giovedì 29 settembre 2022

Due pistole all'ora del tè


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Foto di cottonbro da Pexels


Agnes posò le tazzine ricolme di un nettare bollente sul tavolo a specchio con un tintinnio di ceramica che suonò come musica alle mie orecchie, poi si congedò e spinse il carrello portavivande verso l'ingresso, portando via con sé le bustine di tè ormai zuppe che avevo personalmente preparato per l'occasione. Prima di uscire e chiudere la porta, avviò con un tocco delle dita sottili l'impianto sonoro, che subito diffuse una musica d'ambiente dalla melodia lenta e rilassante. Era un tiepido meriggio d'inizio autunno, la giornata perfetta per prendere il tè sulla veranda, accanto alle grandi finestre che davano sul giardino.
I miei ospiti, diversamente da me, sembravano tesi, niente affatto dell'umore appropriato per godere del momento conviviale che stavo offrendo loro. Non potevo del tutto biasimarli.
In fondo, li avevo invitati con l'inganno.
Conoscevo il conte di Roccatetra e il marchese di Portotempesta da una vita, ed ero amica di entrambi. Tempo addietro, però, uno sgarbo commesso in gioventù che probabilmente nessuno dei due ricordava aveva scatenato il reciproco odio, e a quello sgarbo ne erano seguiti altri, sempre più gravi, da ambo le parti, fino a renderli quel che erano diventati in tempi odierni, ovvero acerrimi nemici. Ormai tutti sapevano che non li si poteva avere nella stessa stanza senza rovinare una riunione, una cena, una festa. Invitare solo uno avrebbe provocato il risentimento dell'altro, perciò, salvo gli amici più stretti, per non offendere alcuno dei due ed evitare problemi l'alta società li aveva del tutto esclusi dagli eventi di gala. Sarebbe parso sospetto a entrambi se fosse arrivata presso di loro una lettera ufficiale con l'invito a un gran ballo.
Una richiesta personale da parte mia per un incontro privato invece sembrava del tutto normale e priva di rischi, soprattutto perché a entrambi avevo assicurato di aver intenzione di preparare il tè soltanto per due. Non ero stata del tutto disonesta, in fondo, le due tazzine di tè, i pasticcini glassati, le fette di dolce al cioccolato, i panini al latte, lo zucchero, il miele, i due cucchiaini, le due forchettine e le due pistole posate accanto a queste ultime come se fossero parte del servizio d'argenteria erano tutte per loro.
Avevano protestato, all'inizio, il conte di Roccatetra e il marchese di Portotempesta quando si erano trovati uno di fronte all'altro nella veranda, ma dopo qualche rimostranza ero riuscita a farli sedere ai lati opposti del tavolino tondo dalla superficie luccicante, e questa la consideravo già una vittoria.
Quando sedetti anch'io tra loro, di fronte alla vetrata e senza alcuna tazzina davanti, i due alternavano sguardi in cagnesco a occhiate diffidenti ma bramose alle pistole.
– Potete usarle, signori, ma a vostro rischio e pericolo – la mia voce sommessa tra le note morbide del pianoforte attirò la loro attenzione. – Ho chiesto al maggiordomo di caricarle casualmente a mia insaputa. In ciascuna delle due può esserci un proiettile, tutti, o nessuno. Non so voi, ma io non vorrei essere nei panni dello sventurato che scopre nel peggiore dei modi di avere dalla sua una pistola scarica.
– Che cosa significa tutto questo, Miranda? – interloquì il marchese, mentre il conte si limitò ad aggrottare le sopracciglia.
– Questa storia è andata avanti troppo a lungo. Vi ho invitati qui per parlare, per risolvere la vostra disputa una volta per tutte, in un modo o nell'altro – rivelai in tono severo, con un accenno alle pistole. – E per bere il tè, naturalmente. È una così bella giornata, non trovate?
Il conte sbuffò. – Se pensate che io possa perdonare quell'infame, dopo quello che mi ha fatto...
– Quello che gli ho fatto? Ma l'avete sentito? – Il marchese fremette d'indignazione, afferrando una ciambellina dalla glassa azzurra. – Ma se è stato lui a cominciare!
– Menzogna! – tuonò il conte. Fissava me, parlava a me, ma agitava verso il rivale il cucchiaino colmo di miele. – Onestamente non riesco a capire come possiate essere amica di un bugiardo della peggior specie, di quel manigoldo di un furfante...
– Per l'amor del cielo! Miranda, amica mia, ditegli di andarci piano con le offese o sarò costretto a fargli rimangiare le sue parole con il piombo!
– Amica mia! – rimarcò il conte, come a voler sottolineare la sua priorità nei miei affetti. – Comprendo i vostri nobili intenti, ma vi prego di cacciare colui che è di troppo a questo tavolo, perché così non può funzionare.
Il marchese tuffò un biscottino nel tè. – Appunto, mio malgrado devo dare ragione a quell'individuo sgradevole e insolente e pregarvi di liberarci della sua presenza.
Il battibecco proseguì su questi toni, tra urla, minacce, insulti per svariati minuti, mentre il profumo del tè che si andava raffreddando riempiva la veranda di un dolce effluvio. Io sbirciavo le tazzine, ma sapevo che non era destinato a me. Ogni tanto li esortavo a berlo finché era ancora tiepido, e loro obbedivano in modo meccanico, trangugiando un sorsetto senza nemmeno gustarlo.
A volte lo sguardo del conte di Roccatetra o quello del marchese di Portotempesta correva alla pistola a portata di mano, ma nessuno dei due fece mai il gesto di prenderla e puntarla all'odiato avversario. In fondo, avevo sempre saputo che non era così che sarebbe finita.
Il primo fu il conte, che nel bel mezzo di un'arringa sulla supposta malvagità del marchese si portò le mani allo stomaco, fece una smorfia e mormorò: – Miranda... non mi sento molto bene.
Il marchese, che sudava copiosamente e già da un po' si sventolava con il tovagliolo, alzò gli occhi dal piattino del dolce e disse: – In effetti fa molto caldo qui... non si potrebbe chiamare Agnes per aprire una finestra?
Scossi la testa, posai le mani sul tavolo e mi alzai. – Signori, state calmi, è tutto normale. Ho avvelenato i vostri tè.
Sguardi di panico da parte di conte e marchese, di fronte ai quali rimasi impassibile e sorridente. Riuscivo a immaginare a cosa stavano pensando. Dopo l'incredulità, "ma come può la mia amica Miranda farmi questo?", veniva il rifiuto, "è uno scherzo!", e infine la paura, "aah, aiuto, non voglio morire!".
Il tovagliolo cadde di mano al marchese e il conte si mise a singhiozzare e a pregarmi sottovoce.
Risposi alle sue preghiere con la stessa alterigia ieratica di una dea. – Non ho con me nessun antidoto. Io non posso salvarvi. Ma voi potete farlo – indicai le tazzine in cui restavano ancora due dita di tè. – Ho preparato le bustine in modo che ciascuna delle due contenesse un veleno diverso, assieme a una parte degli ingredienti per neutralizzare l'uno e l'altro. Solo combinati, ciò che resta dei vostri tè può salvarvi. Come vi comporterete e chi vivrà dipende solo da voi.
Avevo in mente diversi scenari, ma come sempre accade, la realtà supera di gran lunga ogni fantasia. Avevo immaginato che avrebbero proseguito il battibecco su come mescolare i tè e chi avrebbe bevuto l'antidoto per primo, litigando fin prima di spirare; oppure che uno dei due sottraesse la tazzina all'altro per versare la bevanda nella sua e bere l'antidoto fino all'ultima goccia.
Mai avrei immaginato che i due si allungassero sulla tavola, incontrandosi al centro mentre piattini, zuccheriere e tortiere fracassavano al suolo in una cacofonia di porcellana spezzata e tonfi di crostatine e bignè, che senza una parola facessero combaciare i bordi delle tazzine e mescolassero con vigore, per poi separarle e dividersi equamente l'antidoto e infine bere tutto d'un fiato la propria parte.
– Visto? È stato facile... – iniziai a mormorare, ma il conte di Roccatetra e il marchese di Portotempesta mi fissarono, e nei loro occhi non c'era gratitudine, bensì un odio feroce.
Afferrarono all'unisono le pistole e le puntarono verso di me.
– Quanto vi fidate del vostro maggiordomo, duchessa? – chiese il conte di Roccatetra. – Avrà messo un proiettile, tutti, o nessuno?
Alzai le mani in segno di resa e indietreggiai. – Signori, non è il caso di farne un dramma, è finito tutto bene, mi pare...
Il marchese di Portotempesta colse il mio sguardo alla porta e soggiunse: – Non vi conviene chiamare Agnes, o potrebbe essercene uno anche per la vostra sciagurata complice.
Non avevo previsto un simile di epilogo per il mio piano ingegnoso. Che aveva funzionato, senza ombra di dubbio, perché i due sembravano andare più d'accordo che mai. Tentai di spiegarlo, ma ormai non aveva più importanza che i cosiddetti "veleni" avrebbero avuto in ogni caso il mero effetto di un fastidio temporaneo, e che non avevo mai somministrato loro alcunché di letale.
Avrei dovuto indovinare che cosa alla fine li avrebbe spinti a riconciliarsi, o almeno a stabilire una tregua. Nulla unisce di più due uomini che un comune nemico, e sfortunatamente per me, io ero appena diventata quel genere di collante.

lunedì 26 settembre 2022

Acido Citrico


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Foto di Miguel Á. Padriñán da Pexels


