lunedì 19 giugno 2023

Spezzare le catene


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio da una foto di Markus Spiske da Pexels


Lasciai l'Ultima Costa quando ottenni un passaggio su una nave di mercanti che tornavano alle loro dimore nell'Arcipelago. Non so se ne hai mai sentito parlare, è molto lontano da qui. È una terra incantevole composta da svariate isole, cinque più grandi delle altre, sparse tra i flutti del Mare dell'Alba come frammenti di giada su un tappeto blu. Si dice sia la prima terra su cui sorge il sole, e io lo credo, sebbene altri affermino che esista ancora un'isola, molto più grande, al di là del Mare dell'Alba, o addirittura un continente intero, e che questo si allunghi ad accarezzare il nostro da qualche parte molto a nord dell'Arcipelago.
In ogni caso, quella era l'ultima tappa del mio viaggio.
Passai svariati mesi a vagare tra un'isola e l'altra, a raccogliere racconti dalle voci degli anziani e a camminare all'ombra delle foreste in cerca di un incontro con le elusive creature che le abitavano, sempre sospeso tra il mondo umano e un mondo altro, come la mia duplice natura mi imponeva.
Scoprii che gli esseri umani dell'Arcipelago chiamavano tutti i popoli non umani che vivevano sulle isole con il nome collettivo di "yokai", e che li temevano, cosa che mi indusse fin da subito a nascondere le orecchie a punta ereditate da mio padre e a far passare la mia alterità come un sintomo del mio essere straniero in quelle terre. Alcuni videro nella bellezza e nella leggiadria elfica che almeno in parte mi caratterizza un segno che avevano incontrato in me un kami, una delle numerose divinità dell'Arcipelago, e io non li smentii quando questa credenza mi garantiva l'ospitalità e una lingua sciolta da parte di chi mi accoglieva.
Fu così che scoprii l'esistenza della Città dei Cacciatori, e la sua ubicazione. Se volevo incontrare degli ibridi come me e i miei compagni Erranti, quella destinazione, pur se pericolosa, era la mia migliore occasione.
Non ne avevo trovati nelle città e nei villaggi umani: se anche ve n'erano che vivevano lì, si nascondevano troppo bene. Quanto agli yokai, avevo più volte percepito la loro presenza, tra gli alberi e sulle montagne e tra rovine di templi abbandonati, sempre lontano dalle comunità umane. Probabilmente loro si erano accorti del mio rispetto nel muovermi in quei luoghi, e di quel briciolo di magia elfica che mi pervadeva, e questo li aveva portati ad avvicinarsi per studiarmi; ma nonostante questo, puzzavo troppo di umano per indurli a mostrarsi, e neppure le mie rassicurazioni e i miei inviti riuscirono a vincere la loro ritrosia.
Li avevo solo scorti da lontano, di tanto in tanto: uomini uccello che sorvolavano le vette, e buffi bambini tartaruga che subito sparivano nel fondale fangoso di uno stagno. Quando riferivo alle comunità umane di questi incontri, in cerca di informazioni più dettagliate, tutto ciò che ne ricavavo era l'avvertimento che gli yokai che avevo visto erano pericolosi, e che ero fortunato a essere ancora vivo.
Mi raccontavano dei resti delle loro vittime ritrovati nelle foreste o in fondo ai crepacci, dei corpi restituiti molto più a valle dai fiumi, o di coloro che erano scomparsi e mai più ritrovati. Tutti avevano qualche storia del genere di cui parlare. Molto rari erano invece i testimoni che avevano effettivamente assistito o erano state vittime dell'attacco di uno yokai, ma anche a questi faticavo a credere.
Pioveva copiosamente il giorno in cui raggiunsi la Città dei Cacciatori. Non ti dirò il nome di quel luogo, non lo sapresti pronunciare, e non lo ricorderesti.
Ti basterà sapere che ero sdraiato su un promontorio boscoso, a osservare la città e le file di creature incatenate dalle molteplici forme e colori che andavano e venivano dalla vicina cava, o eseguivano pesanti lavori di costruzione in città, obbedienti agli ordini di pochi guardiani umani.
Alcuni, per costituzione, non sembravano in grado di combattere o ribellarsi, ma mi stupì che i più possenti tra gli yokai prigionieri, giganti muscolosi dalla pelle nera o verde o rossa, corna sulla testa e zanne e artigli, non avessero già spezzato le catene che li trattenevano.
