lunedì 29 novembre 2021

Tienimi la mano


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Foto di Masha Raymers da Pexels


Tienimi la mano.
Tienimi la mano perché qui dove sono è buio, e tetro, e spaventoso. Tienimi stretta e non lasciarmi cadere nel baratro che sento premere sotto questa fredda lastra di marmo, quell'abisso silente e in attesa tra i sussurri empi che instillano un significato nel labirinto di follia che ho in mezzo alle orecchie. Lo stesso vuoto che mi afferrava per i piedi lassù in montagna, quando abbarbicata a una grigia parete di roccia mi tenevi la mano e non volevi lasciarmi andare, per quanto il braccio ti facesse male, per quanto il sudore t'imperlasse la fronte come un diadema rovente. Tu non volevi, lo so che non volevi, ma la fatica era troppa, ed eri solo una ragazza mortale.
Lassù in montagna, più vicini al sospiro degli Dei, o forse dei demoni, chi può saperlo che cosa c'è oltre il cielo, forse abbiamo sempre capito il mondo al contrario, forse è cadendo che si arriva al paradiso. Il vento gelido c'investiva e al suo soffio dondolava la corda spezzata, assurdo metronomo che contava il tempo in cui tu resistevi tenendomi la mano.
Sapevamo entrambe che non ce l'avresti fatta. Non c'era modo di salvarmi. Nella mia testa, stavo già precipitando.
Allora non so perché anch'io ti tenevo la mano, forse per avere qualche altro istante del tuo viso affaticato prima di lasciarti, forse per quell'istinto che non si rassegna nemmeno di fronte all'inevitabile, l'istinto per la vita, per la continuazione della vita: lo stesso che spinge a generare figli, a preservarli da ogni pericolo. L'istinto che i genitori scambiano per affetto.
I miei genitori. Li sento bisbigliare qui vicino adesso mentre ti tengo la mano, avverto la loro disapprovazione, loro non hanno mai voluto che andassi ad arrampicarmi con te, potendo, mi avrebbero tenuta in casa, al sicuro, lontana dalla tua cattiva influenza. E guarda cos'hai fatto li sento dire, non dovevano lasciarmi andare, non dovevi lasciarmi andare.
Ti tengo io la mano ora, anche se la tua stretta è molle, inesistente, anche se altre dita dalle unghie lunghe e appuntite come artigli lottano per separarci. Quando ci riescono sei tu che precipiti, destinazione ignota, mentre io sono al sicuro, sdraiata sul freddo marmo, sotto l'oscurità di un tempio dedicato a divinità terribili. In cerchio, sacerdoti e sacerdotesse che non smettono di bisbigliare le loro preci immonde, le vesti nere e scarlatte, i volti coperti da maschere deformi.
La maschera di un teschio d'ariete dalle corna ricurve sopra una lunga tunica color del sangue si allontana dallo spazio ormai vuoto tra di noi, dal tuo braccio abbandonato e inerte, e si fa incontro a una coppia che non riconosco.
– È fatta, – dice loro, – una vita restituita per una vita sacrificata. I nostri Dei mantengono sempre le promesse, soprattutto se c'è di mezzo una così dolce vendetta.
La sua voce, falsa e melliflua, nasconde un'eco graffiante, come veleno versato nel miele. Ma già si perde nella gioia feroce dei due estranei che mi osservano dall'alto, una gioia che stride in questo luogo di morte e disperazione. Mi aiutano ad alzarmi, e adesso ti vedo: rapita, legata, distesa in modo scomposto su quella lastra di ossidiana venata di bianco, la gemella inversa del marmo che sosteneva il mio corpo. Il tuo viso contorto dal terrore e una macchia scarlatta sul tuo petto sono i segni della vendetta perpetrata, perché coloro che mi abbracciano e mi aiutano a rimettermi in piedi avrebbero potuto scegliere chiunque altro ma hanno scelto te, hanno voluto uccidere te per riavermi indietro. E io, che ho perdonato te, non posso perdonare loro.
I bisbigli ci accompagnano mentre ci allontaniamo verso le porte di quel tempio sacrilego. Mi volto, e dietro il teschio cornuto che cela l'identità della gran sacerdotessa colgo un cenno d'intesa. Identico, il lievissimo cenno che le rivolgo.
Poi sorrido a coloro che ti hanno uccisa, e che non sanno che qualcos'altro, qualcosa di oscuro e terribile, è tornato con me. Oh, ma lo sapranno, presto lo capiranno.
I miei Dei mantengono sempre le promesse, soprattutto se c'è di mezzo una così dolce vendetta.

sabato 27 novembre 2021

Aleatorio

Aleatorio [a-le-a-tò-rio] agg. (pl.m. -ri) Che è in balia della sorte, del caso; incerto, imprevedibile.

Etimologia: dal latino aleatorius, derivato di alea, "gioco di dadi".



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Non ho mai contato sulla fortuna. Il lancio di una moneta, il gioco dei dadi e altri passatempi dall'esito aleatorio li lascio a chi non è in grado di controllare la propria sorte.
Per questo Duel mi piaceva così tanto. Vincere o perdere non era questione di fortuna, non dipendeva da un evento al di fuori del mio controllo. Certo, non potevi mai sapere chi sarebbe stato il tuo prossimo avversario, o quali assi avrebbe portato in gioco nascosti nella manica, ma potevi sempre prepararti per ogni evenienza. C'erano un numero limitato di possibilità... estremamente ampio, questo è vero, molte più di quante ce ne sarebbero state se la sfida si fosse svolta nella realtà invece che nella distorsione, ma comunque un numero limitato. Non posso dire che conoscevo a memoria il catalogo delle Chiavi da battaglia, le componenti non prettamente cosmetiche che si potevano aggiungere al proprio personaggio nella distorsione, ma lo avevo studiato in buona parte, perciò sapevo più o meno cosa aspettarmi quando vedevo l'aspetto del mio avversario.
Lo ammetto: Stefanus mi aveva sorpreso la prima volta che lo avevo affrontato, ma questo solo perché aveva usato una tattica insolita per un mago. Quei bastardi tendono a scappare o, se hanno una Chiave-incantesimo con quella funzione, a teletrasportarsi lontano da un avversario armato di spada prima di bombardarlo con gli incantesimi. Lui no.
Prima di affrontarlo una seconda volta, avevo ripassato le Chiavi-incantesimo che potevano avere come componente cosmetica un cristallo o una pietra preziosa, perché era ovvio che Stefanus il Mago dei Cristalli non avrebbe mai scelto qualcosa che esulasse dal suo personaggio. Conoscevo la sua tattica e avevo preso le adeguate contromisure. Ero certa che impegnandomi avrei potuto vincere.
No, non mi piacciono i giochi aleatori. Io creavo il mio destino.

