sabato 30 maggio 2020

Linfa


Linfa [lìn-fa] s.f. bot. Soluzione di acqua e sali minerali che circola nei vasi legnosi delle piante. anat. Liquido in eccesso che circola nei vasi linfatici del corpo. zool. Emolinfa degli invertebrati. fig. Ciò che dà sostegno, specialmente spirituale.

Etimologia: deriva dal latino lympha, "acqua limpida", probabilmente affine al greco nýmphē, "ninfa", o per alcuni al greco lemphos, "muco", e come aggettivo "scorrevole, mucoso".

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Il mio proposito di vendetta si rinvigorì di nuova linfa quando scoprii che a svegliarmi dal mio lungo sonno era stata lei. Che deliziosa ironia che proprio la pupilla dei Protettori, coloro che avevano votato la loro vita a scongiurare il mio ritorno, avesse, per quanto involontariamente, tradito quella loro sacra missione. Le vie che intrecciavano i nostri destini non smettevano mai di sorprendermi, nemmeno dopo secoli.
Come un albero che cresce forte e vigoroso con il trascorrere delle stagioni, avevo dalla mia parte la pazienza e il tempo necessario per strappare la bambina alle loro mani e fare di lei la mia discepola. Dal giorno in cui l'avevo chiamata per la prima volta a me, lei continuava a tornare, e con il susseguirsi dei nostri incontri, mentre insinuavo in lei il dubbio su quanto credeva di sapere, le avevo dato un nome per legarla ancora di più a me e allontanarla dai Protettori. Viola.
La mia Viola.
Eppure, quel mio piano aveva una falla. Me ne accorsi quando le diedi in mano un coltello e le chiesi di incidere un ramo di betulla per farne stillare la linfa in un bacile d'argento. Lei non riuscì neppure a scalfire la corteccia, troppo timorosa di fare del male.
Stupido, inutile essere.
Ma non importava. Se non potevo fare di lei l'oggetto della mia vendetta, potevo almeno renderla portatrice inconsapevole della disfatta dei miei nemici. Mi occorreva solo qualcosa di innocuo, o apparentemente tale, che mi permettesse di avvicinarmi indisturbata ai Protettori.
Per questo, sul retro della casa, iniziai a coltivare i virgulti di lillà.

giovedì 28 maggio 2020

La mappa più grande

 
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Il Pianeta Mappa era esattamente ciò che il suo nome diceva.
Escludendo, ovviamente, il fatto che non si trattava di un pianeta, bensì di una luna; e nemmeno una luna vera, quanto piuttosto una costruzione artificiale che rappresentava in dimensioni ridotte il pianeta attorno al quale era stato messo in orbita. Un tempo, il Pianeta Mappa era stato consultato dai viaggiatori in visita al Pianeta Origine per comprendere il luogo migliore in cui far scendere gli equipaggi, o farsi un'idea dei confini dei vari stati, perennemente in guerra tra loro e in costante mutamento. All'epoca era sufficiente restare in orbita con la propria astronave per consultarlo, tanto le scritte che identificavano paesi e città erano grandi, e il personale residente sulla luna, unici esseri viventi autorizzati a calcarne il suolo, si assicurava che fosse costantemente aggiornato per rispecchiare in tempo reale la mutevole situazione sul Pianeta Origine.
Un tempo era stato così, ma le cose, da allora, erano cambiate.
– Che cosa vuol dire che non posso portarmi dietro il fucile a impulsi? – sbottò Handel, irrompendo in plancia di comando con tutta la grazia di un'Elefoca Gauriana.
Cinde alzò gli occhi dagli schermi che mostravano una sezione dell'emisfero nord del Pianeta Mappa. – Vuol dire che da quando il Pianeta Origine è stato obliterato nella Guerra Finale, quel posto è diventato un maledetto parco divertimenti – replicò, in tono vagamente stizzito, la donna abbigliata di bianco e d'argento. – Hai presente? Famiglie, bambini... le armi non sono ammesse.
Handel sbuffò, ignorato dal terzo membro dell'equipaggio, un arturiano con qualche vago accenno di rettile nella struttura umana. Mod, questo era il suo nome, continuò a studiare il Pianeta Mappa in lungo e in largo, spostandosi per tutta la sezione schermi della plancia. Cinde lo raggiunse e mormorò: – Hai trovato il punto? Le indicazioni che ci hanno dato non sono chiare, ma forse qui...
Cinde indicò uno dei paesi più piccoli, interamente colorato di rosa.
– Nell'Ultima Era i confini cambiavano in modo talmente rapido sul Pianeta Origine che gli abitanti di Pianeta Mappa smisero di perdere tempo ad aggiornarlo – replicò Mod l'arturiano, seguendo con le dita lunghe e sottili le ramificazioni di una linea che rappresentava un fiume. – Nemmeno chi ci ha fornito la mappa per il Pianeta Mappa era sicuro di dove fosse finita esattamente la Chiave. Sono spiacente capitano, ma dovremo scendere e cercarla sul posto.
L'arturiano si raddrizzò e scambiò un cenno con Cinde, che ingiunse: – Prepariamoci, allora.
Handel, però, piantò i piedi nel mezzo della plancia, ritto in una posa marziale. – Vi avverto. Se il mio fucile a impulsi resta qui, io resto qui.
Mod lo adocchiò un solo istante, prima di soffiar fuori dalle labbra una risata che pareva il verso gracchiante di una raganella notturna. – Grazie – concluse tra un verso e l'altro. – Vorrà dire che stavolta divideremo il compenso per due.
– Cosa... – Alla vaga minaccia di lasciarlo senza paga, Handel traballò e si voltò a seguire con gli occhi l'uscita dell'arturiano, tallonato da Cinde che si stringeva nelle spalle con un sorriso. – Non ci provare dannata lucertola! Ehi! Io ero parte di questa ciurma quando tu ancora non eri uscito dall'uovo, ricordatelo bene!
Urlando imprecazioni alla volta dell'arturiano, Handel si affrettò a seguirli, e sulla plancia calò il silenzio. Sugli schermi luminosi, non visti, i confini e la geografia di Pianeta Mappa iniziarono a mutare, lentamente e inesorabilmente.
Nessuno dei tre capì, finché per loro non fu troppo tardi, che stavano per infilarsi in un labirinto grande quanto un intero pianeta.