Tutti loro, a dispetto della forza o della magia che possedevano, apparivano mansueti come agnellini. Tutto il contrario di ciò che mi avevano detto altrove gli esseri umani.
Io posseggo solo in minima parte la loro magia, ma ho un udito sensibile quasi quanto quello di un elfo, e una percezione degli equilibri in una foresta difficile da spiegare a un essere umano, perciò avvertii fin da lontano il suo avvicinarsi. Prima ancora di vederlo, seppi che c'era in lui qualcosa che lo accomunava agli uomini uccello delle vette, ma non era del tutto come loro, era più goffo. Proprio come apparivo io agli occhi degli elfi.
Il primo ibrido che riconobbi come tale da quando ero all'Arcipelago.
Ma non intendevo offenderlo, perciò, quando si sdraiò sul terreno fangoso accanto a me, a scrutare la città dai tetti neri sotto di noi, osservai per qualche istante le piume tra i suoi capelli rossi, il suo naso piuttosto lungo e adunco, e le forme che gonfiavano la sua schiena sotto gli abiti larghi da eremita, che potevano indicare un paio d'ali di ridotte dimensioni, non sufficienti a permettergli di volare. Ma, timoroso di offenderlo nel rivelargli che avevo compreso la sua natura mista, gli chiesi nella lingua che avevo appreso sull'Arcipelago: – Benvenuto, compagno di vedetta. Mi sbaglio a dire che appartieni al popolo degli yokai?
Lui fece una smorfia, segno che nonostante tutte le mie precauzioni lo avevo offeso ugualmente, e disse in tono aspro: – Hai parlato troppo a lungo con gli esseri umani, straniero.
Rimasi in silenzio, in attesa che aggiungesse dell'altro, e infatti poco dopo si puntellò su un gomito e aggiunse: – Non c'è nessun popolo, e quello non è un nome che un tanuki o una nure-onna sceglierebbe di usare. Sei qui per fare qualcosa o per guardare soltanto?
E accennò alla città con aria di sfida.
– Fare, se c'è qualcosa che posso o devo fare – ribattei, ancora incerto su quello che l'ibrido si aspettava da me. – Solo che troppe cose ancora non capisco, non sembrano infelici della loro condizione. E tu, intendi fare?
– Farei, se potessi. Mia sorella è prigioniera laggiù, ma non posso avvicinarmi, o rischierei di finire come lei. Eccola, è là – mi indicò una delle creature rosse che avevo già notato. – Nostro padre è un tengu, come forse avrai indovinato. Sua madre era una oni, ma la sua ascendenza non può aiutarla in questo caso. La mia, invece, era umana. Posso passare per uno di loro, con qualche accortezza, proprio come fai tu, ma non posso nascondere la mia natura se scendo in città. Finirei soggiogato da catene più pesanti di quelle che vedi.
Il mezzo tengu, il cui nome era Shoichi, mi raccontò che qualche decennio prima uno dei rarissimi ibridi di seconda generazione, che riuniva in sé le caratteristiche di più di due razze, si era proclamato Re degli Unici e aveva iniziato, proprio come Julian stava facendo nella terra da cui io venivo, a radunare gli ibridi sotto un unico nome e un'unica nazione. Per evitare i problemi e le discussioni che una simile multiforme alleanza avrebbe causato, il Re degli Unici aveva forgiato un amuleto, la Giada dalle Sette Teste, su cui i primi sette che lo avevano seguito e poi via via tutti gli altri avevano giurato di mantenere l'armonia e la pace tra loro. Ma gli esseri umani avevano rubato la pietra, e l'avevano corrotta per soggiogare quelli che definivano yokai, e il suo potere era divenuto talmente forte da intrappolare non solo gli ibridi, ma anche coloro che appartenevano per intero a una singola stirpe.
– Basta che anche uno solo dei loro discendenti ibridi abbia giurato, e sono fregati – concluse Shoichi. – Per questo dopo i primi tentativi, nessuno di loro è più venuto ad aiutarci. Ma tu... tu sei diverso, lo vedo. Qualunque cosa tu sia, sono pronto a scommettere che sei libero dal potere della pietra.
– Sono per metà elfo e per metà umano. Tra coloro che hanno giurato c'è qualche mezzo umano...
– Ah, l'umano non c'entra – m'interruppe Shoichi, indicando i carcerieri umani che in condizioni normali sarebbero stati troppo pochi per trattenere i prigionieri che li superavano in numero e potere. – Vedi? A loro la Giada dalle sette Teste non fa nessun effetto.
