lunedì 29 maggio 2017

Nebbia

(racconto ispirato dall'esercizio Fantasia astratta. Per scriverlo ho osservato le volute di fumo di un bastoncino d'incenso)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

     La nebbia fitta impediva di vedere qualsiasi cosa, ma subito, come per un incantesimo, la nebbia si disperse e una strana creatura emerse dalle grigie e informi profondità di quel cielo anonimo. La creatura aveva un volto e un corpo femminile, ma candide ali al posto delle braccia. Volteggiava con abilità e leggerezza nel cielo, descrivendo cerchi, fantasiose figure e ardite evoluzioni. Battendo le ali con un colpo deciso la donna-angelo si innalzò fino ai confini del cielo, poi scese rapidamente; nel frattempo il suo corpo stava cambiando. La metamorfosi si concluse in una forma altrettanto leggiadra, un uccello del paradiso dalla lunga coda, che si librava con rapidi colpi d’ala al di sopra dell’oceano. Ma in quell’istante giunse un corvo, nero come la notte più buia senza luna né stelle, e molto più grande dell’uccello del paradiso; il corvo tentò di ghermirlo con i suoi possenti artigli. I due alati abitanti del cielo combatterono con ogni forza, il corvo crudelmente straziava piume e carni ogni volta che ne aveva l’occasione, ma l’altro difendeva strenuamente la propria vita. L’uccello del paradiso stava perdendo le forze… e un ulteriore attacco del corvo lo colse impreparato. Con le ali a brandelli, l’uccello del paradiso precipitò nell’oceano, e lì svanì. Le correnti turbolente si incontravano e si scontravano, trascinando ogni cosa nei loro vortici. Ma più giù, negli abissi azzurri, nell’acqua palpitava la vita. Una medusa traslucida ondeggiava ritmicamente, spostandosi verso l’alto. Più in là, banchi di pesciolini iridescenti si muovevano in sincronia, quasi fossero un unico corpo, quasi respirassero e vivessero come se fossero stati uno. Un delfino, o forse due o tre, nuotarono verso la superficie, accompagnati da una sirena dalle pinne blu come l’oceano che li seguiva divertita. Sembrava che volassero, sembrava che l’acqua fosse in realtà aria. I delfini raggiunsero la superficie e la infransero, saltando gioiosi nei loro eterni giochi. Anche una balena saltò, sollevando grossi spruzzi d’acqua. Al suo passaggio, tutti gli altri abitanti dell’acqua si scostarono con riverenza. In fondo, stava passando niente meno che la regina dei mari! Ma tutto il suo imponente splendore non bastò a salvarla. La balena si arenò su una spiaggia dorata. Si alzò il vento, e la sabbia ricoprì a poco a poco il corpo della balena, formando prima una collina, poi una montagna. Con il passare del tempo sulla montagna crebbe una foresta. Gli spiriti della terra cominciarono a riunirsi in quella foresta, prima occasionalmente, poi sempre più spesso, finché non elessero quel luogo incontaminato a loro dimora. Erano elfi, gnomi, goblin e folletti, oltre a tutte le creature che la terra, prodiga di doni, ospitava e nutriva. Gli spiriti della terra si inseguivano, nascondendosi tra gli alberi, ma i loro erano giochi privi di intenzioni malvagie. Sopra le loro teste, in un nido color della cenere giaceva un uovo, un brillante rubino su cui s’intravedeva una crepa. Poi l’uovo esplose e la fiammeggiante fenice spalancò le ali e si librò nell’aria, bruciando ogni cosa al suo passaggio. L’incendio si estese, e già gli abitanti della terra fuggivano in preda al panico, già gli spiriti abbandonavano quei luoghi. Ma non tutti furono abbastanza veloci, e molti rimasero intrappolati, inermi, nel cerchio dei caldi abitanti del fuoco, loro acerrimi nemici. Le fiamme e la fenice, loro madre, osservarono compiaciute il nuovo mondo che stavano creando. Infine non ci fu più niente da bruciare e anche le fiamme e la fenice si spensero, tra disperati crepitii. Rimase solo il fumo, denso, grigio. Come nebbia… ma era nebbia! La nebbia fitta impediva di vedere qualsiasi cosa, ma subito, come per un incantesimo, la nebbia si disperse e una strana creatura emerse dalle grigie e informi profondità di quel cielo anonimo. La creatura aveva un volto e un corpo femminile, ma candide ali al posto delle braccia. Era una donna-angelo, e stava sorridendo. Poi il filo che saliva tornò a essere piatto e le figure che aveva fino ad allora creato si dispersero nella semioscurità della tenda.
      – Tutto qui? È solo questo ciò che riesci a vedere nel fumo del tuo incenso, maga? – disse l’uomo che era venuto a consultarla, accennando alla ciotola dove le erbe stavano finendo di bruciare. La maga annuì, ma non pronunciò più alcuna parola. Non poteva parlare, se non quando l’incenso parlava attraverso di lei: era priva di voce fin dalla nascita.
     – Niente conquiste di regni, principesse da sposare, destini speciali? – chiese ancora l’uomo. La maga non rispose. Chiuse gli occhi sconfortata.
     – Solo una misera storia! Se avessi voluto una storia, sarei andato da un menestrello. Da te volevo sapere il mio futuro, maga! – gridò l’uomo, uscendo irritato dalla tenda.
     La maga scosse la testa, poi aprì i suoi penetranti occhi grigi, grigi come la nebbia, nelle cui insondabili profondità si celavano tutti i misteri, e pensò: Povero cieco, se almeno avessi saputo ascoltare… ascoltare veramente… avresti trovato ciò che cercavi… la tua storia. Non avresti chiuso le porte al tuo destino speciale, come invece hai appena fatto!

