lunedì 28 novembre 2022

La Corsa


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Foto di Tsepin Цепа da Pexels


La Corsa era l'unico momento in cui mi sentivo vivo. Il raspare degli zoccoli sul terreno, le redini strette nel mio pugno, l'attesa spasmodica di lanciarmi per quei mille metri erano la mia droga. Non sentivo nient'altro che lo sbuffare dei cavalli e quel silenzio carico di adrenalina, non vedevo nient'altro che la pista davanti ai miei occhi, chiara come se fosse stato giorno.
E poi la campanella trillava e io rinascevo.
Il rombo di tuono degli zoccoli, i muscoli del cavallo che percepivo scattare tra le mie gambe, il fischio del vento nelle orecchie, unito alle acclamazioni della folla a bordo pista, il sudore che mi imperlava la fronte e che mi rendeva partecipe di quello sforzo mentre spronavo la mia bestia, tutto si fondeva in un eccitante caleidoscopio di sensi, e mi mozzava il fiato. Era sempre stato così per me, anche prima che l'ippica diventasse illegale, anche prima che fossimo costretti a organizzare la Corsa nel cuore della notte, in valli nascoste, isolate, rischiarati soltanto dal bagliore delle fiaccole. Tutta colpa dei Padroni. Colpa di quelle dannate creature, che al loro arrivo, dopo averci così facilmente sottomessi, avevano decretato l'immediata cessazione dello sfruttamento di qualsivoglia equino, per qualunque scopo.
In agricoltura e nei mezzi di trasporto se l'erano cavata meglio di tutti, dato che già da tempo cavalli asini e muli erano stati quasi del tutto sostituiti dalle macchine, e avevamo soltanto dovuto dire addio ai romantici calessi per turisti. Rinunciare alla carne di cavallo e al latte di asina era stato un dramma per qualcuno, ma da quanto sapevo erano sopravvissuti anche senza. Gli appassionati di equitazione amatoriale avevano dovuto mettersi il cuore in pace, e trovarsi un altro hobby come le escursioni a piedi, la bicicletta, o montare un cavalluccio a dondolo. Tra i problemi più grossi, interi corpi militari erano scomparsi da un giorno all'altro, e gli allevatori di cavalli erano rimasti disoccupati.
Il mio settore aveva subito il colpo più duro. Senza i cavalli, non avevamo nulla. Ma io ero nato fantino, vivevo per fare il fantino, e quant'è vero iddio, sarei morto fantino. Anche a costo di correre di notte, da clandestino, sfidando il volere dei nostri potenti nuovi Padroni.
Ultimo giro, e nessuno davanti. Pura esaltazione, mentre, percorrendo il rettilineo, sento una voce annunciare il nome del mio cavallo, "Torrente di fuoco", e io chino sulla criniera rossiccia sorrido, e mi permetto nell'imboccare l'ultima curva di sbirciare tra la folla in delirio, di cercare lei, il volto arrossato da una fiaccola vicina. Meline, che non aveva mai voluto venire a vedermi correre prima di questa fatidica notte. Aveva troppa paura di sfidare i Padroni, troppa paura di vedermi finire come altri, calpestati dagli zoccoli. Questa era la pena per chi era sorpreso anche solo a tormentare uno dei cavalli che ormai vivevano allo stato brado, figuriamoci catturarlo, addestrarlo, e spronarlo a correre sotto di te. Che ironico contrappasso.
Il traguardo è davanti a me quando sento il grido: – Equidi!
Le acclamazioni della folla si sciolgono d'un tratto in urla di terrore, e il fuggi fuggi in ogni direzione degli spettatori dirada all'istante il cerchio che si era formato attorno alla pista. Le torce cadute a terra si spengono sfrigolando, ma quelle poche rimaste sono sufficienti per mostrarmi le enormi sagome dei nostri Padroni sciamare in formazione nella valle. Sono lontani, ma non ci vorrà molto affinché ci siano addosso, e il rombo dei loro zoccoli già mi assorda, più forte di qualunque passaggio di cavalli al galoppo, forte quanto i tuoni in cielo.
Cerco Meline, aggirandomi tra i resti della pista e i tendoni improvvisati. Chi aveva un cavallo ha già tagliato la corda da un pezzo, approfittando di una velocità maggiore rispetto agli appiedati e ben consapevole che sarebbe stato giudicato più duramente di tutti gli altri. Chi è rimasto indietro, perché lento o caduto a terra all'inizio della fuga generale, mi circonda supplicandomi di prenderlo con sé, di portarlo in salvo. Li allontano con calci e con bruschi scatti laterali di Torrente di fuoco, guidato dalle mie mani sulle redini. Mi pare di scorgerla prostrata a terra ma quando mi avvicino, saltando un paio di corpi per non calpestarli con gli zoccoli della mia bestia, mi accorgo che non è lei, bensì un'altra donna. Quella poveretta mi guarda tremante, in stato di shock, mormorando parole di scusa. Probabilmente ha scambiato il mio cavallo per uno dei Padroni, plausibile, dato che li distinguono solo le dimensioni, l'intelletto, e la facoltà di parola.
Faccio voltare il cavallo, mi guardo attorno. I Padroni sono sempre più vicini e convergono su di me, unico fantino rimasto.
– Meline! – grido, aggirandomi come un disperato nei dintorni, tra torce spezzate e fuochi nel fango.
Spero che si sia nascosta, prego che sia scappata, anche se già vedo un lato della formazione dei Padroni in corsa che accelera e si stacca dal gruppo, all'inseguimento dei fuggitivi, il che mi dà poca speranza per quelli di noi che erano presenti alla Corsa stasera. Non dovevo portarla, che cosa avevo in mente?
Ma non ho il tempo di riflettere. Prima che i Padroni mi raggiungano, ho deciso. Faccio girare Torrente di fuoco nella direzione opposta e lo sprono. Lo spingo a correre più velocemente di quanto non abbia mai fatto, più forte, più avanti, più in fretta, fin quasi a fonderci in una cosa sola, i mei muscoli aggrappati ai suoi, il suo sudore appiccicato al mio, perché questa è la corsa della mia vita e non c'è traguardo, e anche se so che non posso vincere, perché loro sono più grossi, più resistenti, più veloci, io voglio che duri il più possibile, godermene ogni singolo istante, e perdermi, perdermi, perdermi, in questo folle caleidoscopio di vita.

sabato 26 novembre 2022

Truculento

Truculento [tru-cu-lèn-to] agg. 1. Sinistro, minaccioso, truce. 2. Particolarmente feroce; scherz. di film o altra rappresentazione, tanto crudo da risultare ridicolo.

Etimologia: dal latino truculentus, che deriva da trux, "truce".


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Foto di shahin khalaji da Pexels


Pensieri truculenti mi attraversano la mente quando non presto attenzione. Quando sono distratto, se chiudo gli occhi, o talvolta anche con le palpebre aperte, vedo... sangue, corpi smembrati, morte e devastazione. Solo per un attimo, un lampo sconvolgente, e poi l'immagine scompare. Qualche volta mi accorgo che sto digrignando i denti, dopo uno di quegli episodi, e in altri casi mi manca il fiato. È un'esperienza mi lascia turbato e pieno di dubbi. Mi chiedo... ha davvero senso combattere così strenuamente per restare lucido? Non lo so, sono troppo stanco, e per quanto io possa lottare, per quanto io riesca a perfezionare la mia medicina, non sono ancora riuscito a impedire che presto o tardi mi prenda uno di quei vuoti che divora la mia memoria e mi lascia nuove immagini di una violenza inaudita da sperimentare nei miei incubi, o anche da sveglio, quando meno me lo aspetto. Riesco a diradarli, a distanziarli nel tempo, ma ho il sospetto che non potrò mai del tutto evitarli.
So che non posso andare avanti così. Vorrei... sì, vorrei poter ricordare quello che succede quando non sono in me. Penso che le mie azioni, per quanto spregevoli, per quanto truculente, mi spaventerebbero di meno del non sapere, o di quei pochi lampi di conoscenza. Ma poi mi dico che è meglio così, che l'ignoranza è una benedizione, che potrei finire con l'impazzire se solo sapessi, se fossi consapevole fino in fondo degli orrori che riesco a escogitare e mettere in atto nei miei momenti di vuoto.
Perché, da quel poco che vedo, da quel poco che riesco a ricordare... quasi non oso scriverlo, ma ho l'impressione, la netta impressione, che quello che faccio mi piace. Che la persona che sono durante quei vuoti, un essere spregevole in cui non mi riconosco, provi una soddisfazione perversa nel torturare, distruggere, uccidere.
E questa, è l'idea più sconvolgente di tutte.

giovedì 24 novembre 2022

Ammaliante inganno


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Foto di Maria Clara Alvarenga da Pexels