Ogni mattina attendo con trepidazione il "ding" sonoro della campanella sopra la porta che annuncia l'arrivo del primo cliente della giornata. Mi fa sentire come un attore che entra in scena: si apra il sipario, si accendano le luci, musica maestro, silenzio in sala! Ed eccomi lì, dietro al bancone, a recitare la mia parte.
Il Capo aveva acquisito il locale un paio di anni prima e lo aveva rinominato "Area 51 Cafè" un po' perché aveva il senso dell'umorismo, e un po' perché era sua convinzione che la bugia più inattaccabile fosse una verità travestita da scherzo. Non ci erano rimasti abbastanza fondi da adeguare gli arredi interni al nuovo nome del locale, perciò avevamo mantenuto lo stile sobrio e industriale della gestione precedente, con colonne di metallo, tubi a vista sul soffitto e faretti allineati sopra al bancone e ai tavoli. La gente non sembrava far caso all'occasione mancata di un locale a tema, così come non faceva caso alle stranezze che ogni tanto ci capitava di dire o fare.
Faceva parte del fascino della nuova gestione, o almeno, io speravo che la pensassero così.
Avevamo iniziato in quattro. Io e Il Capo ci conoscevamo da prima perché venivamo dallo stesso posto, e mentre lei si occupava di tutte le scartoffie e della manutenzione e in generale di tutto ciò che si trova dietro le quinte di un'impresa del genere, io ero lo specialista dei panini e dei tramezzini con ripieni dagli accostamenti insoliti ma tuttavia commestibili. "Espresso" invece l'avevamo incontrata mentre eravamo alla ricerca di un posto dove aprire la nostra attività, e ci aveva letteralmente pregato di accoglierla a farne parte. Piccola, svelta, agile come un'equilibrista sul filo con tutti i vassoi con cui si destreggiava a navigare nel locale affollato senza mai far cadere una goccia o rompere una tazzina, Espresso era la nostra cameriera ai tavoli e doveva il suo nome, più che alla statura o al caffè che pareva ingurgitare a litri da quanto era nervosa e scattante, alla rapidità con cui appariva e spariva davanti agli occhi dei clienti per prendere o portare le ordinazioni. Paradossalmente, invece, anche se ne gradiva il prodotto, a Espresso non piaceva la macchinetta del caffè. Quando non ero nei paraggi per avviarla di persona, Espresso si cimentava malvolentieri nell'impresa, imprecando per tutto il tempo sottovoce nella sua lingua stridente, e al rumore di quello che definiva "aggeggio infernale" subito si tappava le orecchie.
L'ultimo membro del quartetto lo avevamo trovato tramite un annuncio e dopo numerosi provini: dovevamo essere sicuri di ingaggiare la persona giusta, e senza poter dire apertamente a quelli che si erano presentati che cosa cercavamo, era stato piuttosto arduo fare una scrematura. Doveva essere uno di noi, o in orario di chiusura, mentre pulivamo e rimettevamo tutto a posto, sarebbe stato un po' imbarazzante averci a che fare, per non dire rischioso. Il Barista era stato probabilmente l'unico candidato ideale a presentarsi ai colloqui. Da come maneggiava shaker e bottiglie era stato evidente fin da subito che sembrava avere più di due mani. Aveva anche vinto qualche competizione da dove veniva, ci aveva informato. E quando Il Capo gli aveva chiesto da dove esattamente veniva, lui aveva nominato il posto senza alcuna ritrosia. Non ho mai capito se avesse intuito prima di noi con chi aveva a che fare, o se semplicemente il Barista è un folle temerario che non ha affatto paura di essere scoperto. Anche oggi, tra la musica jazz diffusa dalle casse e il brusio dei clienti, avvolto nel profumo dei cappuccini che Espresso porta via dal bancone in un vassoio sopra la sua testa, il Barista chiacchiera con loro senza remore, accennando talvolta alle cose che ha fatto là da dove viene, o da quando ha iniziato a viaggiare un po' qui un po' lì fino a fermarsi in questo posto. Nulla di eclatante o troppo dettagliato, ma ogni volta al sentire la sua voce tonante o le sue risate mi tremano i polsi. Io non riuscirei mai a parlare così apertamente del mio passato, anzi, avevo appositamente inventato un passato fittizio da poter sfoggiare in caso qualcuno mi facesse delle domande, o mi coinvolgesse in una conversazione un po' meno stereotipata di quella che iniziava con: – Ma gli alieni li tenete nei sotterranei o dove?
Ah ah, grandi risate, e maledizione a quando Il Capo aveva scelto il nome "Area 51 Cafè" per il locale che gestivamo.
Ad ogni modo, nonostante le sue chiacchiere, il Barista risultava molto meno sospetto del nostro ultimo acquisto. Con l'aumentare dei clienti ci eravamo resi conto di non riuscire a stare dietro a tutto, e dato che Il Capo aborriva il contatto con il pubblico, avevamo dovuto cercare e assumere un assistente.
Acido Citrico, così lo avevamo soprannominato, era ancora in prova, ma già stava dando non pochi problemi alla nostra copertura. Fin dai colloqui il suo modo insolito di esprimersi ci aveva convinto che doveva per forza essere dei nostri, ma avevamo sperato che di fronte ai clienti Acido Citrico si adeguasse a un modo, come dire... meno formale di parlare. E invece, continuava a chiedere se volevano cinque grammi di saccarosio nel loro infuso di caffeina, se lo prendevano con il lattosio, se preferivano il loro monossido di diidrogeno con anidride carbonica o senza, e altre amenità del genere. I clienti lo guardavano strano, chiedevano di ripetere perché non avevano capito, o ridevano. Ridevano un po' meno quando Acido Citrico cercava di spruzzare qualche goccia di limone, frutto verso il quale aveva una vera e propria idolatria più che una predilezione, in qualunque cosa avessero ordinato, si trattasse di caffè, birre, frullati, liquori o perfino sulle brioche e sui panini che preparavo io.
Cercare di farlo smettere era del tutto inutile. Io ci avevo provato. Alla fine mi limitavo solo a evitare i danni cercando di far sparire ogni limone al suo arrivo dietro al bancone.
Oggi però, tra un toast da scaldare e una cioccolata da affidare ai solerti vassoi di Espresso, mi accorgo che Acido Citrico sta davvero esagerando. Non solo ha trovato i limoni che avevo nascosto, ma sta stordendo una cliente piuttosto confusa con la sua incomprensibile parlantina chimica. Allora lo prendo da parte e gli dico: – Smettila, Acido, o cominceranno a capire che siamo alieni!
Poveretto, è anche abbastanza simpatico il ragazzo, gioviale, socievole, e sentirsi dare dell'acido a causa di un soprannome pronunciato a metà lo ha destabilizzato, intuisco nel notare la sua espressione sbigottita. Poi però lui apre la bocca e chiede: – Come... siamo... alieni?
Ed è assolutamente, totalmente, inequivocabilmente sconcertato.
Solo a questo punto capisco che forse negli ultimi colloqui non siamo stati poi così scrupolosi. Fargli credere che la mia era una battuta è semplice, la parte più difficile sarà spiegare a Il Capo che inavvertitamente un paio di mesi fa abbiamo assunto come aiutante un autentico umano del pianeta Terra.

sabato 24 settembre 2022

Vaio

Vaio [và-io] agg. (pl.m. vai) tosc. 1. Di colore scuro, quasi nero, detto in particolare di frutti maturi. 2. Macchiettato di nero, in particolare con riferimento al mantello del cavallo.

Etimologia: dal latino varius, "chiazzato, maculato", ma secondo altri deriverebbe dal greco phaios, che vuol dire "bigio, nericcio".



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Foto di Ron Lach da Pexels


Macchie scure chiazzavano la strada di fronte ai suoi occhi. Una lunga linea nera la divideva in due.
Nina respirò profondamente, ignorando il dolore al petto dove l'abbraccio della cintura l'aveva quasi stritolata nella sua morsa. Girò la testa a fatica e le macchie seguirono il suo sguardo.
Allora non era il cemento a essere vaio, né la superficie del vetro incrinato dal lampione che aveva fermato la loro corsa, bensì i suoi stessi occhi. Nina batté le palpebre più volte, cercando di cacciare via le macchie, ma invano. Era come se un foglio trasparente, su cui era stato lasciato gocciolare dell'inchiostro, si fosse interposto tra lei e il mondo.
Al suo fianco, il guidatore era morto. Lo era ancor prima dell'impatto, se ciò da cui aveva cercato di proteggerla era reale. Nina rabbrividì nel vedere la polvere gialla che si depositava sul poggiatesta, sui capelli, sui baffi e sulle spalle dell'uomo. Palpitava e turbinava come se fosse stata viva.
Con un moto di terrore Nina tentò freneticamente di sganciare la cintura, ma il gancio si era incurvato e non riuscì a smuoverlo. Allargò la fascia trasversale della cintura e riuscì a farla passare sopra la testa.
L'uomo morto ebbe un fremito, poi girò di scatto la testa. Nina si rattrappì contro la portiera fracassata.
Quella cosa la fissò con occhi completamente neri, granulosi, che le ricordarono stranamente un cestino di splendide more vaie, dolcissime, che sua madre le aveva portato dal laboratorio in cui lavorava.
– È una varietà antica – le aveva detto. – Ricreata dai resti in uno scavo archeologico. Nessuno la assaggia più da migliaia di anni.
Quello che la stava fissando, pensò Nina, era anche più antico. La polvere gialla non era sua madre, ma aveva assorbito i suoi ricordi, ed era tutto ciò che le restava.
Nina si arrese a lei, le tese le mani, e smise di avere paura.

giovedì 22 settembre 2022

La magia della vecchia casa abbandonata


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Foto di Soly Moses da Pexels