sabato 27 maggio 2017

Irretire

Mi lamentavo di non trovare verbi da presentarti? Eccone qua uno affascinante!
Ma... capita solo a me di associarlo all'immagine di una rete da pesca?

Irretire [ir-re-tì-re] v.tr. (irretisco, irretisci ecc.) [sogg-v-arg] Sedurre, accalappiare qualcuno con l'inganno, circuire.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Sto cercando di dare spazio, nei brani associati alle parole dal dizionario, a personaggi e storie che finora ho un po' trascurato. Mi sembra strano non aver mai pensato a questa, che incrocia nella stessa trama due dei miei temi preferiti come fonte di ispirazione: mitologia e favole.


Eco aveva in mente qualcosa. Ne ero certo.
Lo capii da come appariva e scompariva senza sosta per la Sala del Trono. Nella sua volatile testolina di vento si agitava un pensiero ossessivo quanto le voci che le fluivano dalle labbra.
Ma io non sapevo quale.
– Come è stato?
Me la vidi di fronte, seduta a mezz'aria, le gambe incrociate e il mento sorretto dalle nocche. La sua voce era bizzarra e incostante, a volte doppia o strascicata, ma sempre composta dalle parole che aveva udito di recente, spesso da persone diverse.
Il suo corpo traslucido sparì di nuovo, solo per comparire qualche istante dopo, ancora più vicino, e non più seduto. I suoi piedi, però, non toccavano terra.
– Lasciarti irretire dal tuo riflesso. Come è stato, Floràe?
– Lei non mi ha irretito – le risposi. – Il nostro è amore. L'amo di  quell'amore che libera e rende...
– Bla, bla, bla, bla, bla – m'interruppe Eco, saltando da un punto all'altro ogni volta che lo ripeteva con una voce diversa.
Mi ricomparve davanti e sfiorò con una mano la superficie gelida che era la mia unica finestra sul mondo.
– Che noia. – Si girò verso i sovrani Glacies, statue di ghiaccio immobili sui loro scranni. – Fortuna per noi che le cose stanno per cambiare, eh, Narciso? E adesso... – Eco scomparve per un attimo. Riapparì abbracciata allo specchio di cui ero prigioniero.  – Sì, sono arrivati. Ora posso smettere di distrarti.
– Specchio! – tuonò il sovrano Glacies, sollevandosi lentamente dal trono.
Solo allora li vidi.
Vidi le mura della Chiave di Volta bruciare, vidi il popolo Glacies squagliarsi al calore degli Ardentes, vidi questi prendere i Troni e costringere l'anno a un'eterna, torrida estate. Vidi il premio che avevano promesso a Eco. Ed era lei che accusava me di essere stato irretito.
– Tradimento! – urlai battendo i pugni dall'interno dello specchio. Ma già il mondo che conoscevo stava sparendo.
Eco mi aveva rubato. Portato altrove.
Non ero più dove dovevo essere. E niente a Mith sarebbe mai più stato lo stesso.

giovedì 25 maggio 2017

Dal pensiero alla forma (scritta)

Non è semplice offrire suggerimenti per un esercizio così personale come quello che ti ho proposto lunedì, nel post Fantasia astratta. Nella stessa macchia, nella stessa nuvola, due persone possono vedere due creature o due oggetti estremamente diversi. E avrebbero ragione entrambe.
Quindi cosa posso dirti, se fin dal punto di partenza il tuo brano può prendere strade inaspettate e imprevedibili? Mi limiterò a provare a rispondere a due domande per aiutarti ad aggirare un paio di ostacoli che potrebbero frapporsi fra te e il racconto che vuoi scrivere usando questa forma di ispirazione.


E se non riuscissi a vedere niente nella macchia/nuvola/fumo/quadro/caleidoscopio?