Non ricordo l'ultima volta in cui sono stata sincera. La disonestà è una parte essenziale di me, quasi quanto il mio bel viso e il mio corpo da favola. Ogni pescatore, in fondo, cela l'amo acuminato dietro a un'esca invitante e appetitosa, e quello che facevo io non era diverso. In che modo altrimenti avrei potuto soddisfare i miei bisogni inconfessabili?
E proprio in virtù di quello che ero e di ciò che facevo di solito agli uomini, il giorno in cui contrariamente a ogni aspettativa mi innamorai sul serio, compresi subito che avrei dovuto continuare a mentire per fare in modo che questa bizzarra cosa vera tra me e Thomas funzionasse.
Lui non doveva sapere degli uomini che andavano e venivano. Non doveva avere il minimo sospetto della seduzione che esercitavo di tanto in tanto su un estraneo scelto a caso, che spariva al termine del nostro primo incontro.
Pensavo che quello che Thomas non sapeva, non l'avrebbe ucciso. Ma proprio non immaginavo che l'avrebbe ucciso quello che non sapevo io.
Una sera lo vidi con un'altra donna, in un atteggiamento inequivocabilmente intimo. Ero distante, nascosta nel buio, lui non poteva vedermi, eppure il mio volto si bloccò nell'affascinante sorriso grazie al quale tante volte avevo attirato a me uno sconosciuto, un sorriso che trasudava grazia e innocenza, ma che in realtà era la mia maschera da predatrice, e nel frattempo dentro di me urlavo, piangevo, imprecavo, lo maledicevo e lo condannavo al destino di tutti gli altri. Non avevo mai conosciuto la gelosia, e ne fui sopraffatta.
Lo amavo, ma in quel momento decisi che non lo avrei risparmiato.
Per questo adesso me ne sto sdraiata su un lettino a poppa del suo yacht, mentre il motore mi ronza nelle orecchie e una scia di spuma bianca traccia la nostra corsa tra le onde. Non è stato difficile convincerlo a portarmi in quella paradisiaca spiaggetta sulla sua isola privata, con la promessa allettante del mio corpo nudo sulla sabbia candida, come già altre volte in passato. Nemmeno lui può resistermi.
Non alla mia voce che intreccia l'incanto di delizie ancora tutte da sperimentare. La mia voce insincera, l'esca più potente.
Questa volta, però, ho alterato la strumentazione del suo yacht in modo che invece che alla sua isola, questa infernale barca ronzante ci conduca nel bel mezzo del nulla. Nessuna terra in vista all'orizzonte, nessuno deve vederci, e per quello che voglio fare, preferisco che il mare sia profondo.
Dalla plancia sopraelevata, Thomas si gira e mi urla sopra al frastuono: – Dovremmo essere quasi arrivati! – La sua voce però ha un tono incerto quando prosegue: – Preparati, amore... fra poco ci siamo.
Mi tiro su e mi metto a sedere sul lettino, preparandomi, sì, a quello che mi aspetta, che non è affatto ciò che si aspetta lui. Amore, mi chiama. Razza di traditore fedifrago. Presto non sarò più costretta ad ascoltare le sue bugie, né il fastidioso ronzio del motore che mi ferisce le orecchie, e che mi fa rimpiangere il tempo in cui le navi erano sospinte solo dal vento e dai remi. Questi yacht troppo veloci erano la causa principale del cambiamento nelle mie abitudini: mi avevano costretto loro a vagare per la terra a caccia delle mie prede, invece di starmene al sicuro sugli scogli ad attirare i marinai con la mia voce.
Thomas spegne finalmente il motore dopo la lunga, folle corsa di questa ferraglia. Era ora. Adesso sì che posso sentire le liquide leccate dello sciabordio sulla chiglia, come se anche il mare già pregustasse il suo pasto. Inspiro il profumo salmastro di casa mia e mi passo la lingua sulle labbra, ma quando Thomas si volta, io ho di nuovo quel sorriso dolce, da ragazzina innamorata. Non può sospettare il tumulto che ho dentro, il mio istinto che lotta contro l'ultima ondata d'amore, il dolore del tradimento che urla come il mare in tempesta.
– È strano. – Thomas ridacchia, imbarazzato. – La nostra isola dovrebbe essere qua, ma... non c'è. Mi dispiace, amore. Non mi ero mai perso prima d'ora.
Gli faccio un cenno invitante con la mano e mi sposto più in là sul lettino. – Non importa. Non abbiamo bisogno di un'isola per fare l'amore. Qui non ci vedrà comunque nessuno.
Thomas annuisce. – Già. Siamo qui fuori da soli e nessuno sa dove siamo.
Mugolo quando lui si siede accanto a me. Oh, Thomas, non hai idea che questo è proprio ciò che volevo.
– Canta per me – suggerisce lui in tono suadente, poi si china a baciarmi sul collo. Davvero, si può essere più stupidi, chiedere a me di cantare? È come scavarsi la fossa da soli.
Lo accontento, e canto per lui come non ho mai cantato prima, perché nella mia voce per la prima volta non c'è solo una rete d'inganno, ma anche la verità, l'unico, vero, impossibile canto d'amore, il canto della fine del mio amore, il canto della sua morte. Con l'immagine del suo tradimento di fronte agli occhi, uccido dentro di me quello che resta di un sentimento che comunque non avrei dovuto essere in grado di provare.
Quando vedo la sua espressione inebetita, il suo sguardo che mi fissa senza vedermi, so che è arrivato il momento, e allora i miei denti da splendide perle divengono zanne, la mia pelle si copre di squame di pesce. Lo afferro per le spalle e lo sollevo dal lettino, lo costringo ad alzarsi in piedi e lo spingo dolcemente indietro, verso il parapetto dello yacht che dondola quieto tra onde gentili. Già pregusto il momento in cui si sveglierà dal suo intontimento, troppo tardi, rendendosi conto che io lo trattengo sott'acqua in un abbraccio, e che l'aria gli sfugge inesorabilmente dai polmoni.
Quello che non avevo previsto è il suo sorriso, e il suo sguardo divenuto d'un tratto calmo, intelligente, fisso sul mio aspetto trasfigurato.
– Marcus, ora! – grida Thomas e si getta a terra, tra il parapetto e il lettino a poppa dello yacht.
Non faccio in tempo a realizzare quello che sta accadendo. Sento un dolore acuto al petto, come la sera in cui lo avevo visto con un'altra e il mio cuore si era spezzato, e guardando giù scorgo la punta di un arpione che trapassa il mio corpo perfetto. Incredula, barcollo, mi giro, e li vedo. Vedo due Thomas, due uomini identici che mi fissano con espressione impassibile. Ma uno dei due non è il mio Thomas, uno dei due indossa gli stessi abiti in di quella fatidica sera, uno dei due non è l'uomo che ho amato.
Tendo un braccio verso l'altro, verso Thomas. – Tu... tu non mi hai mai tradito? – mormoro con voce tremante, mentre con l'altra mano cerco inutilmente di trattenere il fiotto di sangue che sgorga attorno alla punta dell'arpione che fuoriesce da un mio seno. Mi sento debole, e non so se è per il peso di quella rivelazione o per la vita che fugge via dal mio corpo con il sangue.
Thomas e il suo gemello, Marcus, si tolgono i tappi dalle orecchie.
– Visto? Te lo avevo detto che era una dannata sirena – commenta Marcus.
Le gambe non mi reggono più e crollo a terra.
– Già – replica Thomas, la voce fredda come mai l'avevo sentita. – Era troppo bella per essere vera. Peccato. Finiamo il lavoro, adesso.
L'ultima cosa che vedo sono le due immagini del mio perduto e impossibile amore che si avvicinano a me con un coltello affilato stretto nel pugno, e l'ultima cosa che sento è una delle due, non so più quale a questo punto, che annuncia sarcastica e soddisfatta: – Fuori un'altra.
E poi comincia a canticchiare mentre le lame mi fanno a pezzi.

lunedì 21 novembre 2022

Rullino le trombe, squillino i tamburi


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Foto di Alexey Demidov da Pexels