Shoichi, che aveva osservato a lungo la città e i suoi ritmi, mi disse dove probabilmente era custodita la pietra. Il mio compito era di rubarla e di immergerla in una certa sorgente, che l'avrebbe purificata e riportata alle sue funzioni originarie.
– Un amuleto così può essere creato una volta sola – rivelò Shoichi. – Il Re degli Unici deve riaverlo, o non potrà continuare a riunire la nostra gente. Siamo troppo diversi per non finire col litigare e dividerci.
Quell'affermazione mi fece tornare in mente Julian che faceva la stessa cosa senza l'ausilio di pietre magiche, solo con la sua testardaggine e il suo coraggio. Forse aiutava il fatto che non si era mai proclamata nostra regina. Ma poi mi dissi di non giudicare la gente dell'Arcipelago secondo i parametri del mio mondo.
– Se il Re degli Unici ha bisogno della sua pietra, riavrà la sua pietra – gli dissi, e mi accinsi a entrare di nascosto tra le vie della città.
Il cielo oscurato da nubi che faceva sembrare che la notte fosse già calata, e la pioggia che batteva sui tetti e sulle viuzze lastricate di pietra giocavano a mio favore, ma anche in pieno giorno in una giornata di sole, ero pur sempre il figlio di un elfo, in grado di non farmi udire o vedere da un essere umano, se lo volevo. Mentre nascosto nell'ombra di un portico studiavo il palazzo dov'era custodita la pietra, in cerca della via migliore per entrare, fui sorpreso di sentire che qualcuno si era accorto di me, e ancora di più nel constatare che io non l'avevo sentita arrivare.
– Ehi, tu, che fai? Sì, dico a te, bello straniero dalle losche intenzioni. Che fai? – disse una voce di ragazza, rapida e allegra. – Non credere che non ti abbia notato, sai, spicchi come un fiocco di neve su una lastra di carbone, davvero pensi di riuscire a passare per un essere umano dell'Arcipelago?
Mi girai e vidi, dietro di me, una giovane donna dai tratti orientali. A denunciare che nemmeno lei era del tutto umana, un paio di orecchie di volpe tra i capelli e tre code che si agitavano alle sue spalle.
Ero abbastanza ferrato nelle illusioni da capire che lei non era davvero lì.
– Sono qui per liberare la tua gente – le bisbigliai, timoroso di poter essere scoperto dalle guardie che dirigevano le file di yokai prigionieri al lavoro tra le vie della città. Lo sferragliare delle catene pareva vicinissimo alle mie orecchie, nonostante lo scrosciare della pioggia. – Dovunque tu sia, resta nascosta, e non ti avvicinare alla città, o finirai prigioniera...
Non finii di avvertirla, che lei esclamò con voce acuta e squillante: – Io? Io sono laggiù.
E indicò uno dei cantieri che avevo visto dall'alto. La osservai per qualche istante, cercando di capire.
Nelle comunità umane mi avevano detto che non si poteva credere agli yokai dalle sembianze di volpe, che erano astuti e ingannatori, ma io avevo sempre cercato di ignorare quei pregiudizi.
Eppure, era impossibile che quella donna fosse tra i prigionieri.
– Per "laggiù" intendi dire che sei incatenata assieme agli altri? Scusa, ma come puoi usare i tuoi poteri se sei schiava degli umani...
– Oh, andiamo! – mi interruppe di nuovo la donna volpe. Con un sorriso furbesco e qualche passo danzante, si incamminò fuori dal riparo offerto dal portico, mentre proseguiva: – Ti svelo un segreto. La Giada dalle Sette Teste potrà anche avere una testa di volpe, ma nessuna kitsune ha mai giurato su quella brutta statuina malfatta... o meglio, sì, abbiamo pronunciato delle parole, ma una volpe conosce tanti bei trucchetti per invalidare un giuramento. E no, non me li chiedere, non te li dirò, potrebbero ancora tornarmi utili.
Non mi interessavano i suoi trucchetti, quel che m'importava, del suo discorso, era una rivelazione che cambiava completamente il senso della mia missione. – Aspetta, se ho capito bene... in pratica mi stai dicendo che una qualunque kitsune, in qualunque momento, o una sua figlia ibrida come immagino sia tu, sarebbe potuta venire qui e liberare tutti quanti senza problemi?
