sabato 30 giugno 2018

Bustrofedico

Quello che sembra il nome di un medicinale (oggi ho un po' di acidità/emicrania/mal di schiena, meglio se mi prendo un bustrofedico) è in realtà una parola altrettanto specialistica che riguarda la lingua scritta.

Bustrofedico [bu-stro-fè-di-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) Scrittura che si dispone alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra.

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La mia prima idea aveva a che fare con archeologi e geroglifici egizi, o un tipo di scrittura simile ma inventata. Poi mi è venuta in mente la prima frase, e l'idea di un codice da decifrare, e sono partita da lì. Chi sono i questi due, dove sono, che cosa stanno facendo, perché... suppongo che lo scoprirò più avanti, se si rifaranno vivi qui o altrove.


– Sei riuscita a capirci qualcosa?
Spinsi il diario verso di lui mentre scivolava al suo posto sulla panchina accanto a me. – È una scrittura bustrofedica.
– Ovvero, sapientona?
Sbuffai. Quello con gli occhiali era lui, ed era altrettanto saccente quando si trattava di un argomento in cui era esperto. Solo che di lingue e di scrittura in codice non ne sapeva niente. – Significa che in ogni riga il verso della scrittura è alternato. Quelle pari sono orientate in una direzione, quelle dispari nell'altra. Vedi questi due simboli? – Indicai due ghirigori tra i tanti, in righe successive. Consistevano entrambi di un allungo in basso, un ampio cerchio e un paio di linee che uscivano di lato. La differenza era che mentre in un caso si spingevano a destra, nell'altro puntavano a sinistra.
Il mio compagno di avventure incrociò gli avambracci sul tavolo da picnic, guardò il quadernetto, poi me. – Sembrano lo stesso, ma fatto a rovescio. Come una bi e una di.
Annuii. – Infatti sono lo stesso. E non è l'unico che puoi trovare scritto anche a rovescio. – Gli indicai altre coppie di simboli sulla stessa pagina. – È confrontando tutti questi che sono giunta alla conclusione dell'andamento bustrofedico del testo. Ora si tratta di capire come esattamente vanno lette le righe, dopodiché potrò iniziare a decifrarlo.
– La prima riga sarà nel verso diritto... – propose lui.
– ...per chi ha scritto questa cosa – gli ricordai. – Non sappiamo che lingua parlasse chi ce lo ha lasciato. Il che rende ancora più difficile il mio lavoro.
– Ti ci vorrà molto? – mi chiese, sbadigliando e alzando gli occhi al cielo limpido.
– Mh-mh. – mugolai e segnai qualche appunto su un foglio a parte. – Ancora di più se continui a distrarmi.
– Ho capito. Svegliami quando hai finito – brontolò lui. Si curvò sul tavolo e appoggiò la testa sulle braccia, col viso girato dall'altra parte.
Finalmente un po' di pace per dedicarmi ai miei strambi geroglifici.

giovedì 28 giugno 2018

Solitaria in due

(racconto ispirato dall'esercizio Ti racconto una storia. Stavolta ho scritto un brano in prima persona appositamente per l'esercizio, e il narratore in terza persona scelto è il numero 4, un personaggio non umano esterno alla vicenda)
 
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Questo è il brano in prima persona:
 
Passati gli esami di maturità, avrei voluto stare via un anno intero. Ma anche se da bambina avevo praticamente passato più tempo in mare che sulla terraferma, non ero mai stata a lungo da sola. Mamma non me lo permise. Era sempre stata protettiva, con me, nonostante quello che avevo fatto. Ci accordammo per un'estate intera, tre mesi di navigazione in solitaria in compagnia di Sabrina, la barca che portava il nome della mia gemella mai nata, e che finalmente era mia.
Era stato papà a scegliere il nome della barca. Mamma non lo sopportava. Per me andava bene. Era una specie di contrappasso, mi ricordava che mostro ero stata, ma allo stesso tempo era una consolazione poterla riavere con me, anche se in una forma diversa.
Era la fine della nostra seconda settimana assieme quando avvenne. Avevo letto di simili illusioni ottiche, il raggio verde, il parelio, ma non li avevo mai visti di persona.
Di punto in bianco, in cielo c'erano due soli. Dovevo fare una foto.
Navigavo col timone a vento, perciò non fu un problema lasciarlo per andare in cabina; o almeno, non lo fu finché il secondo sole non s'ingrandì e non venne dritto verso di me.
Un meteorite! pensai, e mi affrettai a tornare al timone. Ma quando guardai di nuovo, dal secondo sole emersero un paio di ali da pipistrello, e poi lunghe zampe con artigli, e altre due zampe, più corte e più in alto. Con un lampo tonante, il secondo sole sputò fuori quello che aveva tutto l'aspetto di un demone, e poi svanì, lasciando me e Sabrina da sole con la creatura.
Mi abbassai. Quella cosa sbatteva le grandi ali sopra la mia barca, seguendone l'andatura, e sembrava che non mi avesse ancora notata. Mi aggrappai a un golfare nel pozzetto: si ballava un po', con la spinta di colpetti d'aria irregolari da quelle ali sulle vele.
La creatura allungò tutte e quattro le zampe, si artigliò all'albero e richiuse le ali.
Capii subito che dovevo scacciarla alla svelta: sotto il suo peso, la barca si stava già inclinando da un lato. Afferrai il mezzomarinaio, mi agganciai alla lifeline e risalii dal pozzetto, ma non feci in tempo ad agitare l'asta che la creatura, forse infastidita dal trespolo instabile, spalancò le ali e si levò in volo. Per il contraccolpo caddi a terra, rotolai e sbattei contro un candeliere, e fui a tanto così dal finire in acqua. Col cuore in gola e gli spruzzi salmastri che mi lavavano la faccia, avvertii un'ombra nascondermi il sole e guardai in su. La creatura mi aveva vista e stava scendendo su di me. Mi ritrassi, sollevai la schiena e mi misi a sedere. Gridai e agitai il mezzomarinaio per tenerla lontana. Per tutta risposta, la creatura emise un grido stridente, che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le braccia sollevate.
Poi, inaspettatamente, Sabrina mi aiutò. Lì per lì, pensai che mi avesse salvato la vita. Andò così: il vento girò a nord est e il timone a vento reagì di conseguenza, e la creatura smise di guardarmi per osservare le vele, e poi il timone. Ne approfittai, mi alzai e virai un colpo con il mezzomarinaio, che stavolta andò a segno, e la creatura si afflosciò sul ponte. Mi avvicinai con cautela, tenendo ben stretto il mezzomarinaio. Potendo dare un'occhiata più da vicino, notai che la creatura sembrava avere addosso dei vestiti, ed erano più elaborati degli stracci che mi sarei aspettata di vedere. Un paio di pantaloni neri lunghi fino alla caviglia lasciavano scoperte zampe simili a quelle degli uccelli, o meglio dei dinosauri visti al cinema; allacciata in vita portava una cintura con qualche attrezzo, cacciaviti e chiavi inglesi e altri che non riconobbi; sul torso una camicia bianca e un gilet di pelle, e poi un bracciale con piccole ruote dentate tintinnava al polso del braccio con cui la creatura si riparava il viso.
Ancora più strano, però, era che mentre io mi avvicinavo, quella si trascinava indietro. Come se avesse avuto... paura?
– No... no, umana, per favore, non farmi del male! – implorò la creatura. La sua pronuncia era strana, come un misto di varie inflessioni regionali in cui riconobbi la erre romana, la rotondità del romagnolo e anche qualcosa di veneziano e di toscano, ma nonostante quel misto strambo le sue parole restavano comprensibili. Era italiano.
Mi bloccai. – Aspetta, tu...
La creatura fece scivolare giù il braccio. Dietro una mano che a parte le unghie nere, lunghe e ad artiglio era umana, comparve il volto sorpreso di un ragazzo.
Ci indicammo l'un l'altro e gridammo insieme, con il medesimo stupore: – Ma tu parli la mia lingua!
 