Può capitare. Ciò che hai scelto per provare l'esercizio ti appare informe, troppo vago o, scusa il gioco di parole, nebuloso. Puoi arrenderti e cercare un altro esempio della stessa categoria. Puoi cambiare completamente soggetto. O puoi provare alcuni trucchi per scoprire la forma nascosta ai tuoi occhi.

Uno di questi trucchi consiste nello sfocare lo sguardo, osservare il soggetto con la coda dell'occhio o non direttamente. Sembra un controsenso, eppure percepire in modo meno distinto il soggetto delle tue indagini può far saltare all'occhio proprio le caratteristiche che lo fanno assomigliare a qualcos'altro. Se hai mai scambiato un ramo a terra per una biscia o una vipera durante una passeggiata nel bosco, o se pulendo casa un grumo di polvere ti è parso per un istante un ragno, allora sai cosa intendo.

Prova a smettere di guardare e disegnalo. Anche se non sai disegnare. Tanto nessuno lo vedrà, a meno che tu non decida di mostrare a qualcuno la tua opera d'arte. Dovendo riprodurre a memoria ciò che hai visto, è possibile che la tua mente deformi quell'immagine e le dia sembianze più riconoscibili. Un disegno su un foglio di carta, inoltre, ha un vantaggio in più: puoi inclinarlo, girarlo, scambiare il basso e l'alto... osservando da ogni direzione, è più facile far emergere una forma che non avendo un solo punto di riferimento per leggere quell'immagine astratta.

Questi sono solo due metodi che mi sento di suggerirti e che talvolta uso anch'io; se ne hai uno tuo, puoi condividerlo con me scrivendolo nei commenti. Quanto all'altra domanda...


Bene, riesco a vedere qualcosa. Ma come faccio a passare da questo a una storia?

Anche se ciò che vedi potrebbe avere meno dettagli di quanti ne contenga una foto o la tua memoria di un paesaggio, puoi comunque usare le tecniche e le domande che ho condiviso nei post Dall'immagine alle parole e Dalla memoria alla pagina.

In più, per questo particolare esercizio, il mio suggerimento è questo: sfrutta ciò che ti ha fornito l'ispirazione. Usa la nuvola, o il quadro, o la macchia d'inchiostro, o qualunque cosa sia come base per la tua storia. Puoi scrivere di un mondo con regole tutte sue che esiste all'interno di un dipinto astratto. Puoi scrivere di una macchia di sugo su una tovaglia che all'improvviso prende vita. Puoi scrivere di un regno incantato tra le nuvole. Puoi scrivere di un bambino che, osservando le forme variopinte sul fondo di un caleidoscopio, viene risucchiato al suo interno e vive chissà quale avventura.



Ora tocca a te. Stupiscimi. Incantami. E ricorda che l'ispirazione si può trovare nel più quotidiano e impensabile degli angoli di cielo.

lunedì 22 maggio 2017

Fantasia astratta

Conosci quel test psicologico con le macchie d'inchiostro (il test di Rorschach)? Oppure, hai mai guardato le nuvole da bambino, giocando a indovinare la loro forma?

L'esercizio che ti propongo oggi sfrutta quel meccanismo del nostro cervello che analizza gli schemi e ci aiuta a riconoscere una figura nota in un oggetto che abbiamo di fronte, anche quando la somiglianza è puramente casuale.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
  
Scegli qualcosa che abbia una forma indefinita, meglio se in movimento. Può essere una nuvola, un filo di fumo, l'interno di un caleidoscopio. O anche una macchia d'inchiostro o un quadro d'arte astratta. Se non hai occasione di poter guardare una di queste cose dal vivo, puoi sempre cercare un video su Youtube o un'immagine su Pexels.
 
Osserva e chiediti: che cosa vedo? A cosa somiglia?
 
Scrivi una breve storia basata sulle immagini che la tua mente ha percepito.
 
Come al solito aspetto la tua storia nei commenti. Se mi sarà piaciuta e se vorrai, le dedicherò un post tutto per sé, e anche un po' per te!


sabato 20 maggio 2017

Horror vacui

La lettera H è una delle bestie nere della lingua italiana! Gli unici termini, e sono anche molto pochi, che si possono trovare sotto questa iniziale sono o generalmente noti, e dunque non vanno bene per questa "rubrica" del sabato, o sono mutuati da lingue straniere. Ma penso di aver trovato un buon compromesso con questa. O queste. Sì, perché tecnicamente sono due, ma contano per una...

Horror vacui loc. lat.; in it. loc. sost. m. (solo sing.) Paura dello spazio vuoto, libero da oggetti, disadorno o anche, per estensione, del silenzio.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Come si può intuire dall'immagine, la mia prima idea per il brano che accompagna questa parola (o espressione) era qualcosa di fantascientifico/post-apocalittico/horror. Poi ho preferito un altro tipo di racconto, con altri protagonisti e altri problemi.