Cecilia fece un salto sulla sedia mentre piluccava il pane pucciato nel latte che era la sua colazione con il marito.
– L'hai sentito? – chiese con voce stridula, sgranando gli occhi. – No, dico, stavolta l'hai sentito anche tu o no?
Arnoldo sospirò e scosse la testa. – No che non l'ho sentito, donna, te l'ho detto, tu hai le traveggole, e questa storia è durata abbastanza.
Arnoldo continuò a sbocconcellare il suo pane con quel po' di marmellata che si era concesso nonostante il colesterolo alto e il diabete e tutti i malanni della sua età perché, diavolo, erano in vacanza e non c'era momento migliore per infrangere tutte le regole. Finalmente, passate le nozze di diamante, con il gruzzoletto che si erano messi da parte, unito a quello donato dai parenti per l'anniversario, Cecilia e Arnoldo si erano concessi la luna di miele che non avevano mai avuto: un giro attorno al mondo, composto da più tappe in tante belle città che fino a quel momento i due avevano visto soltanto in televisione. Ma quando Cecilia aveva insistito per organizzarlo personalmente, scegliendo da sola i luoghi da visitare, Arnoldo avrebbe dovuto capire in che razza di viaggio si stava imbarcando.
– Stavolta ci siamo – annunciò Cecilia, e facendo forza sulle mani appoggiate sulla tavola si alzò. – Vieni, vieni con me a vedere, non me lo sto immaginando, qui c'è qualcosa per davvero.
Arnoldo mugugnò nel dover lasciare a metà la sua colazione, anche perché alla sua età era la cosa più trasgressiva che potesse permettersi. Cecilia d'altra parte, pure lei non era più una fresca sposina, e probabilmente era per quello che aveva sviluppato l'insana ossessione attorno alla quale aveva programmato tutto il loro viaggio. All'approssimarsi della soglia oltre la quale non era dato vedere, se non tramite un atto di fede, Cecilia voleva una prova.
Per questo aveva trascinato Arnoldo da un castello all'altro, e da un'antica dimora nobiliare a un'abbazia a un cimitero abbandonato, tutti luoghi che secondo le dicerie erano infestati da una o più presenze dall'aldilà. Tutti luoghi dove a loro non era mai accaduto di percepire nulla, nemmeno dopo un soggiorno di una o più notti, là dove era stato possibile affittare una stanza e restarci a dormire.
Quello era il primo hotel in cui facevano tappa, e sebbene fosse un po' fatiscente, Arnoldo avrebbe tanto voluto godersi il lusso di una parvenza di normalità e di una colazione in camera, e invece no: proprio nel posto più banale di tutti, Cecilia diceva di aver finalmente trovato le prove che cercava.
In piedi nel bel mezzo del lungo corridoio privo di finestre, vagamente inquietante, del sesto piano dell'hotel, Cecilia stava in ascolto con gli occhi rivolti al soffitto.
– Non viene da nessuna stanza, ti dico – brontolò la donna, che strinse le labbra sottili, tirando le rughe che le circondavano, in una smorfia di disappunto all'espressione perplessa dell'anziano marito.
Le luci fievoli che creavano strisce di penombra nella sequenza interminabile di porte identiche da entrambi i lati sfarfallarono proprio in quel momento. – Ecco... ecco, vedi? – chiese la donna, nell'indicargliele.
– Aaah, è solo l'impianto elettrico che è datato – cercò di spiegarle Arnoldo, ma Cecilia non volle sentire ragioni. Ormai, ogni cosa vedesse o sentisse le pareva un segno in più a conferma della sua spiegazione di quell'iniziale, misterioso rumore ritmico che solo lei aveva udito.
Arnoldo, per quanto si sforzasse, non sentiva nulla di più degli echi di un corridoio vuoto, modulati di tanto in tanto dalla voce smorzata degli occupanti delle altre stanze e dai loro passi leggeri sulla moquette. Non erano in molti quelli che avevano scelto di soggiornare in un posto del genere, ma qualcuno c'era.
– È come un tum-tum-tum... tum-tum... tum-tum... – tentò di spiegargli Cecilia.
– Fammi capire: suona il tamburo – replicò Arnoldo, senza celare il sarcasmo che colorava le sue parole. – Il fantasma suona il tamburo.
– Ti giuro che ho chiesto in reception, non ci sono bambini con la batteria giocattolo o musicisti qui al nostro piano, e neanche al piano di sopra né in quello di sotto. Ho escluso tutte le altre spiegazioni, e che lo sento solo io è un segno: tu non lo senti perché non ci credi.
– Ma va là – sbottò Arnoldo, sollevando una mano in un gesto di sdegno. – È segno che o io sto diventando sordo e mi serve un apparecchio acustico, o tu devi andare a farti controllare le orecchie da qualcuno.
Cecilia fece per replicare indignata ma non ci riuscì, perché in quel momento accadde una cosa che la lasciò a bocca aperta: assieme al battito ritmato di quei tamburi, che ora non smetteva più neanche un istante, era comparsa nella zona d'ombra della parete di fronte, due porte più avanti, una sagoma luminosa che pareva somigliare vagamente all'ombra di un uomo con un tamburo, solo che era al contrario, luce all'interno e oscurità fuori. La sagoma fluttuò per qualche istante di fronte agli occhi sgranati dei due anziani.
– Lo vedi anche tu, vero? – chiese Cecilia, e alla conferma incredula di Arnoldo pronunciata in un sussurro, prese a ripetergli: – Non me lo sto immaginando, te lo dicevo, è tutto vero, non me lo sto immaginando, c'è vita oltre la morte, te lo dicevo, guarda...
La sagoma scomparve e poi riapparve più vicina. I due anziani cacciarono un urlo e scapparono a rifugiarsi nella stanza dove la colazione li stava ancora attendendo.
– Non te lo stavi immaginando – disse Anselmo col fiatone per la fifa. – Ma io non ho voglia di diventare un fantasma tanto presto, né di stare in questo albergo dopo morto, tra tutti i posti.
– Facciamo i bagagli – concordò Cecilia. – Una prova mi basta.

Dietro la porta socchiusa, due stanze più avanti, il concierge smise di battere con le mani sul tamburo tribale che aveva preso come souvenir dal suo viaggio a Bali. – Che dici, abbiamo esagerato? Non vorrei che quei due facessero un collasso proprio qui.
La cameriera spense la torcia, e il fascio di luce opportunamente sagomato da uno stencil scomparve dalla parete opposta. – No, d'altra parte, non era quello che volevano? – chiese nel riporre la torcia tra le lenzuola e gli asciugamani sul carrello. Fece spallucce. – E poi, quando mai ci ricapita di trovarne altri che vengono qui apposta per quella vecchia storia dei fantasmi?

sabato 19 novembre 2022

Deliquio

Deliquio [de-lì-quio] s.m. (pl. -qui) Momentanea perdita dei sensi, svenimento.

Etimologia: dal latino deliquium, "mancanza", derivato dal verbo delinquere, "venir meno, mancare", a sua volta composto dalla particella de con funzione intensiva e da linquere, "lasciare, abbandonare".



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Foto di Gabriela Pereira da Pexels


Erano sbucati fuori dall'ombra all'improvviso e al solo vederli io mi ero bloccata. Continuavo a ripetermi che non era reale, che non poteva esserlo. Non so con che coraggio ero riuscita a saltare i corpi a terra avvinghiati nella lotta, raggiungere la mia scrivania, trovare il tagliacarte e lanciarlo al ragazzo sbucato dal mio sogno, per poi restare a guardarlo a occhi sgranati mentre pugnalava i suoi aggressori evanescenti.
Alla fine erano svaniti così com'erano apparsi, e io mi ero ritrovata a camminare avanti e indietro dall'altro lato della stanza, il più lontano possibile da lui, quell'impossibile ragazzo dagli occhi color arcobaleno. Faticavo a respirare, e sentivo un macigno rotolarmi nello stomaco.
– Che cos'erano? – chiesi al mio ospite con un filo di voce.
– Assassini onirici – spiegò lui, molto più calmo di me. – Li ho allontanati per ora, ma torneranno.
Mi bloccai e mi girai verso di lui – Come... come sarebbe a dire torneranno? T-tu li hai uccisi!
Lui scosse la testa. – No, li ho solo svegliati.
Stavo andando in iperventilazione, lo sentivo. Non riuscivo a pensare più a nulla, se non che era tutto assurdo e impossibile
– Ehi, ehi, ehi... è me che cercano, perciò non hai alcun diritto di cadere in deliquio proprio ora, tu hai combinato questo guaio e tu devi aiutarmi...
– Io non sto cadendo in deliquio! – sbottai, a voce più alta di quanto non volessi. – Qualunque cosa voglia dire – aggiunsi, abbassando il tono di voce a un sussurro.
Chissà perché, ero quasi più spaventata al pensiero di attirare l'attenzione delle mie coinquiline rispetto a quello di un eventuale ritorno dei suoi assassini onirici. Il che la diceva lunga sulle condizioni del mio stato mentale.

giovedì 17 novembre 2022

La yuki-onna e l'Infero


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Foto di Egor Kamelev da Pexels