 
Ed ecco qui il brano modificato:
 
Quello che Rachele amava con tutta se stessa era il mare.
Quello che Rachele odiava con tutta se stessa era se stessa.
Tre mesi a spasso per il mare che amava con la sola compagnia della persona che odiava e di una barca che le ricordava il motivo di quell'odio era la più grande fonte di contraddizione che si potesse immaginare. Ma forse, o almeno così Rachele pensava, era proprio ciò di cui aveva bisogno per riconciliarsi con un passato di cui in fondo non aveva colpa, sebbene la sua famiglia non facesse che ricordarglielo. Prima ancora di nascere, infatti, Rachele aveva divorato la sua gemella Sabrina. E le operazioni che aveva dovuto subire a pochi mesi dalla nascita a causa del suo crimine non erano state un'espiazione sufficiente.
Rachele non lo sapeva, ma quello di cui aveva davvero bisogno, in quel momento della sua vita, era di non rimanere da sola. Il fantasma di una sorella che non aveva mai avuto non era una compagnia sufficiente. Le serviva un vero angelo custode. O almeno, un amico.
Quando il portale si aprì nel cielo, se avessi potuto, avrei sorriso. Anche se quello non fu il migliore degli inizi: niente strette di mano, niente presentazioni, niente battute. Non subito.
Talon, essendo quello che era, appena oltrepassò il portale si mise subito a fare la terza e la seconda cosa che un gremlin della Terra del Vapore sa fare meglio. Ovvero, rispettivamente: volare, e causare guai e disagio a qualunque essere umano ovunque andasse. Nessuna sorpresa che la sua esperienza con gli umani fosse stata fino a quel momento assolutamente disastrosa.
Nello specifico, mentre Rachele, nascosta nella zona più bassa della barca, era ancora impegnata a riprendersi dallo spavento della sua comparsa e a non farsi notare, Talon, non vedendo altro che onde blu e salate attorno a quel piccolo guscio solido, decise di approfittare del punto più alto del suddetto guscio per riposare le ali. Salvo poi scoprire che quello che pareva un palo ben piantato nel terreno si inclinava sotto il suo peso. Talon allargò le ali e riprese il volo, schivando per un soffio il palo che riprendeva il suo posto. E fu allora che vide Rachele, sbattuta sul ponte dal contraccolpo come uno straccio bagnato.
Un gremlin della Terra del Vapore, per quanto giovane, sa che un umano da solo non è pericoloso quanto un intero gruppo di umani. Ma Talon, almeno in quel caso, si sbagliava.
Perché Rachele, che credeva di essere un mostro ed era convinta di affrontare un altro tipo di mostro, non avrebbe esitato a ucciderlo per proteggere tutto ciò che rimaneva di Sabrina, una barca e un nome.
Rachele agitò in aria il bastone uncinato e urlò. Talon urlò più forte. Non aveva bastoni con sé, ma una voce umana non poteva battere la sua, sia quanto a decibel, che quanto a fastidio provocato.
Fu un cambio di vento, e di conseguenza di rotta, a distrarlo. Fu a causa del vento che Talon notò l'automatismo che governava il timone e così si mise a fare la cosa che un gremlin della Terra del Vapore sa fare meglio di qualunque altra: ovvero quello che loro chiamano migliorare un'invenzione, e che gli esseri umani chiamano distruggere un macchinario di fondamentale importanza.
Talon lo stava facendo solo nella sua mente, in quel momento, ma non era una cosa saggia da fare quando si affronta un umano. Mentre era assorto nelle sue elucubrazioni, Rachele lo colpì con il bastone sull'ala e sul braccio destro.
L'ala dolorante gli si chiuse d'istinto dietro la schiena e Talon crollò su quel guscio solido in mezzo alle onde. Aveva perso il vantaggio del volo. La situazione si era invertita: Rachele, in piedi, lo sovrastava.
Talon non era mai stato preso da un umano e non sapeva che cosa Rachele intendeva fargli. La supplicò, pur consapevole che gremlin della Terra del Vapore e umani della Terra del Vapore non parlano la stessa lingua.
Non aveva tenuto conto che Rachele non era un'umana della Terra del Vapore.
E Rachele non aveva tenuto conto che quello che sembrava un mostro poteva non esserlo affatto.
Allo sgomento per la scoperta di poter dialogare e capirsi seguirono scuse, strette di mano, presentazioni e battute.
In Rachele, Talon trovò una fonte a cui abbeverare la sua mente curiosa.
In Talon, Rachele trovò un amico e una distrazione sufficiente a farle dimenticare perché mai avesse odiato tanto se stessa.