Non volevo essere invadente. Insomma, già prendevo in prestito il pianoforte del locale la mattina, quand'era chiuso e nessuno lo usava, solo per il piacere di sentire di nuovo le dita sui tasti.
Ma il giorno in cui Karin mi invitò di sopra non riuscii a pensare a un buon motivo per rifiutare.
Karin mi guidò lungo il corridoio senza parlare. O almeno, non credo stesse parlando. Sarebbe stato dannoso oltre che inutile: rischiava di svegliare la sua coinquilina. Aprì la porta in fondo a destra, mi fece entrare e la richiuse.
La chiamai, tendendo le mani. Non mi piaceva restare da solo nel buio. Incespicai in qualcosa, poi sentii il suo tocco sulla schiena e mi calmai.
Karin accese la luce.
La stanza era piccola, stretta e lunga. Sulla destra un letto singolo, accostato alla parete. In fondo, un armadio bianco con un'anta aperta. A sinistra una scrivania sotto una finestra. E ovunque, sul pavimento, sulla scrivania, sul letto, sullo scaffale lungo la parete sopra quest'ultimo erano ammassati alla rinfusa mucchi di vestiti, pupazzi, soprammobili, cianfrusaglie da turisti come conchiglie, sfere di vetro con la neve, modellini di monumenti.
Karin mi aggirò e attese che la guardassi prima di formulare con le labbra: "Scusa per il disordine. Sheila dice che non riesco a sopportare di lasciare uno spazio vuoto. Forse perché ce n'è troppo nella mia mente, che non voglio ce ne sia fuori. Lo chiama il mio horror vacui." Karin scrollò le spalle, si chinò e raccolse gli indumenti sparsi per terra.
– Horror vacui. Sì, il terrore del vuoto – mormorai. – Ti capisco. A me prende quando sono al buio.
Karin infilò i vestiti in una cesta di vimini accanto la porta, poi tornò di fronte a me. Vidi le sue labbra ricominciare a muoversi. "E dice che la musica è un altro modo di riempire quel vuoto. Di riempirmi di bei ricordi..." Le sue labbra si piegarono in una smorfia. "Scusami. Scusa, io non volevo..."
– Va tutto bene, Karin. Tranquilla.
Bei ricordi. Era tutto ciò che restava a me, della musica.

giovedì 18 maggio 2017

Interrompiamo le trasmissioni per...

...un annuncio importantissimo!


FINALMENTE È PRONTO!


Compendio delle Parole Inconsuete - Volume I. La prima raccolta dei termini scelti per la rubrica "Parole dal dizionario" pubblicata nel blog http://lapiumatramante.blogspot.it/ ogni sabato. Ciascuna parola è accompagnata da un'immagine e da un brano.
Contiene inoltre cinque termini, immagini e brani inediti.
 
Se vuoi rileggerle tutte una di seguito all'altra senza commenti, se ne hai persa qualcuna e intendi recuperarla, se ti va di espandere il tuo vocabolario, questa raccolta è quello che fa per te. E se anche sei un fedelissimo del blog e lo segui dai primi giorni, o hai già sfogliato ogni pagina dell'archivio, non temere: c'è ancora qualcosa che tu non hai mai letto, qui dentro.
Senza contare le mie sciocche letterine calligrafiche che potrai trovare solo ed esclusivamente qui.


 
Copyrighted.com Registered & Protected 
B4YM-KKLF-LKZL-WMPL
 
 

Come ottenere il Compendio delle Parole Inconsuete

 
Per ottenerlo non devi far altro che inserire la tua e-mail nel campo qui a lato (sotto "Lasciami la tua e-mail!") o mettere mi piace alla pagina facebook associata al blog (https://www.facebook.com/piumatramante/).
Questo fine settimana provvederò a inviare l'e-book gratis a chi avrà fatto una di queste due cose.

Se però sei impaziente e vuoi essere il primo a riceverlo, commenta questo o altri post del blog o della pagina facebook, e potrai cominciare a leggerlo prima dell'ultimo rintocco di mezzanotte!

lunedì 15 maggio 2017

Serata di burrasca in campagna

(descrizione ispirata dall'esercizio Allena la memoria)


