lunedì 19 settembre 2022

Vedere con i propri occhi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Ryanniel Masucol da Pexels


Era stata una bella giornata, come non ne avevo più da tempo con loro. Da quando ero tornata, per la precisione: pur vivendo sotto lo stesso tetto, era come se non ci conoscessimo più, come se fossimo diventati degli estranei. Speravo che il discorso che avevo rimandato fino a sera, che dirgli tutto su di me ed essere onesta fino in fondo potesse sistemare le cose, ma intanto mi ero goduta quella giornata in campeggio con la mia famiglia. Era stato bello tornare per un po' bambina, indossare senza fingere la mia età anagrafica umana, aiutare papà a raccogliere la legna e finire a giocare a nascondino tra gli alberi, mangiare panini e dolcetti su una coperta, ridere e scherzare tutti assieme. Sì, era stata proprio una splendida idea approfittare di quella giornata di festa per piantare un paio di tendine nel bosco.
Poi era calata la notte, e papà aveva acceso il fuoco, e le stelle che brillavano tra i rami degli abeti e dei larici mi avevano ricordato il motivo per cui avevo tanto insistito per fare quella gita in un luogo così isolato, lontano dalla folla cittadina e dal nostro appartamento di Londra.
Avevo ancora lo sguardo calamitato dalle stelle splendenti, e non osavo guardarli né cominciare il discorso, quando mio padre si accomodò tra la tenda e il falò e disse: – Bene, siamo stati a caccia di scoiattoli e di fringuelli per il nostro album fotografico, abbiamo fatto una gita in barca sul lago, abbiamo cantato canzoni e giocato a carte... ora direi che manca solo un classico del campeggio, le storie spaventose di fantasmi attorno al fuoco... che ne dite?
Prima che la mamma potesse prendere la parola, rivolsi loro un debole sorriso e dissi, con l'ultima traccia del tono allegro e infantile che avevo conservato da quella giornata: – Ho io qualcosa da raccontare, ma non è una storia inventata e spero davvero tanto che non sia spaventosa. – Mentre ridevano con me, mi accoccolai sulla coperta, poi facendomi seria, dissi: – Sono pronta. Sono pronta a parlare di dove sono stata quando ero via.
Non ero pronta in realtà, no, niente affatto pronta. Ma ero tecnicamente ancora minorenne per le leggi di questo paese, e dunque avevo bisogno del loro consenso per iniziare il mio nuovo lavoro per l'Ambasciata, e per avere il loro consenso, loro dovevano sapere.
La mamma prese il mio silenzio per quello che era: un'esitazione. – Va tutto bene, non devi per forza...
Non la lasciai proseguire. – Sono tornata a casa. Nel luogo da dove provengo, da dove viene la mia gente. A Elayeraaniél, è... è questo il nome del pianeta.
Nel loro stupore palpabile rimase solo il crepitio del fuoco a conversare con il frinire dei grilli, e con il bubolare di un gufo solitario. Sembrava un vero e proprio intermezzo da film, finché mia madre non si alzò e disse: – Non ho intenzione di ascoltarti raccontare favole, se non te la senti di parlarne fa' pure come credi, ma non inventarti queste frottole assurde, Kathy.
Ero preparata a reazioni simili. Non mi avrebbero creduto finché non lo avessero visto con i loro occhi, ma prima di vedere dovevano essere pronti, o sarebbe stato peggio. Racimolai tutta la calma che mi fu possibile trovare, difficile per me che ero considerata la testa calda nel gruppo dei miei simili cresciuti qui sulla Terra, i cosiddetti Children of Earth.
– Ho le prove di quello che dico. – Il loro atteggiamento, la curiosità e il rispetto nei loro occhi mi dissero che all'improvviso non mi vedevano più come una bambina. Fingevo così spesso di esserlo di fronte a loro, per loro, che non mi ero mai resa del tutto conto di quanto fossi maturata nel periodo che avevo trascorso lontano dalla Terra. Ora avevano cominciato a rendersene conto anche loro. – Le vedrete, ma non adesso. Prima dovete ascoltarmi, potete anche non credere, ma ascoltate.
Raccontai loro dei Children of Earth, e degli altri gruppi di neonati che il Seleeriewn, la nostra gente, aveva nascosto su molti altri pianeti abitati, sotto le spoglie delle specie che risiedevano su quei mondi, per proteggerci e lasciare una traccia della nostra esistenza nell'universo in vista di un enorme pericolo che minacciava Elayeraaniél e tutti coloro che lì vivevano. Parlai come, scampato il pericolo, fossero tornati a prenderci, e per tutto il tempo che ero stata via io e gli altri eravamo stati istruiti sulle usanze della nostra gente, sui progressi scientifici e ingegneristici, e di come avessi imparato a dominare la mia seconda mente, custodita in una sfera viola che potevo separare dal mio corpo, e avessi costruito, anzi coltivato dato che quasi tutto su Elayeraaniél era costituito da materia biologica, la mia Zaesheen, la navetta monoposto che avevo imparato a pilotare in formazione con le altre del mio gruppo con una tale sicurezza da poter eseguire assieme una serie di complicate acrobazie aeree per il nostro esame finale. Dissi loro di come il Seleeriewn si aspettava che una volta tornati e integrati tra la nostra gente restassimo su Elayeraaniél, e molti dei ragazzi provenienti da altri pianeti avevano deciso in tal senso, ma noi della Terra eravamo stati concordi nel voler tornare sul nostro pianeta adottivo.