lunedì 25 giugno 2018

Tempismo

(racconto ispirato dall'esercizio Ti racconto una storia. Ho scelto di modificare uno dei primi brani del sabato, quello corrispondente alla parola Fugace, e il narratore in terza persona scelto è il numero 6, un concetto personificato. Trattandosi di Fugace, mi è venuto in mente il Tempo)

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 Questo è il brano originale:
 
Avevo sempre saputo quale dei tre occhi della morte si sarebbe aperto per me. Solo, non avevo immaginato che lo avrebbe fatto così presto.
Mentre quei due energumeni di guardie mi scortavano verso il patibolo non potevo far altro che cercare di rallentarli il più possibile e godermi i miei ultimi istanti. Sapete, pensare a quanto fosse fugace la vita e idiozie del genere. Avevo già tentato tutti i trucchi che conoscevo, dallo "svicola e scappa finché non ti riprendono", al "colpisci e finisci massacrato di botte", al sempre classico "nega l'evidenza fino all'inverosimile".
Ma Torris Znar era una città di mercanti che non vedeva di buon occhio i ladri che non fossero quelli che mercanteggiavano in piazza, così nessuno si era bevuto la mia storia del "Quello è l'aeroscafo del governatore? Ma ne siete proprio sicuri? Io l'ho trovato abbandonato in mezzo al deserto, non ne avevo idea!"
Me ne andavo strascicando i piedi e lasciando che mi trascinassero a peso morto verso il mio destino, quando li vidi. L'ometto col turbante e la creatura in catene che stava spingendo sul palco, verso il banditore, pungolandola a ogni passo. Sotto gli stracci s'intravedevano lunghe cicatrici chiare e squame nere spezzate, testimoni di quante volte avesse provato i miei stessi trucchi senza riuscirci, eppure quella creatura conservava lo sguardo ferino, selvaggio, e la dignità di chi non era stato piegato. L'ometto si distrasse al passaggio dei miei forzuti accompagnatori che sbraitavano per aprirsi la strada tra la folla, e si unì al coro generale di "a morte il ladro!".
Fu una fortunata e benedetta coincidenza per entrambi. Al mutaforma serviva un diversivo, a me qualcuno che si avventasse sulle guardie con la ferocia di una tigre.
Ci guardammo, e non ci fu bisogno di parole. Passare da una vita fugace a una vita in fuga fu rapido quanto cancellare quelle due lettere da una scritta sulla sabbia.
 
 
Ed ecco qui il brano modificato:
 
Ti sei mai accorto di quanto poco basta per cambiare un'esistenza? A volte, salvarla o distruggerla è una mera questione di istanti. Incontri stretti in un collo di clessidra, che potevano non accadere, se solo il passaggio di un granello di sabbia fosse avvenuto un istante prima, o un istante dopo.
Aglaudi Mirewn mi aveva spesso sfidato. Nonostante la sua esistenza fosse necessariamente finita, una breve sequenza con un suo inizio e un suo termine, quell'uomo sembrava avere fin troppa fretta di giungere alla conclusione. Miliardi di loro avevano calpestato la terra da quando la specie umana era comparsa, ma non era mai esistito nessuno con la stessa passione per il rischio, e con il suo identico desiderio di rincorrere il pericolo.
Quando lo presero usò le solite scuse, cercò di fuggire e di combatterli. Per quel poco che gli lasciarono aprire bocca, parlò velocemente alle guardie di Torris Znar, quasi sapesse di essere giunto ai suoi ultimi rintocchi.
Poi, per la prima volta nella sua vita, Aglaudi Mirewn rallentò. Era sorprendente come quell'uomo perennemente intento a rincorrere i secondi si lasciasse trascinare avanti da altri lungo le vie e nella pazza, lento e pesante come se così avesse potuto trattenere il ticchettio di un orologio.
Nello stesso momento, un prigioniero di una specie diversa, quella che Aglaudi Mirewn avrebbe chiamato mutaforma, stava per essere venduto al migliore offerente. Anche per lui, sebbene misurasse lo scorrere della sua esistenza in un modo diverso, la differenza tra libertà e cattura era consistita in pochi battiti di cuore.
Si trovarono insieme, nello stesso momento, a passare da quella piazza, entrambi in direzione di ciò che ciascuno di loro considerava la morte.
Non avrebbero mai potuto capire da chi, ma era stata offerta loro un'occasione. Una coincidenza. Prenderla o lasciarla fuggire spettava a entrambi, così come oggi spetta a te.

sabato 23 giugno 2018

Albedo

Ricomincio alla grande dalla A con un bis: una parola che, pur rimandando sempre al bianco con la sua radice latina, ha finito con l'avere due significati diversi in due ambiti distinti, la botanica e l'astronomia. Eccola qui.