lunedì 25 maggio 2020

Tutto ciò che Silvia sapeva

 
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Silvia aveva quasi dodici anni, e nonostante pensasse di saperne molto di più dei suoi compagni di classe, in realtà non erano molte le cose che Silvia conosceva. Conosceva, questo è vero, molti più alieni rispetto agli altri ragazzi della sua età - o, sarebbe meglio dire, molti più alieni inventati. Sapeva cos'era uno Xenomorfo, un Klingon, un Na'vi, un Twi'lek, e persino un Ood. E conosceva i nomi di molti capitani e dei membri del loro equipaggio e delle rispettive astronavi, anche queste rigorosamente frutto della fantasia umana. Silvia inoltre era in grado di ripetere tutti i nomi dei pianeti del sistema solare nel giusto ordine, e quello dei loro satelliti, e ricordava i nomi e la forma delle costellazioni, oltre a numerose nozioni sul conto degli uni e delle altre, molte di più di quelle che si insegnavano a scuola e, in questo caso, tutte assolutamente vere.
Forse proprio a causa delle cose che sapeva, Silvia era consapevole di almeno una lacuna nella sua vita: non sapeva che cosa fosse una vera amica. Non aveva mai invitato qualcuno dei suoi compagni di classe a casa, né al suo compleanno, e nel passaggio dalle scuole elementari alle medie non aveva sentito la mancanza di nessuno dei bambini con cui aveva smesso di condividere le mattine sui banchi.
O almeno, Silvia non aveva saputo cosa fosse una vera amica finché non era arrivata Laura, e aveva riempito quello spazio vuoto con tutto il calore di una stella danzante. Era stato come trovare qualcuno che parlasse la sua stessa lingua in una terra di stranieri. Un'altra ragazza che non si lamentava delle ore di matematica a scuola, anzi: Laura era brava quanto Silvia in matematica, e probabilmente anche di più. Era un genio nelle scienze, un'artista nel disegno e in musica, un maestro della retorica in italiano, una madrelingua nel parlare inglese, una ginnasta nata, e non solo durante le lezioni di educazione fisica. Ed era molto, molto più viva di Silvia.
Troppo al di sopra del suo livello, ed era quello il motivo per cui, giunta di fronte alla porta della propria camera, con la ragazzina dai capelli rossi che fremeva alle sue spalle, Silvia esitava a lasciarla entrare. L'aveva invitata a studiare a casa sua senza credere fino in fondo che avrebbe accettato, e invece Laura l'aveva sorpresa e le aveva detto di sì. E in quel momento, mentre stava per ammetterla nella sua camera delle stranezze, Silvia era consapevole di non sapere se Laura sarebbe scappata a gambe levate, una volta avuto un assaggio della vera lei e di tutte le sue folli passioni. Infatti, nonostante avrebbe potuto farlo, Silvia aveva scelto di non mettere nell'armadio nessuno dei modellini sugli scaffali, né aveva staccato i suoi poster, e neppure nascosto i fumetti e i libri di fantascienza dai titoli più strambi dietro i testi di scuola. La stanza era esattamente com'era in un giorno normale.
Se siamo davvero amiche, pensava Silvia, allora mi deve conoscere sul serio.
Aprì la porta e si fece da parte.
Laura entrò con gli occhi sgranati di meraviglia. Quello non era un buon segno, ma neanche un cattivo segno: Laura aveva sempre gli occhi sgranati di meraviglia, per qualsiasi cosa.
Il suo sguardo si fissò sul poster dei Visitatori dalle stelle, un collage di alieni dei film e telefilm che Silvia aveva messo insieme qualche anno prima. Lo guardò per un solo istante prima di distogliere gli occhi bruscamente. Ma Silvia non fece in tempo a interpretarlo come un brutto segno, che Laura scorse il telescopio accanto alla portafinestra, lo raggiunse ed esclamò: – Hai un vero telescopio! Che forza! Quanti ingrandimenti? Riesci a vedere gli anelli di Saturno?