Il crepitare delle lamiere del tetto e dei vecchi tubi che percorrevano il soffitto ricordava molto da vicino lo scricchiolio di un ghiacciaio nelle stagioni dei mutamenti, e gli echi misteriosi amplificati dall'ampio spazio vuoto, ciò che restava dei rumori di un traffico lontano attutito dagli spessi muri del magazzino, erano paragonabili al soffio di un vento gelido che spazzava il pack nelle lunghe notti polari. Tanto più che il pavimento del vecchio magazzino abbandonato era ricoperto davvero di una spessa coltre di neve, percorsa da una fila di impronte, e uno strato di ghiaccio foderava i muri di mattoni e ricamava un merletto di galaverna sui pilastri che si susseguivano regolari come le colonne di un tempio. Una serie di bianche e fredde luci al neon rifletteva un chiarore lunare sul paesaggio invernale.
Fuori era tutt'altra stagione. Non era strano dunque che la donna che aveva lasciato una scia di impronte nella neve fin dalla porta del magazzino fosse vestita assai poco, in maniera discinta e provocante: stivali neri sopra al ginocchio, una minigonna in pelle di una sfumatura cupa da cui salivano strisce di pelle in forma di fiamme che la congiungevano, senza coprire troppo del suo corpo snello e tornito, a un top in pelle rossa con le spalline abbassate sulle braccia. Strano era che la donna, nonostante il suo abbigliamento essenziale la lasciasse quasi nuda, pareva non patire in alcun modo il gelo accumulato nel magazzino, né il suo respiro si condensava in sbuffi di vapore come ci si sarebbe aspettati. Il vapore, piuttosto, sembrava emanare in una nebbiolina rossastra dalla sua intera figura, turbinando a ogni passo delle lunghe gambe.
La donna si fermò di fronte all'unica altra creatura vivente che osava sfidare il freddo di quel regno di ghiaccio.
La creatura minuscola, china su una bolla congelata, pareva una bambola di porcellana. Il corpo dalle proporzioni di donna, avvolto in cristalli di brina che formavano una veste aderente, non era più alto di quello di una bambina di sette anni.
L'ombra della donna calda oscurò la creatura del freddo. Gli occhi di quest'ultima, due perle traslucide dalla pupilla verticale, si sollevarono dalla sfera di ghiaccio e valutarono l'intrusa.
– Quale onore, un Infero nella mia dimora! – disse la donnina di neve, la voce stridente come lame di gelo. – Benvenuto. Ti piace il mio mondo?
La donna Infero sogghignò e non si diede la pena di guardare oltre ciò che aveva già visto, nonostante il gesto d'invito a braccia allargate dell'altra. – Un misero mondo per una fiera yuki-onna, un magazzino dimenticato dagli uomini. Una volta quelle come te abitavano le vette inviolate dei monti, ma suppongo che con l'andare del tempo il piccolo popolo sia diventato davvero piccolo.
Una smorfia di disgusto passò sulle labbra della creatura d'inverno, subito mascherata da un sorriso di scherno. – Non li hai letti i giornali? Non esiste più alcuna vetta inviolata. Intrusi privi di rispetto si vantano di aver conquistato le nostre antiche terre, e ogni anno nuove orde invadono le cime dei monti più alti. Non c'è pace, lassù, per noi.
La donna infero si piegò verso la più piccola. – E non li hai uccisi? Tu che sei l'incarnazione del freddo, non hai saputo liberarti di loro? Una volta, la ferocia della tua stirpe era leggendaria, ma come ho detto, a quanto pare vi siete ammorbidite, anzi, oserei dire... sciolte.
– Io non uccido! – ribatté la yuki-onna, le parole quasi indistinguibili nello stridore della sua voce. – Io preservo la bellezza.
Con un gesto stizzito indicò dietro di sé. La donna Infero si raddrizzò e lasciò vagare lo sguardo acceso di cremisi su quelle che a prima vista parevano statue incrostate di ghiaccio. Pallidi e freddi, i corpi appartenevano tutti a giovani uomini di bell'aspetto, immortalati nell'atto di fuggire o di abbracciare la figura assente di colei che li aveva traditi, strappando loro in un attimo la vita e il calore.
– Quegli intrusi che sciamano sui monti come formiche su una carcassa, per la maggior parte, sono indegni di essere i miei prescelti – concluse la yuki-onna.
La donna Infero fece spallucce. La sua voce suadente si fece all'improvviso fredda e tagliente. – Non sono qui per spingerti a tornare da dove sei venuta, o meglio, lo sono, ma... dopo che avrai portato a termine ciò che voglio, restare là o tornare a rifugiarti in questo buco è una scelta che non mi riguarda.
– Che cosa ti fa credere che io farò quello che...
La donna Infero zittì la replica dell'altra pronunciando un singolo nome, poche sillabe che avevano il sapore della neve che danza nell'aria e si accumula a terra in una candida fodera di silenzio. L'unica parola che poteva vincolare la yuki-onna all'obbedienza, il suo nome.
La yuki-onna fece uno scatto verso l'altra, le dita mutate in ghiaccioli aguzzi e una selva di zanne tra le labbra spalancate, ma subito dopo quello scatto d'ira chinò la testa e piagnucolò: – Chi te lo ha detto... come lo hai saputo? Il mio nome...
– Non ha importanza – tagliò corto la donna Infero. Si chinò di nuovo e le posò una mano sulla testa. – Ascoltami adesso. Devi andare sulla montagna che ti dirò, e cercare una casupola isolata, tra le nevi perenni, là dove i segugi infernali non possono andare. Vi troverai due esseri umani, due fuggiaschi, un uomo e una donna. Lui è uno degli ultimi sapienti, conosce le parole del potere, i nomi di alcuni Inferi e di creature altrettanto pericolose che potrebbe aver già evocato per tenerle al suo servizio, e i modi per trattenere gli esponenti del piccolo popolo e annullare la loro magia, perciò fai attenzione, non farti abbindolare. Di lui puoi fare quello che vuoi, ucciderlo, preservarlo, non mi interessa.
Un lampo di divertimento dipinse riflessi iridescenti negli occhi della yuki-onna, e le sue zanne si disposero in un ghigno affilato.
– La donna la riconoscerai per il ventre gonfio e la puzza da Infero che le aleggia attorno...
– Ma hai detto che era umana! – protestò la yuki-onna.
– Lei sì – confermò la donna Infero, e ciò che non disse fu altrettanto eloquente. – Devi portarmela intera e senza un graffio. Nemmeno un'ammaccatura al suo corpicino delicato, in nessuna parte di esso.
– Tu vuoi quello che ha dentro – indovinò la yuki-onna. – Ma non vuoi che si sappia che ce l'hai tu.
– Sai, sei quasi troppo intelligente per il tuo stesso bene, fanciulla della neve. Se non avessi il tuo nome, a questo punto saresti già morta.
La yuki-onna sapeva di essere in una posizione di svantaggio, perciò non disse nulla. Ma sapeva anche di essere paziente come il ghiaccio, e sapeva che un giorno, tra mesi, anni, o forse secoli, l'Infero sotto forma di donna si sarebbe pentito amaramente di aver usato il suo nome contro di lei, di averla minacciata nella sua stessa casa, di aver violato l'immacolata perfezione della coltre di neve con le volgari orme dei suoi stivali da meretrice.
Lei, l'incarnazione della neve che danza nell'aria e si accumula a terra in un silenzio ovattato, si sarebbe assicurata di diventare la sua rovina.