La strada di ghiaia che vedo alla mia destra si allontana verso l'orizzonte, ma fatti appena una trentina di metri curva dirigendosi ulteriormente a destra verso una casa, di cui scorgo ogni tanto il tetto grigio antracite tra fronde verde chiaro in perpetuo moto. Una scia d'erba la percorre al centro, tagliando in due la carreggiata.
A sinistra della strada, una rete racchiude una lunga aiuola che l'affianca e la separa dal cortile di cemento di una casa. Nell'aiuola, foglie di un verde smeraldo, fiori di iris blu e un faretto che assomiglia vagamente al pistillo di un fiore: un lungo piedistallo nero su cui è montata una lampada a forma di globo, spenta. L'aiuola si spinge fino a un capanno asimmetrico fatto di lamiere verdi. Sul lato visibile dalla mia posizione si apre una porta costituita da un telaio di ferro e da una grata metallica.
Nel cortile, un tavolo rotondo ricoperto da una tovaglia di plastica con papaveri di un rosso sbiadito su uno sfondo bianco, due sedie di plastica e una panchina di ferro laccato, coordinate allo sfondo della tovaglia. Si trovano sul lato del cortile vicino all'aiuola, mentre alla sinistra del capanno, laddove il cortile di cemento lascia spazio a un prato, sono sistemati sei grossi vasi di coccio che ospitano altrettanti alberelli di limone. A terra, invece, in una piccola aiuola delimitata da pietre bianche e lisce di forma ovale, è piantato un acero dalle foglie rosse, non più alto di tre metri, che da un singolo fusto allarga i suoi rami a ventaglio.
Spingendo lo sguardo più lontano, dietro il capanno si innalzano i tronchi di due abeti dalle fronde rade, aghi verde cupo scompigliati da raffiche di grecale. L'abete di sinistra ospita, a metà del tronco, le foglie marroni di un'edera rampicante ormai secca. Tra le due conifere, che hanno visto giorni migliori, riesco a vedere un ciliegio spettinato dal vento, in mezzo ai campi oltre la rete che delimita il cortile, interrotta da un grande cancello, due metri d'altezza per cinque di lunghezza.
L'orizzonte è nascosto da macchie di gelsi e altre latifoglie che non riconosco a causa della distanza e della burrasca che ne anima le fronde. Sono disposti in filari di fianco ai fossi che dividono i campi.
In alto, il cielo è quasi completamente nascosto da nubi plumbee, che lasciano intravedere solo qualche macchia di azzurro. Le nuvole sembrano divise in spicchi di varie forme e dimensioni dai cavi dell'elettricità e del telefono, che si intrecciano, si incrociano e si allacciano a due pali color granito accanto alla strada, e a un traliccio della corrente che pare più piccolo degli abeti per la lontananza.
Infine, se abbasso lo sguardo scopro la ringhiera dipinta di bianco e di blu di un terrazzo, da cui sporgono i fili metallici di uno stendibiancheria, il loro bianco macchiato di ruggine. Due o tre mollette di plastica gialle, celesti e blu dondolano appese a ciascuno, raggruppate sul lato destro. In un paio di fioriere sono sistemati vasi di gerani rossi e violette di campo, a sinistra dello stendibiancheria, mentre da quella di destra, a cui è legato un telo leggero che sbatacchia a ogni raffica di vento, si affacciano le foglie tenere delle piantine di fragole.

sabato 13 maggio 2017

Glissare

Stavolta mi sono impegnata a cercare un verbo, nonostante le decine di bellissimi sostantivi che mi capitavano sott'occhio. Scusatemi gelicidio, granfia, gretola, gufaggine e tutti gli altri... verrà anche il vostro turno, prima o poi.

Glissare [glis-sà-re] v.intr. (aus. avere) 1. Sorvolare su un argomento, evitare di approfondirlo.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Per me questo non è un verbo così insolito, anzi, l'ho usato più di una volta nelle mie storie. Ho personaggi misteriosi, abili oratori ma allo stesso tempo riservati. O semplicemente musoni che non hanno proprio voglia di fare conversazione.