Silvia si rilassò alla raffica di domande e le rispose cercando di non fare troppo sfoggio delle cose che sapeva. Poi, quando Laura si affacciò alla portafinestra commentando: – Fantastico! Hai un terrazzo tutto per te! – Silvia si sforzò di non farle notare quale delle varie incarnazioni del Dottor Who - la nona - usava quell'esclamazione come tormentone.
– Silvia, la tua camera è grandiosa – le disse Laura una volta accomodate alla scrivania, dopo un breve tour e qualche accenno di spiegazioni imbarazzate da parte di Silvia sui modellini dalle forme più inconsuete.
– Sicura che non ti dà fastidio... – Silvia accennò alla fila delle Enterprise. – Non sono proprio così fissata... non così tanto... – tentò di giustificarsi, ma Laura la zittì con un ampio sorriso.
– Vengono da belle storie, giusto? – le chiese la ragazzina dai capelli rossi, nel protendersi verso di lei. Al cenno affermativo di Silvia, Laura concluse con una risata. – Meno male, per un momento ho pensato che ci credessi davvero agli uomini in nero e ai dischi volanti! Ma se invece sai che sono storie inventate e se ti rendono felice, per me sta bene.
Silvia si affrettò ad abbassare gli occhi e ad aprire libro e quaderno sulla scrivania, scacciando dalla sua mente il pensiero che il periodo in cui aveva creduto che i "visitatori dalle stelle" fossero reali non era poi così tanto lontano.

sabato 23 maggio 2020

Apotropaico


Apotropaico [a-po-tro-pài-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) Dotato della facoltà magica di tenere lontano l'influsso degli spiriti maligni.

Etimologia: deriva dal greco apotrópaios, termine costituito da apo "da" e trepein "allontanare", dunque "da allontanare".

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Chi non lo conosceva avrebbe pensato che Belial fosse ossessionato dalla sfortuna, dagli oggetti che la prevengono e dai riti apotropaici. Fin dall'esterno la nostra dimora nel bosco sembrava progettata per tenere lontani gli spiriti maligni: acchiappasogni, campane a vento, cornetti rossi e cristalli dondolavano ovunque, appesi ai davanzali, a chiodi piantati sui muri e ai rami degli alberi. Nei giorni di vento, il loro tintinnare generava un tale caos da risultare fastidioso. Inoltre erano costantemente impregnati di una mistura di erbe nauseabonde, così che l'aria attorno alla casa puzzava di rancido, dai muri fino al cerchio di protezione, un anello tracciato con il sale.
Sulla porta di casa, invece di un batacchio, era appeso un ferro di cavallo. Nessun campanello da noi: non ci aspettavamo ospiti, né li avremmo invitati.
All'interno ogni soprammobile pareva scelto per adempiere a una sola funzione. Avevamo i classici quadrifogli e coccinelle racchiusi in globi di vetro, assieme a specialità etniche quali Hamsa o mani di Fatima smaltate e decorate da gemme preziose, occhi di Horus, maschere antiche, scorpioni sotto resina, scarabei di turchesi, statuine di giada dagli attributi invidiabili, un teschio vero del quale ho evitato di chiedere spiegazioni su come se lo fosse procurato e perfino un maneki neko, un gatto della fortuna giapponese. E poi c'era l'armadio delle scorte di Belial, che traboccava di erbe, minerali, candele, boccette di pozioni di ogni forma e colore, libri dai glifi indecifrabili per chiunque non fosse come noi e amuleti apotropaici appesi in ordinate file di cordini e catenelle.
Insomma, pareva proprio che Belial credesse fermamente nella sfortuna e nel corso degli anni avesse ricercato ogni mezzo per allontanarla. E sarebbe stato bello, se fosse stato così. La sua ossessione, perlomeno, mi sarebbe parsa ridicola.
Per nostra sventura, il nemico per cui avevamo tutte quelle difese era molto più concreto di uno spirito maligno.