giovedì 25 novembre 2021

Le stelle nello stagno


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Sopra la tana degli umani il cielo è gonfio di stelle, e io mi sento meglio. Le pareti strette della loro tana mi facevano sentire in trappola, ma qui sono libera, più leggera. Non è come a casa, il cielo sembra più vicino qui, più basso, come se anche la notte volesse porre un limite allo spazio in cui è possibile spingere lo sguardo.
Tanti miei simili non hanno mai visto quei bagliori nel blu, non sanno nemmeno che cosa siano. I rami degli alberi nella palude sono tanto fitti da impedire a ogni briciola di luce, di giorno o di notte, di giungere fino a terra. Ma io sono una creatura dell'aria, mi piace arrampicarmi, e di notte mi sono spesso spinta più in alto di tutti, fin da quando ero solo un cucciolo. Me lo ha insegnato mia madre a non aver paura dell'altezza e degli spazi aperti, lassù, sui rami più sottili, fino a sbucare con la testa sopra le ultime foglie, sotto uno stagno alla rovescia, scintillante e talvolta velato dalla nebbia che sta in alto.
Ci andavamo solo quando la rana-talpa, quel buffo animaletto senza occhi ma dall'udito finissimo, si arrampicava fuori dalla sua tana nel fango e gracidava il suo richiamo insistente, che veniva interrotto solo quando un'appetitosa falena ronzante passava nei pressi. Il ronzio cessava, e dopo poco, ritornava il canto della rana-talpa. Nessuno che io conoscessi era mai riuscito ad acchiappare una rana-talpa, tale era il suo udito che sentiva fin da distante i nostri passi e si rintanava nel fango prima che la raggiungessimo. Cercare di afferrarla scavando nella riva a quel punto era come tentare di afferrare l'acqua a dita aperte.
Sorrido a quel cielo familiare mentre mi rannicchio in un angolo per cercare di dormire. In mezzo agli umani, anche se potevo sembrare una di loro, il mio istinto mi diceva di restare vigile come una rana-talpa, e di non farmi prendere, se fossero venuti lassù per me. Non ero al sicuro lì all'aria aperta, diversamente da come mi ero sentita tra le braccia di mia madre, la prima volta che mi aveva portato a vedere lo stagno del cielo sopra le cime degli alberi. Le avevo detto che era bello, ma che faceva anche paura, perché c'era così tanto spazio vuoto tra noi e quello stagno scintillante. Era troppo lontano per potermici tuffare.
Lei poi mi aveva indicato un punto verso l'orizzonte, dove gli alberi si facevano meno fitti, e infine cedevano il passo a bassi laghi ricoperti da canneti, ninfee e altre piante palustri. Aguzzando la vista, mi era sembrato di scorgere qualche bagliore aggirarsi tra le canne, come se la terra fosse stata il riflesso dello stagno celeste con le sue stelle che, non avendole mai viste prima, a me parevano immobili. Mia madre mi aveva detto che quello era il confine del nostro mondo, e che brutte cose accadevano a chi si spingeva al di là di quel confine.
– Come quello che è successo a Galkna? – le avevo chiesto a quel punto.
La madre di mia madre, quand'era molto giovane, era stata presa dagli umani ed era tornata a casa cieca come una rana-talpa. Di tanti altri invece, che non erano mai tornati, si diceva che gli umani li avessero torturati e poi uccisi.
Qualche tempo dopo, mia madre è tornata da una caccia non-viva. So che una parte di lei è dentro di me, perché il clan mi ha lasciato i suoi occhi, e il suo cuore Galkna lo ha diviso con me. Ma per me, lei sarà sempre anche tra le stelle dello stagno di sopra.
Mi addormento chiedendomi che cosa avrebbe pensato se avesse saputo, quando mi ha portato in alto sugli alberi, che un giorno io avrei superato di mia volontà il confine del nostro mondo.

lunedì 22 novembre 2021

Basse aspettative


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Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


Nessuno si aspettava che io sopravvivessi. Forse per questo non inviarono qualcuno a cercarmi. Gli bastò a malapena sorvolare la zona per avere conferma che il jet privato dell'azienda presso cui lavoravo si era schiantato. Ma questo lo seppi solo molto tempo dopo.
In condizioni normali una persona come me non sarebbe nemmeno stata su quel jet, né avrebbe ricoperto la prestigiosa posizione di segretaria di un dirigente d'alto rango. Non abbastanza bella, né ruffiana, e senza alcun legame di parentela o di amicizia con chi sedeva nel consiglio di amministrazione, il giorno in cui mi avevano comunicato quella promozione inaspettata pensai a uno scherzo. E invece no, era tutto vero, e dopo breve tempo venni a sapere che ero stata caldamente raccomandata dalla moglie del suddetto dirigente, che era nientemeno che la figlia del gran capo, proprio perché si aspettava che per il marito non avrei rappresentato una distrazione, né una tentazione. Anche perché avevo la fama, tra i colleghi, di essere una donna algida, tanto che più di qualcuno aveva cominciato a sospettare che le mie preferenze fossero altrove.
E fu così che mi trovai a bordo di quel maledetto jet, e il maledetto jet si schiantò sulla montagna.
Le prime ore dopo il mio risveglio furono le più penose. Non c'era una sola parte del corpo che non mi facesse male, ero confusa, intontita, e per un istante non riconobbi nemmeno dove mi trovavo. Iniziai piano a ricordare, come se la mia mente funzionasse al rallentatore, e tremando mi liberai dalla cintura e cercai gli altri passeggeri, chiamai, chiesi aiuto. Nessuno mi rispose, e nessuno mi avrebbe più risposto.
Non avete idea di quello che ho dovuto fare per sopravvivere. Fuori dalla carlinga la temperatura era probabilmente inferiore allo zero, e soffiava un vento gelido, che portava con sé grossi grumi bianchi che picchiavano come pugni. Non ero al riparo, lì, poiché un ampio squarcio nella fusoliera si stava rapidamente riempiendo di neve. Voi non sapete che cosa significa davvero congelare dal freddo. Non sapete che cosa vuol dire battere i denti per le stilettate di un gelo bastardo, implacabile, e sentire che le dita, i piedi, il naso fanno male di continuo, tanto male, un male che non passa nemmeno strofinandoli, e quando finalmente passa e non li senti più, cominciare ad avere paura sul serio perché è allora che rischi di perderli.
Fui abbastanza fortunata da trovare una grotta, un anfratto non troppo grande e con un accesso stretto e riparato dal vento. Lì potei accendere un fuoco, ogni tanto, quando dalle mie escursioni all'esterno, sempre in pieno giorno e quando la tempesta di neve si placava un poco, riuscivo a portare del materiale infiammabile saccheggiato dai resti dell'aereo e da qualche solitario arbusto nei dintorni. Era difficile allontanarsi troppo, impossibile pensare di scendere a valle, con la nuova neve che si accumulava in mucchi traditori, piatti e rassicuranti anche quando celavano un crepaccio in cui affondare molto più che fino alle ginocchia. Ogni volta che uscivo, andavo anche a prendere qualcosa da mangiare. No, non vi dirò che cosa, inorridireste al solo pensiero. Ma lassù, al freddo, con la fame che divora le viscere, basta poco per vincere il ribrezzo e affondare i denti in qualunque carne sia possibile trovare.
Anche se quella carne un tempo aveva un nome.
Cercavo solo di sopravvivere. Un'ora alla volta. Un giorno alla volta. Non sapevo che altrove, tra la gente che se ne stava al sicuro, al caldo, e con la pancia piena, mi avevano già dato per morta. Non si aspettavano che io sopravvivessi.
Mi trovarono, per caso, un gruppo di scalatori. Smagrita, selvatica, viva. Unica sopravvissuta.
Perciò, nonostante le basse aspettative, eccomi qui.
E adesso quando qualcuno mi dice che sono algida, beh, non ha davvero idea di quanto il freddo sia diventato mio amico.

