giovedì 29 giugno 2023

Audioracconto - Il portadisperazione


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


*** Attenzione ***
Per il tema narrato o il contenuto di alcune scene l'ascolto di questo racconto non è adatto ai bambini e a un pubblico sensibile.
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Cristina pensava di essersi liberata della maledizione che l'aveva perseguitata fin da bambina. E invece, al suo diciottesimo compleanno...

Il portadisperazione
(racconto breve di genere horror/drammatico)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2018/10/il-portadisperazione.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Una notte sul Monte Calvo di Modest Petrovič Musorgskij dal canale Classical Music Copyright free (https://www.youtube.com/watch?v=j4AggzA8fJg).

Immagini di: Farzad Sedaghat, (https://www.pexels.com/it-it/foto/misteriosa-ombra-dietro-uno-sfondo-scuro-3809379), EKATERINA BOLOVTSOVA (https://www.pexels.com/it-it/foto/mani-regalo-tenendo-nastro-7358313/), alex Lázaro (https://www.pexels.com/it-it/foto/fiamme-arancioni-22254/), Pavel Danilyuk (https://www.pexels.com/it-it/foto/biondo-capelli-lunghi-piangendo-emotivo-8441834/), cottonbro studio (https://www.pexels.com/it-it/foto/candele-mistico-mistero-fortuna-7179797/), (https://www.pexels.com/photo/brown-gift-box-with-black-ribbon-3927238/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/polvere-sfondo-particelle-textures-9665180/), RDNE Stock project (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-camicia-a-maniche-lunghe-rosa-e-leggings-neri-che-si-siede-sul-pavimento-di-legno-marrone-6003560/), Jill Wellington (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-di-sagoma-di-donna-contro-durante-l-ora-d-oro-39853/), Andrea Piacquadio (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-seduta-sul-pavimento-3767426/), Mikhail Nilov (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-emozioni-frustrazione-fumare-7676279/), Anabella Castro (https://www.pexels.com/it-it/foto/coltello-con-manico-nero-sul-cassetto-in-legno-bianco-6264420/), Alexey Demidov (https://www.pexels.com/it-it/foto/utensile-coltello-da-cucina-superficie-di-legno-avvicinamento-12306338/), Karolina Grabowska (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-ragazza-adolescente-madre-6134926/) da Pexels distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori: War Horn Horror (https://pixabay.com/it/sound-effects/war-horn-horror-73771/) e Four Voices Whispering (https://pixabay.com/it/sound-effects/four-voices-whispering-6943/), da Pixabay, distribuiti ad uso gratuito (https://pixabay.com/it/service/license-summary/).

lunedì 26 giugno 2023

La forma della paura


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Nelly Aran da Pexels


La paura è una cosa viva. Cresce con i racconti, con le storie tramandate di generazione in generazione, si alimenta con l'esperienza di piccoli eventi negativi, sassolini che nel tempo diventano macigni. I bambini non hanno paura. Gli viene insegnato ad averla.
E se a volte è necessario, non sempre è l'insegnamento più saggio da dare.
Guarda questa brughiera odorosa di fiori selvatici, adagiata su terreni dalle morbide curve, onde d'arbusti e lievi declivi; ascolta i belati delle pecore al pascolo, e il mugghiare lontano delle onde salmastre contro la scogliera; senti il richiamo dello sparviere, le strida dei corvi, il canto del fringuello, e le note di uno zufolo lontano, che risuonano gaie dall'imponente torre di un castello; e sulla tua pelle, accogli il tepore di una giornata d'estate, il cielo velato di bianco da una bruma passeggera, che scivola come un lenzuolo nella brezza, lisciandosi le pieghe.
Non c'è paura in questo idilliaco angolo d'Irlanda.
La paura è tutta di una donna che fugge a perdifiato tra macchie d'erica e ginestra, capelli neri sciolti al vento e occhi scuri delle isole del sud, una donna scappata con la sua famiglia da una leggenda, solo per scoprire che nemmeno lì, nella pace della grande e lontana isola verde, può dirsi al sicuro dalla paura che si porta dentro. La insegue la bestia che le hanno insegnato a temere, nera e terribile, fiamme degli inferi nelle sue tre fauci, sei tizzoni accesi al posto degli occhi. Un mito che da sempre ha perseguitato i suoi antenati, puntuale e implacabile allo scoccare dei trent'anni.
Corre la donna, col cuore che le martella nel petto, il respiro spezzato, i sandali rotti. Corre col dolore nelle gambe, la fame nei polmoni e il terrore nella mente. Non ha bisogno di voltarsi, sente la bestia farsi più vicina, i latrati assordanti, il calore che quasi le lambisce i talloni, la puzza di zolfo del fiato demoniaco delle sue tre bocche.
Grida aiuto, chiama la donna, ma nessuno accorre, troppo lontano è il castello, pure se il vento conduce tra le sue spire note sparse di una melodia di zufolo. Troppo allegri i suoi abitanti, troppo vino nelle loro gole per accorgersi della sua assenza.
Incespica in una zolla, cade e si graffia le mani sugli arbusti spinosi a cui si aggrappa, ma lo slancio della sua corsa non può essere frenato da quei rami secchi che le si spezzano tra le dita e allora rotola giù dal pendio in un avvallamento del terreno. La veste lacera e sporca, si nasconde dietro una macchia di brugo a riprendere un attimo di fiato. Immobile, in silenzio.
Con la bestia che sbuffa dalle narici, ulula per spaventarla e china i musi a terra a fiutare il suo odore.
Non può restare nascosta per sempre, la donna lo sa. Così come sapeva già, dalle morti di chi l'aveva preceduta, che la distanza dalla sua terra natale non aveva annullato la maledizione né placato la sete di sangue nel mostro.
Sente il terreno tremare alle sue spalle. La donna si alza di scatto e riprende a correre a piedi nudi.
Ormai non è più paura, è disperazione. Farebbe qualunque cosa pur di spegnere l'incendio che divampa nel suo corpo e ha ormai bruciato ogni traccia di lucidità. Il sudore le appiccica addosso i brandelli della veste, i muscoli urlano di dolore, la stanchezza la rallenta, e sente che in ogni momento l'infernale bestia che la insegue può balzare su di lei, gettarla a terra e divorarla con le zanne fameliche.
Di fronte ai suoi occhi, il mare che incontra il cielo all'orizzonte le appare così placido.
È una promessa, la sua, di lavare via ogni paura.
Non si ferma la donna quando scorge dinnanzi a sé la terra cedere il posto all'aria profumata di salsedine, non cambia strada per evitare il salto dalla scogliera, non fugge a destra o a sinistra, incontro al gregge di pecore del tutto ignorato dal temibile predatore, o verso la strada che può forse condurla al sicuro tra le mura del castello.
La paura si è ormai impadronita della sua mente, e nessun posto è più al sicuro da un simile nemico.
La donna si getta con sollievo in un breve volo tra le fauci degli scogli.
Sopra di lei, sull'orlo della scogliera, nessun mostro che si sporga a contemplare l'esito della sua ultima scelta.
Un unico rimpianto nel cuore della donna, ed è che la maledizione che perseguita la sua famiglia non morirà con lei. E ha ragione.
I suoi fratelli e sorelle più giovani, a dispetto del buonsenso che i parenti irlandesi cercheranno di inculcargli, capiranno la vera cagione della sua morte, e temeranno l'approssimarsi del loro turno, e tramanderanno a loro volta le storie dei loro antenati e della maledizione del cane a tre teste ai loro figli e al suo bambino, nutrendo così la paura che ancora non aveva fino a darle forma e vita.

sabato 24 giugno 2023

Infatuazione

Infatuazione [in-fa-tua-zió-ne] s.f. Entusiasmo, passione straordinariamente intensi ma passeggeri.