Albedo [al-bè-do] s.f. inv. 1. bot. Pellicola interna spugnosa della buccia degli agrumi, di colore bianco-giallognolo. 2. astr. Rapporto tra la quantità di luce riflessa da un corpo e la quantità di luce da esso ricevuta.

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Vediamo se riesco a inserire entrambi i significati nel medesimo brano? Dato che uno dei due rimanda all'astronomia, mi sembrava giusto usarla per una sorta di "prequel" ambientato qualche anno prima del romanzo che sto completando.


Seduta sul pavimento accanto alla portafinestra aperta, Silvia sbucciava con meticolosa lentezza un mandarino. Il lungo ricciolo scese pian piano sul piattino bordato da stelle e lunette. Era riuscita a staccarla tutta d'un pezzo, senza interruzioni.
Silvia contemplò il  piccolo globo arancione venato di bianco e iniziò a strappare ogni singolo pezzetto rimasto di albedo. Non sopportava quei filamenti amari che restavano nella guancia dopo aver spremuto con la lingua tutto il succo dallo spicchio. La tentazione era quella di sputare il grumo e lì da sola, nella sua camera, Silvia avrebbe anche potuto farlo; ma quando mangiava di fronte ai parenti, in casa o peggio in un ristorante in mezzo a sconosciuti, le toccava rassegnarsi a inghiottire.
Fuori dalla finestra il sole era tramontato e Venere brillava tra i tetti delle case. Era l'ultima domenica prima dell'inizio della scuola. Silvia staccò uno spicchio del mandarino e se lo ficcò in bocca.
Nuova scuola, nuovi compagni di classe. Quell'anno, Silvia avrebbe iniziato a frequentare la prima media.
Non ha senso che mi agito tanto, si disse. Tanto andrà come alle elementari. Finirà che io sono quella stramba, l'unica ragazza che va bene in matematica e che sta sempre attenta alle lezioni di scienze. La sola di tutta la classe che conosce quant'è l'albedo di Venere e degli altri pianeti, e dove si trovano le varie costellazioni. Quella che sa a memoria le battute più famose di Star Trek e del Dottor Who ma non le interessa niente di Scamarcio e di Tre metri sopra il cielo, o che si segna sul diario le date delle eclissi e quando qualcuno scopre un nuovo esopianeta invece delle canzoni e dei tormentoni famosi.
Silvia sputò nel piattino un grumo biancastro. Sospirò, infilò in bocca un altro spicchio e fissò il puntino luminoso in cielo.
Non troverò nessuno a cui piace le stesse cose che piacciono a me. O almeno, che non mi prende in giro per questo.
Silvia ancora non lo sapeva, ma di lì a poche ore avrebbe conosciuto Laura.

giovedì 21 giugno 2018

Il narratore è un personaggio

Seguimi per qualche istante. Ti chiedo di soffermarti su queste parole:
Il narratore in prima persona coincide con un personaggio della storia. Il narratore in terza persona no. Non è nessuno, è una voce fuori campo, uno stratagemma dell'autore per raccontare la vicenda da un punto di vista neutro, impersonale. Non è da confondere con l'autore. Ma non è nemmeno un personaggio, neanche quando narra la storia focalizzandosi su uno solo di loro, del quale conosce tutto, perfino i pensieri. Questo tipo di narratore non esprime giudizi e non si intromette; il suo compito è di limitarsi a mostrare, e per questo dev'essere il più possibile trasparente, invisibile agli occhi del lettore.
Sei d'accordo con queste affermazioni? Se la tua risposta è no, in che modo consideri i narratori in prima e terza persona? Ti è mai capitato di chiederti, in un libro che hai letto, chi sia colui o colei che ti sta accompagnando nel mondo descritto tra le pagine?

Una volta, la mia risposta alla prima domanda era un sì. Solo un paio di anni fa credevo che il narratore in terza persona fosse il più facile da gestire. Per raccontare in prima persona devi conoscere bene un personaggio, entrare nella sua testa, sapere come si esprime e scindere ciò che sa della vicenda narrata da ciò che in un dato momento non può conoscere. È una fatica, a volte, trovare per lui o per lei una voce unica e appropriata, e mantenerla pagina dopo pagina.

Nel narratore in terza persona non vedevo nulla di tutto questo. La massima difficoltà a mio parere consisteva nel far in modo che non spiccasse e che non portasse all'interno della storia valutazioni e idee che appartenevano a me o a uno dei personaggi. Oggi so che è una missione impossibile. Come le inquadrature di un film o il suo ritmo rivelano a chi lo conosce il suo regista, così la scelta di una parola invece di un'altra, la sequenza delle scene, la decisione su cosa raccontare e cosa omettere parla non solo di te, ma anche della persona o della creatura che hai eletto a narratore. Qualsiasi parola, per il semplice fatto di essere stata usata in quel punto di quella frase, esprime un giudizio e rivela le conoscenze della voce narrante. Una metafora al posto di un'altra può costituire un'enorme differenza.