La vecchia casa abbandonata in fondo alla via era il nostro terreno di gioco preferito. In apparenza, nella luce del mattino quando ci voltavamo a guardarla prima di andare a scuola, non sembrava nulla più di una villetta ceduta dai suoi proprietari al tempo e all'incuria, con le finestre sbarrate da imposte di legno mezzo marcio, l'intonaco scrostato, le colonne del balcone ricoperte d'edera e una selva di altissime erbacce attorno, uno di quei posti da cui i nostri genitori, giudicandolo pericoloso e pericolante, vorrebbero a tutti i costi tenerci lontani. Noi ragazzi ci saremmo andati lo stesso, anche se fosse stata niente più di una vecchia casa abbandonata, ma in realtà la casa era molto di più. Non era soltanto un posto. Era una compagna di giochi, capace di indovinare ciò di cui avevamo bisogno e offrircelo, di rendere reali i luoghi della nostra fantasia.
Tutti i bambini del vicinato lo sapevano: la casa era magica.
Le femmine ci andavano di primo pomeriggio, e io non ho saputo che cosa fosse la casa per loro finché casualmente non avevo sentito un gruppo di ragazzine parlarne alla fermata dell'autobus. Dicevano che il vecchio pianoforte sgangherato nella sala della musica prendeva vita e si metteva a suonare per loro, e nella sala da ballo dame e cavalieri danzavano e in quella reggia loro erano le principesse; altre volte veniva servito il tè nella sala da pranzo, e l'amica perfetta veniva a far loro compagnia; o ancora, sul retro della casa, c'era una stalla piena di unicorni variopinti e docili, in grado di portarle ovunque volessero, mentre al primo piano, nella sala dei giochi, le bambole recitavano da sole le scene a cui loro desideravano dare vita, come in un magico teatro dei burattini, o diventavano dei bambini veri da cullare e coccolare.
Riuscii a non mettermi a ridere in quell'occasione, ma di certo pensai che le femmine erano davvero strane se si accontentavano che la casa facesse solo quelle cose buffe e insulse per loro.
Alle quattro e ventinove del pomeriggio, esattamente a quell'ora ogni giorno, estate o inverno, con la pioggia o con il sole, bambine e ragazze si affrettavano a uscire dalla casa abbandonata e a dirigersi altrove. Perché a quell'ora, la magia della casa smetteva di funzionare per loro e iniziava a funzionare per noi. Noi bambini e ragazzi ci precipitavamo dentro pronti a vivere un'altra delle nostre avventure. La casa era per noi un cavernoso covo di pirati su un'isola tropicale da esplorare in cerca di un tesoro; era una fortezza da conquistare, o un misterioso pianeta alieno, o il quartier generale di un gruppo di supereroi invincibili che, ovviamente, eravamo noi. A volte, più di rado, la casa era soltanto una vecchia casa abbandonata con i pavimenti ingombri di detriti, le pareti chiazzate di umidità da imbrattare di graffiti a nostro piacimento, i mobili sgangherati su cui arrampicarci e vecchie suppellettili polverose da distruggere, beandoci del fracasso della porcellana sul pavimento mentre il vento penetrava ululando tra i listelli di legno delle imposte, o dal vetro rotto di una finestra. Ma era una vecchia casa con un'infinità di stanze, molte più di quante ne potessero ragionevolmente contenere i suoi confini, e ogni volta che ci addentravamo in essa ne scoprivamo di nuove.
La notte in cui la mia casa bruciò, ricordo che mia madre e mio padre vennero a svegliarmi per portarmi fuori. Mentre uscivamo, una parte del soffitto crollò e le fiamme ci separarono. Mi dissero di scappare e così feci, e mi ritrovai da solo nella notte. Avevo freddo in pigiama e ciabatte, freddo nonostante il bagliore delle fiamme alle finestre e sul tetto, e l'odore soffocante del fumo mi faceva tossire. Li aspettai, ma loro non uscirono. Non uscirono nemmeno quando, circondato da luci lampeggianti, tra la confusione di vigili del fuoco che correvano attorno alla casa in fiamme con gli idranti e una cerchia di vicini venuti a curiosare, li chiamai più volte, urlando finché la gola non mi fece male.
Poi, arsa da una marea di fiamme così abbacinanti che non si riusciva nemmeno a guardarle, con uno spaventoso cigolio stridente seguito da un boato come di tuono, la mia casa crollò.
Non so che mi prese in quel momento, o forse sì. Tutto il mio mondo era distrutto, scomparso. Non mi rimaneva che un solo posto dove rifugiarmi, dove cercare di dimenticare quello che avevo appena visto, quello che sapevo senza più ombra di dubbio. Che non li avrei più rivisti.
Scappai. Corsi fino alla vecchia casa abbandonata in fondo alla via. Era notte, mi dicevo, perciò erano passate da un pezzo le quattro e ventinove di pomeriggio, funziona, deve funzionare, ti prego funziona ancora. Mi fermai ansante e disperato davanti al giardino incolto, mezzo pregando a fior di labbra, e alzai gli occhi. Davanti a me vidi la mia casa, esattamente come la ricordavo.
Entrai di corsa chiamando "mamma, papà!" e salii a due a due i gradini e mi precipitai nella loro camera da letto. Loro erano lì, a chiedermi se avevo avuto un brutto incubo, e a invitarmi a dormire nel lettone come quando ero piccolo. Mi accoccolai tra le coperte e li abbracciai.
La mattina dopo alcuni tra i miei vicini intenti alla ricerca, che per caso erano entrati nella vecchia casa fatiscente, mi trovarono addormentato su un vecchio materasso muffito che riposava su ciò che restava del telaio di un letto a due piazze con la testiera curvata dall'umidità e le doghe spezzate. Quella fu l'ultima volta che entrai nella casa abbandonata in fondo alla via.
Il giorno dopo cambiai strada, città e perfino regione. Andai a stare dai miei nonni paterni, a chilometri di distanza da tutti i miei amici e dal nostro magico parco giochi.
Sono passati anni da allora. Io sono cresciuto. Non ho più pensato a questa parte della mia vita, e non sono più stato nella mia vecchia strada, a vedere che ne è stato della casa abbandonata. E non lo avrei mai fatto, se non fossi stato sul punto di costruirmi una famiglia.
L'altro ieri ci sono andato. Non con la mia futura moglie, da solo, mentre tornavo da un viaggio di lavoro da quelle parti. Marika sa dell'incendio, questo è ovvio, ma di tanto altro non le ho parlato, non so se potrebbe capire, stento a capirlo persino io.
Prima sono passato dov'era la mia casa, pensando, sperando, che l'avessero ricostruita uguale. E invece al suo posto c'era un'altra casa, diversa da quella che era stata mia, e un'altra famiglia. Non riconobbi quel posto, persino le case dei vicini erano cambiate, ridipinte di altri colori, ammodernate, ristrutturate. Camminai lentamente fino in fondo alla via. Era ancora presto, ero arrivato con qualche minuto di anticipo, e potevo prendermela comoda.
La vecchia casa abbandonata, la mia unica certezza, c'era ancora. Le chiazze di intonaco scrostato erano più grandi, il giardino un groviglio di erbacce più alto e più intricato, un angolo del balcone era crollato e molte delle finestre erano orbite vuote e fisse senza più vetri o imposte di legno a proteggerle. Ma lei c'era, era lì, resisteva ancora. Guardai l'orologio con impazienza, in attesa delle fatidiche quattro e ventinove del pomeriggio, in attesa delle frotte di ragazzine che sciamavano fuori atterrite. Berto mi aveva raccontato che una volta una bambina era rimasta indietro ed era ancora dentro la casa quando è scattata l'ora dei maschi; che si è persa in un maniero stregato e che quelli che erano dentro l'hanno vista passare urlando, i capelli bianchi e le mani che graffiavano la faccia, ma non sono riusciti ad acchiapparla, o a ritrovarla, e la bambina non ne è uscita mai più. Era solo una storia, nessuno della zona era mai scomparso nella casa, ma forse la conoscevano anche le ragazze, e forse per questo erano tanto ligie nel lasciarci campo libero quando scattava la nostra ora.
Che strano, mancava solo un minuto, e ancora non si era radunato nessun bambino o ragazzo in attesa al cancello. Quattro e ventotto e trenta secondi.
Quattro e ventinove.
Nessuno stava uscendo dalla casa. Nessuno stava entrando.
La fissai, le mani aggrappate alla vecchia inferriata, talmente bassa che era facile da scavalcare perfino per un bambino, se aveva voglia di fare l'ardito invece di passare dal cancelletto semiaperto.
– Sei tutta per me – le dissi. – Sai quello che voglio vedere.
L'immagine della mia prima casa era marchiata nella mia memoria, un ricordo indelebile come tutte le cose perdute che non si possono riavere. Attesi, poi presi a camminare attorno alla villetta abbandonata, provai a chiudere gli occhi e a riaprirli, a distogliere lo sguardo e la mente dall'immagine di quella dimora in rovina per lasciar agire la sua magia, ma niente, la vecchia casa abbandonata non cambiò di una virgola. Alla fine me ne andai senza ricevere quello per cui ero venuto.
Forse, mi dissi, la sua magia non funziona per gli adulti. Forse, abbandonata persino dai suoi compagni di giochi che di questi tempi hanno altri interessi, la vecchia casa si è intristita, è invecchiata, ha perso a poco a poco i suoi poteri. Forse non c'è mai stata altra magia che la fervida immaginazione di bambine e bambini che si davano il cambio nell'inventare storie fantastiche durante i loro giochi.
Probabilmente non lo saprò mai, ma non importa. Io me lo ricordo. Mi ricordo di combattimenti contro i pirati e di un mantello che mi rendeva super forte, mi ricordo di aver galleggiato a gravità zero, di una bruttissima zuppiera che è quasi finita in faccia a Berto quando dovevo sfogarmi perché mi aveva fatto fare brutta figura di fronte a una ragazzina che mi piaceva, e mi ricordo della mia ultima notte con i miei genitori.