giovedì 21 maggio 2020

Troppo bello


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C'era un blocchetto per gli appunti che Nina non aveva mai usato. Era diverso dai quadernetti a righe da due soldi che Nina sottraeva alle sue scorte di materiale scolastico, quando aveva bisogno di fogli per scrivere le sue poesie. Questo aveva una vera copertina di cartone spesso, come gli album delle foto o come i libri antichi, e una spirale di metallo a tenere insieme le pagine. La carta dei suoi fogli era spessa, liscia e con un lieve riflesso, non del tutto bianca ma di una sfumatura lavanda, e i bordi erano decorati da una filigrana floreale, la stessa che abbracciava l'immagine dipinta sulla copertina. La madre glielo aveva regalato con il suo primo stipendio del laboratorio, ma mentre lo sfogliava con reverenza sul rozzo tavolo di legno della cucina, Nina scuoteva leggermente la testa e ripeteva che era "demasiado lindo", troppo bello, per poter essere usato.
– Perché no?
Aveva insistito la madre, e a quel punto Nina aveva dovuto spiegarle che non voleva macchiarlo, e che spesso buttava giù delle idee per non dimenticarle, e in seguito le correggeva, cancellava, scarabocchiava, o addirittura strappava via la pagina quando sentiva di non riuscire a dare la forma giusta al suo pensiero.
– È perfetto. A scriverci sopra, rischierei solo di rovinarlo.
E così quel regalo, che Dora aveva pensato sarebbe stato molto utile data la passione della figlia, trovò spazio sulla libreria in camera della ragazzina, e da lì non si mosse più.
Per anni. Fino all'incidente, e all'incendio.
La casa di Nina era fuori dal perimetro di sicurezza, perciò fu una delle poche risparmiate, e dopo che la squadra di decontaminazione ebbe dato il via libera, Nina e il padre, come i loro vicini, poterono tornare nelle rispettive dimore, e provare a far finta che nulla, nel quartiere spagnolo, fosse cambiato.
A parte il fatto che Dora non sarebbe mai più rientrata.
Nina si chiuse in camera quella notte, e cercò il blocchetto per gli appunti che sua madre le aveva regalato. Il dono più prezioso, conservato intatto, per non rovinarlo. Ma anche quello non era come lei lo ricordava.
Le pagine color lavanda erano ingiallite dal tempo, la carta spessa si era fatta ondulata e la filigrana floreale non era più l'unico segno su quei fogli intonsi: puntini scuri d'umidità e di muffa si allargavano qua e là, trapassando le pagine e sbiadendo nelle successive.
Nina non lo aveva mai usato, ma il blocchetto per gli appunti troppo bello e costoso per contenere le sue poesie da adolescente emotiva era ormai irrimediabilmente rovinato.