sabato 20 novembre 2021

Stolido

Stolido [stò-li-do] agg., s. 1. agg. Sciocco, stupido. 2. s.m. (f. -da) Persona stupida.

Etimologia: dal latino stolidus, affine a stultus, "stolto".



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Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


– Avanti, non guardarmi con quell'aria stolida – mormorò suadente la donna nello specchio. – Se avessi davvero creduto che non sarebbe accaduto niente, non avresti giocato a fare la strega.
La donna nello specchio indicò l'incenso e il liquido nella ciotola ai due lati del vecchio tomo, ancora aperto sulla pagina dell'incantesimo. Al di fuori dello specchio, Vivienne lasciò cadere lo straccio bagnato con cui lo aveva strofinato
Quello che stava vedendo non era possibile. Non era possibile che uno specchio mostrasse qualcosa di diverso dal proprio riflesso, né era possibile che quello si muovesse per conto proprio e parlasse. Per un momento Vivienne si chiese se qualcuna delle erbe che il libro aveva elencato per la ricetta dell'incenso non avesse qualche proprietà allucinogena. In fondo, ricordava di avere letto da qualche parte che alcuni degli episodi bollati come stregoneria in passato potevano avere una spiegazione nei funghi o nelle muffe che gli abitanti del villaggio avevano inavvertitamente ingerito, e che perfino le profetesse dell'antica Grecia potevano essere state sotto l'influsso di strani vapori provenienti dalle profondità della terra. Era stato davvero da stolidi seguire quelle istruzioni senza documentarsi sugli ingredienti che stava per usare.
La donna nello specchio scoppiò a ridere. – Umh, d'accordo, ammetto che può essere abbastanza sorprendente, la prima volta. Ma io non ricordo di essere mai stata così rimbambita quando ero una principiante.
– Smettila! – urlò Vivienne, prendendosi la testa tra le mani. E poi, bisbigliando, si chiese: – Che cosa ho fatto?

giovedì 18 novembre 2021

Sotto stelle di un altro cielo


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L'odore era diverso. Non so se fossero i nostri corpi alieni, o la composizione dell'atmosfera, o chissà che altro, ma il profumo del mare era nettamente diverso dal sentore salmastro che avevamo imparato a conoscere nelle nostre vite di prima. Era più dolce, con un lieve accenno di mela, e aromatico come le foglie di alloro nell'arrosto della domenica. Lo sciabordio della risacca però era esattamente lo stesso, con lo scroscio frizzante quando l'onda che avanza si rompe, e quel lieve risucchio subito soffocato dal rombo della successiva. Persino i richiami sgraziati degli animali che si aggiravano per la spiaggia, quei quadrupedi dalla pelle verdolina, traslucida come giada, il muso allungato e il corpo che terminava in una coda di delfino, sembravano quasi ricordare il verso dei gabbiani, tanto che chiudendo gli occhi e le narici si riusciva ad avere una vaga impressione di essere a casa. La casa di prima, intendo.
Ad occhi aperti no, non era possibile, perché il cielo notturno era un tripudio di stelle quali non s'erano mai viste sulla Terra, così tante che sarebbe stato impossibile cercare le costellazioni che avevo conosciuto da bambina. E anche se fossero state di meno, quello era un cielo diverso, un'altra galassia. Nessuna luna sopra di noi, bensì i frammenti lucenti della vicina fascia di asteroidi, che si muovevano tra noi e le stelle, oscurandole.
– Stanno arrivando – bisbigliò la ragazza al mio fianco, distogliendomi dalla contemplazione del cielo che mi chiamava come una sirena. Sbirciai i miei compagni, poi abbassai lo sguardo alla spiaggia.
Eravamo in quattro, sdraiati pancia in sotto sul promontorio, più o meno la metà del nostro gruppetto di esuli dalla Terra. Gli altri non avevano voluto seguirci, perché non avremmo dovuto essere lì, ma che cosa potevano farci, rimandarci indietro? Questi alieni, la nostra gente, non avevano attraversato distanze intergalattiche per tornare a prenderci per poi abbandonarci di nuovo.
Alla luce delle stelle e degli asteroidi vidi le vysia dai corpi trasparenti emergere dalle onde. Dapprima, sembrò che l'acqua stessa si sollevasse a formare quattro o cinque teste bulbose, poi emersero le spalle, il torso e le braccia, e infine le vedemmo camminare incontro alle nostre insegnanti. Da lontano, le vysia non sembravano così repellenti.
Al loro fianco emersero alcune figure molto più piccole, dalla pelle traslucida come quarzo rosa, malferme sulle gambette esili, con la testa troppo grande e le braccia sottili dondolanti. Parevano strane meduse, poiché uno strato di piante marine simili ad alghe ricciolute e rosse ricoprivano i loro arti.
Erano bambini. Non avevamo mai visto i bambini di questo mondo.
– Sono così strani – mormorò Ameyhios, che sbirciava solo di tanto in tanto, faticando a vincere il suo ribrezzo per le vysia.
– Ci pensate? Saremmo potuti crescere così anche noi – trillò Ealeeriri.
Ci pensammo, sì. O almeno, io ci pensai.
Se la nostra gente non avesse temuto che la vita sul nostro pianeta natale fosse stata sul punto di giungere al termine, a causa di un evento di cui nemmeno volevano parlare, non ci avrebbero inviato a crescere altrove come semi sparsi dal vento su isole lontane, e così noi non avremmo mai conosciuto altri mondi, altri corpi, altri profumi e altri modi di vivere. A pericolo scampato erano tornati a prenderci, noi e tutti gli altri esuli su decine di pianeti abitabili in chissà quante galassie. Ci avevano riportato sul pianeta e ci stavano insegnando che cosa significava far parte del Seleeriewn, ma ancora faticavamo ad ambientarci e a considerare quel luogo la nostra casa.