Di questo, come scrivevo, non ero consapevole fino all'anno scorso... l'anno che ha cambiato radicalmente il mio modo di intendere il narratore in terza persona. Considera ora queste frasi:
In prima o in terza persona, il narratore è qualcuno. Il narratore è un personaggio interno alla storia che sta parlando, o scrivendo, a uno o più degli altri. Può non essere un personaggio comune ma chiunque sia, devi capire di chi si tratta. Solo così potrai sapere quali parole, modi di dire, dettagli della storia appartengono al suo modo di raccontare e quali no.
Questa maniera di intendere il narratore oggi è entrata a far parte dei miei "attrezzi" da scrittore, ma la prima volta che l'ho seriamente considerata è stata una rivelazione. La pulce nell'orecchio me l'ha messa dapprima un corso di scrittura creativa, con un appunto sulla correzione di un testo che mi ha lasciato confusa e piena di dubbi. Poi è arrivato M. Kirin, che con uno dei suoi video (provvidenziale in questo caso) ha risposto alle mie domande. Questa più o meno una parte del suo discorso:
Chi è il tuo narratore? Come lettore puoi non sapere chi sia, ma uno scrittore lo sa. Prima di iniziare a scrivere, chiediti: chi sta raccontando la storia? A chi? Per quale motivo? Nel caso di un narratore in terza persona, non è necessario che sia umano, né che qualcuno a parte te conosca la risposta, ma devi capire chi è. Anche nei casi più estremi. Se il tuo narratore è onnisciente, si tratta forse di un dio? Di un mostro dalle profondità dello spazio? Di un fantasma? Della madre terra? Oppure di un telepate (questa è una mia aggiunta)?

Bene. Avevo scritto "qualche istante", non ti tratterrò oltre. Eccola qui, la mia grande scoperta dell'anno scorso, quella che mi ha indotto a rivedere tutto un romanzo scritto in terza persona per assicurarmi che il narratore fosse effettivamente "qualcuno" e che fosse coerente dall'inizio alla fine. Ed è anche il motivo che mi ha convinto, lo scorso NaNoWriMo, che il narratore in terza persona non andava bene per quell'altra storia, e che un'alternanza delle voci dei due protagonisti era più indicata (perché mai il dio/forza cosmica panteistica venerato dalla gente di lei dovrebbe raccontare la storia dal punto di vista di lui? Avrei dovuto capire prima che c'era qualcosa che non andava!).

Non so se può essere altrettanto rivoluzionaria per te quanto lo è stata per me, ma in attesa della prossima grande scoperta, perché non fai un tentativo assieme a me? L'esercizio lo conosci, a te la penna o la tastiera!

lunedì 18 giugno 2018

Ti racconto una storia

Siamo quasi alla fine di questa carrellata di personaggi: dopo aver provato a introdurre differenze sempre più marcate, passando per creature fantasy, animali e persino oggetti, cosa manca?

C'è un personaggio che in realtà è spesso trascurato e di cui si parla poco, ed è il narratore. Il narratore in terza persona, in particolare, la voce narrante, "l'occhio nel cielo" attraverso il quale viene filtrata ogni parola che leggiamo. Sì, anche il narratore in terza persona è un personaggio, anche quando non si presenta e non sappiamo niente di lui o lei, tranne il suo modo di esprimersi.

Per questa missione, ti sfido a trovare la voce del tuo narratore in terza persona.

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Scrivi una scena in prima persona, dal punto di vista del personaggio che la sta vivendo.

Non un flusso di pensieri ma una scena, se non d'azione, in cui almeno succeda qualcosa. Per le finalità di questo esercizio puoi anche scegliere qualcosa che hai già scritto in passato, purché sia un brano in prima persona e che non sia prevalentemente incentrato sulla riflessione del personaggio o su una descrizione.

Riscrivi il brano usando un narratore in terza persona, scelto tra i sei proposti con il lancio di un dado o secondo la tua preferenza.

A questo punto è il momento di divertirsi e di cambiare narratore. La scelta, casuale o a tua discrezione, è tra questi sei narratori:

1) Un personaggio presente nel posto dove si svolge l'azione come mero osservatore
2) Un personaggio che non era presente, ma che ha sentito raccontare la vicenda e la riporta a qualcuno
3) Un personaggio in un distante futuro, che narra un evento ricostruito da pochi indizi
4) Un personaggio non umano esterno alla vicenda (es. un folletto, un alieno, un cane, un demone o un angelo...)
5) Dio o una delle divinità esistenti nel mondo della tua storia
6) Un concetto personificato (es. la giustizia, la solitudine, l'amore, la madre terra...)

Come puoi notare, sono più o meno in ordine di distanza "psicologica" dalla scena che avevi scritto in prima persona, il che ti costringerà sempre di più a divergere dal modo e dal contenuto del brano iniziale. Puoi provarne uno o anche tutti, se preferisci. Io aspetto qui i tuoi commenti, che siano i testi che hai scritto o semplicemente la tua impressione su questo esercizio o sul narratore in terza persona.


Spero di averti aperto una prospettiva nuova su questo tipo di voce narrante, così come è stato per me quando ho scoperto questo modo di intendere il narratore in terza persona... ma la storia di come ci sono arrivata te la racconterò giovedì!

sabato 16 giugno 2018

Zagaglia

Ci sono così tanti termini relativi alle armi che è impossibile conoscerli tutti, però quando si scrive di una battaglia è necessario usare quello più appropriato... non si può certo narrare che "Il vichingo sollevò con entrambe le mani una spada che era più lunga e più pesante di quella dell'amazzone"!

Zagaglia [za-gà-glia] s.f. (pl. -glie) Specie di corta lancia con asta di legno od osso e punta di ferro, in uso presso alcune popolazioni primitive.

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Scrivere di una zagaglia già di per sé definisce una certa ambientazione, a meno di non trasportarla al di fuori del suo contesto, in un museo ad esempio, o come paragone per definire un'arma di fortuna più moderna costruita con un coltello e un manico di scopa. Ho preferito restare nel suo ambito, e inoltre mi sembrava giusto proseguire con la zeta ciò che avevo iniziato con la A di Aruspice.