lunedì 19 settembre 2022

Vedere con i propri occhi


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Foto di Ryanniel Masucol da Pexels


Era stata una bella giornata, come non ne avevo più da tempo con loro. Da quando ero tornata, per la precisione: pur vivendo sotto lo stesso tetto, era come se non ci conoscessimo più, come se fossimo diventati degli estranei. Speravo che il discorso che avevo rimandato fino a sera, che dirgli tutto su di me ed essere onesta fino in fondo potesse sistemare le cose, ma intanto mi ero goduta quella giornata in campeggio con la mia famiglia. Era stato bello tornare per un po' bambina, indossare senza fingere la mia età anagrafica umana, aiutare papà a raccogliere la legna e finire a giocare a nascondino tra gli alberi, mangiare panini e dolcetti su una coperta, ridere e scherzare tutti assieme. Sì, era stata proprio una splendida idea approfittare di quella giornata di festa per piantare un paio di tendine nel bosco.
Poi era calata la notte, e papà aveva acceso il fuoco, e le stelle che brillavano tra i rami degli abeti e dei larici mi avevano ricordato il motivo per cui avevo tanto insistito per fare quella gita in un luogo così isolato, lontano dalla folla cittadina e dal nostro appartamento di Londra.
Avevo ancora lo sguardo calamitato dalle stelle splendenti, e non osavo guardarli né cominciare il discorso, quando mio padre si accomodò tra la tenda e il falò e disse: – Bene, siamo stati a caccia di scoiattoli e di fringuelli per il nostro album fotografico, abbiamo fatto una gita in barca sul lago, abbiamo cantato canzoni e giocato a carte... ora direi che manca solo un classico del campeggio, le storie spaventose di fantasmi attorno al fuoco... che ne dite?
Prima che la mamma potesse prendere la parola, rivolsi loro un debole sorriso e dissi, con l'ultima traccia del tono allegro e infantile che avevo conservato da quella giornata: – Ho io qualcosa da raccontare, ma non è una storia inventata e spero davvero tanto che non sia spaventosa. – Mentre ridevano con me, mi accoccolai sulla coperta, poi facendomi seria, dissi: – Sono pronta. Sono pronta a parlare di dove sono stata quando ero via.
Non ero pronta in realtà, no, niente affatto pronta. Ma ero tecnicamente ancora minorenne per le leggi di questo paese, e dunque avevo bisogno del loro consenso per iniziare il mio nuovo lavoro per l'Ambasciata, e per avere il loro consenso, loro dovevano sapere.
La mamma prese il mio silenzio per quello che era: un'esitazione. – Va tutto bene, non devi per forza...
Non la lasciai proseguire. – Sono tornata a casa. Nel luogo da dove provengo, da dove viene la mia gente. A Elayeraaniél, è... è questo il nome del pianeta.
Nel loro stupore palpabile rimase solo il crepitio del fuoco a conversare con il frinire dei grilli, e con il bubolare di un gufo solitario. Sembrava un vero e proprio intermezzo da film, finché mia madre non si alzò e disse: – Non ho intenzione di ascoltarti raccontare favole, se non te la senti di parlarne fa' pure come credi, ma non inventarti queste frottole assurde, Kathy.
Ero preparata a reazioni simili. Non mi avrebbero creduto finché non lo avessero visto con i loro occhi, ma prima di vedere dovevano essere pronti, o sarebbe stato peggio. Racimolai tutta la calma che mi fu possibile trovare, difficile per me che ero considerata la testa calda nel gruppo dei miei simili cresciuti qui sulla Terra, i cosiddetti Children of Earth.
– Ho le prove di quello che dico. – Il loro atteggiamento, la curiosità e il rispetto nei loro occhi mi dissero che all'improvviso non mi vedevano più come una bambina. Fingevo così spesso di esserlo di fronte a loro, per loro, che non mi ero mai resa del tutto conto di quanto fossi maturata nel periodo che avevo trascorso lontano dalla Terra. Ora avevano cominciato a rendersene conto anche loro. – Le vedrete, ma non adesso. Prima dovete ascoltarmi, potete anche non credere, ma ascoltate.
Raccontai loro dei Children of Earth, e degli altri gruppi di neonati che il Seleeriewn, la nostra gente, aveva nascosto su molti altri pianeti abitati, sotto le spoglie delle specie che risiedevano su quei mondi, per proteggerci e lasciare una traccia della nostra esistenza nell'universo in vista di un enorme pericolo che minacciava Elayeraaniél e tutti coloro che lì vivevano. Parlai come, scampato il pericolo, fossero tornati a prenderci, e per tutto il tempo che ero stata via io e gli altri eravamo stati istruiti sulle usanze della nostra gente, sui progressi scientifici e ingegneristici, e di come avessi imparato a dominare la mia seconda mente, custodita in una sfera viola che potevo separare dal mio corpo, e avessi costruito, anzi coltivato dato che quasi tutto su Elayeraaniél era costituito da materia biologica, la mia Zaesheen, la navetta monoposto che avevo imparato a pilotare in formazione con le altre del mio gruppo con una tale sicurezza da poter eseguire assieme una serie di complicate acrobazie aeree per il nostro esame finale. Dissi loro di come il Seleeriewn si aspettava che una volta tornati e integrati tra la nostra gente restassimo su Elayeraaniél, e molti dei ragazzi provenienti da altri pianeti avevano deciso in tal senso, ma noi della Terra eravamo stati concordi nel voler tornare sul nostro pianeta adottivo.
Mostrai loro la sfera, che ovviamente non era sufficiente a impressionarli anche se mi permetteva di eseguire calcoli a mente estremamente complessi in un batter d'occhio, e la Zaesheen, che nel frattempo avevo richiamato dal nostro cortile londinese con la guida da remoto, che furono fin troppo svelti a respingere come prova giustificandola come un sofisticato progetto scolastico di scienze.
Si stavano arrampicando sugli specchi. Ma non capii il perché finché non arrivai a spiegare loro di come il Seleeriewn avesse compreso perfettamente l'affetto che ci legava alle famiglie che ci avevano cresciuto, e il senso di appartenenza che ci aveva spinto a voler tornare sulla Terra.
– Kathy, bambina – intervenne la mamma. – Tutto questo sarebbe, non dico credibile, ma perlomeno in minima parte plausibile se ti avessimo adottata. Ma tu sei mia figlia, questo lo so per certo, perciò, vedi, non puoi essere un'aliena. Lo capisci anche tu che è impossibile.
Vidi papà annuire e cingerle un braccio con le spalle. Quella era forse la parte più difficile di tutte da raccontare.
– In alcuni casi sì, hanno fatto in modo che alcuni di noi fossero adottati. – Cominciai prendendola alla larga, quasi mormorando le parole, lentamente, per scegliere quelle corrette. – Ma in altri hanno... riempito una culla che altrimenti sarebbe... rimasta vuota.
Guardai la consapevolezza farsi strada nei loro occhi, il desiderio di rifiutare quella verità che lottava con un dolore mai espresso, mai conosciuto. Gli occhi della mamma brillarono lucidi del riflesso delle fiamme.
– Hanno pensato che fosse... più pietoso per voi, e più sicuro per me, se non ci fossero stati dubbi sulle mie origini. Almeno, non finché fossi stata indifesa.
Mi allungai per afferrare la mano della mamma mentre lo dicevo, ma le sue dita sgusciarono via dalle mie. – No... no! Dov'è mia figlia? Dimmi dov'è! – urlò sempre più forte, tra le crisi di pianto. Papà la stringeva e basta, protettivo, mormorandole qualche parola ogni tanto.
D'un tratto avvertii tutto il freddo della notte estiva soffiarmi contro nella lieve brezza. Rabbrividii. Non mi ero mai sentita così sola, ed era una sensazione nuova per me che ero una Vyserin, coloro che proteggevano da lontano, i più refrattari al contatto fisico e alla vicinanza tra i membri del Seleeriewn.
– Mamma, sono io. Guardami. – La mia voce si era fatta supplichevole. Non mi piaceva, e non riuscivo a farmi ascoltare, a indurla a capire. Ora che mi credeva, quasi avrei voluto che non lo avesse fatto. Reagii a quel nuovo dolore, a quel rifiuto, ricorrendo alla gelida verità dei fatti. – Hanno usato il suo DNA per completare le caratteristiche individuali del mio fenotipo umano, perciò io sono vostra figlia. Io sono Kathy. L'unica Kathy che abbiate conosciuto!
Capii di avere esagerato quando papà mi rivolse uno sguardo astioso e la mamma prese a singhiozzare più forte. Volevo che vedessero il mio aspetto alieno senza provare timore, e invece ora mi vedevano soltanto come una creatura aliena.
– Pietoso... – riprese la mamma, a fatica. – Se conoscesse la pietà, questa tua gente, mi avrebbe almeno lasciato una tomba su cui piangerla.
Non c'erano cimiteri su Elayeraaniél, ma questo la mamma non lo sapeva. Il Seleeriewn non seppelliva i propri morti. Li vaporizzava e disperdeva le molecole nell'atmosfera. Lo avevo visto fare mentre ero sul pianeta, e l'effetto collaterale era sempre un effimero ma nitido arcobaleno. Immaginai che sulla Terra accadesse lo stesso.
– Pioveva, il giorno in cui sono... in cui lei è nata, giusto?
Non molto difficile da indovinare. Vivo in una nazione famosa nel mondo per le sue piogge. Oltre che per la sua famiglia reale e per qualche altra cosa.
– Sì, e allora? – La voce di mio padre era ancora ostile.
– Poi è comparso un arcobaleno.
Di quello ero certa. Lo avevo visto nei vecchi album di foto, ma non avevo mai fatto il collegamento prima di quel giorno.
– Sì, il mattino dopo che sei... che lei è nata.
Quell'errore da parte di mio padre mi ridiede speranza. Non aveva smesso del tutto di vedermi come una figlia.
– Quell'arcobaleno era lei. L'altra Kathy. La prima, voglio dire.
Raccontai loro dei funerali del Seleeriewn e di come fossero paragonabili allo spargere le ceneri al vento in uso in certi luoghi della Terra, e parlai ancora di come una notte la sfera si era separata da me, e di come avevo scoperto sulla mia pelle una mappa stellare che mi aveva condotto al luogo del ritrovo nel giorno della mia partenza, una storia che condividevo con gli altri Children of Earth. Spiegai la nostra ambizione di proteggere in segreto la Terra da qualunque minaccia o invasore ostile a bordo delle nostre Zaesheen, e che non saremmo stati gli unici a farlo, ma che saremmo stati parte di una squadra di alieni che già risiedevano sul pianeta, e che si occupavano della questione da molto più tempo di noi. Non saremmo stati da soli. Non ci avrebbero permesso di affrontare dei rischi troppo grandi per la nostra scarsa esperienza.
Ma non sarei andata, se loro non lo avessero voluto. Perché erano i miei genitori, e nulla riguardo a come era iniziato il nostro viaggio insieme poteva cambiare questa realtà.
Li lasciai sfogare. Li consolai. Attesi tutto il tempo che ci volle, anche se fremevo di impazienza per quest'ultima prova.
Solo dopo, quando capii che erano pronti a vedermi davvero, mostrai loro com'ero.