– Sì. Ma... – disse la donna volpe allegramente. – ...tra potere e volere, c'è una bella differenza.
Mi portai una mano alla tempia, e iniziai a credere che forse ciò che gli umani pensavano in merito alla sua stirpe non fosse del tutto falso. – E inoltre – mormorai abbattuto. – Mi stai dicendo che tu potresti andartene in qualunque momento, ma sei rimasta qui a fingere di essere prigioniera come gli altri... perché?
Per tutta risposta, lei sollevò lo sguardo alla tettoia del portico. – Io fossi in te non me ne starei troppo a lungo là sotto così tranquillamente. È stato riparato quando io già c'ero, e ci ho lavorato personalmente. Ho lavorato in tante case qui, e sai... basta qualche errore in buona fede a far venire giù tutto al momento più opportuno. O meno opportuno. Certo, se non le buttano giù prima gli oni quando io e te li salveremo... è da tanto che aspetto un benefattore, ed eccoti qui. È tempo di spezzare le catene! – dichiarò trionfale, allargando le braccia.
Cercai di zittirla, il palazzo in cui dovevo penetrare di soppiatto era a poca distanza da noi, con due guardie ai lati del portone, due guardie annoiate e distratte, ma ancora sufficientemente sveglie da notare una donna volpe in giro per le strade che annunciava ai quattro venti il nostro piano.
– Mio caro, quello che vedi se non lo hai capito è un'illusione, e solo tu puoi vedermi e sentirmi, a meno che io non voglia diversamente. E a proposito, ora che sei con me, puoi evitare di scervellarti per capire da che parte entrare e passare direttamente dal portone principale. Grazie alle mie illusioni, ti vedranno come uno di loro, non uno straniero fiocco-di-neve-su-una-lastra-di-carbone, ma uno di loro, un loro amico. Nessuno ti fermerà, facile facile. Ma quanto sei fortunato ad avermi incontrato?
Non ero certo di potermi fidare di lei. Era difficile anche per me comprendere che intenzioni avesse, ma sembrava attirata da ciò che le provocava divertimento, e farmi passare con l'inganno sotto il naso delle guardie poteva essere estremamente divertente ai suoi occhi.
Le concessi il beneficio del dubbio e accettai il suo piano, con la riserva di prestare molta attenzione a ogni segnale che mi indicasse che si era stancata di quel gioco, e che ne stava iniziando un altro a mia insaputa, uno che io non avrei trovato affatto divertente.
– Un'ultima cosa, la più importante! – esclamò lei, sbarrandomi la strada con una mano. Le sue tre code si agitarono a destra e a sinistra. – Mi chiamo Suzu. Così puoi smettere di darmi strani nomignoli nella tua testa, e soprattutto saprai chi ringraziare quando avremo liberato tutti.
– Non ho... non importa.
Certe volte, era meglio tagliare corto.
Andò tutto bene, fino a un certo punto. Le guardie mi accolsero senza troppe domande e mi lasciarono entrare. Chiunque incontrassi per i corridoi e nelle stanze del palazzo, non mi tratteneva per più tempo di quel che era necessario per un saluto e una mezza chiacchiera, a cui nemmeno dovevo rispondere, dato che ci pensava Suzu a far sentire loro le parole più adatte nella voce che si aspettavano di udire.
Suzu mantenne la sua parola nel guidarmi verso il tesoro che cercavo, ma più mi avvicinavo, e più sentivo una musica dolce, lenta, di uno strumento che somigliava all'arpa, ma non era proprio un'arpa, aveva un timbro più metallico. E assieme ad esso, di tanto in tanto, un rintocco simile a quello di un grosso cembalo, ed eteree note di strumenti a fiato dalla natura indefinibile. Era una musica che avevo già udito per le strade, ma tanto flebile, così flebile sotto la pioggia che mi era parsa provenire da una casa lontana, e l'avevo ignorata come gli echi delle voci che sentivo in ogni istante, da ogni stanza. Ma quando raggiunsi la Giada dalle Sette Teste era divenuta un frastuono talmente insopportabile che d'istinto mi tappai le orecchie, e compresi che era la pietra a produrlo.
Fissai sconsolato la statuetta di un verde chiaro, opaco ma con lievi riflessi alla luce delle candele. Grezza alla base, sembrava che colui che l'aveva creata non l'avesse mai finita, limitandosi a intagliare le sette teste del suo nome, tutto attorno alla sommità della pietra: teste di volpe, di cane, di gatto, di serpente, di tartaruga, di uccello, di ragno.