lunedì 14 novembre 2022

La prigione organica


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Io potevo pure provare a spiegare l'orrore di quello che avevo visto nel braccio A ai miei compagni e vicini di cella, ma non ero sicuro che loro avrebbero capito la gravità di quel che accadeva qui dentro.
– Nelle pareti in che senso? – chiedevano, già mezzo ridendo e in tono di scherno, e li vedevo che si facevano segno di toccarsi tre volte la sommità della testa, o rigirare un dito alla tempia, o strofinarsi il torso con il rovescio della mano, o qualunque altro gesto fosse l'equivalente presso la cultura del loro specifico pianeta di un silenzioso "ma questo qui è tutto matto!".
Sospirai e appoggiai la schiena alle sbarre della cella, che avevano lo stesso aspetto delle colonne vegetali che avevo visto su un minuscolo pianeta della galassia esterna, o dei denti di un Trinciaossa Hruniano. Brutta bestia, una delle peggiori che mi era capitato di incontrare, e dopo quel che avevo visto nel braccio A, non potevo non considerare che quest'ultima fosse una metafora più appropriata rispetto a un innocuo vegetale.
– Brutti deficienti figli di una meretrice Merakiana – li apostrofai, fissando i miei due compagni di cella, un Mufridiano che somigliava a una grossa lumaca con tre paia di braccia, e un Sualociniano modificato per poter sopravvivere al di fuori di un ambiente acquatico con gambe prostetiche e un polmone artificiale esterno, che i ragazzi si divertivano a bucare un giorno sì e l'altro pure per farsi due risate, prima che le guardie arrivassero a soccorrerlo e a portarlo in infermeria per farlo rattoppare. Era più spesso là in infermeria che qui in cella, e sospettavo da come il polmone gorgogliava al suo ritorno che avesse una mezza storia con l'infermiera Antociana, una bellezza sinuosa che passava più tempo a spupazzarselo con quei suoi graziosi piedini prensili di quanto non ne passasse a ricucirlo. – Pezzi purulenti di tentacoli Adhariani – aggiunsi in tono più alto, per farmi sentire anche dagli occupanti delle celle vicine nonostante il vociare che riempiva il corridoio su cui si affacciavano ben tre piani di celle, ognuna stipata al limite del possibile. Tutte quelle grida e imprecazioni a volte erano insopportabili, e di tanto in tanto avrei preferito un po' di silenzio, per non parlare dell'afrore misto del sudore di almeno cinquantadue specie diverse. – Lo volete capire o no che questo pianeta-prigione non è un pianeta-prigione? Non è come gli altri pianeti-prigione in cui mi hanno rinchiuso, quelli sono tutti uguali, fatti con lo stampo, vi dico, questo no, lo hanno solo mascherato per farlo sembrare come gli altri, ma questo posto è diverso, questo posto... questo posto è vivo.
Era quella l'impressione che avevo avuto nel braccio A, quando avevo visto un liquido vischioso gocciolare dalle pareti come saliva in una enorme bocca, una bocca famelica, e le barre delle celle aperte non come si apre una porta, piuttosto come denti appuntiti che sporgessero sopra e sotto dalle fauci spalancate di una belva, e le lievi sporgenze che affioravano dai muri e dai pavimenti che mi avevano colpito con la loro vaga rassomiglianza a braccia e teste e altre appendici, ma consumate e sbiadite, come se fossero appartenute a statue di fango o d'argilla sciolte da una fitta pioggia. E ovunque un puzzo di morte e putrefazione, un alito denso e nauseabondo, reso ancora più raccapricciante dal fatto che non era stata versata una sola goccia di sangue.
La mia finta fuga era stata interrotta troppo presto dalle guardie che mi avevano raggiunto e bloccato, e non ero stato in grado di recuperare dal braccio A nessuna prova di quel che avevo visto. Così, a mani vuote, era difficile convincere quelle teste bacate a organizzare una rivolta prima che la stessa cosa capitasse anche da noi, senza rivelare loro che io in realtà non ero uno spietato assassino seriale, bensì un investigatore privato mandato qui a indagare sulla capienza apparentemente infinita di questo particolare pianeta-prigione. Questioni di spionaggio da parte della concorrenza, il direttore di un altro pianeta-prigione voleva replicare il segreto di questo posto, ma dopo aver visto il braccio A dubitavo che fosse replicabile, o tantomeno legale farlo. Ad ogni modo, non ero disposto a rinunciare alla mia copertura, non ancora, perciò non aggiunsi altro, e di lì a pochi frais le guardie passarono urlando le solite frasi di rito nelle quattro lingue più diffuse tra gli abitanti involontari del pianeta-prigione, che comunque avremmo capito anche se le avessero pronunciate in Arturiano stretto.
"Coprifuoco, tutti nelle brande, luci spente!"
Il mormorio si smorzò a poco a poco, e io mi ritirai nella mia cuccetta, e l'oscurità calò all'improvviso, come sempre, lasciandomi il respiro gorgogliante del Sualociniano e altri mille gemiti, sibili e sbuffi ritmati come sottofondo mentre riflettevo sul da farsi.

La mattina dopo capii che era già troppo tardi per fomentare una rivolta. Le sbarre della nostra e delle altre celle erano aperte nello stesso modo in cui erano aperte le sbarre nel braccio A, e molti dei detenuti avevano già approfittato dell'inattesa libertà ingombrando il corridoio e le balaustre, scatenando risse e devastando tutta la mobilia che capitava loro sottomano. Mi precipitai alla porta di accesso al nostro braccio e nonostante avessi già visto i ganci ricurvi del sigillo che sporgevano come dita robotiche dalla sottile fessura tra le ante, provai ugualmente con tutta la mia forza a spingere e poi a tirare la porta.
– Nah, non funziona, ci ho già provato io – mi disse con aria annoiata un Terriano appoggiato con la schiena alla parete.
Lo immaginavo. Il sigillo pareva dello stesso tipo che avevo trovato alla porta del braccio A, e dunque, poteva essere aperto senza difficoltà solo dall'esterno. Le guardie ci avevano chiuso dentro, e si erano assicurate che non fuggissimo.
Il Terriano fu il primo. Cercò con un colpo di reni di darsi la spinta per avvicinarsi a me, ma i suoi occhi si sgranarono di sorpresa quando scoprì di non potersi staccare. Imprecò e appoggiò le mani indietro per fare forza contro il muro, ma invece di migliorare la situazione, le mani rimasero incollate come la schiena.
– Aiutatemi, non statevene lì impalati! – sbottò il Terriano contro di me e altri due detenuti che si erano messi a ridere della sia disavventura. Le sue mani sprofondarono nella parete, e più si agitava, più vi affondava dentro, come se all'improvviso il muro si fosse mutato in una pozza di sabbie mobili verticali.
Altre grida si levarono da più parti, confermandomi che altri malcapitati erano finiti intrappolati nel pavimento o nelle pareti. Non stava andando meglio a quelli che avevano compreso che il mio racconto si stava realizzando e per tentare di salvarsi si erano rifugiati nelle loro cuccette: come enormi lingue, i materassi si erano sollevati, schiacciandoli contro la cuccetta di sopra o contro la parete che inesorabilmente li stava inglobando. Dalle pareti prese a colare il liquido denso che avevo già notato altrove, e scivolando sui corpi intrappolati li digeriva lentamente.
Era come trovarsi intrappolati in una enorme pianta carnivora, o nello stomaco di una immensa bestia. Forse era proprio questo il pianeta: una bestia dagli innumerevoli stomaci, che digerivano quel che vi finiva dentro a turno, uno dopo l'altro. Una volta terminato nello "stomaco" del braccio A toccava al nostro, e le guardie, che conoscevano bene i ritmi della creatura, ne stavano approfittando per liberare spazio.
Nei giorni successivi, nel corridoio e tra le pareti delle celle, fu tutto un susseguirsi di urla e di gemiti disperati, che si spensero a poco a poco. Solo io non venni toccato, forse a causa della composizione metallica della mia epidermide la creatura mi aveva scambiato per un androide indigesto. Io e il Sualociniano dalle gambe prostetiche, almeno finché riuscì a restare in piedi senza dormire.
Quando non ne è più stato in grado, e si è svegliato con un braccio e la schiena intrappolati nel pavimento, ha urlato a squarciagola per svariati frais con la sua vocetta stridula prima di risolversi a usare l'altro braccio per strapparsi i punti dell'ultima volta che l'infermiera Antociana gli aveva ricucito il polmone artificiale, e darsi così una morte più rapida rispetto all'agonia della lenta digestione della creatura.
Da allora sono rimasto solo. Sto consumando con parsimonia il cibo che avevo trafugato dalla mensa e nascosto, prevedendo di poterlo usare per assicurarmi l'aiuto dei detenuti più ostici da convincere con le sole parole. La mia specie può anche rimanere a digiuno per un periodo di tempo prolungato, al prezzo della perdita di una parte della massa muscolare. Dopo un po', all'eco rombante di questi spazi vuoti, all'odore di morte che appesta l'aria, ai raccapriccianti resti dei miei compagni che sporgono ogni giorno un po' di meno dalle pareti e dal pavimento mi ci sono un po' abituato, ma non so per quanto ancora dovrò resistere. Non so quando le guardie si decideranno a riaprire quella porta.
Quello che so è che quando lo faranno, per la prima volta da quando hanno messo in piedi questo conveniente sistema, si ritroveranno a fare i conti con una gran brutta sorpresa, e con uno stramaledetto problema.

sabato 12 novembre 2022

Volitivo

Volitivo [vo-li-tì-vo] agg., s. 1. agg. Relativo alla volontà. 2. agg. Che ha o esprime grande forza di volontà; deciso, determinato. 3. agg. gramm. Che esprime un ordine o un'esortazione. 4. s.m. (f. -va) Persona molto risoluta ed energica.

Etimologia: dal latino medievale volitivus, derivato dal tema di volo, "io voglio", presente del verbo latino velle, "volere".