Etimologia: dal verbo latino infatuare, "rendere fatuo", composto dal prefisso in e da fatuare, che deriva da fatuus, "pazzo, fatuo".



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Foto di yx b da Pexels


Nel corso della sua lunga esistenza Sara era stata costretta a stroncare sul nascere svariate infatuazioni. A partire da quel primo giovanotto, Teodosio, che l'aveva seguita e aiutata quando lei si era allontanata dalla società civile, nella speranza di poter essere il suo compagno di solitudine.
In seguito, quando scendeva in città per le necessità a cui non poteva provvedere da sola, ogni tanto qualcuno la avvicinava non perché interessato al suo dono di dare risposte e offrire consigli su eventi ancora da venire, ma perché era rimasto affascinato dalla sua persona. Sara, prima ancora che ne parlassero, vedeva nella loro sorte la possibilità di un approccio romantico. In questo era più fortunata di una comune fanciulla, poiché davanti ai suoi occhi si stendeva chiaramente ogni diramazione delle molte scelte che la sorte aveva donato ai suoi corteggiatori indesiderati, e le era semplice scegliere il sentiero che li avrebbe allontanati da lei.
Con il passare degli anni erano cambiati i volti, gli abiti, le parole, l'ardire con cui la apostrofavano e le motivazioni che li inducevano a parlarle, poiché se i primi miravano al matrimonio fin dall'inizio, in tempi più recenti l'obiettivo si era fatto non più impegnativo di un appuntamento, con la riserva di un "da cosa nasce cosa, poi si vedrà".
Non era cambiato, però, il senso del rifiuto di Sara. Non li avrebbe illusi, nemmeno uno di loro.
L'unica infatuazione che Sara aveva spento per un motivo diverso era stata l'ultima, quella di Mattia. Per gli altri, le centinaia di altri che l'avevano ammirata con lo stesso sguardo perso in un sogno, innamorarsi di lei sarebbe stato come innamorarsi di una statua. Una statua che camminava, parlava e ragionava, ma pur sempre una statua, un oggetto dalle sembianze umane che non poteva vivere, solo esistere, e che non sarebbe mai cambiato con il mutare delle stagioni.
Per Mattia, innamorarsi di lei sarebbe stato come innamorarsi del ricordo di qualcuno già morto.

giovedì 22 giugno 2023

Audioracconto - L'ora della toeletta


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Riuscirà la gattona Sissi a comletare la pulizia del suo manto candido?

L'ora della toeletta
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2019/01/lora-della-toeletta.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Long Stroll di Kevin MacLeod (http://incompetech.com/)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=kfrQroGBm4c).

Immagine da: Pexels distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

Effetti sonori da FreeSound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 19 giugno 2023

Spezzare le catene


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio da una foto di Markus Spiske da Pexels