– Non riuscirò mai a portarla via – dissi a Suzu. – La sentiranno!
– Che cosa?
– Come, cosa? Questa musica! È così forte che quasi non sento le mie parole!
– Tu avverti l'Armonia? Non pensavo che uno straniero potesse farlo. Comunque, tranquillo: nessun umano può avvertire l'Armonia. Prendi la pietra e scappa! O meglio, non scappare, se no ti noteranno e rovinerai tutto il mio duro lavoro – disse Suzu, che anche in quel momento critico non perdeva occasione di amplificare la sua parte nel piano. Lei, in fondo, era quella che non rischiava niente, perché nemmeno era lì con me. – Quando vuoi, eh.
Ancora una volta mi fidai e feci come mi diceva. Non saprò mai se Suzu aveva mentito e gli esseri umani potevano avvertire l'Armonia che si affievoliva in alcune stanze del palazzo e si amplificava in altre, spostandosi assieme a me verso l'uscita, oppure se lei a un certo punto aveva smesso di celarmi con le sue illusioni, o se era stata piuttosto la mia voce, che avevo inconsapevolmente alzato nella stanza del tesoro per farmi udire al di sopra della musica, che aveva allertato gli abitanti in quella che per loro era una casa silenziosa.
Fatto sta che mi ritrovai circondato, ancora troppo lontano dall'ingresso o da una finestra che avrebbe potuto costituire una via di fuga.
– Restituisci quello che hai rubato, ladro – mi disse uno di loro.
Valutai in fretta le mie opzioni, con la voce di Suzu che mi incalzava, allarmata: – Non puoi dargli la pietra. Non puoi. Se lo fai sarà stato tutto invano, peggio, faranno prigioniero anche te, passerai il resto dei tuoi giorni incatenato qui, oh, spero per te che tu non sia uno di quelli che vivono tanto a lungo...
Sbuffai. Non mi era d'aiuto. Perché non si decideva a nascondermi con un'illusione, a distrarli? Erano in tanti, tutti armati, e come ti ho già detto io non ero un guerriero. Ma se una parte di loro fosse stata distratta...
– Rompila! – urlò all'improvviso Suzu, mentre le guardie umane si facevano avanti, stringendomi in un cerchio di lame. – Buttala a terra, spezza le catene, libera tutti! È l'unico modo!
Avevo detto a Shoichi che avrei purificato la Giada dalle Sette Teste per poterla riconsegnare al Re degli Unici. Ma nel poco tempo a mia disposizione non trovai un modo per farlo, e riportargli sua sorella sarebbe stata comunque una vittoria.
E in fondo, tutti i prigionieri, per quanto apparissero mostruosi agli occhi degli umani, i temibili yokai, erano persone, e le persone valevano più di un amuleto.
Sollevai la grezza statuina di giada sopra la mia testa e assordato dalla sua musica languida la gettai in terra con tutta la forza che avevo.
La pietra si infranse in mille pezzi, le teste si separarono, e fu il silenzio.
– Non hai idea di quello che hai appena fatto, straniero. – mi rimproverò uno degli uomini. – Hai liberato una malvagità che non ha eguali, e io spero che loro trovino te.
Lo disse con cattiveria, e poi si mise a urlare ordini, e i cosiddetti Cacciatori lasciarono in fretta e furia una città che non apparteneva più a loro, mentre come previsto da Suzu gli oni scatenavano la loro furia sulle case e sui palazzi che avevano involontariamente aiutato a costruire.
Mi girai a cercarla, ma la sua illusione era sparita. Forse quell'astuta kitsune aveva ottenuto ciò a cui mirava fin dall'inizio.
Shoichi non fu contento di quel cambiamento nei piani, e me lo fece sapere con il suo solito sarcasmo, ma la sorella gli diede una botta in testa che almeno per un po' lo ridusse al silenzio. Era di poche parole, lei.
Proposi a loro e agli altri ibridi dell'Arcipelago di venire assieme a me da Julian, ma solo in pochi scelsero di seguirmi, altri dissero che avrebbero ricambiato la visita con il tempo, ma come Shoichi e sua sorella, la maggior parte scelse di restare con il Re degli Unici e aiutarlo a completare la sua opera.
A quanto, pare, alla fine, nemmeno nell'Arcipelago serviva una pietra magica per far andare d'accordo le strane creature figlie di stirpi diverse.

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