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Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


Un mago, da che mondo è mondo, è per sua stessa natura volitivo. Non può essere altrimenti, dato che la magia è l'imposizione della propria volontà nel tessuto del reale. Perciò, quando la più giovane delle sette sorelle iniziò a mostrare i segni di un talento che superava quello di tutte le altre sommato assieme, le maggiori ne furono alquanto sorprese.
Alcyone non era una persona ferma di pensiero e capace di grande concentrazione. Al contrario, la fanciulla era sempre stata snobbata dalle sorelle per la sua facilità alla distrazione e la mobilità delle sue passioni, tanto volatili quanto il moto dei suoi occhi. Sapeva, sì, fissarsi con tutta sé stessa su qualcosa, ma fintanto che qualcos'altro non le faceva distogliere gli occhi e l'acchiappava in una nuova e altrettanto effimera ossessione.
Dunque le sue sorelle non credevano possibile che, tra tutti i talenti magici, Alcyone potesse sviluppare proprio quello della trasformazione. Vedi, la magia non è soltanto un agitarsi di mani o di bacchetta e la pronuncia corretta di una certa formula magica. La magia è impuntarsi su ciò che si desidera accada finché non accade, o se deve proseguire nel tempo, fintanto che si vuole che continui ad accadere. A meno che non sia nella natura delle cose che ciò che la magia ha avviato continui da solo. Per accendere la fiamma di una candela, un mago deve concentrarsi finché lo stoppino non inizia a bruciare, dopodiché il gioco è fatto e la fiamma va avanti da sé. Un mago trasformista, invece, per mantenere una forma che non è la sua, dovrà dedicare un angolo della mente alla memoria di quella forma, o rischierà di ritornare al suo stato naturale all'istante. Per questo, nella gerarchia dei maghi, un trasformista è il più volitivo di tutti.
Immagina dunque lo sconcerto e l'invidia delle sorelle quando alla minore, indegna perfino di dileggiarsi con semplici pozioni, riuscì anche se per pochi istanti alla volta ciò che era considerato in magia l'incantesimo più difficile di tutti.

giovedì 10 novembre 2022

Che c'è sotto la Città dei Felici


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Foto di Francesco Ungaro da Pexels


Non era solo una mia sensazione. C'era qualcosa di tremendamente sbagliato in quel posto.
Lo dicevo io che se era troppo bello per essere vero, allora non era vero.
Avevo lasciato Hilo in una delle stanze del riposo e me n'ero andata furtivamente, alla ricerca di una prova che convincesse quel cocciuto ragazzino che non potevamo stare qui. Non era sicuro per noi, forse non era sicuro per nessuno.
Qui la gente si comportava in modi troppo strani.
Nella Città dei Felici non era mai notte. Sulle rotaie senza meta i vagoni continuavano a vagare sferragliando, e la gente che vi saliva, anche se era di meno rispetto al giorno, continuava a urlare a ogni discesa a capofitto e a ogni giro vorticoso delle rotaie piegate su loro stesse. Lungo le strade illuminate da file di lanterne le sfilate di gente conciata in modi assurdi, o di quei pupazzi meccanici che chiamavano sostituti, proseguivano imperterrite, e dalle sale del cibo provenivano ancora aromi deliziosi che mi facevano salivare la bocca e brontolare la pancia, anche se ero sicura di avere mangiato a sazietà appena qualche ora prima. Da sotto il tendone che il Custode chiamava Teatro una musichetta allegra richiamava chi era ancora sveglio, inducendolo ad agitare in modo scomposto gambe e braccia.
Io volevo vedere che cosa c'era sotto. Non sotto al tendone, quello lo avevo già visto, e la falsità di quella recita mi aveva indignato. Volevo scoprire che cosa si nascondeva sotto la Città, perciò, quando trovai in un angolo dietro al capanno di manutenzione una botola, e sotto alla botola una scaletta che scendeva, capii che quella era la via che portava alle risposte che cercavo.
Anche perché nel pomeriggio il Custode aveva cercato di sviare la mia attenzione da quel capanno, dopo avermi mostrato che dentro c'erano solo pezzi di sostituti rotti, pannelli decorativi scoloriti, rotaie arrugginite e altre inutili cianfrusaglie. Era stato ben attento a non lasciarmi scoprire la botola dietro al capanno, perciò ai miei occhi era evidente che il Custode sapeva che cosa non avrei dovuto scoprire della Città dei Felici.
Scesi in un corridoio di metallo risuonante d'echi. Era un rumore inquietante, minaccioso, come un respiro rantolante di qualcuno in agguato nel buio. In quel momento avrei tanto voluto avere con me un bastone, una spranga, qualcosa con cui difendermi all'occorrenza.
Mi aspettavo il peggio, ma il peggio si palesò in un modo che non mi sarei mai aspettata.
In fondo al corridoio, una porta di metallo. Qualcosa di assurdo nella Città dei Felici, dato che sopra la strada di porte non ce n'era nemmeno una, al massimo un tendaggio appeso sulla soglia per separare gli ambienti. Ma quella porta era lì, era solida, resistente, e aveva una finestrella di vetro posta troppo in alto per permettermi di vedere qualcosa di più di un soffitto di metallo, a malapena rischiarato, come il corridoio appena percorso, dalle lampade piatte e senza fuoco che si trovavano ovunque in quella città.
Aprii la porta, e il respiro ansante e minaccioso si moltiplicò in innumerevoli voci. C'era chi piangeva. Chi gridava frasi senza senso, chi ripeteva in continuazione una sola parola, chi tossiva fino a togliersi il respiro, chi gemeva e supplicava e e strillava a pieni polmoni. Ma la cosa più inquietante, più dei versi di bambino piccolo pronunciati con la voce di un adulto, erano le risate. Risate vuote, insensate, folli, accompagnate da quelli che supposi essere colpi contro le pareti di metallo.
Di fronte a me si allungava un corridoio vuoto, più largo e alto di quello che avevo percorso in precedenza, e su ogni lato del corridoio, una fila di porte. Da quelle porte provenivano tutte le voci.
Percorsi il corridoio con passo leggero, cercando di non attirare l'attenzione degli occupanti delle stanze. Per la prima volta dopo tanto tempo, ero di nuovo spaventata da quello che un adulto avrebbe potuto farmi. Quegli uomini e quelle donne sembravano peggio di Karol, peggio di qualunque persona cattiva io e Hilo avessimo mai incontrato.
Mi venne in mente, per un solo istante, che forse la Città dei Felici, senza mura di protezione e senza guardie armate a difendere le sue scorte apparentemente infinite di cibo, si difendeva in questo modo dai banditi che volevano depredarla. Forse venivano rinchiusi qui non appena venivano individuati, prima che potessero far danni. Ma anche questo era troppo bello per essere vero.
Sentii un grido, più vicino degli altri, e all'improvviso un volto di donna, pallido e scarmigliato, apparve nella finestrella sulla porta alla mia sinistra. Aveva gli occhi infossati e rossi, e un'espressione assente che si animò all'improvviso quando mi vide nel corridoio, fuori dalla sua stanza.
– Ehi tu! – urlò di nuovo, e poi bisbigliò, tanto che mi fu difficile capire tutto quello che diceva tra i piagnistei e le grida degli altri, ma il suo discorso era qualcosa tipo: – Non sei uno di loro, vero? Tu sei normale, sei ancora una persona, sei una vera persona... fammi uscire! Apri la porta, aprila, ti darò tutto quello che vuoi, scappiamo insieme, va bene? Scappiamo insieme, ragazzina, fa' la brava, bambina bella, ti prego fammi uscire, fammi uscire, fammi uscire o ti ammazzo!
Mi ritrassi da quella porta, ma la sua voce attirò altri volti alle finestrelle, e altre voci si unirono con suppliche e minacce, o soltanto con pianti, risate e ululati.
All'estremità opposta del corridoio un clangore metallico mi disse che un'altra porta si stava aprendo. Mi guardai attorno, ma non c'era luogo dove potessi nascondermi... a parte uno. Una delle porte, più avanti, era socchiusa, e nessun volto si affacciava dalla finestrella.
Mi rifugiai in quell'angusta stanza, che non conteneva nulla più di un letto, un angolo adibito a latrina e un quadro alla parete che raffigurava una delle rotaie senza meta che avevo visto di sopra, nella Città dei Felici. Chiusi la porta appena in tempo, e sbirciai dalla finestrella.
Tre dei sostituti, uno più piccolo e due massicci ai suoi fianchi, leggermente indietro, marciavano lungo il corridoio. Si fermarono di fronte alla porta della donna che per prima mi aveva parlato.
Immaginai che la stessero interrogando, poiché vedevo la bocca del sostituto più piccolo muoversi, anche se il Custode mi aveva spiegato che non ne avevano bisogno per emettere la loro voce meccanica. A un certo punto, sentii la donna esplodere in una fragorosa risata, che subito mutò in un pianto disperato.
In tono nitido, il sostituto più piccolo sentenziò: – Irrecuperabile.
Allora gli altri due aprirono la porta e agguantarono la donna che si dibatté come una forsennata, ma non poteva nulla nella stretta delle mani metalliche dei due pupazzi, pallide imitazioni di un essere umano, ma molto più forti. La trascinarono via, e mentre passava oltre la mia porta la sentii protestare: – Posso ancora divertirmi! Mi sto divertendo, guardatemi, voglio andare su una rotaia senza meta, voglio fare una sfilata vestita da pesce palla, ah-ah, che divertimento, sono felice di nuovo, vi prego, non sono irrecuperabile, no, no, no...
Il sostituto più piccolo, che si era scansato quasi con ribrezzo quando gli altri due l'avevano tirata fuori dalla prigione, si mise in marcia dietro al rumoroso terzetto, che evocava al suo passaggio latrati e vane risate dimostrative dalle altre porte, nel chiaro intento di non attirare sui loro occupanti la stessa sorte della donna, qualunque essa fosse.
Quando passò oltre la porta dietro a cui stavo nascosta, il sostituto più piccolo girò di scatto la testa. Mi abbassai con un ansito trattenuto a stento. Un lieve sibilo provenne dalla porta, come il ronzio di un insetto, e quando provai a spingerla, scoprii con orrore che era bloccata.
Mi alzai per guardare oltre la finestrella. Il sostituto era di fronte alla porta, vicinissimo.
– Lamentele ripetute – disse la sua voce metallica. – Disturbo di uno spettacolo in pubblico. Rifiuto di partecipare a qualsivoglia attività ricreativa. Minacce di abbandonare la Città dei Felici, e di allontanare da essa qualcuno che invece si sta divertendo.
Si riferiva a Hilo, il mio sciocco fratellino, che non aveva intuito quanto questo posto fosse pericoloso.
– Da quando sei qui, non hai mai riso – proseguì il sostituto. I suoi occhi luminosi mi fissavano senza alcun battito di palpebre. – Ma puoi gioire, perché da oggi inizia il tuo recupero. Quando uscirai da qui, sarai in grado di ridere e divertirti di nuovo, e non vorrai mai più lasciare la nostra perfetta Città dei Felici.
Il sostituto si girò e se ne andò, e sulla parete l'immagine nel quadro si mosse, e ne uscirono voci, risate e quegli inquietanti urletti gioiosi quando i vagoni si lanciavano a tutta velocità in una discesa che avrebbe riportato i passeggeri, alla fine di numerose svolte e saliscendi, di nuovo al punto di partenza.
Dalla parete dietro al letto giunse un'altra voce, rassegnata e monotona. – Mente.
Avvicinai un orecchio alla parete per udire meglio, cercando di ignorare le immagini e le voci del quadro animato.
– Non c'è mai stato nessuno che sia uscito di qui dopo essere stato dichiarato "recuperato" – mi rivelò il mio compagno di prigionia. –  Solo gli irrecuperabili se ne vanno, poveretti, e non credo che facciano molta strada. Nessuno, in tutti gli anni che sono stato rinchiuso qui. E sono tanti, credimi, sono qui da più di chiunque altro. Una volta, io ero uno dei Custodi, e questo posto era molto, molto diverso.