La ragazza percorre il corridoio del treno, trascinandosi dietro una valigia trolley. È un raggio di sole, capelli biondi su giacca gialla e una borsa zainetto tintinnante di campanellini. Il vagone è di quelli vecchi, diviso in scompartimenti con sedili in pelle dall'aria vissuta.
Lei si ferma, fa scorrere la porta e guarda dentro. Un ragazzo è seduto sulla poltroncina di mezzo, nel verso opposto a quello di marcia; sul sedile accanto una sacca sportiva. Legge un libro, tenuto alto di fronte a un viso spruzzato di lentiggini.
Chi legge non può essere una cattiva persona.
La ragazza entra, chiude fuori lo sferragliare delle rotaie e si accascia sul posto di fronte a lui.
Ciuffi rossi spuntano da sopra le pagine, sparati in ogni direzione. Sembrano pettinati col gel.
Lei si raddrizza. – Ciao, io mi chiamo Evangeline. Tu chi sei?
Attende la risposta per un tempo ragionevole. Dieci secondi, poi non ce la fa più e sbotta: – Lo so a cosa stai pensando, ma che genitori indecisi ha questa qui, non era meglio chiamarla Angela? O anche Lina, no, Lina è orrendo, meglio Eva! Sì, la chiamerò Eva. Eva è un bel nome, non ti pare?
Le pagine del libro hanno un fremito. – Acadia – mormora lui. La sua voce ha un timbro musicale, roco ma stranamente gradevole.
– Che c'entra Acadia con Evangeline? – La ragazza si protende in avanti. – Cosa leggi?
– Il titolo è sulla copertina. – Lui volta la pagina col pollice.
Lei sbuffa. Fa tintinnare i campanellini della borsa. Guarda fuori. – Dov'è che vai?
– Dove mi porta il treno.
– Adesso basta. – La ragazza s'imbroncia, allunga le mani e gli abbassa il libro. Lo fissa dritto negli occhi. – Vuoi continuare per tutto il viaggio a glissare sulle mie domande, noiosone?
Lui la fissa di rimando. Forse è l'ombra di un muro rasente alle rotaie, ma i capelli e gli occhi socchiusi sembrano più scuri. – Posso glissare sulle tue domande. O possiamo stare in silenzio. Ma è meglio per te che io sia noioso.
In quel momento, il treno scompare nell'oscurità di una galleria.

giovedì 11 maggio 2017

Dalla memoria alla pagina

Perché fare un esercizio di descrizione a memoria? Perché senza memoria, non esiste una storia.

Pensa a quante volte hai raccontato il tuo fine settimana a un amico. O a come gli spieghi la trama di un film. In fondo, le prime storie della nostra specie erano memorizzate e tramandate oralmente.

Lo sforzo di ricordare un paesaggio e descriverlo senza guardarlo, anche quando ti basterebbe poco per poter dare un'occhiata, non è quindi inutile. Spesso ti sfugge proprio quello che hai sempre di fronte agli occhi. Non capita a tutti di dare per scontato ciò che è noto? Di scorgere solo le differenze rispetto al solito, le incongruenze che spiccano sullo sfondo del quotidiano.

E invece stavolta ti chiedo di non dare nulla per scontato. Di guardare con occhi nuovi, come se vedessi per la prima volta il paesaggio fuori dalla tua finestra. Come lo racconterai? Meglio pianificarlo in anticipo: dopo i due minuti, non potrai tornare a guardare per scegliere un diverso percorso visivo. Puoi partire dal basso, o da ciò che è più vicino, per poi innalzare o spingere più in là lo sguardo. Puoi scegliere di descrivere da destra a sinistra, o da sinistra a destra. O puoi saltare di dettaglio in dettaglio, seguendo l'ordine di ciò che ha attirato per primo il tuo sguardo.

A meno che tu non possieda una memoria eidetica, può tornarti utile una tecnica per memorizzare ciò che vedi. Immaginare di dipingere un quadro, ad esempio, o cominciare già a descriverlo nella tua testa, magari associando man mano ogni particolare a un elenco che ti sia noto (le carte di un mazzo, le stanze della tua casa), oppure inventando una storia incentrata su di essi. Anche se alla fine dovrai descrivere e non raccontare, infilarli in una sequenza logica è utile per tenere a mente ogni dettaglio.

Scendi nei particolari. Fatti molte domande. Alcune possono essere queste:
  • Che forma e che colore ha ciò che vedi?
  • Quanto è grande?
  • È naturale o costruito dall'uomo?
  • È un organismo vivente (vegetale o animale)?
  • Di che materiale è fatto?
  • È statico o si muove? In quale direzione?
  • È un pezzo unico o è composto di più parti?
  • Emette un rumore, e se sì quale?
A seconda del tipo di paesaggio che ti trovi davanti, puoi aggiungere o togliere le domande che ti sono più utili.

E quando è il momento di metterti a scrivere, sii preciso. Non un albero, ma un gelso. Non un gatto, ma un persiano. Non rosso, ma carminio. Fai in modo che chi legge la descrizione senza conoscere il paesaggio possa percepire ogni dettaglio. In questo modo non allenerai solo la tua memoria e la tua capacità descrittiva, ma anche la tua immaginazione: la prossima volta che inventerai un ambiente fittizio per le tue storie, sarai in grado di crearlo in ogni dettaglio, e renderlo così più vivido e reale sulla pagina.

lunedì 8 maggio 2017

Allena la memoria

Non accade spesso di avere l'immagine su cui basare una storia o una descrizione davanti agli occhi mentre si scrive. Anzi, non accade quasi mai. La maggior parte delle volte è un esercizio di memoria e immaginazione, frutto della capacità di combinare ricordi, talvolta provenienti da tempi e luoghi diversi, e di plasmarli in qualcosa di nuovo, sia esso uno scorcio di un altro mondo o una persona che non è mai esistita.