Endi si aggrappò alla zagaglia, la puntò a terra e risalì l'asta con le mani, nello sforzo di rimettersi in piedi. C'era qualcosa di sbagliato nel gruppo che scalava il crinale in direzione della grotta. Prima di tutto non portavano alcuna preda, come se la caccia fosse finita nel peggiore dei modi. Il clan non poteva permettersi un'altra stagione di bacche e radici. In secondo luogo proseguivano lentamente, al limitare della foresta, in un caotico percorso a zig-zag tra i tronchi dei pini.
Endi provò a contare i cacciatori che si avvicinavano e si accorse di qualcos'altro che non andava. Stavano tornando più persone di quante ne erano partite. La sentinella non attese che si avvicinassero abbastanza da riconoscerli e diede l'allarme.
Intrusi!
Il grido risuonò lungo i cunicoli che affondavano nella montagna, e ben presto Sachara spuntò dall'imboccatura della grotta, circondata da un manipolo di veterani segnati da cicatrici e di bambini che non avevano ancora superato il loro Giorno della Prova, tutti armati di zagaglie, archi e cerbottane.
Endi indicò i guerrieri ai margini della foresta. Sachara digrignò i denti. La tribù oltre la pianura aveva scelto il momento peggiore per attaccare, proprio quando i guerrieri erano lontani per la caccia. Ma quella era casa loro, conoscevano ogni palmo di quelle grotte e di quella montagna, e tutto il clan avrebbe lottato per sopravvivere. Persino le madri e gli aruspici, se fosse stato necessario.
Sachara urlava ordini ed Endi, stretto alla zagaglia, zoppicò dove lei gli diceva di andare. Avrebbe fatto la sua parte, non importava quanto difficile fosse. Ciò che Chu aveva detto per consolarlo era vero: una sentinella ferita restava pur sempre una sentinella.
Era contento di non aver rispettato gli ordini degli aruspici, che lo volevano trattenere per i riti della guarigione, e di essere invece uscito ad attendere il ritorno di Chu e degli altri.
Forse, quel giorno, i suoi occhi avrebbero salvato il clan.

giovedì 14 giugno 2018

Il giorno in cui sono morto

(racconto ispirato dall'esercizio Se potessero parlare... Ho scelto di dare voce a... no, non lo anticipo: ti lascerò indovinare.)
 
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Il giorno in cui sono morto non era cominciato sotto i migliori auspici. Appena sveglio, già mi sentivo scarico. Per forza: avevo lavorato fino a tardi la sera prima, e il mio non era stato uno di quei bei sonni ristoratori dai quali destarsi pieni di energia. Mi sentivo lento, spento, e di pessimo umore.
Per fortuna c'era qualcuno su cui potevo contare in questa giornata storta: la mia compagna di lavoro, di chiacchiere e di svago. Lasciai tutto nelle sue mani e mi rilassai un po' mentre lei prendeva ogni decisione e mi comandava con piccoli colpetti in fronte: cercami questo, apri quell'altro, scrivi un messaggio e ah, perché non scatti una bella foto?
Lei ordinava, io obbedivo. Ero nelle sue mani, letteralmente. Avrebbe dovuto prestare più attenzione.
Non riuscii ad avvertirla quando le scivolai dalle dita. Sarà stata la paura, ma la mia voce squillante mi sembrò ridursi a una muta vibrazione in gola. Avevo scelto un pessimo momento per entrare in modalità silenziosa.
È la fine, pensai, e mentre cadevo mi passarono davanti alla fotocamera tutta una serie di immagini, i ricordi dei momenti più belli condivisi con la mia compagna dalle dita di burro e la testa tra le nuvole. Troppo pochi gli anni di onorato servizio perché tutto finisse così: non ero un modello superato, e avevo ancora tanto da dare. La mia memoria funzionava bene. Il mio cuore non era obsoleto. Ero aggiornatissimo sulle ultime novità e pienamente operativo.
Ma sotto di me, nessun salvaschermo e nessuna rete per sottrarmi all'inevitabile. Atterrai con un crash e tutto divenne nero.

E ora sono qui, tra vecchi modelli contagiati da virus e altri sventurati come me. Sono rimasto morto per non so quanti giorni, ma la mia compagna ha infine trovato mani esperte a cui affidarmi. Sapevo di poter contare su di lei. Il luminare da cui mi ha portato, a forza di trapianti di tutto quello che c'era di rotto, ha compiuto il miracolo e mi ha resuscitato. Tra poco tornerò da lei e tutto sarà com'era prima.
E no, non riesco a credere alle voci che circolano in questo purgatorio: lei non può, nel frattempo, avermi sostituito con un altro. Qualcuno di più giovane, di più scattante. Qualcuno di nuovo.
Io sono il suo compagno. Io e nessun altro.
D'altra parte non può certo buttarmi via o vendermi al miglior offerente, vero?

lunedì 11 giugno 2018

Vita da tazzina

(racconto ispirato dall'esercizio Se potessero parlare... Ho scelto di dare voce a una tazzina da caffè.)
 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Aaaah, che fortuna, stasera sono toccata a lui! A lui che il caffè lo beve amaro. E così niente polverine o liquidi zuccherosi, e soprattutto niente cucchiaini metallici ficcati a forza fino a sbattere contro il fondo o agitati vorticosamente nel mio caffè fino a farmi girare la testa. E nemmeno mi ha lasciato ad aspettare fino a raffreddare il mio cuore nero, no: rapido, un risucchio veloce tutto d’un fiato, e via. Peccato per i baffi che mi fanno il solletico, ma quando si decide a radersi per bene! Così finirà per graffiarmi tutta la ceramica. Io sono una tazzina a modo, delicata, ci vuol poco a scheggiarmi, bisogna sapermi trattare con cura. E ormai ho pure la mia età, di anni al servizio di questa famiglia ne ho passati, non sono più una giovincella ai primi espressi. Come premio per il mio assiduo servizio, preferirei non essere assegnata casualmente a ogni pasto a una bocca diversa. Ma riconoscermi fra le mie compagne, lo so, non è facile: io non spicco come quelle esibizioniste delle tazze da colazione o da the personalizzate. Non ho idee strambe per la testa, né strani intrugli dentro. Solo caffè per me, a pranzo e a cena. A ogni modo, per oggi il mio lavoro l’ho fatto, ora mi spetta una bel bagno caldo e poi via, a dormire accanto alle mie sorelle fino a domani. E non rimproveratemi se mi riposerò fino a mezzogiorno. Non sono pigra, anzi: io mi sveglio sempre all’ora in cui qualcuno ha bisogno di me.