lunedì 7 novembre 2022

Noi siamo i buoni?


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Non aveva voluto dirmi il suo nome. Pensavo che me lo dovesse, dal momento che ero andato lì per salvarla, anche se alla fine era stata lei a salvare me. Disse che avrei dovuto accontentarmi di conoscerla come "La Sentinella".
– Si può sapere che razza di follia ti ha convinto a correre incontro a un ciclope?
All'agitarsi delle sue braccia, al suo mormorio in quella che pareva una lingua straniera, le tracce del mostro bruciato svanivano e le crepe nelle colonne della Stazione Centrale si riempivano di una materia brillante, liquida, che infine si solidificava e si scuriva, riparando il danno.
Le confessai con una punta di vergogna il mio sogno, e come lo avessi male interpretato, ma invece di deridermi, lei mi guardò con rinnovato rispetto.
– Tu sei il Sognatore. Ti stavamo aspettando. Vieni con me, devi incontrare il Sapiente.

Dai nomi che si davano, immaginavo di doverla seguire in qualche antro oscuro fuori città, e invece lei parcheggiò l'auto nei pressi dell'aeroporto.
– Più lontano di quanto mi aspettassi, questo Sapiente – commentai in tono blando. Il viavai di gente che ci incrociava, ci superava, ci seguiva nelle ampie sale colme d'echi dell'aeroporto mi rendeva nervoso, forse perché era troppo fresca nella mia memoria la fuga della folla alla Stazione Centrale, quando era apparso il mostro.
La donna che mi precedeva fermò le sue ampie falcate accanto a una fila di sedie nella sala d'attesa.
– È qui.
Seguii il suo sguardo verso un fagotto di cenci neri, che pareva la coperta di un vagabondo addormentato sulle sedie.
– Alzati, Sapiente. Ti ho portato il Sognatore.
La coltre si mosse, e da essa emerse un uomo dai lunghi capelli e i folti baffi neri.

– Ah. Gli spiriti ci hanno detto che saresti arrivato.
Il suo sguardo magnetico mi inchiodò sul posto. Il Sapiente, abbigliato in una lunga tunica nera, agitò un bastone adorno di stoffe aggrovigliate e file di perline, e mormorò una melodia sottovoce. Era una visione così bizzarra tra le pareti lucide e le vetrate della sala d'attesa, eppure nessuno dei passeggeri che si trascinavano dietro i trolley richiamati dalla voce distorta che annunciava i voli in partenza dal soffitto sembrava fare caso a noi. Lo chiesi alla donna, la Sentinella.
– Non ci vedono, se non vogliamo essere visti.
La faccenda era sempre più bizzarra.
– Sì, ma perché proprio un aeroporto?
Questa volta fu il Sapiente a rispondermi, interrompendo la cantilena.
– Gli spiriti si affollano nei crocevia. E questo è il più grande di tutti.
Riprese ad agitare il bastone, facendo schioccare le catenelle di perline nella mia direzione. Il suo modo di porsi, di adocchiarmi come un lupo famelico aveva qualcosa di sinistro, che mi ricordò un sacerdote vudù.
Da qualche parte un bambino si mise a piangere e a strillare in modo insistente, fastidioso. Lo cercai con gli occhi mentre il Sapiente inframmezzava la sua melodia di sì ripetuti, e affermava infine: – Gli spiriti hanno parlato. Lui è il Sognatore. Il suo potere ci serve.

Che alcuni dei miei sogni si avveravano lo avevo sempre saputo, ma di avere un posto per questo motivo in una specie di società segreta che combatteva creature mostruose e usava ridicoli soprannomi che iniziavano tutti con la lettera esse, non l'avrei mai immaginato. Proprio come non immaginavo, nel ricaricare la pistola in auto lungo il tragitto fin qui, che l'avrei usata così presto.
Avevo appena individuato il moccioso urlante quando sentii le parole del Sapiente.
– Noi interroghiamo gli spiriti, li preghiamo che ci parlino dei mostri, ma essi non sempre rispondono. Il tuo potere, invece, non dipende dai capricci di nessuno. Avere tutte le risposte, solo dormendo...
Volevo spiegargli che non era così semplice, ma la voce metallica che annunciava un volo in ritardo mi distrasse. Non lo vidi venire verso di me con un coltello in mano e il bastone alzato.
– Noi lo vogliamo!
Allarmato dal suo grido, indietreggiai, estrassi la pistola e sparai.
Le persone che affollavano la sala d'attesa non batterono ciglio al rumore dello sparo, né alla vista del corpo del Sapiente che crollava a terra. Non interruppero nemmeno le conversazioni, il chiacchiericcio proseguì monotono, sovrastato a tratti dagli annunci degli altoparlanti. Solo il bambino smise di piangere, e a quella benedizione il mio sollievo fu enorme.
Era vero che non ci vedevano.
La Sentinella si mosse verso il mucchio di cenci che era stato il Sapiente e pronunciò la formula e mosse le mani per consumare con fiamme fredde il suo corpo così come aveva aveva fatto con i resti del mostro. Non una parola sul suo compagno caduto.
– Ora sei tu la mia guida, Sognatore. Devi avvisarmi quando vedi uno di loro, dirmi dove attaccherà il mostro.
Era stato facile, immediato per lei sostituirlo con me nei suoi piani.
Quanto a me, era stato fin troppo semplice ucciderlo, e non provavo rimorso. La missione di cui la Sentinella mi stava mettendo al corrente sembrava guidata da nobili intenti, ma l'indifferenza che provavo per la morte del Sapiente, il suo attacco allo scopo di appropriarsi del mio dono, e l'impassibilità della Sentinella che con tutti i suoi poteri non era intervenuta a fermarci, mi riempivano di dubbi.
– Ho una sola domanda – le dissi infine, arrendendomi al compito che avevo ereditato. – Noi siamo i buoni?

sabato 5 novembre 2022

Eremo

Eremo [è-re-mo] lett. ermo s.m. 1. Luogo solitario dove si ritirano gli eremiti; convento dei monaci camaldolesi. 2. estens. Dimora tranquilla e isolata, stanza appartata in cui si può rimanere soli.

Etimologia: dal tardo latino erēmus, a sua volta derivato dal greco érēmos, "solitario, deserto".