Lasciai l'Ultima Costa quando ottenni un passaggio su una nave di mercanti che tornavano alle loro dimore nell'Arcipelago. Non so se ne hai mai sentito parlare, è molto lontano da qui. È una terra incantevole composta da svariate isole, cinque più grandi delle altre, sparse tra i flutti del Mare dell'Alba come frammenti di giada su un tappeto blu. Si dice sia la prima terra su cui sorge il sole, e io lo credo, sebbene altri affermino che esista ancora un'isola, molto più grande, al di là del Mare dell'Alba, o addirittura un continente intero, e che questo si allunghi ad accarezzare il nostro da qualche parte molto a nord dell'Arcipelago.
In ogni caso, quella era l'ultima tappa del mio viaggio.
Passai svariati mesi a vagare tra un'isola e l'altra, a raccogliere racconti dalle voci degli anziani e a camminare all'ombra delle foreste in cerca di un incontro con le elusive creature che le abitavano, sempre sospeso tra il mondo umano e un mondo altro, come la mia duplice natura mi imponeva.
Scoprii che gli esseri umani dell'Arcipelago chiamavano tutti i popoli non umani che vivevano sulle isole con il nome collettivo di "yokai", e che li temevano, cosa che mi indusse fin da subito a nascondere le orecchie a punta ereditate da mio padre e a far passare la mia alterità come un sintomo del mio essere straniero in quelle terre. Alcuni videro nella bellezza e nella leggiadria elfica che almeno in parte mi caratterizza un segno che avevano incontrato in me un kami, una delle numerose divinità dell'Arcipelago, e io non li smentii quando questa credenza mi garantiva l'ospitalità e una lingua sciolta da parte di chi mi accoglieva.
Fu così che scoprii l'esistenza della Città dei Cacciatori, e la sua ubicazione. Se volevo incontrare degli ibridi come me e i miei compagni Erranti, quella destinazione, pur se pericolosa, era la mia migliore occasione.
Non ne avevo trovati nelle città e nei villaggi umani: se anche ve n'erano che vivevano lì, si nascondevano troppo bene. Quanto agli yokai, avevo più volte percepito la loro presenza, tra gli alberi e sulle montagne e tra rovine di templi abbandonati, sempre lontano dalle comunità umane. Probabilmente loro si erano accorti del mio rispetto nel muovermi in quei luoghi, e di quel briciolo di magia elfica che mi pervadeva, e questo li aveva portati ad avvicinarsi per studiarmi; ma nonostante questo, puzzavo troppo di umano per indurli a mostrarsi, e neppure le mie rassicurazioni e i miei inviti riuscirono a vincere la loro ritrosia.
Li avevo solo scorti da lontano, di tanto in tanto: uomini uccello che sorvolavano le vette, e buffi bambini tartaruga che subito sparivano nel fondale fangoso di uno stagno. Quando riferivo alle comunità umane di questi incontri, in cerca di informazioni più dettagliate, tutto ciò che ne ricavavo era l'avvertimento che gli yokai che avevo visto erano pericolosi, e che ero fortunato a essere ancora vivo.
Mi raccontavano dei resti delle loro vittime ritrovati nelle foreste o in fondo ai crepacci, dei corpi restituiti molto più a valle dai fiumi, o di coloro che erano scomparsi e mai più ritrovati. Tutti avevano qualche storia del genere di cui parlare. Molto rari erano invece i testimoni che avevano effettivamente assistito o erano state vittime dell'attacco di uno yokai, ma anche a questi faticavo a credere.
Pioveva copiosamente il giorno in cui raggiunsi la Città dei Cacciatori. Non ti dirò il nome di quel luogo, non lo sapresti pronunciare, e non lo ricorderesti.
Ti basterà sapere che ero sdraiato su un promontorio boscoso, a osservare la città e le file di creature incatenate dalle molteplici forme e colori che andavano e venivano dalla vicina cava, o eseguivano pesanti lavori di costruzione in città, obbedienti agli ordini di pochi guardiani umani.
Alcuni, per costituzione, non sembravano in grado di combattere o ribellarsi, ma mi stupì che i più possenti tra gli yokai prigionieri, giganti muscolosi dalla pelle nera o verde o rossa, corna sulla testa e zanne e artigli, non avessero già spezzato le catene che li trattenevano.
Tutti loro, a dispetto della forza o della magia che possedevano, apparivano mansueti come agnellini. Tutto il contrario di ciò che mi avevano detto altrove gli esseri umani.
Io posseggo solo in minima parte la loro magia, ma ho un udito sensibile quasi quanto quello di un elfo, e una percezione degli equilibri in una foresta difficile da spiegare a un essere umano, perciò avvertii fin da lontano il suo avvicinarsi. Prima ancora di vederlo, seppi che c'era in lui qualcosa che lo accomunava agli uomini uccello delle vette, ma non era del tutto come loro, era più goffo. Proprio come apparivo io agli occhi degli elfi.
Il primo ibrido che riconobbi come tale da quando ero all'Arcipelago.
Ma non intendevo offenderlo, perciò, quando si sdraiò sul terreno fangoso accanto a me, a scrutare la città dai tetti neri sotto di noi, osservai per qualche istante le piume tra i suoi capelli rossi, il suo naso piuttosto lungo e adunco, e le forme che gonfiavano la sua schiena sotto gli abiti larghi da eremita, che potevano indicare un paio d'ali di ridotte dimensioni, non sufficienti a permettergli di volare. Ma, timoroso di offenderlo nel rivelargli che avevo compreso la sua natura mista, gli chiesi nella lingua che avevo appreso sull'Arcipelago: – Benvenuto, compagno di vedetta. Mi sbaglio a dire che appartieni al popolo degli yokai?
Lui fece una smorfia, segno che nonostante tutte le mie precauzioni lo avevo offeso ugualmente, e disse in tono aspro: – Hai parlato troppo a lungo con gli esseri umani, straniero.
Rimasi in silenzio, in attesa che aggiungesse dell'altro, e infatti poco dopo si puntellò su un gomito e aggiunse: – Non c'è nessun popolo, e quello non è un nome che un tanuki o una nure-onna sceglierebbe di usare. Sei qui per fare qualcosa o per guardare soltanto?
E accennò alla città con aria di sfida.
– Fare, se c'è qualcosa che posso o devo fare – ribattei, ancora incerto su quello che l'ibrido si aspettava da me. – Solo che troppe cose ancora non capisco, non sembrano infelici della loro condizione. E tu, intendi fare?
– Farei, se potessi. Mia sorella è prigioniera laggiù, ma non posso avvicinarmi, o rischierei di finire come lei. Eccola, è là – mi indicò una delle creature rosse che avevo già notato. – Nostro padre è un tengu, come forse avrai indovinato. Sua madre era una oni, ma la sua ascendenza non può aiutarla in questo caso. La mia, invece, era umana. Posso passare per uno di loro, con qualche accortezza, proprio come fai tu, ma non posso nascondere la mia natura se scendo in città. Finirei soggiogato da catene più pesanti di quelle che vedi.
Il mezzo tengu, il cui nome era Shoichi, mi raccontò che qualche decennio prima uno dei rarissimi ibridi di seconda generazione, che riuniva in sé le caratteristiche di più di due razze, si era proclamato Re degli Unici e aveva iniziato, proprio come Julian stava facendo nella terra da cui io venivo, a radunare gli ibridi sotto un unico nome e un'unica nazione. Per evitare i problemi e le discussioni che una simile multiforme alleanza avrebbe causato, il Re degli Unici aveva forgiato un amuleto, la Giada dalle Sette Teste, su cui i primi sette che lo avevano seguito e poi via via tutti gli altri avevano giurato di mantenere l'armonia e la pace tra loro. Ma gli esseri umani avevano rubato la pietra, e l'avevano corrotta per soggiogare quelli che definivano yokai, e il suo potere era divenuto talmente forte da intrappolare non solo gli ibridi, ma anche coloro che appartenevano per intero a una singola stirpe.
– Basta che anche uno solo dei loro discendenti ibridi abbia giurato, e sono fregati – concluse Shoichi. – Per questo dopo i primi tentativi, nessuno di loro è più venuto ad aiutarci. Ma tu... tu sei diverso, lo vedo. Qualunque cosa tu sia, sono pronto a scommettere che sei libero dal potere della pietra.
– Sono per metà elfo e per metà umano. Tra coloro che hanno giurato c'è qualche mezzo umano...
– Ah, l'umano non c'entra – m'interruppe Shoichi, indicando i carcerieri umani che in condizioni normali sarebbero stati troppo pochi per trattenere i prigionieri che li superavano in numero e potere. – Vedi? A loro la Giada dalle sette Teste non fa nessun effetto.
Shoichi, che aveva osservato a lungo la città e i suoi ritmi, mi disse dove probabilmente era custodita la pietra. Il mio compito era di rubarla e di immergerla in una certa sorgente, che l'avrebbe purificata e riportata alle sue funzioni originarie.
– Un amuleto così può essere creato una volta sola – rivelò Shoichi. – Il Re degli Unici deve riaverlo, o non potrà continuare a riunire la nostra gente. Siamo troppo diversi per non finire col litigare e dividerci.
Quell'affermazione mi fece tornare in mente Julian che faceva la stessa cosa senza l'ausilio di pietre magiche, solo con la sua testardaggine e il suo coraggio. Forse aiutava il fatto che non si era mai proclamata nostra regina. Ma poi mi dissi di non giudicare la gente dell'Arcipelago secondo i parametri del mio mondo.
– Se il Re degli Unici ha bisogno della sua pietra, riavrà la sua pietra – gli dissi, e mi accinsi a entrare di nascosto tra le vie della città.
Il cielo oscurato da nubi che faceva sembrare che la notte fosse già calata, e la pioggia che batteva sui tetti e sulle viuzze lastricate di pietra giocavano a mio favore, ma anche in pieno giorno in una giornata di sole, ero pur sempre il figlio di un elfo, in grado di non farmi udire o vedere da un essere umano, se lo volevo. Mentre nascosto nell'ombra di un portico studiavo il palazzo dov'era custodita la pietra, in cerca della via migliore per entrare, fui sorpreso di sentire che qualcuno si era accorto di me, e ancora di più nel constatare che io non l'avevo sentita arrivare.
– Ehi, tu, che fai? Sì, dico a te, bello straniero dalle losche intenzioni. Che fai? – disse una voce di ragazza, rapida e allegra. – Non credere che non ti abbia notato, sai, spicchi come un fiocco di neve su una lastra di carbone, davvero pensi di riuscire a passare per un essere umano dell'Arcipelago?
Mi girai e vidi, dietro di me, una giovane donna dai tratti orientali. A denunciare che nemmeno lei era del tutto umana, un paio di orecchie di volpe tra i capelli e tre code che si agitavano alle sue spalle.