lunedì 15 novembre 2021

La donna dei fiori


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Nella savana, attorno a un fuoco, di notte, si raccontano storie interessanti. Storie strane, incredibili, bizzarre e mutevoli come le ombre gettate dalle fiamme sui nostri volti. Storie sussurrate per non farle sentire ai grilli e alle rane e agli uccelli chiacchieroni, che a migliaia parevano accorrere tra i rami di qualche sparuto albero, o assieparsi sulle schiene di elefanti e ippopotami per prestare orecchio e commentare con strepiti, strida e starnazzii, per poi ciangottare la loro versione della storia ai parenti al di là del fiume.
Una di queste storie riguardava la donna dei fiori. Mia nonna era solita raccontarla molto tardi, quando quasi tutti i bambini erano andati a dormire e persino le scimmie sbadigliavano a bocca aperta aggrappate ai tronchi o nascoste tra l'erba alta e giallastra. Io restavo sveglia apposta per sentirla, perché era la mia preferita e perché, a volte, dopo averla ascoltata, sognavo di essere anch'io una donna dei fiori.
La nonna diceva che era davvero vissuta, quando lei era lei era piccola, una donna amata dagli spiriti. Tutti sapevano che lo era perché nelle sue orme sbocciavano i fiori, e quelli che lei coglieva per metterli tra i capelli non appassivano mai; inoltre, gli spiriti le avevano sussurrato i loro segreti, così che la donna dei fiori conosceva la magia degli spiriti e delle piante, come ammansire le belve feroci e come guarire le malattie.
Oltre a conoscere segreti che nemmeno gli uomini di medicina più potenti sapevano, la donna dei fiori era molto bella, tanto che tutti gli uomini del villaggio e dei villaggi vicini l'avrebbero voluta come moglie. Ma chi è amato dagli spiriti non può cedere alle voglie di un semplice uomo, e così la donna dei fiori aveva rifiutato ogni pretendente che aveva bussato alla sua porta.
In quel tempo, nel villaggio oltre il fiume, viveva un uomo invidioso, che ambiva a diventare uno sciamano e a conoscere tutti i segreti della donna dei fiori. Lui era il più insistente tra coloro che la cercavano, e non aveva mai accettato il suo rifiuto, tornando più volte a bussare alla sua porta con doni di maggior valore a ogni luna che passava. Ma niente poteva convincere la donna dei fiori o la sua famiglia, e l'uomo invidioso sapeva che non sarebbe riuscito a rapirla quand'era nel villaggio, protetta com'era dai suoi parenti e dagli altri abitanti, che non desideravano che lei andasse a vivere altrove.
Così l'uomo invidioso la seguì di nascosto quando con le altre donne andava a prendere l'acqua al fiume, e quando la donna dei fiori si allontanò da sola per recarsi nel luogo in cui parlava con gli spiriti, l'uomo strisciò tra l'erba alta come un infido serpente, fino all'albero secco che segnava il luogo sacro. Aspettò nascosto finché non la vide immobile, in ascolto delle voci nel vento; a quel punto, l'uomo balzò su di lei come un ghepardo su una gazzella, e tentò di prenderla con la forza, confidando che, una volta che fosse stata sua, la donna dei fiori non avrebbe potuto far altro che condividere con lui i suoi segreti. Ma pur da sola, la donna dei fiori non era indifesa, poiché gli spiriti erano con lei, e allora i rovi sorsero dalla terra a graffiare l'uomo, e gli steli bruciati dal sole si avvinghiarono alle sue gambe e alle sue braccia, e gli arbusti protesero i loro ruvidi rami per accecarlo e respingerlo. Così l'uomo estrasse il coltello che portava alla cintola e tagliò, tagliò e tagliò, menando fendenti alla cieca, tranciando erba e pelle, carne e legno.
Quando si fermò, scoprì che la donna dei fiori era morta senza un lamento, poiché per prima, senza accorgersene, le aveva tagliato la gola, poi l'aveva ferita al ventre e alle braccia. Spaventato, l'uomo invidioso la seppellì sotto l'albero secco, tornò a casa, e non disse a nessuno ciò che aveva fatto.
A quel punto della storia, la nonna taceva sempre, alzava gli occhi al cielo stellato, e bisbigliava una preghiera per la donna dei fiori. O almeno questo è quello che io pensavo facesse, perché la cacofonia della savana soffocava le sue parole lievi, e di solito, da qualche parte, una iena rideva, forse perché già sapeva come proseguiva la storia.
Nel suo villaggio, la scomparsa della donna dei fiori non poteva passare inosservata. Tutti quanti la cercarono, prima lungo il fiume, poi nei villaggi vicini, temendo che qualcuno fosse riuscito infine a portarla via e sposarla di nascosto. Passarono i giorni, ma la donna dei fiori non si trovava. Alla fine, temendo che fossero stati gli stessi spiriti a prenderla con loro, alcuni tra i più coraggiosi nella sua famiglia si recarono al luogo sacro, presso l'albero secco che però non era più tale: l'albero era rinato, verde di foglie e bianco di fiori, e tutto attorno un ampio tappeto di corolle variopinte copriva le radici dell'albero non più secco. I suoi parenti si misero in ginocchio e scavarono lì dove i fiori erano più fitti, e in una tomba poco profonda trovarono lei, la donna dei fiori, bella com'era stata in vita. La morte sembrava non aver toccato il suo volto o il suo corpo, e se non fosse stato per i tagli profondi, orlati di sangue seccato, da cui si ergevano gli steli dei fiori più belli e profumati che si fossero mai visti, la si sarebbe detta immersa in un sonno profondo.
Sua madre pianse e supplicò gli spiriti di rivelarle chi fosse stato a farle questo, ma gli spiriti non parlarono. Poi, tutti insieme, le costruirono una lettiga e la portarono al villaggio, circondata da tutti i fiori che riuscirono a portare con loro, affinché le fossero tributati gli onori che le spettavano, lei che era stata tanto amata dagli spiriti che neppure alla morte era concesso di toccarla.
La notizia del suo assassinio si diffuse ben presto negli altri villaggi, e chiunque l'avesse conosciuta pretese di poterla piangere e onorare un'ultima volta. Così la lettiga in cui giaceva in un letto di fiori fu portata di villaggio in villaggio, e quando lo seppe l'uomo invidioso pretese che venisse anche nel villaggio al di là del fiume dove lui viveva: temeva infatti che se non lo avesse richiesto, lui che era stato il più insistente tra i suoi corteggiatori, avrebbe potuto sollevare il sospetto sulla sua colpevolezza.
Dunque la lettiga passò anche per il suo villaggio, e come già in precedenza, al suo passaggio gli abitanti bisbigliarono preghiere, aggiungendo fiori a quelli che già la circondavano e piangendo per la sua triste sorte. Ma quando la lettiga passò davanti all'uomo invidioso e lui mormorò parole vuote e posò il suo fiore tra gli altri, tutti i fiori avvizzirono e lo stesso corpo della donna dei fiori deperì all'istante e il collo si torse nella sua direzione, la bocca rinsecchita spalancata in un grido. Tutti seppero allora che gli spiriti avevano risposto alla supplica della madre, e avevano indicato il colpevole di quell'atroce delitto.
L'uomo invidioso ebbe la fine che si meritava, mentre l'anima della donna dei fiori poté finalmente riposare in pace, riunita agli spiriti che l'avevano così tanto amata.

sabato 13 novembre 2021

Contumelia

Contumelia [con-tu-mè-lia] s.f. Ingiuria, insulto.