Mostrai loro la sfera, che ovviamente non era sufficiente a impressionarli anche se mi permetteva di eseguire calcoli a mente estremamente complessi in un batter d'occhio, e la Zaesheen, che nel frattempo avevo richiamato dal nostro cortile londinese con la guida da remoto, che furono fin troppo svelti a respingere come prova giustificandola come un sofisticato progetto scolastico di scienze.
Si stavano arrampicando sugli specchi. Ma non capii il perché finché non arrivai a spiegare loro di come il Seleeriewn avesse compreso perfettamente l'affetto che ci legava alle famiglie che ci avevano cresciuto, e il senso di appartenenza che ci aveva spinto a voler tornare sulla Terra.
– Kathy, bambina – intervenne la mamma. – Tutto questo sarebbe, non dico credibile, ma perlomeno in minima parte plausibile se ti avessimo adottata. Ma tu sei mia figlia, questo lo so per certo, perciò, vedi, non puoi essere un'aliena. Lo capisci anche tu che è impossibile.
Vidi papà annuire e cingerle un braccio con le spalle. Quella era forse la parte più difficile di tutte da raccontare.
– In alcuni casi sì, hanno fatto in modo che alcuni di noi fossero adottati. – Cominciai prendendola alla larga, quasi mormorando le parole, lentamente, per scegliere quelle corrette. – Ma in altri hanno... riempito una culla che altrimenti sarebbe... rimasta vuota.
Guardai la consapevolezza farsi strada nei loro occhi, il desiderio di rifiutare quella verità che lottava con un dolore mai espresso, mai conosciuto. Gli occhi della mamma brillarono lucidi del riflesso delle fiamme.
– Hanno pensato che fosse... più pietoso per voi, e più sicuro per me, se non ci fossero stati dubbi sulle mie origini. Almeno, non finché fossi stata indifesa.
Mi allungai per afferrare la mano della mamma mentre lo dicevo, ma le sue dita sgusciarono via dalle mie. – No... no! Dov'è mia figlia? Dimmi dov'è! – urlò sempre più forte, tra le crisi di pianto. Papà la stringeva e basta, protettivo, mormorandole qualche parola ogni tanto.
D'un tratto avvertii tutto il freddo della notte estiva soffiarmi contro nella lieve brezza. Rabbrividii. Non mi ero mai sentita così sola, ed era una sensazione nuova per me che ero una Vyserin, coloro che proteggevano da lontano, i più refrattari al contatto fisico e alla vicinanza tra i membri del Seleeriewn.
– Mamma, sono io. Guardami. – La mia voce si era fatta supplichevole. Non mi piaceva, e non riuscivo a farmi ascoltare, a indurla a capire. Ora che mi credeva, quasi avrei voluto che non lo avesse fatto. Reagii a quel nuovo dolore, a quel rifiuto, ricorrendo alla gelida verità dei fatti. – Hanno usato il suo DNA per completare le caratteristiche individuali del mio fenotipo umano, perciò io sono vostra figlia. Io sono Kathy. L'unica Kathy che abbiate conosciuto!
Capii di avere esagerato quando papà mi rivolse uno sguardo astioso e la mamma prese a singhiozzare più forte. Volevo che vedessero il mio aspetto alieno senza provare timore, e invece ora mi vedevano soltanto come una creatura aliena.
– Pietoso... – riprese la mamma, a fatica. – Se conoscesse la pietà, questa tua gente, mi avrebbe almeno lasciato una tomba su cui piangerla.
Non c'erano cimiteri su Elayeraaniél, ma questo la mamma non lo sapeva. Il Seleeriewn non seppelliva i propri morti. Li vaporizzava e disperdeva le molecole nell'atmosfera. Lo avevo visto fare mentre ero sul pianeta, e l'effetto collaterale era sempre un effimero ma nitido arcobaleno. Immaginai che sulla Terra accadesse lo stesso.
– Pioveva, il giorno in cui sono... in cui lei è nata, giusto?
Non molto difficile da indovinare. Vivo in una nazione famosa nel mondo per le sue piogge. Oltre che per la sua famiglia reale e per qualche altra cosa.
– Sì, e allora? – La voce di mio padre era ancora ostile.
– Poi è comparso un arcobaleno.
Di quello ero certa. Lo avevo visto nei vecchi album di foto, ma non avevo mai fatto il collegamento prima di quel giorno.
– Sì, il mattino dopo che sei... che lei è nata.
Quell'errore da parte di mio padre mi ridiede speranza. Non aveva smesso del tutto di vedermi come una figlia.
– Quell'arcobaleno era lei. L'altra Kathy. La prima, voglio dire.
Raccontai loro dei funerali del Seleeriewn e di come fossero paragonabili allo spargere le ceneri al vento in uso in certi luoghi della Terra, e parlai ancora di come una notte la sfera si era separata da me, e di come avevo scoperto sulla mia pelle una mappa stellare che mi aveva condotto al luogo del ritrovo nel giorno della mia partenza, una storia che condividevo con gli altri Children of Earth. Spiegai la nostra ambizione di proteggere in segreto la Terra da qualunque minaccia o invasore ostile a bordo delle nostre Zaesheen, e che non saremmo stati gli unici a farlo, ma che saremmo stati parte di una squadra di alieni che già risiedevano sul pianeta, e che si occupavano della questione da molto più tempo di noi. Non saremmo stati da soli. Non ci avrebbero permesso di affrontare dei rischi troppo grandi per la nostra scarsa esperienza.
Ma non sarei andata, se loro non lo avessero voluto. Perché erano i miei genitori, e nulla riguardo a come era iniziato il nostro viaggio insieme poteva cambiare questa realtà.
Li lasciai sfogare. Li consolai. Attesi tutto il tempo che ci volle, anche se fremevo di impazienza per quest'ultima prova.
Solo dopo, quando capii che erano pronti a vedermi davvero, mostrai loro com'ero.

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