Ero abbastanza ferrato nelle illusioni da capire che lei non era davvero lì.
– Sono qui per liberare la tua gente – le bisbigliai, timoroso di poter essere scoperto dalle guardie che dirigevano le file di yokai prigionieri al lavoro tra le vie della città. Lo sferragliare delle catene pareva vicinissimo alle mie orecchie, nonostante lo scrosciare della pioggia. – Dovunque tu sia, resta nascosta, e non ti avvicinare alla città, o finirai prigioniera...
Non finii di avvertirla, che lei esclamò con voce acuta e squillante: – Io? Io sono laggiù.
E indicò uno dei cantieri che avevo visto dall'alto. La osservai per qualche istante, cercando di capire.
Nelle comunità umane mi avevano detto che non si poteva credere agli yokai dalle sembianze di volpe, che erano astuti e ingannatori, ma io avevo sempre cercato di ignorare quei pregiudizi.
Eppure, era impossibile che quella donna fosse tra i prigionieri.
– Per "laggiù" intendi dire che sei incatenata assieme agli altri? Scusa, ma come puoi usare i tuoi poteri se sei schiava degli umani...
– Oh, andiamo! – mi interruppe di nuovo la donna volpe. Con un sorriso furbesco e qualche passo danzante, si incamminò fuori dal riparo offerto dal portico, mentre proseguiva: – Ti svelo un segreto. La Giada dalle Sette Teste potrà anche avere una testa di volpe, ma nessuna kitsune ha mai giurato su quella brutta statuina malfatta... o meglio, sì, abbiamo pronunciato delle parole, ma una volpe conosce tanti bei trucchetti per invalidare un giuramento. E no, non me li chiedere, non te li dirò, potrebbero ancora tornarmi utili.
Non mi interessavano i suoi trucchetti, quel che m'importava, del suo discorso, era una rivelazione che cambiava completamente il senso della mia missione. – Aspetta, se ho capito bene... in pratica mi stai dicendo che una qualunque kitsune, in qualunque momento, o una sua figlia ibrida come immagino sia tu, sarebbe potuta venire qui e liberare tutti quanti senza problemi?
– Sì. Ma... – disse la donna volpe allegramente. – ...tra potere e volere, c'è una bella differenza.
Mi portai una mano alla tempia, e iniziai a credere che forse ciò che gli umani pensavano in merito alla sua stirpe non fosse del tutto falso. – E inoltre – mormorai abbattuto. – Mi stai dicendo che tu potresti andartene in qualunque momento, ma sei rimasta qui a fingere di essere prigioniera come gli altri... perché?
Per tutta risposta, lei sollevò lo sguardo alla tettoia del portico. – Io fossi in te non me ne starei troppo a lungo là sotto così tranquillamente. È stato riparato quando io già c'ero, e ci ho lavorato personalmente. Ho lavorato in tante case qui, e sai... basta qualche errore in buona fede a far venire giù tutto al momento più opportuno. O meno opportuno. Certo, se non le buttano giù prima gli oni quando io e te li salveremo... è da tanto che aspetto un benefattore, ed eccoti qui. È tempo di spezzare le catene! – dichiarò trionfale, allargando le braccia.
Cercai di zittirla, il palazzo in cui dovevo penetrare di soppiatto era a poca distanza da noi, con due guardie ai lati del portone, due guardie annoiate e distratte, ma ancora sufficientemente sveglie da notare una donna volpe in giro per le strade che annunciava ai quattro venti il nostro piano.
– Mio caro, quello che vedi se non lo hai capito è un'illusione, e solo tu puoi vedermi e sentirmi, a meno che io non voglia diversamente. E a proposito, ora che sei con me, puoi evitare di scervellarti per capire da che parte entrare e passare direttamente dal portone principale. Grazie alle mie illusioni, ti vedranno come uno di loro, non uno straniero fiocco-di-neve-su-una-lastra-di-carbone, ma uno di loro, un loro amico. Nessuno ti fermerà, facile facile. Ma quanto sei fortunato ad avermi incontrato?
Non ero certo di potermi fidare di lei. Era difficile anche per me comprendere che intenzioni avesse, ma sembrava attirata da ciò che le provocava divertimento, e farmi passare con l'inganno sotto il naso delle guardie poteva essere estremamente divertente ai suoi occhi.
Le concessi il beneficio del dubbio e accettai il suo piano, con la riserva di prestare molta attenzione a ogni segnale che mi indicasse che si era stancata di quel gioco, e che ne stava iniziando un altro a mia insaputa, uno che io non avrei trovato affatto divertente.
– Un'ultima cosa, la più importante! – esclamò lei, sbarrandomi la strada con una mano. Le sue tre code si agitarono a destra e a sinistra. – Mi chiamo Suzu. Così puoi smettere di darmi strani nomignoli nella tua testa, e soprattutto saprai chi ringraziare quando avremo liberato tutti.
– Non ho... non importa.
Certe volte, era meglio tagliare corto.
Andò tutto bene, fino a un certo punto. Le guardie mi accolsero senza troppe domande e mi lasciarono entrare. Chiunque incontrassi per i corridoi e nelle stanze del palazzo, non mi tratteneva per più tempo di quel che era necessario per un saluto e una mezza chiacchiera, a cui nemmeno dovevo rispondere, dato che ci pensava Suzu a far sentire loro le parole più adatte nella voce che si aspettavano di udire.
Suzu mantenne la sua parola nel guidarmi verso il tesoro che cercavo, ma più mi avvicinavo, e più sentivo una musica dolce, lenta, di uno strumento che somigliava all'arpa, ma non era proprio un'arpa, aveva un timbro più metallico. E assieme ad esso, di tanto in tanto, un rintocco simile a quello di un grosso cembalo, ed eteree note di strumenti a fiato dalla natura indefinibile. Era una musica che avevo già udito per le strade, ma tanto flebile, così flebile sotto la pioggia che mi era parsa provenire da una casa lontana, e l'avevo ignorata come gli echi delle voci che sentivo in ogni istante, da ogni stanza. Ma quando raggiunsi la Giada dalle Sette Teste era divenuta un frastuono talmente insopportabile che d'istinto mi tappai le orecchie, e compresi che era la pietra a produrlo.
Fissai sconsolato la statuetta di un verde chiaro, opaco ma con lievi riflessi alla luce delle candele. Grezza alla base, sembrava che colui che l'aveva creata non l'avesse mai finita, limitandosi a intagliare le sette teste del suo nome, tutto attorno alla sommità della pietra: teste di volpe, di cane, di gatto, di serpente, di tartaruga, di uccello, di ragno.
– Non riuscirò mai a portarla via – dissi a Suzu. – La sentiranno!
– Che cosa?
– Come, cosa? Questa musica! È così forte che quasi non sento le mie parole!
– Tu avverti l'Armonia? Non pensavo che uno straniero potesse farlo. Comunque, tranquillo: nessun umano può avvertire l'Armonia. Prendi la pietra e scappa! O meglio, non scappare, se no ti noteranno e rovinerai tutto il mio duro lavoro – disse Suzu, che anche in quel momento critico non perdeva occasione di amplificare la sua parte nel piano. Lei, in fondo, era quella che non rischiava niente, perché nemmeno era lì con me. – Quando vuoi, eh.
Ancora una volta mi fidai e feci come mi diceva. Non saprò mai se Suzu aveva mentito e gli esseri umani potevano avvertire l'Armonia che si affievoliva in alcune stanze del palazzo e si amplificava in altre, spostandosi assieme a me verso l'uscita, oppure se lei a un certo punto aveva smesso di celarmi con le sue illusioni, o se era stata piuttosto la mia voce, che avevo inconsapevolmente alzato nella stanza del tesoro per farmi udire al di sopra della musica, che aveva allertato gli abitanti in quella che per loro era una casa silenziosa.
Fatto sta che mi ritrovai circondato, ancora troppo lontano dall'ingresso o da una finestra che avrebbe potuto costituire una via di fuga.
– Restituisci quello che hai rubato, ladro – mi disse uno di loro.
Valutai in fretta le mie opzioni, con la voce di Suzu che mi incalzava, allarmata: – Non puoi dargli la pietra. Non puoi. Se lo fai sarà stato tutto invano, peggio, faranno prigioniero anche te, passerai il resto dei tuoi giorni incatenato qui, oh, spero per te che tu non sia uno di quelli che vivono tanto a lungo...
Sbuffai. Non mi era d'aiuto. Perché non si decideva a nascondermi con un'illusione, a distrarli? Erano in tanti, tutti armati, e come ti ho già detto io non ero un guerriero. Ma se una parte di loro fosse stata distratta...
– Rompila! – urlò all'improvviso Suzu, mentre le guardie umane si facevano avanti, stringendomi in un cerchio di lame. – Buttala a terra, spezza le catene, libera tutti! È l'unico modo!
Avevo detto a Shoichi che avrei purificato la Giada dalle Sette Teste per poterla riconsegnare al Re degli Unici. Ma nel poco tempo a mia disposizione non trovai un modo per farlo, e riportargli sua sorella sarebbe stata comunque una vittoria.
E in fondo, tutti i prigionieri, per quanto apparissero mostruosi agli occhi degli umani, i temibili yokai, erano persone, e le persone valevano più di un amuleto.
Sollevai la grezza statuina di giada sopra la mia testa e assordato dalla sua musica languida la gettai in terra con tutta la forza che avevo.
La pietra si infranse in mille pezzi, le teste si separarono, e fu il silenzio.
– Non hai idea di quello che hai appena fatto, straniero. – mi rimproverò uno degli uomini. – Hai liberato una malvagità che non ha eguali, e io spero che loro trovino te.
Lo disse con cattiveria, e poi si mise a urlare ordini, e i cosiddetti Cacciatori lasciarono in fretta e furia una città che non apparteneva più a loro, mentre come previsto da Suzu gli oni scatenavano la loro furia sulle case e sui palazzi che avevano involontariamente aiutato a costruire.
Mi girai a cercarla, ma la sua illusione era sparita. Forse quell'astuta kitsune aveva ottenuto ciò a cui mirava fin dall'inizio.
Shoichi non fu contento di quel cambiamento nei piani, e me lo fece sapere con il suo solito sarcasmo, ma la sorella gli diede una botta in testa che almeno per un po' lo ridusse al silenzio. Era di poche parole, lei.
Proposi a loro e agli altri ibridi dell'Arcipelago di venire assieme a me da Julian, ma solo in pochi scelsero di seguirmi, altri dissero che avrebbero ricambiato la visita con il tempo, ma come Shoichi e sua sorella, la maggior parte scelse di restare con il Re degli Unici e aiutarlo a completare la sua opera.
A quanto, pare, alla fine, nemmeno nell'Arcipelago serviva una pietra magica per far andare d'accordo le strane creature figlie di stirpi diverse.