Etimologia: dal latino contumelia, probabile corruzione di contemnelia, dal verbo contemnere, "disprezzare", composto da cum, "mezzo", e temno, "disprezzo.



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Foto di Liza Summer da Pexels


L'ho già detto che Alcyone non ha alcun senso di autoconservazione? Non credo di essere ingiusto nel riferire che ogni guaio in cui ci cacciammo, fu interamente colpa sua.
Dopo essere sfuggiti all'ennesimo problema per il rotto della cuffia io volevo starmene un po' tranquillo, volare basso, ma non in senso letterale... meglio specificarlo dato che Alcyone volendo è in grado di trasformare entrambi in uccelli, e una volta l'ha fatto, ma di quello preferisco non parlare, grazie.
Stavo dicendo, io intendevo fare in modo di non essere notato, dato che disgraziatamente eravamo pure finiti su certi manifesti che spingono gente avida e poco raccomandabile a cercarti. E pensavo che un paesino sperduto nelle Pacifiche Campagne fosse il riparo ideale, ma non avevo tenuto conto di quanto i guai fossero in grado di trovare Alcyone, come se lei li attirasse.
Cominciò tutto con due contadini che litigavano. Cosa non insolita, a meno di non trovarsi nelle Pacifiche Campagne: qui, da quando eravamo arrivati, non si era vista una sola baruffa.
– Contumeeeeelia! – urlava uno. – Screanzato! Villano! Ritira subito quello che hai detto!
– Giammai, fellone – replicava l'altro – e lo ribadisco: sei un inutile cavazolle, nemmeno buono a far crescere erbaccia!
Eh sì, i contadini di Pacifiche Campagne erano molto educati. Nonostante l'insolita ingiuria, mai sentita né qui né altrove, io stavo per tirare dritto, quando Alcyone prima si voltò, poi si allontanò dal mio fianco e si rivolse ai due litiganti. Cercò inutilmente di farli ragionare e rappacificare, ma non riuscendo sbottò: – Ah, ci rinuncio! Siete più maleducati di un avvoltoio appollaiato su una carogna, andatevene a quell'altro paese!
Rimasi di stucco: parlare così non era da lei. Poi mi resi conto che tutti attorno a stavano litigando e insultandosi.
I casi erano due: o ci trovavamo di fronte a un'epidemia di contumelia in piena regola, o c'era di mezzo un folletto o qualche altro tipo di dispettosa creatura magica.

giovedì 11 novembre 2021

Sotto la pioggia, sopra la neve



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Foto di Evelyn Chong da Pexels


Non posso dire che non sia stata colpa mia. Ma cerca di capirmi: io volevo soltanto aiutare. Tutto qui, solo aiutare.
Quando Gaia se ne andò per il fine settimana mettendo nelle mie mani la baracca, io glielo dissi che non avevo mai letto il libretto di istruzioni, e che quindi non sapevo proprio come comportarmi in caso di un imprevisto. L'avevo avvertita, eh! Ma lei "no, tutto a posto, non ti devi preoccupare. Ho impostato tutto quanto in modo che possa andare avanti anche da solo. Tutto ciò che devi fare è sorvegliare. Dare un'occhiata di tanto in tanto, così, per sicurezza."
E io lo avevo fatto. Avevo sbirciato, dapprima con disinteresse, con l'insofferenza di chi ha ricevuto un incarico noioso e superfluo. Avevo altri modi di trascorrere il mio tempo che non fossero fare la guardia al progetto di mia sorella. Che cosa ci trovava poi di così interessante in quella roccia sperduta nel vuoto? Non appena mi posi la domanda, capii che era fatta. Avevo combinato il guaio più grosso. Avevo risvegliato in me la scintilla della curiosità.
E non è una scintilla che possa essere soffocata prima di aver causato un incendio in piena regola, quella. Così, invece di restarmene in disparte a guardare tutto dall'alto, trovai la porta ed entrai.
La mia prima esperienza del progetto di mia sorella avvenne sotto quella che qui chiamano "pioggia". Acqua in forma liquida che cade dall'alto. Sembra una follia persino a dirlo, figuriamoci a sentirla scorrere sulla superficie di una forma fisica, in una scia umida che provoca un insolito solletico sul confine tra te e tutto il resto. Non ero abituata a queste sensazioni, ma fu stranamente... gradevole. Almeno finché alcune di quelle buffe creature che mia sorella aveva voluto far crescere sulla sua roccia non mi dissero che non avrebbe dovuto piacermi, e cercarono di frapporre un altro confine dalla forma concava tra me e l'acqua che cadeva.
Avrei potuto arrabbiarmi per quella intromissione, ma lasciai correre. Erano piccole creature spaventate, che cosa ne potevano sapere loro. Cominciai a esplorare la loro casa, e nel frattempo, avevo scovato il libretto di istruzioni che mia sorella aveva abbandonato in un angolo. Aveva le pagine sgualcite, macchiate e piene di strappi, ma anche così si rivelò una lettura interessante.
Iniziai a modificare leggermente le impostazioni, così da prendere familiarità con i comandi. Fu presto ovvio che non potevo giocarci per conto mio senza che le buffe creature che temevano la pioggia se ne accorgessero. Pochi anni dopo del loro tempo, e già erano tutte prese dalla paura per una nuova minaccia: non più la pioggia, bensì il caldo.
Non facevano che lamentarsene. Una pensa che un pochino di caldo in più non possa far niente di male, che anzi possa risultare gradito, e invece no, le buffe creature non facevano che riunirsi e parlare e incolparsi a vicenda, come se i comandi e il libretto delle istruzioni fossero stati nelle loro mani, invece che nelle mie.
Alla fine del secolo, li avevo sentiti lamentarsi così tante volte, che decisi di prendere in mano la situazione, ascoltarli, e fare qualcosa che speravo avrebbero gradito. Scovai la leva del freddo e tentai di muoverla, ma era bloccata, così spinsi più forte e tutto ad un tratto la leva cedette e scivolò fino in fondo.
E questa, se hai ascoltato bene, è la mia parte di colpa nella vicenda. Se solo non avessi dato retta a quelle creature, nulla di tutto questo sarebbe successo.
Quando mia sorella tornò a casa, la sua roccia era diventata interamente bianca. Mi trovò così, con i piedi immersi nella coltre bianca, a godermi le stilettate di gelo che intirizzivano questa mia forma fisica mentre il vento boreale sibilava nelle orecchie e faceva turbinare i fiocchi candidi in mulinelli angosciati. Le buffe creature avevano smesso di lamentarsi, chissà dov'erano.
Cercai di spiegare a mia sorella che io avevo solo provato ad aiutarle, ma lei non volle sentire ragioni e mi spedì a sturare i buchi neri intasati e a lucidare le stelle spente, ben lontano dal suo prezioso terrario, mentre lei si mise con cura a resettarne le impostazioni.