Per questo esercizio ti sfido ad allenare la memoria. Lo spunto è tratto dal fantastico blog di Max Kirin, e se non hai problemi con l'inglese ti suggerisco di dargli un'occhiata: tra consigli, citazioni, esercizi e frasi motivazionali ne vale davvero la pena. Io stessa sto seguendo i suoi video di Virtual Writing Academy, che scendono molto più in dettaglio riguardo ai meccanismi narrativi di qualunque corso abbia mai frequentato. E, soprattutto, sono molto divertenti!

Tornando all'esercizio di oggi, traduco il testo per chi non ha familiarità con la lingua.

(RI)CREA
 
Guarda fuori dalla tua finestra per due interi minuti. Quando scade il tempo, tira le tende o chiudi le persiane. Siediti e descrivi, in modo dettagliato ed esauriente, la vista dalla tua finestra.




Tutto chiaro? E ora, come direbbe Max Kirin, ricorda che l'unico modo sbagliato di fare questa descrizione è di non scriverla affatto. Due minuti per osservare. Il tempo comincia... adesso!

sabato 6 maggio 2017

Fiscella

La devo smettere di scegliere sempre e solo sostantivi, provare con qualche aggettivo, verbo o anche qualche avverbio ogni tanto... ma per oggi, eccone qui un altro. Prometto di ravvedermi la settimana prossima!

Fiscella [fi-scèl-la] s.f. Piccola cesta di vimini usata per preparare la ricotta.

Ricotta Salata - Curds drained, di Rebecca Siegel, licenza Creative Commons BY 2.0. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Chi può usare una fiscella al giorno d'oggi? A meno di non ambientare la storia in un mondo fantasy medievale, mi serviva un personaggio d'altri tempi, rimasto fermo a tradizioni e usi antichi, ad attività contadine. Ho capito subito quale dei personaggi nei miei appunti faceva al caso mio.


Non si può dire che fosse come me l'aspettavo.
Avevo bussato alla porta della casupola dopo una lunga esitazione. Nessuno aveva risposto perciò ero sgusciato dentro, stando accucciato. Nell'aria tiepida c'era un intenso aroma di pane appena sfornato e di latte e tutto era fatto di legno scuro: tavolo, sedie, mobili, e fin qui ci poteva anche stare. Ma erano di legno anche le pareti e il pavimento. Facevano eccezione il caminetto in pietra e la stufa, che non vedevo molto bene ma che sembrava di metallo. Così come doveva essere il lavello, nascosto dalla schiena di una ragazza avvolta in una camicetta beige e una lunga gonna di toppe colorate; i capelli, legati in alto da un nastro, ricadevano come una cascata danzante fino in mezzo alle scapole. Eccola, Sara. Sara dei Sortilegi.
Stava armeggiando con qualcosa che emetteva un lieve sciaguattio. Mi sporsi per vedere meglio.
– Sapevo che saresti venuto. – Sara fece un passo di lato, permettendomi di vedere una fiscella da cui colava un liquido biancastro mentre lei strizzava il contenuto avvolto in una tela candida. – Puoi alzarti, adesso – disse con voce vellutata. Non so perché, ma le obbedii.
– La maggior parte delle persone è malleabile come ricotta – spiegò, come se avessi espresso ad alta voce i miei dubbi.
Presi coraggio. Dovevo chiederlo. – È... è vero quello che dicono? Che vedi nel futuro?
– Secondo te?
Sbirciai l'orologio. Feci spallucce. – Non lo so. Se lo sapessi, non te l'avrei chiesto. Ed è facile dire che sapevi che sarei venuto quando ero già qui. – Scrutai i mestoli sui ganci alle pareti e i paioli di rame appesi alle travi. La cucina sembrava vecchia, ma non lugubre. E lei era soltanto una ragazza qualunque, seppure strana. Non so perché ne avessimo tanta paura.
Sara posò la fiscella sul ripiano e chiuse i lembi della stoffa. – I due minuti sono passati. Ora puoi tornare dai tuoi amici a raccontare quanto sei stato coraggioso.
Rimasi a bocca aperta. Come cavolo faceva lei a sapere della scommessa?

giovedì 4 maggio 2017

Luce

(visto che nessuno si è fatto avanti rispolvero un mio vecchio racconto per la seconda parte dello svolgimento dell'esercizio Parti da un'immagine. La foto è stata ritagliata da una rivista ormai dodici anni fa. Non ho corretto né ho modificato di una virgola il testo: per favore, non fare caso alle d eufoniche di troppo, ai trattini di chiusura nei dialoghi, e a tutti quei piccoli errori che ormai ho superato. Quanto a quelli grandi, di errori, ci sto ancora lavorando)


 
 