sabato 17 settembre 2022

Sibarita

Sibarita [si-ba-rì-ta] s.m. e f. (pl.m. -ti) Persona amante dei piaceri e del lusso.

Etimologia: dal latino Sybarita, da Sybaris, nome di un'antica città della Magna Grecia sulla spaggia del golfo di Taranto, i cui abitanti ebbero fama di gente dedita al lusso e alle voluttà.



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Non conoscevo nessuno più edonista di mio zio Teodoro. Non era sempre stato così, almeno stando a quanto dicevano i familiari; ma da quando avevo avuto la sfortuna di trovarmi ad averlo come parente più prossimo, e di iniziare a frequentare quindi una dimora che definire lussuosa era dir poco, non era passato un solo giorno senza che lo vedessi intento a godere e a scialacquare la sua immensa fortuna. Pranzi nei ristoranti stellati, feste a bordo di yacht poco più piccoli di ordinarie navi da crociera, champagne, caviale, donne bellissime e jacuzzi con idromassaggio. Io lo guardavo e mi saliva la nausea. Pensavo a tutto il bene che avrebbe potuto fare, se solo avesse impiegato il suo denaro in modi più costruttivi. Sì, fin da quando ero stata costretta ad abitare da lui, a causa della mia giovane età che non mi consentiva l'indipendenza, quell'odioso sibarita aveva suscitato il mio disprezzo. E quel che era peggio, era che lui cercasse di indottrinarmi con la sua frivola filosofia.
– Ragazzina, – diceva, – i poveri sono tali perché non desiderano davvero tutto questo. A regalargli dei soldi, non sapranno che farne.
Oppure: – Pensa a te per prima. Non cercare di ingraziarti la benevolenza degli altri o di un qualche dio facendo beneficenza. Sei giovane, sei idealista, ma non è così che funziona il mondo.
Ero arrivata a desiderare che la maledizione di re Mida lo colpisse, e che lui fosse costretto a ingurgitare l'oro che usava a scopi così egoistici. A ripensarci oggi, me ne vergogno.
Zio Teodoro non lo dava a vedere, perché le medicine erano sufficienti ad attenuare i sintomi e il dolore, ma lui era molto malato. Questione di mesi, secondo i medici. Quella notizia aveva messo in discussione tutti i suoi piani.
Altro che sibarita. Zio Teodoro era semplicemente innamorato della vita, e in quegli ultimi mesi aveva cercato di godersi tutto ciò che si era sempre negato, intento ad accumulare ricchezze che, si era accorto troppo tardi, non poteva portare nella tomba.

giovedì 15 settembre 2022

Passi nella notte


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Non mi fa più paura la notte. Una volta sì, mi spaventava tantissimo. Soprattutto perché non ci vedevo al buio. Potevano esserci fantasmi, mostri, serpenti in agguato nel buio.
Oggi vedo più di quel che dovrei. Niente mi fa più paura, beh, quasi niente. Lui, quello che indossa il Tabarro Nero, riesce ancora a spaventarmi, anche se non può più farmi del male.
Oggi, il mostro sono io.
Nessa diceva che quando sei in dubbio, quando hai un problema, la cosa più sensata da fare è camminare. Un passo dopo l'altro, un'orma dopo l'altra lasciata dietro di me sulla neve che scricchiola lieve sotto i miei piedi nudi. Nemmeno il freddo può farmi paura, perché io sono il freddo. Il sentiero porta a un cimitero, lastre di pietra con nomi e date incise, una fila dietro l'altra. Non ho mai pensato potessero essercene così tante. Cammino tra loro, nella spettrale luce lunare che fa risaltare la mia pelle d'alabastro tra il grigiore delle statue. Ho anch'io la mia da qualche parte, penso, non qui, in questo cimitero di campagna abbandonato, ma vicino alla cripta di famiglia, anche se in realtà non mi hanno mai trovato. Forse Nessa potrebbe essere qui, ma non la cerco.
Nessa era buona, troppo buona. Inoltre il mostro sotto il Tabarro Nero prende solo i bambini.
Nella nebbia si stagliano le guglie di un'antica magione. Forse lì troverò da mangiare. Ho sete, tanta sete. Affretto il passo.
Il cancello è aperto. Esito, ma questa non è la porta d'ingresso. Posso entrare nei giardini, guardare dalle finestre, non mi servono inviti per questo. Piano piano, nascosta tra le ombre, faccio il giro.
Nessuna luce arde alle finestre, ma è tardi, forse sono tutti addormentati. La dimora odora di vecchio come alcuni dei bambini più scaltri che il Tabarro Nero ha trasformato in mostri da molto più tempo di me. Sono di nuovo davanti alla porta, con cautela giro la maniglia, la spingo, si apre.
Giusto il tempo di dare un'occhiata dentro mi dico, vedere com'è fatta la casa, poi la chiudo, busso o suono la campanella, chiedo di poter entrare, nessuno dice di no a un bambino. Nessuno mi ha mai detto di no.
Un topo attraversa il corridoio e io d'istinto faccio un passo in avanti, gli occhi accesi dal desiderio della caccia. Quando però mi accorgo che sono dentro, grido e torno indietro.
Ora ho paura.
Il mostro sotto al Tabarro Nero ci aveva detto che dovevamo chiedere sempre, che cose terribili capitavano a chi entrava nelle case degli uomini senza il loro permesso. Mi passo le mani tremanti sull'abitino nero, guardo i miei piedi sporchi, sono ancora tutta intera.
E allora capisco che questa casa appartiene ai morti.
Entro e cammino tra corridoi rimbombanti d'echi. La mia preda è già svanita, ma forse posso trovarne altri della sua specie. Non è come prendere una vita umana, i peli in bocca fanno schifo, il sangue è poco ma è caldo lo stesso. Non può saziarmi, non da solo, ma attenuerà questa sete che mi fa sentire come un guscio vuoto attorno a un fazzoletto annodato e floscio, con a malapena la forza di camminare, di mettere un piede dietro l'altro.
In fondo a un corridoio, una scala scende in cantina. Più facile trovare una famiglia di topi rintanati laggiù, mi dico, e salto da un gradino all'altro con le mie gambe corte. La scala è lunga, tanto lunga, e presto le pareti in muratura lasciano il posto a un tunnel scavato nella roccia, e anche i gradini di legno si fanno di pietra. Anche l'aria diventa più fredda, dopo il tepore della casa che mi riparava dal vento d'inverno, ma il gelo non mi può far male. Io sono il freddo, io sono il gelo.
Finalmente i gradini finiscono e arrivo a un corridoio che è poco più di un cunicolo di pietra. Faccio piano, mi muovo in punta di piedi per non spaventare i topi. C'è odore di muffa, odore di morte. Ma non quel profumo metallico di sangue fresco così appetitoso. Questa è morte antica, già trascorsa, inutile.
In fondo al cunicolo di pietra, un'ampia grotta con un pozzo al centro e una schiera di scheletri sdraiati tutt'intorno. Alcuni hanno i vestiti, molti qualche brandello di carne non divorata dai topi e dal tempo.
Dal pozzo un soffio gelido sale e mi rimbomba nelle orecchie come un lugubre lamento.
Una mano mi artiglia la spalla. Ho un sussulto ma stringo forte le labbra, non grido.
Riconosco il suo odore. Ero così concentrata sul pozzo e sugli scheletri da non udire i suoi passi alle mie spalle, e un po' me ne vergogno. Un cacciatore che si fa sorprendere così facilmente è inutile
– Questo non è un posto per bambini – la sua voce melodiosa ha un che di roco, sprezzante, nel timbro gelido che gli assomiglia: bello, e terribile. Lo dice come se non avessi già visto cose e fatto cose troppo spaventose per un bambino. Ormai non sono più una bambina umana, e questo lo sappiamo entrambi.
I suoi occhi mi fissano severi da sotto il Tabarro Nero.
Senza troppe cerimonie mi spinge verso il cunicolo e io cammino davanti a lui a testa china, e arranco su per le scale. Stiamo in silenzio, lui non parla e io neppure, e altre orecchie, diverse dalle nostre, non potrebbero nemmeno cogliere i nostri passi. Camminiamo nella notte invisibili come fantasmi, spaventosi come spettri, mortali come i cavalieri dell'Apocalisse delle storie con cui mi ammonivano per farmi crescere buona e brava.
Tutte sbagliate, perché io non crescerò più, resterò una bambina cattiva per sempre.
Usciamo nella notte tra turbinii di neve che cancellano le impronte. Nell'accostare piano la porta, il mostro sotto al Tabarro Nero si attarda più del dovuto e accarezza il legno. Forse mi sbaglio, ma i suoi occhi mi sembrano tristi.
Poi mi spinge di nuovo, più forte, verso il cancello, strattonandomi un braccio.
– Non tornare più qui, e non dire agli altri di questo posto – sibila, con la furia di un serpente nella voce. – Non c'è niente che placherà la tua sete, qui. E per stanotte, per avermi costretto a venirti a cercare, non avrai nulla, nemmeno gli avanzi.
Mugolo disperata ma non protesto, cammino, cammino e basta, il più in fretta possibile, un guscio vuoto attorno a un fazzoletto annodato e floscio.