lunedì 8 novembre 2021

Felicità è una palude da esplorare


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Foto di Andre Furtado da Pexels


Leda vagava per la palude di Greye allegra e spensierata come una bambina in un campo di girasoli. Sembrava non rendersi affatto conto che si trovava nel luogo più pericoloso e inquietante di tutta Penterra, e non bastava la penombra che si infittiva ad ogni passo, né la cacofonia ronzante di insetti che ci giravano attorno, tenuti lontani solo dall'unguento che lei ci aveva fornito, o l'odore di morte e decomposizione che rivaleggiava con il sentore acre del suddetto unguento.
No, Leda si aggirava senza una preoccupazione al mondo, curandosi solo di chinarsi di tanto in tanto per raccogliere con una pinzetta un'erbaccia nera che non mi sembrava diversa da tutte le altre che stavamo calpestando, per riporla in una delle boccette appese alla cintura con un grido entusiasta. – Una Xenodioscura striata, che fortuna! Questa è il miglior rimedio al mondo contro le irritazioni da ortica di Varelya.
Oppure raccattava una lunga striscia nera e ritorta, o staccava un pezzetto di corteccia sprizzando gioia da tutti i pori, e la sua spiegazione, a voce talmente alta da zittire per un istante le rane, era: – La pelle di serpente a due teste è un bendaggio insuperabile in caso di ustioni! – E ancora: – Corteccia di salice stridente, preparata nel modo giusto è un allucinogeno estremamente potente. È molto rara, peccato che ci voglia un'autorizzazione speciale per esportarla... Oh, ma che dico, certo che ce l'ho quell'autorizzazione! Tutti gli studiosi affiliati a un'Accademia hanno il permesso di prelevare e trasportare la quantità stabilita di materiali attinenti ai loro studi, e io sono una Naturalista, specializzata in derivati botanici e animali. Quindi, la prendo!
Dopo varie esclamazioni di questo tipo la nostra guida, un tizio del posto con più cicatrici che anni, sibilò in tono scocciato: – Sta' zitta, donna. Siamo in pieno territorio mutaforma, vuoi farci uccidere tutti? – Le scoccò un'occhiata truce e brontolò: – Portare una donna a una caccia. Bah, chissà chi ha avuto questa grande idea...
Leda scoppiò a ridere, per nulla turbata da quello che avrebbe definito, più tardi, "becero maschilismo" della guida locale. La conoscevo da abbastanza tempo per sapere che quanto a temperamento non aveva nulla da invidiare alle donne di Sljdzjell. Diversamente da loro però Leda poteva vantare la conoscenza derivata da anni di studio, e la totale assenza di quel condizionamento culturale volto a contenere quel tipo di fiera esuberanza quando si trovava fuori di casa.
– Territorio mutaforma... questo? – ribatté Leda in tono di scherno. – A parte che il loro nome corretto è Shidvelkhm, mentre "mutaforma" è solo un appellativo offensivo che gli abbiamo affibbiato noi esseri umani. Si dà il caso che la loro specie abiti nelle profondità più oscure della palude, non certo qui ai confini con tutta questa luce! Inoltre, lo sanno anche i bambini che gli Shidvelkhm lasciano graffi sui tronchi, matasse di piume aggrovigliate appese ai rami o altri segnali per identificare il loro territorio. Avete visto qualcosa del genere qui attorno? Io no di certo. Ma che razza di guida non è al corrente di queste nozioni elementari?
Prima ancora che Leda finisse il discorso, la nostra guida sbuffò, distolse gli occhi da Leda e si rivolse a Matt. – Fa sempre così?
Matt annuì, e io aggiunsi: – Anche peggio!
Il che mi fece guadagnare un'occhiata di sdegno da parte di Leda, ma i nostri commenti irritanti non riuscirono comunque a smorzare il suo entusiasmo nell'accompagnarci in quella esplorazione della palude. Non avevo mai incontrato qualcuno che fosse tanto felice di passeggiare tra tronchi marcescenti e ingombranti liane che pendevano come funerei drappi dai rami contorti, sotto lo schiocco dei becchi e i versi monotoni dei corvi palustri che somigliavano a sinistre risatine maligne, col lezzo di putrefazione che si sollevava dall'acqua stagnante delle pozze a ogni sciaguattio degli stivali fino a riempirti le narici e provocare conati di vomito.
Non avevo mai incontrato nessuno prima, ma solo più tardi, al termine di un lungo viaggio, tornai nella palude di Greye con qualcun altro che sembrava felice quanto Leda nel calcare i piedi in quel fango. Ylenia era molto più silenziosa, ma riuscivo a intuire la sua eccitazione nel modo in cui il suo respiro accelerava, da come alzava la testa, a occhi chiusi, ad annusare tutti quegli odori che per me erano sgradevoli ma che a lei dovevano apparire familiari. Vedevo la sua agitazione nel toccare i tronchi e chinarsi a terra e poi correre avanti, come se non credesse di essere davvero lì, nella palude, e poi tornare indietro ad afferrarmi per un polso, una presa delicata nonostante gli artigli e la sua forza di Shidvelkhm, spronandomi a seguirla. Più avanti, più avanti, laggiù, verso l'ombra, verso casa, sollevando spruzzi umidi che facevano scappare perfino i grossi e pigri rospi che gracidavano sulle rive degli stagni. Io la seguivo, con molto meno entusiasmo e cercando di rallentare un po' la sua corsa, perché sapevo che non eravamo bambini in un campo di girasoli, e cosa ancor più terrificante, nonostante le sue rassicurazioni non avevo la più pallida idea di cosa ne sarebbe stato di me una volta che Ylenia si fosse riunita al suo popolo.

sabato 6 novembre 2021

Pletora

Pletora [plè-to-ra] s.f. 1. med. Eccesso patologico di sangue; estens. aspetto florido, corpulento. 2. fig. Eccesso, sovrabbondanza.