sabato 17 giugno 2023

Cattività

Cattività [cat-ti-vi-tà] s.f.inv. 1. Stato dell'animale catturato dall'uomo e obbligato a vivere fuori dal proprio habitat, in gabbie o recinti. 2. lett. Prigionia, schiavitù, giogo.

Etimologia: dal latino captivitas, derivato forse da captivus, "prigioniero".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Gioele Fazzeri da Pexels


Era crudele, la cattività del mio riflesso oltre lo specchio, forse anche più crudele della punizione che era toccata in sorte a me. Lei, prigioniera dell'oblio, era riuscita a tornare al luogo a cui apparteneva, era tornata nell'unico vero mondo, Mith, l'origine di ogni altro riflesso.
Era tornata, anche se per poco tempo. Era tornata e mi aveva visto, aveva scorto la mia condanna.
Ma, in virtù della sua, mi aveva subito scordato.
Non so descrivere la mia agonia nell'averla di nuovo di fronte, in carne e ossa, separati solo da una superficie lucida come uno specchio. Avrei voluto spiegarle ogni cosa, chi era, chi eravamo l'uno per l'altra, perché eravamo condannati a non toccarci mai più. Ma ogni parola sarebbe stata vana, consapevole com'ero che lei non avrebbe potuto serbarle.
L'ho osservata tornare della sua gabbia, e dimenticare non solo me, ma l'intero suo viaggio. Tale era la forza dell'oblio che la tratteneva in quella vita.
Un uccellino catturato dal giardino di Mith e ridotto a scontare in cattività un'esistenza mortale e inconsapevole, mentre io al contrario, eterno come ogni Floràe, dal mio specchio vedevo ogni cosa, e a ogni cosa assistevo impotente.
Come il tradimento di Eco. Come il rovesciamento dei reggenti Glacies da parte degli incontrollabili Ardentes. Come la sofferenza che da Mith, in virtù di questo gesto, si sarebbe propagata a tutti i mondi.
No, perdonami, forse mi sbaglio. Forse è stato il mio riflesso oltre lo specchio, Narcisa, ad aver subito la condanna più clemente.
Lei, almeno, non vede le sbarre della sua gabbia.

giovedì 15 giugno 2023

Audioracconto - Il giorno in cui sono morto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


La drammatica giornata fatale di un protagonista dei giorni nostri.

Il giorno in cui sono morto
(racconto breve di genere umoristico)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2018/06/il-giorno-in-cui-sono-morto.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Go Not Gently di Audionautix (http://audionautix.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=mS4rFQV2QJ4),
Prelude No. 20 di Chris Zabriskie dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=IKj66_tUULw).

Immagini di: Polina Zimmerman (https://www.pexels.com/it-it/foto/smartphone-nero-sul-tavolo-3747132/) Skitterphoto (https://www.pexels.com/it-it/foto/1388947/), Tima Miroshnichenko (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-persona-smartphone-professionale-6754839/), freestocks.org (https://www.pexels.com/it-it/foto/smartphone-scrivania-tavolo-tecnologia-987585/) da Pexels distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

Effetti sonori: Cell Phone Vibrate di SmartWentCody (https://freesound.org/people/SmartWentCody/sounds/179012/), da freesound, sotto licenza Creative Commons: By Attribution 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/) e altri da freesound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 12 giugno 2023

La danza del rosso e del blu


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Victoria Rain da Pexels


Contro ogni probabilità ci eravamo incontrati, due colori in un mondo in bianco e nero: lui Fuoco Rosso, io Oceano Blu. Contro ogni probabilità ci eravamo trovati, e riconosciuti. Non che fosse difficile, la nostra pelle parlava per noi.
Non c'era alcun motivo che ci impedisse di continuare la nostra danza d'arcobaleno, ma quel che avrei dovuto prevedere era che non saremmo rimasti a lungo i soli a danzare. Altri ballerini si unirono a noi. La prima fu Arianna, mia sorella. Felice e incredula quasi più di me quando glielo presentai, lei che era sempre stata dalla mia parte, capì subito la bellezza delle nostre dita intrecciate, rosse e blu.
Fuoco non aveva fratelli, ma i suoi pilastri erano da sempre suo cugino, di qualche anno più grande, e un amico d'infanzia che aveva sfidato assieme a lui i pregiudizi e le angherie dei bulletti. Suo cugino e il suo unico amico, la sua armatura e il suo scudo.
Le nostre famiglie poco dopo si unirono alle danze. Una ragazza blu e un ragazzo rosso sono impossibili da nascondere. Sarebbe stato difficile nascondere qualunque relazione, figurarsi una i cui componenti spiccavano come le prime pennellate su una tela bianca.
Ma tutto ciò venne in seguito, i primi passi della nostra danza furono altri. Non avevamo avuto un vero e proprio "primo appuntamento", c'incontravamo sulla spiaggia, giorno dopo giorno, alla stessa ora senza bisogno di dirlo. Fu di Fuoco e di Arianna l'idea, in questo si assomigliavano, lui era un vulcano, lei acqua frizzante, impossibile non amarli.
E impossibile dir loro di no.
Arianna scelse per me un abito blu e gioielli scintillanti che s'intonavano alla mia pelle azzurra, e grandi ali d'angelo da portare sulla schiena. Per accompagnarmi si dipinse di verde, intrecciò fiori tra i capelli e scivolò in una lunga veste verde smeraldo.
– Solo personaggi originali per la tua prima volta – mi disse. – E se ti piace, la prossima puoi studiare un po' per capire chi ti va di interpretare.
Fu così che passeggiammo insieme verso il vicino borgo medievale, una città fortificata tra terra e mare che una volta doveva essere stata un porto: la donna dei fiori e l'angelo blu.
Il mio disagio scomparve quando lungo il cammino ci affiancarono o ci superarono, a piedi o a cavallo, dame e cavalieri, robot e samurai, uomini lupo e fate, demoni e supereroi, principesse e mostri.
La mia pelle blu, allora, non apparve più come un'imperdonabile anomalia agli occhi di coloro che incontravamo, né fonte di imbarazzo per me. In quella tavolozza di bizzarrie, io riuscii per una volta a dimenticarlo e a sentirmi normale.
Lui mi attendeva alle porte del borgo. Lunghe corna e una coda dalla punta a triangolo completavano un costume dall'aspetto vissuto che lasciava scoperto il petto dalla pelle cremisi.
Che coppia eravamo. Il diavolo rosso e l'angelo blu.
– Bei costumi! – ci disse qualcuno, passando. Fuoco mi guardò divertito, indovinando quel che traspariva dal mio sguardo stupito.
Prima di allora, non avevo mai ricevuto complimenti per il mio aspetto.
– Mai stata a un raduno cosplay? – mi chiese lui, e io scossi la testa. – Allora ti piacerà. Vedi, è quando gli altri si mettono una maschera che noi possiamo toglierci la nostra.
Rimasta indietro, Arianna mi fece segno di andare con lui, e fu così che compresi che quell'incontro, il nostro primo appuntamento, era stato organizzato a mia insaputa da entrambi.
Gli porsi il braccio, e sulle note di una gavotta iniziata da poco a risuonare tra le vie della città mossi i miei primi passi di quella danza senza maschera.