sabato 9 giugno 2018

Valetudinario

Ben sei sillabe per una parola così musicale che vien subito da chiedersi quale straordinaria qualità descriva, e invece... anche se, conoscendo il latino, almeno un indizio circa il suo ambito lo si può ottenere fin dalle prime lettere.

Valetudinario [va-le-tu-di-nà-rio] agg. (pl.m. -ri) lett. Cagionevole di salute, spesso malato.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Un termine così altisonante che è impossibile non associarlo a un titolo onorifico, e così è nato quel Supremo Valetudinario. Mi serviva solo un posto su cui farlo "regnare", e mi sono chiesta: perché non un intero pianeta?


Per il pianeta Lazarus, il viaggio era di sola andata. A meno di non avere uno speciale lasciapassare dell'Alleanza, per abbandonare il pianeta era necessario sottoporsi a una serie di esami così completa e approfondita da non lasciare scampo neppure al più sano dei soggetti. Lo scanner intracellulare e il lettore di DNA frugavano il corpo di chiunque osasse dichiararsi "sano", e bastava loro anche una minuscola colonia batterica o un semplice gene difettoso, per quanto inespresso, per respingere il richiedente tra le schiere dei malati. Le visite non erano permesse; i medici erano a loro volta pazienti di altri medici.
Lazarus era il mondo in cui l'Alleanza nascondeva tutte le creature valetudinarie, umane e aliene, che non avevano abbastanza denaro, influenza o potere da riconquistare la salute altrove: il tappeto cosmico sotto al quale spazzare la polvere dell'universo.
Ottenere tre lasciapassare falsi era quasi difficile quanto ottenere quelli veri. Per una volta, era stato Handel ad avere le conoscenze giuste.
– Voglio che la lucertola lo ammetta. – La trasmittente della tuta sputò nell'orecchio di Cinde la voce distorta e gracchiante dell'uomo. – Io sono utile. E non solo quando si tratta di sparare...
– ...o di brontolare? – Completò l'altra voce, quella dell'Arturiano, che incredibilmente risultava nitida.
– Smettetela, voi due. – Cinde toccò il lungo becco della maschera che filtrava l'aria: quel casco era la cosa più scomoda che avesse mai indossato, e comunque non riusciva a isolarla dagli onnipresenti colpi di tosse, dai lamenti e dall'odore acre e nauseabondo di piscio, peste e pasticche. – Un po' di contegno. Dobbiamo incontrare il Supremo Valetudinario.
Come ogni mestiere a Lazarus, anche il governo era retto dai malati. Il Supremo Valetudinario era la massima autorità, coadiuvato dal Consiglio dell'Ultimo Respiro. Erano tutte cariche a vita, eppure non era una sorpresa che cambiassero volto con più frequenza di un qualunque altro governo.

giovedì 7 giugno 2018

Al cuore delle cose

Guardati attorno. Siamo circondati, ogni giorno che passa sempre di più, da oggetti "smart", intelligenti e interattivi. Un cellulare che ti fa da navigatore e che ti chiede con insistenza di tornare indietro e di prendere la seconda uscita alla ròtonda non è una novità, così come non lo sono più i giocattoli parlanti con i quali, forse, anche tu sarai cresciuto. Oggi con quegli stessi cellulari, ma anche con le automobili, si intavolano discussioni (tramite Siri, Ok Google, Cortana...) ad alto tasso di esiti comici e di incavolature varie, perché proprio come con un altro essere umano, anche nel tuo rapporto con la macchina c'è sempre il rischio di finire con l'essere un incompreso. A breve, e sta già succedendo, cominceranno a parlare pure le lavatrici e i frigoriferi, e poi che altro?

In mezzo a tutto questo, potresti pensare che quella di attribuire sentimenti, pensieri e parole agli oggetti inanimati sia un'idea più tipica dei nostri tempi che delle epoche passate. In fondo, quando gli oggetti non si muovevano da soli e non avevano voce, erano soltanto oggetti. E invece è un modo di pensare, e di scrivere, che risale a molto tempo fa.

Mai sentito parlare di animismo? Per l'uomo primitivo luoghi e oggetti, in particolare quelli più importanti, quelli sacri, erano vivi e avevano un proprio spirito. E questo concetto è sopravvissuto in molte religioni, ancora oggi. Basti pensare ai kami giapponesi, le divinità-oggetti della fede shintoista(ma anche animali e concetti astratti possono essere kami... tra l'altro, il Giappone ha una ricca tradizione di demoni in forma di oggetti, come quello che anima i vecchi ombrelli, il Kasa-obake). Oppure alle statue e alle reliquie oggetto di venerazione della fede cattolica, per tornare a qualcosa di più vicino forse più noto a te che stai leggendo.

Ancora, in fatto di animismo, ma senza connotazioni religiose, i bambini sono veri e propri maestri in questo. Il loro mondo è animato per intero, e non solo dai cartoni. Tutto attorno a loro agisce, ha sentimenti e intenzioni. E le favole in cui spesso compaiono oggetti e animali come personaggi, riflettendo questo loro modo di pensare, parlano la loro lingua.

