giovedì 22 settembre 2022

La magia della vecchia casa abbandonata


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Soly Moses da Pexels


La vecchia casa abbandonata in fondo alla via era il nostro terreno di gioco preferito. In apparenza, nella luce del mattino quando ci voltavamo a guardarla prima di andare a scuola, non sembrava nulla più di una villetta ceduta dai suoi proprietari al tempo e all'incuria, con le finestre sbarrate da imposte di legno mezzo marcio, l'intonaco scrostato, le colonne del balcone ricoperte d'edera e una selva di altissime erbacce attorno, uno di quei posti da cui i nostri genitori, giudicandolo pericoloso e pericolante, vorrebbero a tutti i costi tenerci lontani. Noi ragazzi ci saremmo andati lo stesso, anche se fosse stata niente più di una vecchia casa abbandonata, ma in realtà la casa era molto di più. Non era soltanto un posto. Era una compagna di giochi, capace di indovinare ciò di cui avevamo bisogno e offrircelo, di rendere reali i luoghi della nostra fantasia.
Tutti i bambini del vicinato lo sapevano: la casa era magica.
Le femmine ci andavano di primo pomeriggio, e io non ho saputo che cosa fosse la casa per loro finché casualmente non avevo sentito un gruppo di ragazzine parlarne alla fermata dell'autobus. Dicevano che il vecchio pianoforte sgangherato nella sala della musica prendeva vita e si metteva a suonare per loro, e nella sala da ballo dame e cavalieri danzavano e in quella reggia loro erano le principesse; altre volte veniva servito il tè nella sala da pranzo, e l'amica perfetta veniva a far loro compagnia; o ancora, sul retro della casa, c'era una stalla piena di unicorni variopinti e docili, in grado di portarle ovunque volessero, mentre al primo piano, nella sala dei giochi, le bambole recitavano da sole le scene a cui loro desideravano dare vita, come in un magico teatro dei burattini, o diventavano dei bambini veri da cullare e coccolare.
Riuscii a non mettermi a ridere in quell'occasione, ma di certo pensai che le femmine erano davvero strane se si accontentavano che la casa facesse solo quelle cose buffe e insulse per loro.
Alle quattro e ventinove del pomeriggio, esattamente a quell'ora ogni giorno, estate o inverno, con la pioggia o con il sole, bambine e ragazze si affrettavano a uscire dalla casa abbandonata e a dirigersi altrove. Perché a quell'ora, la magia della casa smetteva di funzionare per loro e iniziava a funzionare per noi. Noi bambini e ragazzi ci precipitavamo dentro pronti a vivere un'altra delle nostre avventure. La casa era per noi un cavernoso covo di pirati su un'isola tropicale da esplorare in cerca di un tesoro; era una fortezza da conquistare, o un misterioso pianeta alieno, o il quartier generale di un gruppo di supereroi invincibili che, ovviamente, eravamo noi. A volte, più di rado, la casa era soltanto una vecchia casa abbandonata con i pavimenti ingombri di detriti, le pareti chiazzate di umidità da imbrattare di graffiti a nostro piacimento, i mobili sgangherati su cui arrampicarci e vecchie suppellettili polverose da distruggere, beandoci del fracasso della porcellana sul pavimento mentre il vento penetrava ululando tra i listelli di legno delle imposte, o dal vetro rotto di una finestra. Ma era una vecchia casa con un'infinità di stanze, molte più di quante ne potessero ragionevolmente contenere i suoi confini, e ogni volta che ci addentravamo in essa ne scoprivamo di nuove.
La notte in cui la mia casa bruciò, ricordo che mia madre e mio padre vennero a svegliarmi per portarmi fuori. Mentre uscivamo, una parte del soffitto crollò e le fiamme ci separarono. Mi dissero di scappare e così feci, e mi ritrovai da solo nella notte. Avevo freddo in pigiama e ciabatte, freddo nonostante il bagliore delle fiamme alle finestre e sul tetto, e l'odore soffocante del fumo mi faceva tossire. Li aspettai, ma loro non uscirono. Non uscirono nemmeno quando, circondato da luci lampeggianti, tra la confusione di vigili del fuoco che correvano attorno alla casa in fiamme con gli idranti e una cerchia di vicini venuti a curiosare, li chiamai più volte, urlando finché la gola non mi fece male.
Poi, arsa da una marea di fiamme così abbacinanti che non si riusciva nemmeno a guardarle, con uno spaventoso cigolio stridente seguito da un boato come di tuono, la mia casa crollò.
Non so che mi prese in quel momento, o forse sì. Tutto il mio mondo era distrutto, scomparso. Non mi rimaneva che un solo posto dove rifugiarmi, dove cercare di dimenticare quello che avevo appena visto, quello che sapevo senza più ombra di dubbio. Che non li avrei più rivisti.
Scappai. Corsi fino alla vecchia casa abbandonata in fondo alla via. Era notte, mi dicevo, perciò erano passate da un pezzo le quattro e ventinove di pomeriggio, funziona, deve funzionare, ti prego funziona ancora. Mi fermai ansante e disperato davanti al giardino incolto, mezzo pregando a fior di labbra, e alzai gli occhi. Davanti a me vidi la mia casa, esattamente come la ricordavo.