lunedì 18 maggio 2020

Parenti al museo


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Di ritorno dal lungo viaggio io e mia madre non mancavano mai di fare una visita ai parenti, che per l'occasione si riunivano tutti nella grande sala bianca, dove di spazio per noi ce n'era a sufficienza nonostante il viavai continuo della folla.
Anche adesso che sono rimasto solo non me la sento di rompere con la tradizione, così una tappa al museo assieme ai parenti la faccio ogni anno.
Ė un'occasione di festa, l'unica giornata in cui posso rivederli tutti.
C'è il prozio Meleagris, che come al solito dopo qualche gluglu di troppo si mette a fare il tacchino. Il più delle volte va diritto a importunare la mia cugina di secondo grado, Athene, una tale civetta... che ne è lusingata, ovvio, ma che si guarda bene dal degnare di un'occhiata sia il prozio che il suo parente più prossimo, suo fratello Tyto, brontolone come un barbagianni. Oh, ecco gli zii, lui Cinci lei Allegra, sempre in coppia. Non inseparabili quanto gli inseparabili coniugi Agapornis, ma ci vanno vicini.
Mia sorella Luscinia, ovviamente, non resiste dal mettersi a cantare per la famiglia. D'altra parte, con la sua voce da usignolo, non gliene si può fare una colpa. Più fastidioso è invece quel macao del cugino Ara, non fa che ripetere tutto ciò che dicono gli altri, bella forza che tra noi lo chiamiamo "Ararauna", e poi come si veste? Tutto sgargiante e colorato neanche fosse al circo.
A proposito di parenti imbarazzanti, ecco che arriva zia Pica, meglio nascondersi prima che mi noti e venga da me, che lei non vuole ammetterlo ma soffre un po' di cleptomania, lo sanno tutti che è una gazza ladra! Mi riparo sotto l'ala protettrice di nonno Buteo, che con zia Pica c'è pure quell'avvoltoio del cognato Gyps. Ma appena arrivato scopro di non essere l'unico ad aver avuto questa idea. Qui, al sicuro da nonno Poiana, ritrovo i miei parenti preferiti: la cugina Anas e mio fratello Hirundo, e assieme iniziamo a ciangottare animatamente di viaggi, rotte aeree e formazioni in stormi.

***

–  Mamma, mamma, c'è un uccellino vero là in mezzo! –  esclama un bambino di passaggio nell'ala di ornitologia del museo di storia naturale. Alza la voce, per farsi sentire tra le registrazioni di gorgheggi e cinguettii, quindi tira la manica della madre e indica il ramo su cui sono messi in posa diversi esemplari di volatili impagliati.
– Ma no, non è possibile Fabrizio, sono tutti finti gli uccellini qui – replica la madre, senza neanche rivolgere gli occhi al punto indicato dal bimbo, che insiste.
– Ti dico che c'è, mamma, guardalo, eccolo lì!
Al sentirlo la donna scuote la testa, sorride con condiscendenza e alla conoscente con cui stava chiacchierando mormora, a mo' di scusa: – I bambini, che fantasia!

sabato 16 maggio 2020

Liutaio


Liutaio [liu-tà-io] s.m. (f. -taia; pl.m. -tai) Persona che costruisce o ripara liuti e altri strumenti a corda.

Etimologia: deriva da liuto, che a sua volta viene dall'arabo al’ūd, "il legno", materiale di cui è composto lo strumento.

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16° giorno di Beltempo, Casa del Mastro Liutaio Fithele, Aoidh Caoimhin

Due sono le cose che voglio annotare subito, per non dimenticarle, seduta in un angolo di questa bottega che sa di resina e di bosco. Uno, il mastro liutaio Fithele è l'essere umano più meraviglioso al mondo, dopo Taliesin. Due, non mi lamenterò mai più della strada che porta a nord, a questa città dal nome stranissimo (ho dovuto chiedere a Taliesin come si scrive Aoidh Caoimhin per essere sicura di non sbagliare), se veniamo qui per incontrare Mastro Fithele.
Non si è scomposto neanche un po' per le mie ali.
Quando gli ho chiesto come mai non le fissasse come fanno tutti gli altri, o non avesse fatto domande a Taliesin sul mio conto, lui mi ha risposto, indicando i vari strumenti sul suo tavolo da lavoro e sugli scaffali: "violino, viola, liuto, cetra, lira, sono tutti diversi per forma e per voce, ma ognuno di loro serve al medesimo scopo, ovvero a far musica". Poi, mentre riparava quello che Taliesin gli aveva portato, ha cominciato a insegnarmi i nomi delle parti che lo compongono, e come il suono rimbalza e si amplifica negli spazi vuoti e nelle curve del legno. Dovrò chiedergli di ripetere tutti quei nomi, perché non me ne ricordo neanche mezzo.
La cosa più importante, però, è che il mastro liutaio Fithele mi piace un sacco, e che qui, nella sua dimora, io mi sento a casa.