sabato 10 giugno 2023

Senno

Senno [sén-no] s.m. Avvedutezza, buon senso; capacità di capire, di ragionare.

Etimologia: dall'antico tedesco sin, "sentimento, animo, pensiero", e propriamente "inclinazione, tendenza verso".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Engin Akyurt da Pexels


Sposarsi è già di per sé un'imperdonabile mancanza di senno. Sposare un vampiro, però, è raggiungere tutto un altro livello di follia.
Che posso dire a mia discolpa, ero innamorato.
Vanessa era... è ancora... fantastica.
E no, non mi ha ipnotizzato per costringermi a vederla così, o almeno non credo.
I problemi sono venuti dopo. Con nostra figlia.
Quell'esserino che inizialmente sembrava la cosa migliore che avessi mai fatto si è rivelata un vero e proprio incubo.
Appena nata, sebbene fosse strano che per nutrirla Vanessa si tagliasse la pelle con il pugnale che era l'emblema di famiglia, non mi era importato che la bambina fosse diversa. La cosa riguardava solo loro due, e nessun altro.
Ma più cresceva, e più guardava il mondo con una fame che la rendeva un'estranea, e la rendeva pericolosa. Priva di autocontrollo, bastava che qualcuno la irritasse per scatenare la sua brama di sangue, e inoltre non aveva remore a chiedere apertamente alla madre o al nonno se poteva mangiare questo o quell'altro essere umano, e a fare altri discorsi ugualmente bizzarri.
Era colpa sua se dovevamo continuamente trasferirci per fuggire da incidenti sempre più difficili da coprire. Mi mandava fuori di senno immaginare come sarebbe stata da adolescente, se già da bambina era come allevare una tigre che da un momento all'altro poteva rivoltartisi contro e sbranarti.
Vanessa, e anche il padre di lei, Dimitri, non erano così. Loro erano quello che erano, ma sapevano nasconderlo bene. A parte che costringevano me e Amanda, la compagna di Dimitri, a vivere in una casa perennemente oscurata, non sarebbe stato possibile indovinare la loro natura neppure convivendo con loro per anni. Io non lo avrei mai scoperto se Vanessa non me lo avesse detto, lasciandomi libero di scegliere se sposarla o meno. Qualcuno più assennato di me a quel punto avrebbe fatto i bagagli e se ne sarebbe andato senza voltarsi indietro.
Ma io non ero quel qualcuno, e non pensai alle conseguenze quando pronunciai quel sì.

giovedì 8 giugno 2023

Audioracconto - I Testimoni del Polo Sud


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Rene Asmussen da Pexels


Ce ci fanno due pinguini sul pianerottolo la domenica mattina? Sarà meglio non aprire?
Come insegna Madagascar, sembrano carini e coccolosi, ma sotto sotto...

I Testimoni del Polo Sud
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/01/i-testimoni-del-polo-sud.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Italian Morning di Twin Musicom (http://www.twinmusicom.org)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=7tDb2ki020Y),
Preludio in mi minore Op.28 n.4 di Frédéric Chopin dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=lo32HqRyPTg).

Immagini di: Rene Asmussen (https://www.pexels.com/it-it/foto/quattro-pinguini-reali-641289/), MART PRODUCTION (https://www.pexels.com/photo/person-in-gray-long-sleeve-shirt-ringing-the-doorbell-7706484/), RDNE Stock project (https://www.pexels.com/photo/man-delivering-a-package-7362965/), (https://www.pexels.com/photo/elderly-woman-sitting-on-brown-leather-chair-using-telephone-7020591/), (https://www.pexels.com/photo/little-girl-hiding-behind-brick-wall-6182349/) Curtis Meeker (https://www.pexels.com/photo/ice-formation-on-sea-shore-4775509/), ABNER LOBO (https://www.pexels.com/photo/cold-woman-dark-alcohol-15128263/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSound (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 5 giugno 2023