lunedì 12 settembre 2022

Alla faccia della Luna


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Eccomi. Questa è la mia ultima notte. Dopo tanti anni di onorato servizio il faro sulla scogliera e io, il suo guardiano, siamo stati dichiarati obsoleti e relegati nei libri di storia. Tutte le luci si sono spente a una a una, ormai non serviamo più. Molti dei miei colleghi erano già stati mandati in pensione da un sistema automatizzato di accensione e spegnimento delle luci che era possibile far controllare da remoto a una singola persona, senza bisogno di una presenza umana su ogni torre lungo la costa. Io ero rimasto, reliquia del passato a dispetto di un futuro che marciava a grandi passi sul presente, l'ultimo guardiano del faro, forse perché la mia torre era troppo isolata, forse perché installare quel sistema anche qui non rientrava nel budget. Be', ora tocca anche a me andarmene. Il faro, molto probabilmente, verrà venduto a un affarista che ne farà un esclusivo resort di lusso per ricconi misantropi, viziati e coccolati da massaggiatori personali e da un cuoco stellato con le sue minuscole porzioni di piatti vegani, molecolari e macrobiotici. Alla faccia della Luna, che li guarderà stupita da lassù, chiedendosi dove io sia andato a finire.
È stata la mia unica compagna, la Luna, nel corso di questi lunghi anni solitari. Restavamo svegli tutta la notte, io, lei, i cani che latravano in lontananza e le civette. Ma cani e civette mi ignoravano; lei no. Rivaleggiava con la mia luce certe notti in cui si faceva piena, luminosa e splendida, come a dire "a cosa servi tu? Ci si vede come fosse giorno, ed è tutto merito mio". Ma non durava mai a lungo, lei si stancava presto. La mia luce era la costante attorno a cui girava il mondo. O almeno, il mondo navale. Fissa nello spazio e nel tempo, immutabile. Della Luna, invece, non ci si poteva fidare. Eterna girovaga, non era mai nello stesso punto del cielo notturno. Certe notti, nemmeno si presentava. O arrivava al mattino, snella come una soubrette di varietà, quando ormai non serviva più. Quanto l'ho maledetta quella notte di tempesta, quando il vento ha sfondato la finestra e rotto la lampada del faro! Cambiarla nell'oscurità più totale tra i frammenti di vetro e l'ululato della bufera è stata un'impresa, ma non potevo oziare o nascondermi come la timida Luna. Qualcuno là fuori, tra onde alte e raffiche di maestrale, cercava il raggio rassicurante della mia luce, contava su di me.
Ma dopo stanotte non ci saranno più bufere, né conversazioni notturne a tu per tu con la Luna, per tenerci svegli l'un l'altro. Questa normalità che a qualcuno potrebbe apparire folle mi mancherà parecchio.
La mia ultima notte, e voglio godermene ogni singola goccia. So che non sarò mai più così in alto, mai più così solo. Il mormorio delle onde che lambiscono gli scogli, il profumo salmastro, il rintocco di una campana in lontananza, forse in paese, o magari su una nave che costeggia la riva diretta a un approdo? È buffo, ma questa reliquia del passato, la campana, sopravvivrà al mio mestiere. Perfino in quest'epoca in cui tutti hanno un orologio, e molti più di uno. E chi non lo indossa, può sempre consultare lo schermo di un cellulare per sapere l'ora.
Io, stanotte, preferisco non conoscerla. E maledico le campane, e mi tappo le orecchie ogni volta che le sento, per non contare i rintocchi. Non voglio sapere quanto poco manchi al termine della mia ultima notte di servizio. Preferisco ascoltare i cani, che nel loro abbaiare non badano all'ora.
C'è un po' di nebbia stanotte, che rende la luce del mio faro scintillante e solida nella bruma lattiginosa. Il basso muggito di un corno da una nave al largo pare volerla interrogare sulla direzione da prendere. O forse lo immagino soltanto, chissà se mancherò a qualcuno.
Il cielo si schiarisce, albeggia, è tempo di spegnere il faro per l'ultima volta. Ho già fatto i bagagli, non voglio restare qui a rimuginare sul passato nemmeno per un secondo più del necessario. Ho già detto addio alla torre, al faro, alla mia vecchia casa.
M'incammino per la strada che porta in paese, in cerca di una locanda o un'osteria ancora aperta a quest'ora per farmi un goccio, alla faccia della Luna.
Poi mi volto. La cerco, la trovo. Come me è ancora sveglia, ancora a zonzo. – Dai, vieni a berti qualcosa assieme – le propongo. – Offro io.
La Luna salta giù dal cielo e mi accompagna in paese.

sabato 10 settembre 2022

Ossequioso/Ossequio

Ossequioso [os-se-quió-so] agg. Che manifesta rispetto e ossequio, spesso non privi di servilismo, verso una persona, un'istituzione, un valore; deferente.

Ossequio [os-sè-quio] s.m. (pl. -qui) 1. Profondo rispetto verso persone, istituzioni, valori; nel linguaggio burocratico, obbedienza, conformità. 2. (spec. pl.) Parole riverenti di saluto; omaggi.

Etimologia: dal tardo latino obsequium, derivato da obsequi, "assecondare, obbedire, accondiscendere", composto da ob, "innanzi, verso", e dal verbo sequi, "seguire".



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Samasa era soddisfatta. Il piano stava procedendo come previsto. Se tutto fosse andato come immaginava, non avrebbe dovuto sopportare ancora a lungo di condividere il corpo e la vita con una nullità ossequiosa come la dolce bibliotecaria Vivienne.
Samasa era rimasta a osservare da dietro i suoi occhi, il giorno dopo la propria liberazione, quella donnicciola scusarsi per presunti danni da crimini che non aveva mai commesso, e sgobbare per riparare a supposti torti dei quali non era stata la responsabile.
Non aveva lottato per le sue ragioni, non aveva nemmeno tentato di spiegare che lei non aveva fatto nulla di ciò che la accusavano di aver fatto.
Patetico.
Lei, Samasa, non si sarebbe inchinata di fronte a nessuno, né al cospetto delle schiere infernali, né di fronte alle potenze del paradiso. Lo aveva deciso secoli fa, quando aveva scoperto il testo più prezioso di tutta la Biblioteca, il Libro dei Nomi. Per arrivarci, però, aveva dovuto fingere di stare al gioco, farsi furba, presentare una maschera di ossequio e rispetto. Non era stato difficile imitare Vivienne. Con un pizzico in più di personalità, magari. Ma se non lo avesse avuto, il Custode della Biblioteca si sarebbe accorto che stava tramando qualcosa. Lui la conosceva bene. Era stato il suo mentore, da lui Samasa aveva imparato tutto ciò che sapeva sulla Biblioteca e sui suoi segreti.
Per questo, una volta che si fosse impossessata del potere che gli Dei stessi temevano, una volta che fosse divenuta simile, o addirittura superiore a loro, Samasa avrebbe porto i suoi omaggi al Custode della Biblioteca e si sarebbe liberata di lui nel modo più indolore possibile, per ringraziarlo.
Sempre che nel frattempo quella creaturina spocchiosa non commettesse l'errore di diventare un ostacolo.