Etimologia: dal greco plethore, "pienezza, sovrabbondanza", derivato dal verbo plèthein, "essere pieno".



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Foto di Roger Brown da Pexels


Ricordo bene il giorno in cui io e Amanda diventammo amiche. Sebbene, per essere corretti, più che un giorno fu una notte.
Ero tornata da una nottata di caccia selvaggia durante la quale avevo più che placato la mia sete: mi ero concessa di indulgere in un banchetto di sangue che mi aveva lasciato satolla, gonfia e febbricitante. Senza curarmi di ripulire la bocca o i rivoli rossi colati sul vestito, mi ero sdraiata sul pavimento di marmo per trovare sollievo alla marea pulsante che mi scorreva nelle vene. Sapevo che mio padre non era in casa, perché altrimenti lo avrei sentito. Avrei avvertito la sua disapprovazione guastare i ricordi che mi annebbiavano la mente, una pletora di volti urlanti da un'infinità di notti, fin da quando ero bambina e cacciavamo insieme, e lui mi aveva insegnato a squarciare le loro gole per trarne l'appetitoso, rosso nettare.
Ma io non ero più una bambina e lui era fuori con Amanda. Un'odiosa preda che mi stava rubando mio padre e che aveva l'assurda pretesa di farmi da madre.
Non era nemmeno una di noi.
Chiusi gli occhi e la immaginai al posto di una delle mie vittime. Quanto mi sarebbe piaciuto saziarmi da lei e relegare la sua ingombrante presenza nel passato! Una risata diabolica mi sgorgò tra i denti tinti di carminio. La porta si aprì e altre risate, più lievi, risuonarono in corridoio.
La testa dolorante mi si riempì di rabbia non appena mio padre percepì quella sciocca fantasia. Non era mai stato così in collera con me.
Tentai di alzarmi, ma lui mi spinse giù con la suola dello stivale premuta sul mio stomaco.
– Dimitri, no!
Feci una smorfia alla voce supplichevole di Amanda levata in mio favore.
– Sta male. Riconosco i sintomi di una pletora. Aiutami, dobbiamo drenare il sangue in eccesso...
– Aiutami? No. Non faremo niente per questa idiota ingorda.
Litigarono, e Amanda la spuntò. Avrebbe potuto scegliere di stare dalla parte di mio padre, e invece aveva scelto me. Questo mi costrinse a rivalutare la mia opinione su di lei.

giovedì 4 novembre 2021

Elisir di tristezza


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Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


– ...mi dispiace.
Quattro sillabe che risuonarono più reali del sibilo dei vapori, del ribollire costante negli alambicchi e del tintinnio del vetro quando posai la beuta che tenevo in mano.
Le avevo pronunciate tante volte quelle due parole nella mia vita, ma per me erano sempre state un contenitore vuoto, una frase di circostanza, il modo in cui io e i miei simili ci nascondevamo tra la specie dominante, imitandola. Ci eravamo adattati a simulare la loro eccessiva sensibilità, le emozioni che loro ritenevano tanto importanti, ma che offuscavano il loro giudizio, e che alla fine si erano rivelate il loro tallone d'Achille quando avevamo preso il controllo e ridotto il loro numero a poco più di qualche centinaio di esemplari in una decina d'anni.
Non avevo provato rimorso quando avevo contribuito alla loro quasi totale estinzione. Era la cosa più ragionevole da fare, date le circostanze. E io sono sempre stato un uomo molto ragionevole.
Ma lì, nella luce abbagliante del laboratorio, quella sensazione estranea alla mia mente si era condensata e prima che potessi analizzarla era scesa alla gola, dove aveva subito una trasformazione alchemica che l'aveva spinta a salire sotto forma di voce, come un gas riscaldato attraverso una cannula di vetro trasparente, e mi era infine sgorgata dalle labbra. Non avevo potuto fermarla. Non avevo voluto.
Lasciai il tavolo con le sue gorgoglianti serpentine in cui scorrevano i preziosi distillati e mossi qualche cauto passo verso l'esemplare appeso alla carrucola al centro della sala. Lo circondava un groviglio di tubicini: alcuni immettevano nel suo corpo dei potenti miorilassanti per impedirgli di muoversi, altri stimolavano l'attività cerebrale in determinate aree, aumentando la produzione del neurotrasmettitore che di volta in volta ritenevo necessario per creare l'elisir che mi veniva richiesto. Altri tubicini infine drenavano quell'ingrediente dall'esemplare e lo convogliavano al circuito di filtraggio e condensazione.
Lo guardai. Per la prima volta da quando avevo iniziato a lavorare nel laboratorio, guardai l'esemplare come si guarda un essere vivente e sentii un peso al centro del petto. Quella creatura smagrita, inerme, privata degli occhi e della possibilità di una vera vita non era poi così dissimile da me, almeno esternamente. Appartenevamo entrambi alla famiglia degli ominidi, al genere homo. Solo la specie non era la stessa. Una manciata di geni faceva tutta la differenza tra la sua specie, erroneamente definita "sapiens" dai suoi componenti, e la mia; meno dell'uno per cento del nostro genoma rendeva lui una risorsa da sfruttare, e me un uomo libero nel nuovo mondo che avevamo creato. Mi mancò il fiato, come se un vuoto improvviso avesse risucchiato tutta l'aria dai miei polmoni, al pensiero di quant'era stato sfortunato quest'uomo così simile a me a nascere in un'epoca che non apparteneva più alla sua gente, ma alla mia. Allo stesso tempo, mi sembrò di avvertire il suo dolore, come se una strana, impossibile osmosi trasmettesse da lui a me le punture degli aghi infilati nella pelle, nei muscoli e nel cranio, l'agonia dell'immobilità di una mente pensante, viva, sprofondata ormai nel buio, la straziante consapevolezza che i miei aguzzini, i suoi, ci avrebbero tenuti in quello stato il più a lungo possibile, rendendo il tempo uno stillicidio di attimi dolenti.
Mi bruciarono gli occhi, e spinto dall'impulso di liberare l'esemplare, di porre fine alle sue sofferenze in un modo o nell'altro, allungai le braccia verso di lui. Ma fu solo un istante.
Avevo assaggiato appena qualche goccia dell'elisir e il suo effetto stava già svanendo. Presto sarei stato di nuovo padrone della mia mente, ma già cominciavo ad analizzare in maniera più logica ciò che mi stava accadendo, riconoscendo e accantonando tutti quegli impulsi irrazionali che erano naturali per la sua specie, ma estranei alla mia.
Riconobbi il problema. Cercai la soluzione. Come mai un elisir dell'euforia, quella potente e redditizia droga da cui i più deboli tra noi erano diventati dipendenti, era risultato così difettoso da provocare in me gli effetti imprevisti che avevo sperimentato?
Ero sicuro di non aver sbagliato. Tutte le procedure erano state rispettate alla lettera, e io non potevo sbagliare, non un compito così semplice.
Poi lo vidi. Vidi il soggetto muovere un indice alla ricerca del tubicino più prossimo alla sua mano. Forse ne aveva già stretto uno, pizzicandolo tra le falangi per impedire il passaggio del liquido, o l'aveva tirato per cambiare l'area del suo cervello che veniva stimolata.
Premetti un pulsante. Come da protocollo, in meno di trenta secondi due energumeni della mia specie entrarono dall'unica porta del laboratorio e mi raggiunsero.
– Tiratelo giù – ordinai loro, e mentre gli inservienti staccavano i tubicini e liberavano l'esemplare dalla carrucola, colsi il suo sospiro e il rilassarsi dei muscoli del suo volto, che un ultimo guizzo della pozione che avevo bevuto mi aiutò a interpretare come il suo sollievo di fronte a quella che doveva apparirgli come una forma di misericordia.
La mia voce era tornata al suo consueto, freddo pragmatismo mentre proseguivo nell'impartire gli ordini: – Sala di preparazione uno. Dite al chirurgo di amputargli le braccia, non ci servono. – L'effimera fiammella che aveva riscaldato i miei pensieri fino a rimestarli in una ribollente confusione era ormai morta. Nella statica pace che era seguita all'insolita entropia mentale, riconoscevo quanto fosse deleteria, pericolosa, l'essenza che avevo per errore distillato.
– Fate venire la squadra di pulizie. Gli ordini sono: distruggere l'ultima partita risultata difettosa e sterilizzare l'intero laboratorio. Solo dopo rimetteremo al suo posto l'esemplare e ricominceremo la produzione. Tempo stimato alla ripresa delle attività...
Non mi dispiaceva più per quella cosa. Era solo uno strumento, come lo erano gli alambicchi, le beute graduate e le pipette. E uno strumento che non funzionava come avrebbe dovuto andava aggiustato.
Nessuno di noi avrebbe battuto ciglio alle sue urla.