Abiti su misura per fisici speciali


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Luna Joie da Pexels


Due mesi e sei tappe dopo quel mio primo giorno di lavoro al chiosco dei dolciumi, Demi mi comunicò che ero pronto per fare un tentativo di passeggiata in città. Non da solo s'intende. Quello era un lusso che non potevo ancora permettermi.
Io non mi sentivo pronto, non dopo l'incidente di tre settimane prima, ma avevo troppa voglia di vedere qualcosa di diverso dai caravan e dal tendone e dalle solite facce.
Amaltea, che ovviamente mi avrebbe accompagnato in quella passeggiata, lei che col suo suo flauto di Pan era in grado di placare ogni bestia, me compreso, me l'annunciò in un modo diverso.
– Alzati, novellino – disse allegramente, le mani puntate ai fianchi, già pronta con i finti stivali che coprivano gli zoccoli caprini sotto la gonna da gitana. – Ti porto in un altro mondo!
E un altro mondo lo era davvero, il posto in cui andammo. Lei, io, Tom l'uomo-lupo con il gonnellone a coprire coda e zampe canine e un baschetto calcato sulle sue altre orecchie, Shara la serpe, con la tuta azzurrina squamata come la sua pelle, che non si capiva dove finiva l'una e iniziava l'altra, Magnus l'uomo più forte del mondo, non so se sia vero ma di certo avere due braccia in più aiutava, anche se in pubblico le teneva sempre nascoste, e una donna velata da capo a piedi, che non avevo mai visto sebbene fossi entrato a far parte del circo dei mostri da diversi mesi.
Supposi che lei dovesse essere arrivata solo di recente, dopo di me. La sua ritrosia a mostrarsi, anche prima di allontanarci dal campo dove avevamo piantato le tende e di attraversare vie cittadine fortunatamente poco affollate, confermò la mia deduzione: non era ancora abituata a essere tra amici che non l'avrebbero giudicata per il suo aspetto, per quanto bizzarro esso fosse.
Donna velata a parte, tutti gli altri sembravano scelti apposta per trattenermi o mettermi fuori combattimento, in caso le cose si fossero messe male.
Avrei dovuto sentirmi offeso, e invece ero sollevato.
L'altro mondo che Amaltea mi aveva preannunciato, però, non erano le strade di città, sebbene già queste mi sembrassero tutto un altro mondo rispetto a quello in cui avevo vissuto negli ultimi tempi.
Alla guida del gruppo, Amaltea si fermò davanti alla porta di un negozio che recava l'insegna "Il filo di Arianna", controllò che ci fossimo tutti, diede le ultime raccomandazioni, ed entrò.
Lo scampanellio forte e improvviso quando aprì la porta mi fece trasalire. La cosa che chiamavo il mostro dentro di me sussultò. Lo avevo avvertito teso e sveglio ogni volta che qualcuno ci incrociava per strada, ma concentrarmi sul respiro e ignorare i passanti fino a quel momento era bastato.
– A posto? – mi chiese Tom, che mi si era affiancato nel notare la mia reazione al rumore, che probabilmente infastidiva anche lui ma per un motivo diverso.
Un altro respiro, e la sensazione fu passata.
– Sì. Sto bene, non c'è bisogno che mi stai addosso.
Tom fece spallucce. – Come vuoi. Però se il tuo amico comincia a fare i capricci dimmelo, che non ci metto niente a buttarti a terra. Te lo ricordi, no?
Mi venne da ridere, un po' per il suo tono amichevole, graffiante e ironico, e un po' perché mi ricordavo quanto poco ci metteva a scattare in un placcaggio, se provocato.
Colpa mia quella volta, e non del mostro.
Mi affrettai a seguirlo nel locale illuminato da grandi lampadari. Dietro di noi, solo la donna velata.
Un rintocco regolare attirò il mio sguardo verso la parete di sinistra, dove tra scaffali ingombri di rotoli di stoffa colorata una pendola scandiva il tempo di quel mondo a parte. Qua e là qualche manichino da sarto, vestito o meno, se ne stava ritto sul suo palo privo di gambe, testa o braccia, mentre a destra erano appesi abiti già pronti abiti da donna e competi da uomo, e sulla parete di fondo era addossata una cassettiera di legno alta fino al soffitto, che indovinai contenere nei cassetti di dimensioni diverse incastrati come in un mosaico geometrico rocchetti di filo e bottoni di varie forme e colori. Attorno ai tavoli ingombri molte donne e qualche uomo, nei cui tratti ravvisai una somiglianza che li identificava come parte della stessa famiglia, lavoravano a misurare, tagliare, cucire e ricamare la stoffa fino a fare di pezze informi un'opera d'arte.
Al nostro ingresso, una donna che cantava a fior di labbra mentre spingeva il tessuto sotto l'ago di una macchina da cucire si interruppe e alzò la testa.
– Amaltea! – esclamò allegra, e si alzò per andare ad abbracciarla. – Non mi dire... è già passato un anno?
– Di più, mia cara, di più! – replicò la gitana, che dopo aver ricambiato l'abbraccio si girò verso di noi. – È stato un anno intenso, questo.
– Vedo due volti nuovi, infatti – commentò la sarta nello scrutarci.
Ma Amaltea scosse la testa e replicò, indicandomi. – Uno solo, in effetti.
Mi sentii un po' a disagio quando notai che anche gli altri si erano fermati a guardarci. Ebbi l'impressione che tutti quanti lì sapessero che cosa nascondevamo sotto le gonne, i cappelli e i vestiti larghi, ma guardando meglio capii che non ci fissavano con la curiosità morbosa dovuta a un fenomeno da baraccone, ma col calore con cui si accoglie un amico ritrovato.
– Lei è Meneides – continuò Amaltea. – Ne avrai sentito parlare.
– La fanciulla del labirinto degli specchi! – esclamò una ragazza di non più di sedici anni, che si affiancò alla donna. – Posso vedere?
Dopo un lieve cenno del capo, la donna velata scostò il mantello con mani dalla carnagione tendente al porpora, poi sollevò il velo sul capo. Il suo volto tondo e pieno, dalle guance gonfie, le orecchie grandi e sfrangiate e il naso piccolo conferivano alla sua faccia caratteristiche vagamente feline, ma il vero colpo di scena giunse quando sciolse la fascia che le copriva la fronte, rivelando un secondo paio d'occhi identici ai primi, forse appena più piccoli.
– Uao! – esclamò la ragazza, barcollando. – È davvero come vederti in uno specchio deformante, non riesco... – Chiuse gli occhi e scosse la testa, riguadagnando l'equilibrio. – Scusa, non riesco a guardarti.
La capivo. Io stesso mi sentivo stordito e malfermo sulle gambe mentre la guardavo in viso, come se fossi stato ubriaco.
La donna velata, Meneides, rise. Una risata sottovoce, lieve come le sue parole. – Non temere. Nessuno ci riesce, faccio sempre questo effetto alle persone... è il mio potere.
Mentre si rimetteva la fascia e il mio stordimento svaniva, mi resi conto che in fondo anche lei avrebbe potuto fermarmi, o almeno rallentarmi, in caso di necessità.
– L'abito bianco che ti ho chiesto l'altra volta, te lo ricordi Robinia? – intervenne Amaltea, nell'accompagnare la sarta verso uno dei tavoli. – Era per Meneides, e le sta splendidamente, ma vorremmo qualcosa di più adeguato per esaltare l'effetto generale, per questo l'ho convinta a uscire dalla sua tana di specchi e farsi dare un'occhiata...
Persi il filo del discorso quando la ragazzina, dopo aver scambiato qualche parola con gli altri che mi accompagnavano, si fermò di fronte a me e mi scrutò con attenzione. Dopo un po', forse a un segnale di disagio del mio sopracciglio sollevato, Si decise a presentarsi.
– Io sono Arella, ma qualcuno mi chiama Aracne. So creare un filo con la mia saliva, vuoi vedere?
– Mmmh... magari un'altra volta.
Un ragazzo giovane intento a riportare il profilo di un cartamodello su uno scampolo di lino grigio, forse il fratello o un cugino, alzò la testa dal suo lavoro e mi disse: – Dovresti vedere quando lo fa colorato!
Lei gli fece una linguaccia, gli diede la schiena e proseguì: – Potevo andarmene via col circo di Antares, se non fossi stata più utile qui. Magari prima o poi ci verrò. Dev'essere bello girare il mondo. E il tuo segno particolare qual è?
– Segno particolare?
– Sì, il tuo talento, la tua anomalia, quello che ti ha fatto finire al circo di Antares, insomma.
Non avevo molta voglia di risponderle, ma forse se avessi soddisfatto la sua curiosità, com'era successo con Meneides, lei poi si sarebbe stufata di me e mi avrebbe lasciato in pace, andandosene a cercare qualcos'altro che potesse attirare il suo interesse. Perciò le diedi la spiegazione più semplice che avevo.
– Se mi arrabbio la gente muore.
– Intendi... lo fai con la mente?
– No.
– Ma... ti si gonfiano i muscoli?
– No.
– La pelle cambia colore?
– No.
– Ti spuntano corna? Zanne? Artigli? Tentacoli?
Dovetti rispondere anche a quelle domande con una serie di no.
– Che noia. – Borbottò Arella. – Quindi, se ti arrabbi, uccidi le persone in modo normale.
La mia era stata un'esagerazione, non avevo ancora ucciso nessuno, a dire il vero. Mi ero lasciato solo dietro un sacco di feriti e contusi, ma non dubitavo che se Magnus non fosse stato in zona per darmi una botta in testa, prima o poi ci sarebbe scappato il morto, o anche più di uno.
Facendo una faccia delusa, Arella si girò verso Amaltea e gli altri. – Com'è che questo qui è con voi e non in prigione o al manicomio?
– Tesoro, nessuna prigione potrebbe contenerlo, se dovesse avere una delle sue... crisi – rispose Amaltea con un sorriso enigmatico. – Quanto al manicomio, da noi è molto più divertente, vero?
– Confermo – soggiunsi, scoprendo appena i denti. In realtà non avevo mai provato l'alternativa. – Dunque è da qui che vengono tutti gli abiti per gli spettacoli?
Se non potevo liberarmi di lei, tanto valeva sfruttare la sua parlantina inarrestabile per ricavarne informazioni.
– Oh, sì – confermò Arella. – E anche i vestiti di tutti i giorni, e gli accessori per girare in incognito in città... tutto quanto. D'altra parte siamo i soli a cui Antares può rivolgersi per gli abiti su misura per fisici speciali e corporature non del tutto antropomorfe.
– Abbiamo anche altri clienti, s'intende – s'intromise una donna, che col rapido scivolare di una forbice tagliava strisce di una stoffa a fiori. – Ma non è divertente come trovare la soluzione giusta per vestire voialtri.
Una pioggia di bottoni caduti a terra attirò il suo sguardo verso un bambino che aveva rovesciato un cassetto in fondo al locale, e che sedutosi a terra iniziò a rimescolarli e a lanciarli in giro con le manine.
– Nino, quante volte ti ho detto di non giocare con i bottoni! – lo rimproverò la donna, che abbandonò il lavoro per precipitarsi da lei, e io non potei chiedere altro sulle "soluzioni giuste" a cui aveva accennato.
Anche perché Arella riprese a darmi spiegazioni mai richieste. – La mia bisnonna, che ha fondato l'attività, l'ha chiamata "Il filo di Arianna" perché da quanto si racconta in famiglia, il suo primo cliente dal circo di Antares era molto simile al Minotauro delle leggende. E anche perché lei si chiamava Arianna.
Ero un po' distratto perché a quel punto Amaltea, dopo aver sistemato Meneides e un paio degli altri che ci accompagnavano, sembrava intenta a chiedere a Robinia di rinnovare il guardaroba anche a me, senza che io avessi voce in capitolo. Ma una cosa, del discorso di Arella, scavò una galleria nella mia mente fino a raggiungere la consapevolezza, mentre lei era già andata avanti a narrare la storia di famiglia.
– Un momento, hai detto Il circo di Antares? Lui c'era già all'epoca della tua bisnonna?
Non mi pareva possibile. Vero, se mi avessero chiesto la sua età non avrei nemmeno potuto azzardare un'ipotesi, e non perché non dimostrava gli anni che aveva, ma perché proprio non riuscivo a ricordare che aspetto avesse. Perfino il suo genere era un mistero, anche se spesso, per praticità, io e altri ci riferivamo ad Antares al maschile.
Arella si strinse nelle spalle. – Forse era un altro Antares, e quello di adesso ha preso il nome di quello prima. O forse è lo stesso, e vivere tanto a lungo è il suo segno particolare.
Uno tra i tanti, aggiunsi mentalmente, e mi chiesi per qualche istante se assieme all'inconoscibilità e all'onniscienza fosse da annoverare anche l'immortalità o una più banale estrema longevità.
Ma il mio rimuginare non durò a lungo poiché Robinia mi chiamò per prendermi le misure e allora sì che dovetti faticare non poco per trattenere il mostro che avevo dentro, che bramava più di ogni altra cosa sbranare qualcuno, uno qualunque tra i sarti in quella sala, pur di porre fine a quella tortura.