     –Tu non mi credi.– In piedi sulla soglia, Helena mi sorrise appena e chiese: – Vuoi vedere?–
     Non risposi, ma lei sapeva che ero uno di quelli. Sapeva che le parole non mi bastavano. Allora sollevò le mani all’altezza del ventre e incrociò le dita dell’una e dell’altra mano insieme, mantenendo il palmo rivolto verso l’alto. Le sue mani erano bellissime, le avevo già notate, con dita lunghe e flessibili e linee quasi prototipiche, che non potevano non prevedere la migliore delle fortune per il suo futuro. Così la treccia risultante dalla linea a zig-zag tra le dita era perfetta. Ma non era ciò che lei intendeva mostrarmi.
     Bastarono pochi istanti in quella posizione e dal centro dei suoi palmi scaturirono due fulgidi soli di luce bianca. Fu come se si fossero dischiuse porte su un misterioso altrove di un candore abbagliante. Non volli credere ai miei occhi, all’inizio, come non avevo voluto credere alle sue parole. Helena invece non sembrava affatto meravigliata, anzi respirava regolarmente e appariva del tutto calma, come se quello che vedevo non fosse altro che un’illusione. La mia reazione, se mi fossi trovato al suo posto, sarebbe stata piuttosto violenta. Ma lei no, sorrideva con gli occhi e con le labbra, senza però scoprire i denti, quasi che quel bianco che le sgorgava dalle mani non ammettesse sfidanti.
     La luce fluì letteralmente fuori da quelli che parevano varchi e si raccolse poco più in basso, sull’incrocio delle dita. Si comportava proprio come un liquido, uno che fosse poco più denso dell’acqua. Riempì la coppa delle mani lentamente, sommergendo i due soli originali senza tuttavia riuscire a spegnerli. Attraverso la luce liquida vedevo infatti il riverbero di una luminosità più intensa.
     Ero esterrefatto. Ogni cosa era come lei mi aveva raccontato. Helena mi aveva forse suggestionato con le sue parole?
     La luce si riversò dalle sue mani, infrangendosi contro la superficie dei pollici e ricadendo come sottili e lunghe cascate fin quasi al pavimento. E dico quasi perché, a due o tre centimetri dal suolo, la luce liquida svaniva o, più probabilmente, si disperdeva nell’aria. Allungai le dita verso uno dei fili luccicanti solo per scoprire che, nonostante alla vista apparisse chiaramente liquida, in realtà non era altro che luce. Luce che non restava sulle mie dita, ma che sentivo comunque come un calore piacevole, una sensazione strana, che mi rendeva euforico e stordito.
     Helena separò le mani, sciogliendo le dita dal loro abbraccio. La luce liquida si dissolse all’istante ma i due globi luminosi presenti fin dall’inizio rimasero, mentre lei sollevava le mani, rivolgendole a me nel mostrarmi l’inspiegabile fenomeno.
     La luce bianca fiammeggiò per l’ultima volta, irradiando la stanza, quindi si spense in silenzio. Non me n’ero reso conto, ma il tramonto era ormai sfumato nel blu leggero della sera. Helena rimase così, con le mani sollevate ed i palmi, tornati normali, verso di me. Non parlò e non si mosse; forse aspettava la mia reazione.
     –Ti credo.– Le dissi, avvicinandomi e prendendo le sue mani tra le mie. –Avevi ragione: ora ti credo.–

lunedì 1 maggio 2017

Ritratto di donna

(racconto ispirato dall'esercizio Parti da un'immagine, la foto scelta è il ritratto dell'artista Georgia O'Keeffe nel suo ranch, anno 1966, scattata da John Loengard)


Non conoscevo quella donna, eppure fin da subito m’ispirò il reverente rispetto dovuto a un monaco in preghiera. Sembrava una statua, tanto era immobile e paziente, scolpita non nella pietra ma con il vivo legno; un albero dalla ruvida corteccia. Non la conoscevo, ma, ne ero quasi certo, riuscivo a decifrare i solchi tracciati dal tempo sul suo viso fino a estrapolare la memoria delle emozioni. Ecco lì una notte insonne, un guizzo di sorriso, un tamburellare di preoccupazione che aveva modellato la fronte, un filo di rimpianto lungo le guance. E ovunque, sopra ogni ruga e sotto la pelle, una sopportazione tenace e robusta, uno spirito di guerriera.
Mi meravigliai di ciò che vedevo racchiuso in quel fragile corpo. Non nascondeva i capelli bianchi né la sua età, non si ricopriva di belletti o gioielli, e le uniche concessioni al suo abito scuro, tanto semplice da definirsi monacale, erano un paio di nodi a fiocco sulle scarpe e una fascetta al polso sinistro. Chiaramente, nella società dell’apparire, lei aveva scelto di essere. E io non vedevo l’ora di conoscerla.