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Dettaglio da una foto di Manuel Torres Garcia da Pexels


La casa della Fratellanza, ai margini del centro cittadino, non poteva essere definita propriamente un eremo; tuttavia, per come la gente di città la evitava, per come cercava di ignorare i suoi abitanti le rare volte che uscivano, per come fingeva che nemmeno esistesse, la casa della Fratellanza poteva benissimo essere situata in cima a una montagna.
A me era stato insegnato di non badare a loro, di non degnare di un'occhiata quei folli che credevano a una fantasia e veneravano gli alberi come se fossero Dei. Per la mia famiglia, gli alberi erano servi, e valevano fin tanto che potevano dare un raccolto abbondante, dopodiché erano buoni solo come legna da ardere.
Mio padre, mia madre, i miei fratelli e sorelle non sapevano che fossi più simile a quei folli di quanto io stesso volessi ammettere. C'era un ulivo nel campo della mia famiglia che per me era speciale, diverso dagli altri. Sentivo il calore del sole due volte su di me quando gli passavo accanto, e se lo toccavo, era come toccare la mia stessa pelle. Erano sensazioni bizzarre che io cercai con ogni mezzo di allontanare da me, ma invano.
Non ne parlai e proseguii la mia vita come sembrava dovesse essere. Mi fidanzai con una ragazza di campagna. Ma quando passavamo in fretta oltre la casa della Fratellanza, io la guardavo cercando di indovinare come si vivesse all'interno di quelle mura.
Non dirò di come difesi il mio ulivo dalla scure di mio padre. Fu doloroso, in ogni senso possibile, dire addio alla mia vecchia vita. Di fronte alla casa della Fratellanza dissi addio anche a lei, la mia promessa sposa, che mi era rimasta accanto a dispetto delle mie stranezze.
– Ma è una setta, Castai! – protestò. – Non dirmi che vuoi andarti a chiudere in quell'eremo, gettare la chiave e non uscirne mai più!
Non era ciò che volevo fare. Ma non sapevo chi ero, avevo bisogno di capire e loro mi potevano aiutare. Non riuscii a spiegarglielo, la lasciai soltanto indietro, e questo è uno dei miei più grandi rimpianti.

giovedì 3 novembre 2022

Missione nel deserto


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Qualcuno mi urtò la schiena e tutt'a un tratto fui acutamente consapevole delle urla, delle risate, delle porte che sbattevano, dei ragazzi che andavano e venivano lungo il corridoio della scuola spintonandosi e facendo un casino della malora. Imprecai sottovoce, ferma in piedi in mezzo a loro. Non ero più dove dovevo essere, e in questo corpo avevo fame, essendo ormai quasi ora di pranzo. Era venerdì, e al contrario di quelli che ancora si aggiravano per i corridoi io non avevo attività pomeridiane o programmi per il fine settimana da discutere con i compagni di classe, quindi in teoria avrei dovuto camminare in modo automatico fino alla fermata dell'autobus, salire quando fosse passato, e lasciare che mi portasse fino a casa mentre ero immersa in un piacevole oblio, e impegnata a fare tutt'altro su Essensis. Non sapevo come fosse per le persone normali, avevo sentito dire qualche volta che poteva accadere anche a loro di fare qualcosa senza poi ricordarsi di averlo fatto, soprattutto se era qualcosa che facevano di continuo. Per me, che ero una duevite, questa sorta di pilota automatico era fondamentale, ma ancora lo stavo affinando in situazioni che potevano distrarmi così tanto come quel corridoio affollato. Era stato facile ignorarla prima, ma ora che la sentivo, tutta quella confusione, le voci che si sovrapponevano una sull'altra, le grida di chi voleva farsi sentire da un compagno che si era allontanato, le proteste per gli spintoni, e quelle dannate porte che nessuno chiudeva mai con un minimo di delicatezza, non riuscivo più a relegarle in un angolo della mia mente, e più le sentivo e più mi irritavano, e avrei tanto voluto prendere tutto il fiato che riuscivo a inspirare e poi urlare, più forte che potevo, sopra le voci di tutti: silenziooo!
Ma ero troppo timida per poterlo fare. Il mio mantra, in questa vita, era "non attirare l'attenzione".
La forte stretta di Hashum il Lupo sulla mia spalla mi strappò al corridoio affollato e mi riportò alle dune del Deserto Sordo di Essensis, e allora la caciara dei ragazzi nei corridoi di una scuola dell'altra vita divenne solo un lieve sottofondo nel retro della mia mente.
– Concentrati, Testablu.
Sbrigativo come al solito, gli era bastata un'occhiata per accorgersi che avevo perso la presa su questo mondo, e un gesto per restituirmi ad esso. Riprese poi a parlare con l'altro Bollatore, Ruras il Nomade se avevo capito bene il suo nome, che era l'esperto di catture nel deserto. Il suo apprendista, Kranio, un soprannome senza dubbio, era un ragazzo poco più grande di me, che mi lanciava occhiate beffarde.
Così mi sembrò, ma quando riprendemmo ad arrancare nella sabbia in direzione delle caverne dove con tutta probabilità si era rifugiato il nostro obiettivo, il terribile Sicario del Sud, Kranio mi affiancò e mi disse: – Io mi chiudo in bagno.
– Cosa? – mormorai, spiazzata da quell'affermazione.
– Nella mia scuola, in fondo, al piano terra, c'è un bagno che si può chiudere dall'interno. Mi metto là quando ho bisogno di isolarmi dal mondo, sai, per restare... – Il mormorio si smorzò nel silenzio strascicato dei nostri passi. – Quando ho finito, se è ora di andare a casa esco dalla finestra, così non do nell'occhio. È una finestra rotta, e nessuno ci fa caso se resta aperta.
Gli rivolsi un mormorio d'assenso. Io non avevo un posto del genere, e nemmeno lo volevo, quel che intendevo fare era diventare più brava nel mantenere la presa su un mondo o sull'altro a seconda delle circostanze, e a dispetto delle distrazioni.
Il mormorio nella mia testa si era affievolito quando raggiungemmo l'imboccatura delle caverne, segno che almeno dall'altra parte mi ero messa in cammino verso la fermata dell'autobus, quando da questa mi ero mossa attraverso il deserto. Non osai provare a dare un'occhiata, per paura di attirarmi un rimprovero da parte di Hashum e di Ruras, o ancora peggio di distrarmi proprio adesso che eravamo in vista dell'obiettivo.
Ruras diceva di essere certo che il Sicario si fosse rifugiato nelle caverne, quindi accendemmo una torcia fosforica ed entrammo. Esplorammo per bene quel labirinto di cunicoli, senza trovare traccia di chi stavamo cercando. O meglio, tracce che qualcuno fosse stato di recente nelle caverne ce n'erano, ma non potevamo essere certi che si trattasse del Sicario.
Almeno, finché il Sicario non ci attaccò.
Sbucò senza preavviso da una diramazione che avevamo già esplorato e si avventò su Kranio roteando una mazza ferrata. I lunghi chiodi di quell'arma rudimentale si conficcarono nella testa dell'apprendista, che fu sbattuta contro la dura roccia della caverna. Vicinissima a lui, lo vidi afflosciarsi e non potei fare nulla.
Quella fu la prima volta che vidi qualcuno morire durante una missione dei Bollatori. Sapevo che poteva accadere, era parte del mestiere, ma vederlo rese tutto all'improvviso molto più reale, e io mi bloccai. L'altro mondo, quello in cui ero al sicuro, quello in cui un autobus affollato fino all'inverosimile e vociante di ragazzi mi trasportava a casa era una tentazione troppo grande per non considerarla, e per un istante lo feci, ma poi mi ricordai che non potevo mollare alla prima difficoltà.
Ruras il Nomade nel frattempo aveva usato una pistola stordente sul Sicario del Sud, e Hashum il Lupo gli teneva bloccate le braccia mentre recitava i capi d'accusa e la sua condanna prima di imporgli il marchio che lo avrebbe rinchiuso in un bollo, una prigione delle dimensioni di un minuscolo quadratino di carta.
Quando tutto fu fatto, Ruras si avvicinò e rivolse uno sguardo pietoso a ciò che restava del suo apprendista.
– Tutto bene? – mi chiese, e anche se una risposta sincera non sarebbe stata quella, gli dissi di sì.
Mi ero consolata pensando che almeno a Kranio restava tutta un'altra vita da vivere, anche se non sarebbe mai diventato un bollatore. Ma la settimana dopo la notizia fece il giro di tutte le scuole, e per quanto lontana, arrivò anche nella nostra.
Da qualche parte, non sapevo bene dove perché a chiedere in giro tutti parlavano di una città e a volte anche di una nazione diversa, era stato ritrovato un ragazzo chiuso in bagno dopo l'orario scolastico. La porta non si apriva e quando erano entrati dalla finestra rotta, lo avevano trovato sul pavimento del bagno, in coma. Le voci dicevano che si fosse chiuso lì per drogarsi, che lo avesse già fatto in passato e che stavolta ci era rimasto, ma io sapevo la verità. Troppi dettagli che coincidevano per definirla una coincidenza. Quel ragazzo in coma io lo avevo conosciuto in un altra vita, in un altro mondo, con il nome di Kranio.
Quello che gli era successo mi rivelò che la posta in gioco era ancora più alta di quanto avessi supposto, perché se fossi morta in una delle mie due vite, non avrei avuto una seconda chance. Ma non mi fermò dal diventare un Bollatore e dal fare quello che feci.