In letteratura, quando un oggetto (oppure, anche qui, un albero, un animale, un concetto astratto) presenta caratteristiche umane come il pensiero, l'azione o la parola, si sta usando la figura retorica della personificazione o della prosopopea. La differenza è che la prosopopea si ha quando l'oggetto parla, mentre nella personificazione può anche non farlo. Ma queste sono sottigliezze. Concluderò, che ho già scritto troppo, con alcuni esempi d'autore:


I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino -
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:

Deh perché fuggi rapido così?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! -

(G. Carducci, Davanti San Guido, 1-16)


“..E’ giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme..”

(A. Palazzeschi, La fontana malata, vv.6-25)

lunedì 4 giugno 2018

Se potessero parlare...

Quante volte hai sentito dire: "Ah, se i muri potessero parlare..."

E se invece potesse farlo il cellulare, una penna, una tazzina, il tavolo o una sedia? Che cosa potrebbero raccontare questi o altri oggetti di te, di un loro "collega" inanimato o del personaggio immaginario che li usa?

La tua missione di oggi sarà dare voce e pensiero a chi non ne ha.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
Fermati un attimo. Guardati attorno. Scegli un oggetto di uso comune tra quelli che ti circondano.

Può essere qualcosa che ti appartiene o qualcosa che oltrepassi tutti i giorni senza nemmeno guardarlo, qualcosa che hai sempre sotto gli occhi o qualcosa di unico per occasioni speciali. Può essere qualunque cosa, da un enorme armadio a un minuscolo spillo, dalla tua tazza preferita alla tua auto. Non è nemmeno necessario che sia vicino a te in questo momento, se ti è venuta in mente una bella idea per un brano su un oggetto che ora non hai con te, procedi pure!

Usa l'immaginazione. Se il tuo oggetto potesse parlare, che cosa direbbe? Puoi scegliere di fargli esprimere i pensieri di una giornata normale, o di quel giorno in cui è accaduta quella cosa...

Qui, ovviamente, dovrai farti aiutare dalla fantasia. Sta solo a te decidere quando e dove ambientare il brano, se descrivere una giornata qualunque o quella in cui la matita si è spezzata in due, il pomeriggio in cui hai perso e poi ritrovato il portafoglio (dal suo punto di vista!) o la sera in cui hai deciso che quel vestito non ti piaceva più.

E se preferisci non rivelare dettagli della tua vita, perché non inventare proprio tutto, mettendo in mano un oggetto reale, o uno che non esiste, a un personaggio creato dalla tua mente?


Lo schermo del mio pc è ansioso di mostrarmi il tuo brano, perciò non esitare, scrivilo qui sotto nei commenti, o almeno fammi sapere com'è stato provare ad ascoltare la voce delle cose. Non vorrai rendere triste un povero schermo, vero?

sabato 2 giugno 2018

Uzzolo

Ultimamente mi attirano molto le parole dal suono comico, e questa non fa eccezione. Appartiene al gergo colloquiale, ma allo stesso tempo mi sembra un termine dal sapore abbastanza antico da non essere usata così di frequente nella vita di tutti i giorni. Eppure è un peccato, perché è una parola carina, e descrive qualcosa che può capitarci abbastanza spesso.

Uzzolo [ùz-zo-lo] s.m. Nel linguaggio familiare, voglia intensa, capriccio.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Devo confessare che appena ho visto la parola, la situazione già ce l'avevo in mente. L'unico dubbio era se il personaggio che doveva pronunciarla fosse abbastanza in confidenza con l'altro, e di rango non troppo elevato da avere naturalmente una parola così sulle labbra. Non ero certa sulla confidenza, quindi ho modificato un po' le circostanze iniziali.


– Non la sopporto più – sbottò Cerre, facendo avanti e indietro lungo l'enorme tavolo che occupava parte della sala del consiglio. A quell'ora non era prevista alcuna riunione, solo i suoi due siahta personali, un fratello e una sorella appartenuti alla nobiltà di un regno sconfitto, attendevano in silenzio, a capo chino e con la schiena addossata al muro, un ordine del loro padrone. – Quella principessina viziata! Adesso le è tornato l'uzzolo di possedere una siaht, e non una qualunque, no! Proprio quella! – Cerre si fermò e scosse la testa. – Solemestis andrà su tutte le furie!
Dalla porta d'ebano entrò il capo del consiglio coperto di tutti i paramenti. Sbatté l'anta in faccia ai due siahta che lo seguivano e si avvicinò a grandi passi a Cerre, che lo attendeva strofinandosi le mani. Solemestis era già di per sé un uomo alto; con addosso il copricapo del suo ruolo era certo di poter troneggiare su chiunque altro, quindi non aveva problemi a imporre la sua statura a quell'ometto pavido e tozzo che sapeva essere di volta in volta il suo miglior alleato e la sua spina nel fianco.
Prima di iniziare a parlargli, Solemestis fissò di traverso i due siahta che facevano da tappezzeria e sibilò: – Fuori.
– Temete per la loro discrezione? – chiese Cerre, con la testa incassata tra le spalle. – Hanno la lingua tagliata, mio signore...
– Fuori. – Solemestis guardò Cerre nel ripeterlo, e quest'ultimo fece subito cenno ai due siahta di andarsene. Avrebbe potuto scegliere di non soddisfare un uzzolo della principessa Skalyssa, almeno finché restava una ragazzina priva di un reale potere; ma per Cerre il volere di Solemestis era legge.
– Mi è giunta voce di un problema – soggiunse Solemestis, una volta rimasti soli. – E come al solito, la tua scarsa intelligenza non ti permette di vedere la soluzione più semplice. Ovvero, dare alla principessa una siaht che somigli a quella che desidera, e che risponda allo stesso nome. Skalyssa non noterà la differenza. E così, saremo tutti contenti.