lunedì 1 novembre 2021

La straniera


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Foto di Rodolfo Clix da Pexels


Era venuta con una nave dall'ovest, nei tempi in cui il deserto ai margini del nostro piccolo villaggio sull'altopiano non era ancora una meta frequentata dai turisti stranieri armati delle loro fotocamere prima, e dei loro smartphone dopo. Difficile dire da dove venisse, poiché parlava perfettamente più lingue senza la storpiatura di un accento particolare, e da come abbandonò subito i vecchi abiti e abitudini per adattarsi ai nostri, fu chiaro che doveva averli mutati in passato più di una volta. Eppure, per quanto provasse ad apparire come una di noi, per tutti lei rimaneva soltanto "la straniera".
A differenza dei turisti che avremmo accolto negli anni a venire, lei non viaggiava per piacere o per curiosità. Non lo faceva per cercare lavoro, come avevano fatto tanti dei nostri che si erano improvvisati minatori e avevano lasciato l'altopiano. Ed era troppo serena per essere in fuga da qualcuno che non era stato gentile con lei, o da un paese in cui la sua vita era stata in pericolo.
La straniera viaggiava perché il viaggio era la sua vita, e dunque nessuno di noi si aspettava che rimanesse.
Fu una luna dopo il suo arrivo che la straniera ci chiese di accompagnarla nel deserto. Le brave donne di San Pedro, con le quali la straniera tendeva a passare il suo tempo dato che consideravamo sconveniente che si intrattenesse con gli uomini, avevano già riferito con preoccupazione ai mariti di certi atteggiamenti bizzarri che la straniera non si era premurata di nascondere. Dicevano che parlasse con il vento, e che certe volte si fosse fermata all'improvviso come in ascolto di una voce che solo lei poteva udire. Talvolta l'avevano scorta in compagnia di un qualche animale, o di un estraneo venuto da chissà dove; dopo quegli incontri la straniera appariva sempre spossata, e per quanto ci avessimo provato, nessuno era mai riuscito a ritrovare la bestiola o la persona che la straniera aveva incontrato.
Svaniti, come se non fossero mai esistiti. Per queste stranezze, qualcuno aveva cominciato a chiamarla "la bruja", la strega.
La sua richiesta di essere accompagnata nel deserto da un manipolo di uomini del villaggio fu solo l'ennesima bizzarria, e dapprima le dicemmo che non si poteva fare. La straniera però era insistente, così le dicemmo che l'unico modo in cui avremmo potuto accompagnarla nel deserto era se fosse stata assieme a suo marito, così da non rischiare pettegolezzi indecorosi sul suo conto. Pensavamo in questo modo di scoraggiarla, invece lei avvicinò un giovanotto timido, che aveva avuto fin da subito un debole per lei, e le nozze furono celebrate nel giro di qualche giorno. La sua prima notte da donna sposata la straniera la trascorse nel deserto, al crepitare delle fiamme e all'ululato del vento che soffiava sabbia e polvere nelle crepe assetate. Mentre qualcuno dall'altro lato del fuoco traeva qualche malinconica nota dal flauto Pincollo, la straniera non ebbe alcun pudore nel giacere con suo marito, i loro corpi celati solo dagli strati di coperte che li isolavano dal freddo e dall'umidità della notte.
La mattina dopo, il deserto era di un rosa intenso per la fioritura di un tappeto di fiori che si spingeva in ogni direzione attorno a noi. Non era un fenomeno nuovo, ed è lo stesso che oggi attira centinaia di turisti, ma il tempismo di quell'evento apparve miracoloso agli uomini che avevano accompagnato la straniera. Lei si allontanò dal campo e si mise a danzare in mezzo a quei fiori, mentre il giovanotto timido che se l'era sposata rideva, felice come non era mai stato. Uno degli altri gli chiese se non aveva paura ad avere per moglie una straniera che poteva essere una bruja, ma lui rispose: – Certo che è una bruja, ma è una bruja buona. Perché mai dovrei aver paura di lei?
Quando tornò dal suo ballo solitario, la straniera aveva tra le braccia un cucciolo di lama. Un altro dei tanti animali spuntato da chissà dove.
Disse al marito che la bestia si chiamava Rayen, che era molto potente a dispetto della sua fragile apparenza, e che sarebbe partita con loro, poiché desiderava proteggere l'uomo, la straniera, e le figlie che avrebbero avuto. Gli altri uomini ascoltarono tutto, ma nonostante quelle parole, non videro il cucciolo tornare al villaggio assieme a loro, né lo videro allontanarsi dal gruppo. Era semplicemente sparito, anche se la straniera, appoggiata al marito per la stanchezza, assicurava che Rayen fosse ancora con loro.
Qualche giorno dopo anche la straniera e il suo novello sposo erano spariti, senza clamore e senza saluti. A San Pedro de Atacama non li rivedemmo mai più.