sabato 3 giugno 2023

Laconico

Laconico [la-cò-ni-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) 1. Della Laconia, regione greca in cui sorgeva Sparta; per estensione, spartano. 2. Di persona, essenziale nell'esprimersi (caratteristica attribuita agli spartani); poco loquace; di ciò che è scritto o espresso molto concisamente; stringato, essenziale.

Etimologia: dal latino laconicus, a sua volta derivato dal greco lakonikos, da Lakon, "Lacone" o "Lacedemone", ovvero abitante della Laconia.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di imustbedead da Pexels


Fin da subito compresi che Thanatos, a differenza di me, non era un tipo loquace. È laconica la morte, non da spiegazioni, e gli unici rimasti a interrogarsi su questioni della massima importanza come il senso della vita o perché proprio lui quando tanti altri avrebbero meritato ben di peggio appartengono all'effimera schiera di cui io non faccio più parte.
Non per mia scelta. Io ero uno di quelli che voleva vivere. O almeno, non avevo tanta fretta di morire.
Ma chi prendo in giro, non ci ho mai pensato più di tanto, alla morte, prima di diventarlo.
Ora è costantemente nei miei pensieri, ma è inevitabile, col mestiere che faccio. Suppongo sia così anche per un medico o per un becchino, ops, agente delle pompe funebri, si dice così, vero?
Non ho mai parlato con uno di loro.
Ho parlato con ogni genere di persona, moribonda o malata terminale nelle ultime ore, non vado a tormentare chi ha ancora tempo, non più, dopo Chiara. I vivi sono troppo fragili per sopportare di conoscermi, ho imparato la lezione.
Thanatos sa di queste mie conversazioni, ovviamente disapprova, ma le tollera. Finché non mi impediranno di mettere in atto la sua preziosa necessità, ovvero compiere il mio lavoro, non penso che avrà da ridire, ora che abbiamo trovato un accordo. Una delle rare volte in cui ha rotto il suo silenzio le ha definite "un residuo della mia umanità in disfacimento" e le ha paragonate alle memorie ribelli immerse più o meno in profondità nel limo giallastro, quel che resta delle anime che abbiamo preso una volta scaricate dalla falce. Con il trascorrere del tempo le ho viste consumarsi, sprofondare, svanire.
Non so se si consumerà allo stesso modo la mia voglia di parlare. Di cercare un contatto umano.
Forse, tra qualche millennio, diventerò una cariatide laconica come Thanatos, qualcuno che appare quando è necessario, fa quel che deve e se ne va.
Ma è più probabile che finirò sui tetti a parlare con i piccioni e con i gatti, e a guardare dall'alto la vita che passa.

giovedì 1 giugno 2023

Audioracconto - Un fiuto eccezionale


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio da una foto di cottonbro studio da Pexels


Le disavventure di un alieno dall'olfatto sensibile in incognito sul nostro pianeta.

Un fiuto eccezionale
(racconto breve adatto ai lettori di tutte le età!)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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ma per me fa un'ENORME differenza.

Grazie.

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/07/un-fiuto-eccezionale.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Bass Walker - Film Noir di Kevin MacLeod (http://incompetech.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=ICQCE5Z6Ts0).
Airport Lounge - Disco Ultralounge di Kevin MacLeod (http://incompetech.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=FnEJGt6VxbQ).

Immagini di: cottonbro studio (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-side-profilo-caratteristiche-facciali-avvicinamento-9588242/=FnEJGt6VxbQ), (https://www.pexels.com/it-it/foto/mano-pulsante-ascensore-urgente-8453040/), e Ana Benet (https://www.pexels.com/it-it/foto/dentro-cabina-ascensore-corrimani-8243095/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).