giovedì 4 novembre 2021

Elisir di tristezza


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Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


– ...mi dispiace.
Quattro sillabe che risuonarono più reali del sibilo dei vapori, del ribollire costante negli alambicchi e del tintinnio del vetro quando posai la beuta che tenevo in mano.
Le avevo pronunciate tante volte quelle due parole nella mia vita, ma per me erano sempre state un contenitore vuoto, una frase di circostanza, il modo in cui io e i miei simili ci nascondevamo tra la specie dominante, imitandola. Ci eravamo adattati a simulare la loro eccessiva sensibilità, le emozioni che loro ritenevano tanto importanti, ma che offuscavano il loro giudizio, e che alla fine si erano rivelate il loro tallone d'Achille quando avevamo preso il controllo e ridotto il loro numero a poco più di qualche centinaio di esemplari in una decina d'anni.
Non avevo provato rimorso quando avevo contribuito alla loro quasi totale estinzione. Era la cosa più ragionevole da fare, date le circostanze. E io sono sempre stato un uomo molto ragionevole.
Ma lì, nella luce abbagliante del laboratorio, quella sensazione estranea alla mia mente si era condensata e prima che potessi analizzarla era scesa alla gola, dove aveva subito una trasformazione alchemica che l'aveva spinta a salire sotto forma di voce, come un gas riscaldato attraverso una cannula di vetro trasparente, e mi era infine sgorgata dalle labbra. Non avevo potuto fermarla. Non avevo voluto.
Lasciai il tavolo con le sue gorgoglianti serpentine in cui scorrevano i preziosi distillati e mossi qualche cauto passo verso l'esemplare appeso alla carrucola al centro della sala. Lo circondava un groviglio di tubicini: alcuni immettevano nel suo corpo dei potenti miorilassanti per impedirgli di muoversi, altri stimolavano l'attività cerebrale in determinate aree, aumentando la produzione del neurotrasmettitore che di volta in volta ritenevo necessario per creare l'elisir che mi veniva richiesto. Altri tubicini infine drenavano quell'ingrediente dall'esemplare e lo convogliavano al circuito di filtraggio e condensazione.
Lo guardai. Per la prima volta da quando avevo iniziato a lavorare nel laboratorio, guardai l'esemplare come si guarda un essere vivente e sentii un peso al centro del petto. Quella creatura smagrita, inerme, privata degli occhi e della possibilità di una vera vita non era poi così dissimile da me, almeno esternamente. Appartenevamo entrambi alla famiglia degli ominidi, al genere homo. Solo la specie non era la stessa. Una manciata di geni faceva tutta la differenza tra la sua specie, erroneamente definita "sapiens" dai suoi componenti, e la mia; meno dell'uno per cento del nostro genoma rendeva lui una risorsa da sfruttare, e me un uomo libero nel nuovo mondo che avevamo creato. Mi mancò il fiato, come se un vuoto improvviso avesse risucchiato tutta l'aria dai miei polmoni, al pensiero di quant'era stato sfortunato quest'uomo così simile a me a nascere in un'epoca che non apparteneva più alla sua gente, ma alla mia. Allo stesso tempo, mi sembrò di avvertire il suo dolore, come se una strana, impossibile osmosi trasmettesse da lui a me le punture degli aghi infilati nella pelle, nei muscoli e nel cranio, l'agonia dell'immobilità di una mente pensante, viva, sprofondata ormai nel buio, la straziante consapevolezza che i miei aguzzini, i suoi, ci avrebbero tenuti in quello stato il più a lungo possibile, rendendo il tempo uno stillicidio di attimi dolenti.
Mi bruciarono gli occhi, e spinto dall'impulso di liberare l'esemplare, di porre fine alle sue sofferenze in un modo o nell'altro, allungai le braccia verso di lui. Ma fu solo un istante.
Avevo assaggiato appena qualche goccia dell'elisir e il suo effetto stava già svanendo. Presto sarei stato di nuovo padrone della mia mente, ma già cominciavo ad analizzare in maniera più logica ciò che mi stava accadendo, riconoscendo e accantonando tutti quegli impulsi irrazionali che erano naturali per la sua specie, ma estranei alla mia.
Riconobbi il problema. Cercai la soluzione. Come mai un elisir dell'euforia, quella potente e redditizia droga da cui i più deboli tra noi erano diventati dipendenti, era risultato così difettoso da provocare in me gli effetti imprevisti che avevo sperimentato?
Ero sicuro di non aver sbagliato. Tutte le procedure erano state rispettate alla lettera, e io non potevo sbagliare, non un compito così semplice.
Poi lo vidi. Vidi il soggetto muovere un indice alla ricerca del tubicino più prossimo alla sua mano. Forse ne aveva già stretto uno, pizzicandolo tra le falangi per impedire il passaggio del liquido, o l'aveva tirato per cambiare l'area del suo cervello che veniva stimolata.
Premetti un pulsante. Come da protocollo, in meno di trenta secondi due energumeni della mia specie entrarono dall'unica porta del laboratorio e mi raggiunsero.
– Tiratelo giù – ordinai loro, e mentre gli inservienti staccavano i tubicini e liberavano l'esemplare dalla carrucola, colsi il suo sospiro e il rilassarsi dei muscoli del suo volto, che un ultimo guizzo della pozione che avevo bevuto mi aiutò a interpretare come il suo sollievo di fronte a quella che doveva apparirgli come una forma di misericordia.
La mia voce era tornata al suo consueto, freddo pragmatismo mentre proseguivo nell'impartire gli ordini: – Sala di preparazione uno. Dite al chirurgo di amputargli le braccia, non ci servono. – L'effimera fiammella che aveva riscaldato i miei pensieri fino a rimestarli in una ribollente confusione era ormai morta. Nella statica pace che era seguita all'insolita entropia mentale, riconoscevo quanto fosse deleteria, pericolosa, l'essenza che avevo per errore distillato.
– Fate venire la squadra di pulizie. Gli ordini sono: distruggere l'ultima partita risultata difettosa e sterilizzare l'intero laboratorio. Solo dopo rimetteremo al suo posto l'esemplare e ricominceremo la produzione. Tempo stimato alla ripresa delle attività...
Non mi dispiaceva più per quella cosa. Era solo uno strumento, come lo erano gli alambicchi, le beute graduate e le pipette. E uno strumento che non funzionava come avrebbe dovuto andava aggiustato.
Nessuno di noi avrebbe battuto ciglio alle sue urla.

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