giovedì 8 settembre 2022

Collera e piume


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Il vento si levò impetuoso, sollevando granelli di sabbia che ci avvolsero in ruvidi turbinii. Fu come se avessimo risvegliato un'antica divinità sopita, la cui collera ora ci colpiva e schiaffeggiava sotto forma di raffiche roventi. Ma non era un dio a gettare il deserto stesso contro di noi. Erano le possenti ali di un intero stormo della più feroce e pericolosa creatura che si fosse mai vista nel deserto di Atacatela: il mortale Cobra-Teschio volante. Le loro penne taglienti, i loro becchi schioccanti, le loro zampe munite di quattro affilatissimi artigli erano in procinto di farci a pezzi, e tutto ciò perché avevamo avuto l'ardire di scimmiottare la loro elegante livrea. Ahi, non sapevamo purtroppo che avremmo patito un simile affanno per lavare via l'onta di quell'affronto...
– Ok, ok, basta così con il melodramma! – urlai per farmi sentire al di sopra dell'ululato del vento. – Sono solo degli enormi pappagalli!
Dall'alto, udii diverse voci ripetere le mie parole. Pappagalli, appunto. Non sapevano far altro che ripetere.
– Una dozzina di enormi pappagalli – mi corresse Robert, sputacchiando la sabbia che gli era entrata in bocca. – Almeno. Non li ho contati.
Gli afferrai la mano. La visibilità cominciava a essere scarsa, e l'ultima cosa che volevo era perdermi nella tormenta di sabbia. Il vento ci strappò via a poco a poco le penne che avevamo usato per travestirci.
– Chi se lo immaginava che si sarebbero incazzati così tanto?
– Shhh! – zittii Robert e rimasi in ascolto dei battiti d'ala che risuonavano dall'alto. Sembrava che si stessero muovendo in cerchio sopra di noi in stile avvoltoio. Il che voleva dire che se avessimo tirato dritto in una direzione qualsiasi, probabilmente ne saremmo usciti. Dovevamo muoverci alla svelta, prima che il turbine di trasformasse in un tornado di sabbia.
Strattonai Robert per un braccio e mi mossi, ma lo sentii fare resistenza.
– Che c'è? – sbottai, con l'accortezza di proteggermi la bocca con l'altra mano. Avevo già mangiato fin troppa sabbia per i miei gusti.
– Uno di loro è qui a terra. L'ho visto zampettare da queste parti...
– Motivo in più per andarsene – ribattei e me lo tirai dietro, ma non riuscii a fare un passo che mi ritrovai di fronte a un pennuto verde.
Io e Robert urlammo.
Il pennuto urlò.
Solo dopo un bel po' di urla varie da una parte e dall'altra, ci accorgemmo che quella figura ricoperta di piume non ci stava imitando, come avevano fatto invece i Cobra-Teschio volanti prima di appunto, spiccare il volo. E che, inoltre, era piuttosto spennacchiato, proprio come noi due.
– Finiscila, Robert, è solo la nostra guida – lo rimproverai, come se non avessi anch'io pensato di trovarmi di fronte a una di quelle bestiacce.
Dall'alto risuonarono le nostre urla terrorizzate, replicate dai becchi dei pappagalli giganti assieme a un rumore chiocciante che pareva una strana risata.
– Certo che urli davvero in falsetto quando pensi di essere a un passo da una morte orribile – feci notare a Robert. Era un po' difficile prenderlo sul serio quando, ormai più calmi, si poteva riascoltare un'imitazione perfetta del nostro exploit vocale.
– Questo è troppo – brontolò Robert, sollevando un pugno. – Brutti uccellacci, ora mi avete proprio fatto arrabbiare di brut...
Non riuscì a finire la frase, perché dovette girarsi e sputare sabbia a tutto spiano.
– Già, adesso tremeranno di paura – commentai in tono sarcastico, e sollevai un sopracciglio quando la guida stramazzò ai nostri piedi, probabilmente svenuta.
– Andiamo bene.
Uno di noi, almeno, non avrebbe dovuto vedere con che razza di assurdo piano se ne sarebbe uscito Robert per toglierci da quella vorticosa situazione.

lunedì 5 settembre 2022

Kàli l'Urbana


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– Allora che fai domani? Vieni con me? – chiese Tasha, scrollando via dal piatto i microbot spazzini.
Era piuttosto tardi, ben oltre l'orario di chiusura, e Kàli poteva permettersi di rilassarsi e fare compagnia a Tasha dopo aver servito per tutta la notte pietanze dalla preparazione discutibile ai migliori esponenti dell'alta società di Neon Anghels.
– Sempre che tu non abbia un appuntamento con il tuo ragazzo – aggiunse Tasha, guardandola di sottecchi. Era il suo migliore amico, variante umana goblin, un genoma a poche basi azotate di distanza da quello elfico, motivo che aveva portato l'élite dalle orecchie a punta a definirli con scherno "elfi brutti" per le loro orecchie afflosciate, la testa pelata, uno o due denti appuntiti e sporgenti e un generale senso di imperfezione che guastava la fisionomia dei loro volti. Kàli però non li trovava brutti, non quanto gli elfi volevano dare a intendere, e preferiva di gran lunga frequentare i goblin, di carattere molto più simpatico e socievole di quelle bamboline di porcellana con un manico di scopa infilato nel fondoschiena.
– Non è il mio ragazzo – ribatté Kàli, incrociando le braccia. – È uno con cui sono uscita un paio di volte. Non sa nemmeno che sono un'acquatica. – Con una blusa dalle maniche lunghe e il colletto alto a nascondere le squame e le branchie, difficilmente si sarebbe potuto indovinare che Kàli era un'Aberrazione, una delle varianti umane più rare. Il suo portamento elegante e i tratti nobili di un volto che pareva uscito dalle foto dei secoli passati l'avevano resa molto popolare tra i clienti dell'esclusivo Falena di Pharos, uno dei due o tre ristoranti più in di Neon Anghels. C'erano clienti fissi che non cenavano se non era lei a servirli.
– Gli hai mentito? – Tasha la fissò a occhi sgranati, quindi scosse la testa, nell'aggiungere alla pila un altro piatto pulito. – Cattiva ragazza, gli hai fatto credere che sei un'Invariata?
Kàli si strinse nelle spalle. Era quello che pensavano, in genere, le persone che non la conoscevano: che appartenesse a una delle rarissime linee genetiche i cui esponenti non avevano manifestato alcuna mutazione nascosta, e che tuttavia erano sopravvissuti al Giorno delle Urla.
– Non gli ho mentito – replicò Kàli. – L'argomento non è mai stato sfiorato. Non è che sia obbligatorio dichiarare la propria variante umana, no?
Tasha ridacchiò. – Dì la verità, hai evitato accuratamente di dargli appuntamento nei giorni di pioggia, vero? Altrimenti avrebbe visto quanto sai essere fuori di testa quando sei bagnata...
Kàli si staccò dal banco cottura, gli si avvicinò e gli assestò un pugno sul braccio. – Smettila. Se non vuoi che ti affoghi nel prossimo stagno che vediamo.
Tasha non riuscì a smettere di ridere per un bel po', sorvegliato dalle occhiate bieche di Kàli mentre sistemava gli ultimi piatti. Alla fine si tolse il grembiule e si avviò con lei verso gli spogliatoi del personale. – Seriamente, però, ci vieni con me domani? Ci sono delle caverne a nord che nessuno ha più esplorato da decenni... forse addirittura da secoli!
Kàli alzò gli occhi al soffitto. Goblin e caverne, sembrava un'accoppiata inscindibile. Un po' come lei e l'acqua o gli elfi e i loro grattacieli a cinque stelle.
– Per te sarà come tornare alle origini, dai, in fondo, la tua famiglia non veniva da una Riserva? Anche se fatico a immaginarti tra le Aberrazioni Selvagge, guardati, tu sei il ritratto dell'urbanità. Sicura di non avere qualche gene di elfo?
Questa volta, Kàli rise assieme a lui. – Sì, ma era tante generazioni fa. La Riserva, non i geni di elfo, per la precisione. Se ben ricordo la mia bisnonna, forse, è stata l'ultima a vedere una Riserva. Non l'ho mai conosciuta. Si chiamava come me, a proposito.
Il tono della sua voce era sempre più mesto perciò, sulla soglia degli spogliatoi, prima di separarsi, Tasha pensò bene di rallegrarla lanciandole l'esca a cui lei avrebbe senza dubbio abboccato. – Ah, sai, quelle caverne a nord che voglio esplorare... te lo avevo detto che una parte delle gallerie è allagata?

***

Kàli riemerse solo con la sommità della testa e con gli occhi dal lago sotterraneo. Il gocciolio dalle stalattiti le giungeva attutito alle orecchie, tappate dall'eco liquido che le riempiva. Il panorama era incredibile.
La luce della dronosfera che li accompagnava rivelava formazioni calcaree di un rosa pallido che sembravano piccole cascate iridescenti bloccate nel tempo; faceva da contrasto il riflesso turchese dell'acqua increspata dai cerchi concentrici che si allargavano a intervalli costanti dai punti dello stillicidio.
Dietro di lei udì uno sguazzare sgraziato che turbò la pace e la meraviglia di quel luogo. Anche usando un filtro respiratore, Tasha si affrettò a riemergere per prendere una famelica boccata d'aria. – Più lungo... di quel che sembra – mugugnò abbassando la voce, intimorito dall'eco che rimbalzava sulla volta della caverna. Poi fece silenzio, succube anche lui del fascino di quel luogo.
Kàli si immerse e aggirò sott'acqua una formazione calcarea che nascondeva la riva di quella pozza sotterranea. Le era parso di vedere qualcosa, in fondo, come una nebbiolina, sebbene l'acqua non era certo così calda da emanare vapore. La intravide mentre fuggiva, pelle azzurrognola, arti magri, una silfide.
– Aspetta! – gridò Kàli, ma la silfide non le diede retta e fuggì nelle profondità della grotta.
Nel frattempo, sguazzando in acqua, Tasha era riuscito a raggiungere l'amica. – Che cos'hai visto?
– Una silfide – sapevano entrambi che era un'Aberrazione piuttosto rara. A Neon Anghels non ce n'erano, ma a Metronas, a sud, forse viveva una coppia. La maggior parte di loro però si trovava nelle Riserve. – Una bambina. Non può essere qui da sola. Sicuro che non ci sia una Riserva nella zona?
Era proibito avvicinarsi alle Riserve senza il permesso dei residenti. Gli Urbani che lo facevano, andavano in quel territorio proibito a loro rischio e pericolo.
– Sicurissimo. Nessuna Riserva. Ricordi? Grotta inesplorata, eccetera eccetera – ribatté Tasha. Si issò sulla piattaforma di roccia che sporgeva sopra la conca allagata, seguito a malincuore da Kàli.
– Allora dobbiamo trovarla. Forse è davvero da sola. Forse si è persa.
Vagarono per diverso tempo tra le gallerie labirintine della caverna, tracciando la strada per non perdersi con la funzione "orientamento" della dronosfera che illuminava i loro passi. Poi, nel riemergere da un corridoio di roccia particolarmente angusto, che li aveva costretti a camminare in fila per uno e di lato, qualcosa fracassò la dronosfera, precipitandoli nell'oscurità e nel terrore. Le punte di un paio di lance pizzicarono le loro gole, e voci profonde, distorte, ingiunsero loro di continuare a camminare.
– Salamandre – bisbigliò Kàli, udendo il passo sicuro dei due che li spronavano ad avanzare, indifferenti di fronte al loro incespicare e procedere a tentoni.
Dopo una serie di curve di un percorso tortuoso, la luce li abbagliò nuovamente, e quando riuscirono a vedere, Kàli e Tasha si trovarono di fronte a uno spettacolo allo stesso tempo magnifico e agghiacciante.
Un'intera città di torri di granito e palazzi ricavati da minerali scintillanti, finestre di quarzo, tetti di marmo e strade d'opale brulicanti di decine di Aberrazioni dalle forme più strane.
– Una Riserva illegale! – gemette Tasha. Se c'era qualcosa di più pericoloso che avvicinarsi a una Riserva, era avvicinarsi a una che non era nemmeno registrata e autorizzata.
Dalla strada che portava a un palazzo d'alabastro, si fece loro incontro un massiccio garuda, il passo autoritario, una toga candida a coprirlo, e ali con file di penne rosse, bianche e oro. Si fermò dinnanzi ai due intrusi e li fissò con occhi severi al di sopra del becco d'aquila, poi si rivolse all'acquatica.
– Le somigli moltissimo – disse, con un calore nella voce che era l'ultima cosa che acquatica e goblin si sarebbero aspettati. – Bentornata a casa, Kàli.

sabato 3 settembre 2022

Subdolo

Subdolo [sùb-do-lo] agg. Ingannevole, infido, ipocrita.