Entrai di corsa chiamando "mamma, papà!" e salii a due a due i gradini e mi precipitai nella loro camera da letto. Loro erano lì, a chiedermi se avevo avuto un brutto incubo, e a invitarmi a dormire nel lettone come quando ero piccolo. Mi accoccolai tra le coperte e li abbracciai.
La mattina dopo alcuni tra i miei vicini intenti alla ricerca, che per caso erano entrati nella vecchia casa fatiscente, mi trovarono addormentato su un vecchio materasso muffito che riposava su ciò che restava del telaio di un letto a due piazze con la testiera curvata dall'umidità e le doghe spezzate. Quella fu l'ultima volta che entrai nella casa abbandonata in fondo alla via.
Il giorno dopo cambiai strada, città e perfino regione. Andai a stare dai miei nonni paterni, a chilometri di distanza da tutti i miei amici e dal nostro magico parco giochi.
Sono passati anni da allora. Io sono cresciuto. Non ho più pensato a questa parte della mia vita, e non sono più stato nella mia vecchia strada, a vedere che ne è stato della casa abbandonata. E non lo avrei mai fatto, se non fossi stato sul punto di costruirmi una famiglia.
L'altro ieri ci sono andato. Non con la mia futura moglie, da solo, mentre tornavo da un viaggio di lavoro da quelle parti. Marika sa dell'incendio, questo è ovvio, ma di tanto altro non le ho parlato, non so se potrebbe capire, stento a capirlo persino io.
Prima sono passato dov'era la mia casa, pensando, sperando, che l'avessero ricostruita uguale. E invece al suo posto c'era un'altra casa, diversa da quella che era stata mia, e un'altra famiglia. Non riconobbi quel posto, persino le case dei vicini erano cambiate, ridipinte di altri colori, ammodernate, ristrutturate. Camminai lentamente fino in fondo alla via. Era ancora presto, ero arrivato con qualche minuto di anticipo, e potevo prendermela comoda.
La vecchia casa abbandonata, la mia unica certezza, c'era ancora. Le chiazze di intonaco scrostato erano più grandi, il giardino un groviglio di erbacce più alto e più intricato, un angolo del balcone era crollato e molte delle finestre erano orbite vuote e fisse senza più vetri o imposte di legno a proteggerle. Ma lei c'era, era lì, resisteva ancora. Guardai l'orologio con impazienza, in attesa delle fatidiche quattro e ventinove del pomeriggio, in attesa delle frotte di ragazzine che sciamavano fuori atterrite. Berto mi aveva raccontato che una volta una bambina era rimasta indietro ed era ancora dentro la casa quando è scattata l'ora dei maschi; che si è persa in un maniero stregato e che quelli che erano dentro l'hanno vista passare urlando, i capelli bianchi e le mani che graffiavano la faccia, ma non sono riusciti ad acchiapparla, o a ritrovarla, e la bambina non ne è uscita mai più. Era solo una storia, nessuno della zona era mai scomparso nella casa, ma forse la conoscevano anche le ragazze, e forse per questo erano tanto ligie nel lasciarci campo libero quando scattava la nostra ora.
Che strano, mancava solo un minuto, e ancora non si era radunato nessun bambino o ragazzo in attesa al cancello. Quattro e ventotto e trenta secondi.
Quattro e ventinove.
Nessuno stava uscendo dalla casa. Nessuno stava entrando.
La fissai, le mani aggrappate alla vecchia inferriata, talmente bassa che era facile da scavalcare perfino per un bambino, se aveva voglia di fare l'ardito invece di passare dal cancelletto semiaperto.
– Sei tutta per me – le dissi. – Sai quello che voglio vedere.
L'immagine della mia prima casa era marchiata nella mia memoria, un ricordo indelebile come tutte le cose perdute che non si possono riavere. Attesi, poi presi a camminare attorno alla villetta abbandonata, provai a chiudere gli occhi e a riaprirli, a distogliere lo sguardo e la mente dall'immagine di quella dimora in rovina per lasciar agire la sua magia, ma niente, la vecchia casa abbandonata non cambiò di una virgola. Alla fine me ne andai senza ricevere quello per cui ero venuto.
Forse, mi dissi, la sua magia non funziona per gli adulti. Forse, abbandonata persino dai suoi compagni di giochi che di questi tempi hanno altri interessi, la vecchia casa si è intristita, è invecchiata, ha perso a poco a poco i suoi poteri. Forse non c'è mai stata altra magia che la fervida immaginazione di bambine e bambini che si davano il cambio nell'inventare storie fantastiche durante i loro giochi.
Probabilmente non lo saprò mai, ma non importa. Io me lo ricordo. Mi ricordo di combattimenti contro i pirati e di un mantello che mi rendeva super forte, mi ricordo di aver galleggiato a gravità zero, di una bruttissima zuppiera che è quasi finita in faccia a Berto quando dovevo sfogarmi perché mi aveva fatto fare brutta figura di fronte a una ragazzina che mi piaceva, e mi ricordo della mia ultima notte con i miei genitori.

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