole come una scarpa stretta o il troppo caldo non attragga la tua attenzione, passi il tuo tempo a ignorare quelle percezioni.

Eppure non è sempre stato così. Da bambino sentivi tutto, senza filtri. Il tatto è un senso primitivo, ancestrale, infantile. I bambini toccano qualunque cosa gli capiti davanti. Prima di imparare che non si fa, che non va bene, i bambini si aggrappano, stringono, afferrano.

Cerca di ricordare. Quante volte nella tua vita hai sentito il bisogno di toccare una persona, un animale, un oggetto? E quante volte hai provato un moto di repulsione di fronte a quel cartello, o alla voce di un adulto che ti dice "non toccare", che impone una barriera artificiale tra te e il mondo?

Per l'esercizio di scrittura che ti ho proposto, Questione di tatto, devi un po' tornare bambino. Ignorare quello che sai del mondo e tornare ai suoi elementi di base. Caldo-freddo, ruvido-liscio, duro-morbido. Nessun pensiero astratto, nessun preconcetto, solo tu, le tue mani, e un ignoto pezzetto di mondo da esplorare. Pensa come un neonato. Mettiti nei suoi panni.

Era questo lo scopo dell'esercizio o meglio, del gioco, la prima volta che vi ho partecipato, a un corso di sostegno alla genitorialità in cui facevo da assistente durante un tirocinio. Capire come un neonato percepisce il mondo. Da quell'universo senza parole, tu e io che di parole viviamo, possiamo ritornare più consapevoli di ciò che ci circonda, per descriverlo da una prospettiva nuova. O meglio, antica.