Etimologia: dal latino subdolus, composto da sub, "sotto", e dolus, "inganno".



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Foto di Yuri Manei da Pexels


Lo Scettro Verde non poteva essere trovato se non dall'Erede, e una volta trovato non poteva esserle strappato con la forza. Solo se fosse stato consegnato spontaneamente, la sua magia poteva passare in altre mani. Questo lui lo sapeva, ed era l'unico motivo dietro a quel subdolo piano.
No, forse non l'unico: l'inganno, la tortura che stava infliggendo nel costringere me in un ruolo che non mi apparteneva e lei ad affrontare ciò che riteneva un mostro senza cuore, davvero lo divertiva.
– Tu sei malvagio! – urlò la ragazza. – Non ti consegnerò mai lo Scettro verde.
Sarei stato fiero di lei, non fosse stata sul punto di fare la scelta peggiore.
Sentii la mia testa inclinarsi e sulle mie labbra affiorare il suo sorriso. E la mia voce, che suonava così diversa quando era lui a mettermi in bocca le parole. – Peccato, capelli bianchi. Avresssti potuto sssalvarlo. Ricorda: hai ssscelto tu di lasssciarlo nelle mie mani.
I miei occhi lo inquadrarono. Legato, sporco, insanguinato, afflitto: avrei provato pietà anch'io se non avessi saputo cos'era.
– Ma io lo sto salvando – ribatté lei. E poi vennero le parole che io avevo temuto, e che lui attendeva. – Prendi lo Scettro Verde. Usalo per liberarti. Aiutami a sconfiggerlo.
Lei stava tenendo d'occhio me, perciò non vide la brama nei suoi occhi. Una brama che lo rese imprudente, concentrato sull'oggetto del suo desiderio. I fili con cui mi muoveva si allentarono.
Cosa fare della mia libertà? Considerai l'idea di ucciderlo, ma il tentativo avrebbe solo confermato il suo inganno agli occhi della ragazza, tanto era stato convincente e subdolo nel recitare la parte della vittima. Allora mi lanciai su di lei, la gettai a terra. Avevo poco tempo per avvertirla prima che lui riprendesse in mano i fili.
– Non ti fidare! – Oh, com'era diversa la mia voce, quando era la mia voce! Anche lei se ne accorse. – Lui è Thiss!
Non riuscii a dire altro. La mia libertà era di nuovo perduta. Ma il dubbio intanto si era già insinuato nei suoi occhi.

giovedì 1 settembre 2022

Viaggio in Europa


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Foto di Pixabay da Pexels


Era una notte troppo bella per restare in casa, una notte di stelle, di grilli e di lucciole. La ragazza dagli occhi d'argento sedeva su una panchina in giardino, la testa all'insù, tra pianeti e costellazioni. Nel buio bubolavano i gufi, ma lei non li stava a sentire. Pensava.
Pensava alla luna d'argento, quasi piena quella notte. Pensava a Giove e alle sue lune, i cui nomi avevano storie da raccontare, miti di Dei e di persone mai esistite. Pensava ai luoghi da cui quelle storie venivano.
L'Europa era più lontana che mai in quegli anni, per metà trincerata dietro un muro. Le ragazze... non quelle come lei, le altre, le ragazze umane, fantasticavano di viaggiare nel vecchio continente, di assorbire la sua bellezza, e magari di innamorarsi di un affascinante europeo. Sognavano di scappare in Francia, in Italia, in Grecia, in Spagna, e perfino nell'amata-odiata padrona di un tempo, la terra che aveva l'altisonante nome di Gran Bretagna. Nessuna di quelle ragazze però si sarebbe mai sognata di oltrepassare quel confine invisibile che separava le nazioni civili e libere da quelle schiave dell'attuale, pericoloso nemico. Lei, invece, era consapevole che doveva farlo.
Anche se tutti erano concordi che quelli erano luoghi che nessuno avrebbe voluto visitare, e ancor meno soggiornarvi. Se le antiche mappe dichiaravano delle terre pericolose e inesplorate "qui ci sono i leoni", quelle nuove sembravano etichettare zone totalmente diverse con la scritta "qui ci sono i comunisti". Come a dire, tenetevi alla larga.
La ragazza dagli occhi d'argento la sentì arrivare ancor prima di udire i suoi passi fruscianti sull'erba. Anche immersa nei propri pensieri, anche quando non era in consapevole ascolto delle loro menti, sapeva esattamente dove si trovava ogni abitante della casa. E la riunione era finita da un pezzo.
– Oggi sono arrivati altri due residenti – osservò l'ambasciatrice Christel sedendo al fianco della ragazza sulla panchina. Identici occhi d'argento, solo più antichi. – Stiamo diventando troppi. Rischiamo di attirare l'attenzione dei nativi, tutti in un unico luogo.
La ragazza dagli occhi d'argento si voltò a fissarla. La stai prendendo parecchio alla larga, mamma, fu il suo pensiero, che giunse nitido come se lo avesse pronunciato alla mente dell'altra.
Christel sorrise. – Inoltre, abbiamo bisogno di occhi e mani dall'altro lato della cortina. Non è facile reperire notizie e intervenire con prontezza, da qui.
La ragazza annuì. Qualche mese prima era sfuggito loro l'arrivo di un estraneo, non ostile, ma comunque pericoloso se lasciato a vagare da solo sulla Terra. I nativi erano quasi riusciti a mettere le mani su di lui prima che una squadra mandata dall'Ambasciata lo trovasse e lo portasse tra loro, al sicuro. L'incidente non doveva ripetersi.
– So che sei pronta – mormorò ancora Christel. – Scegli tu chi portare. Ti seguiranno, è nel nostro sangue.
Chissà che ne avrebbero detto gli americani. Nella terra della democrazia e della libertà, non c'era mai stata nessuna elezione per decidere chi avrebbe dovuto porsi al comando della prima Ambasciata Aliena sulla Terra. E lo stesso sarebbe accaduto per la seconda, in terra d'Europa. La ragazza annuì. Aveva già diversi nomi nel suo carnet, compagni di squadra con cui aveva affrontato diverse missioni di recupero e un paio di annientamenti di invasori, le sue prime prove di comando.
– Avevo la tua età, o anche meno, quando ho salvato un mondo – considerò quasi tra sé Christel.
La ragazza roteò gli occhi d'argento. Aveva già sentito innumerevoli volte quella storia. Come le Prime si erano unite per scongiurare l'invasione di Earanphies, la perduta patria che forse lei non avrebbe mai visto. Era un mondo lontano, troppo per un salto nel nonspazio.
L'Europa invece, anche se sembrava così misteriosa e lontana per una ragazza nata in America, per lei era ad appena due secondi di distanza da lì.
La ragazza dagli occhi d'argento si alzò. – Vado a dare la notizia agli altri. E domani... – Per un attimo, solo per un attimo, la sua espressione solenne si fece più allegra, le guance si imporporarono nella frizzante notte estiva, e gli occhi le brillarono di gioia. – ...devo dirlo a tutte le mie amiche, mia madre finalmente mi lascia andare in vacanza in Europa, era ora, saranno così invidiose! Peccato solo che non ci rivedremo per tanto, tanto tempo. Oh, beh. È solo un piccolo sacrificio, no? Qualche mese e poi torno, con tante, tante cose da raccontare!
La ragazza dagli occhi d'argento tornò seria. Sapeva che organizzare e dirigere un'ambasciata non sarebbe stata una vacanza. Sarebbero passati anni prima di poter abbandonare il suo posto anche solo per qualche giorno. Le altre ragazze, quelle umane, l'avrebbero attesa per qualche mese, poi l'avrebbero dimenticata. E a quelle che non lo avrebbero fatto, bastava dire che si era innamorata di un europeo e se l'era sposato. In fondo, quella era la favola che tutte volevano sentire.
La ragazza si allontanò sotto le stelle di qualche passo tra lucciole e grilli, poi si voltò. – Non mi hai detto dove.
Un sorriso misterioso si distese sulle labbra dell'ambasciatrice. – C'è una terra di storie e leggende, dove la verità, se intravista, verrà distorta in un mito, e uno straniero bizzarro può suscitare dicerie, ma verrà lasciato in pace. La chiamano... Transilvania.
La ragazza dagli occhi d'argento annuì. Ne aveva sentito parlare, e aveva letto un libro. Di sicuro, tra tutte le creature che la superstizione poneva in quei luoghi, nessuno sarebbe mai andato a pensare che vi si nascondessero gli alieni.