giovedì 14 maggio 2020

Beccata a leggere

 
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Non avevo un libro, la musica era la stessa che avevo già ascoltato mille volte e la batteria del cellulare quasi scarica mi scoraggiava dall'effettuare un annoiato vagabondaggio tra siti e social, perciò il mio viaggio di ritorno si prospettava parecchio noioso. Era l'epoca in cui autobus e treni potevano ancora essere caricati fino all'inverosimile da una moltitudine di umanità varia pigiata l'una all'altra, come facevamo a sopportarlo ancora non lo so; perciò potevo ritenermi già soddisfatta di aver trovato un posto, e non mi lamentavo di dover stare spalla a spalla con uno sconosciuto. Cercavo solo di farmi piccola, di occupare meno spazio possibile abbracciata al mio zaino, per dare una parvenza di privacy ai miei pensieri. Volevo essere invisibile.
Tutto il contrario di chi mi stava accanto, un omone corpulento che si agitava sul sedile e sembrava pretendere molto più spazio di quanto gliene fosse concesso. Non volevo essere indiscreta, ma ignorarlo era impossibile. E lui teneva un libro aperto sulle ginocchia.
All'inizio pensai che il motivo della sua irrequietezza fosse da ricercare nella trama del libro, e così sbirciai appena un pochino, quel tanto che bastava, mi dissi, per cercare di capire di che romanzo si trattasse, e se avessi già letto anch'io quella storia in apparenza così entusiasmante. Solo a una seconda occhiata mi resi conto che una delle due pagine, quella più vicina a me, non apparteneva affatto al romanzo. Era stampata al pc con lo stesso carattere e la stessa impaginazione del libro, ma era inequivocabilmente un foglio a parte, senza numero di pagina e sciolto dalla rilegatura.
Era una lettera. Per una ragazza. Una lettera d'amore.
Lo so che non avrei dovuto leggere qualcosa di così privato. Ma era davvero scritta bene, e non ho potuto farne a meno. Anzi. Erano le frasi più incantevoli che avessi mai letto. Mi vennero le lacrime agli occhi alla fine, e mi sorpresi a desiderare che parole del genere venissero rivolte a me. Il passeggero al mio fianco, se era stato lui ad averla scritta, aveva davvero un talento raro.
Mi accorsi di essermi sporta un po' troppo per cercare di leggere il lato dove la pagina curvava, e nell'alzare gli occhi mi ritrovai faccia a faccia con l'estraneo che mi fissava. Mi ritrassi e sentii le guance in fiamme per essere stata beccata a leggere la lettera.
– Mi scusi... – borbottai, mentre già distoglievo gli occhi e tornavo a farmi piccola piccola, stretta al mio zaino.
L'altro passeggero, però, evidentemente non aveva intenzione di lasciare impunita la mia indiscrezione, perché disse, in un tono a metà tra lo scocciato e il nervoso: – E allora, che ne pensa?
Mi strinsi nelle spalle. – Non sono affari miei, lo so. Non dovevo leggerla.
– Be', visto che lo ha fatto, può anche darmi il suo parere, no? – insistette l'estraneo.
Non voleva proprio lasciar perdere. Sospirai. – È... è splendida – tagliai corto. Mi morsi il labbro inferiore e mi strofinai un occhio che ancora faceva i capricci.
Lui rimase in silenzio. Quando lo guardai, aveva un gran sorriso che mi fece dubitare della mia prima impressione sulle sue domande, ovvero che fossero una vendetta per la mia curiosità. Forse voleva davvero un parere sulla lettera.
Questa nuova prospettiva mi rese un po' più spavalda.
– La darà alla "ragazza che legge sul treno?" – chiesi, citando un passaggio della lettera in cui mi ero rivista. Certo, non ero la sola che poteva essere identificata da quella frase, anche se, guardandomi intorno e notando quasi tutti gli altri passeggeri chini sul cellulare, mi rendevo conto di essere parte di una ristretta minoranza. – Dovrebbe – aggiunsi, a mo' di incoraggiamento.
– Dovrei? – Il tono del passeggero era ancora un po' incerto. – Forse. Da un lato, la sua reazione, prima, era proprio quella che speravo di ottenere. Dall'altro, fino a poco tempo fa lei nemmeno sapeva che esistessi. Prendiamo sempre lo stesso treno di pendolari, spesso nella stessa carrozza, ma lei non mi nota mai, è sempre immersa nei suoi libri... quasi sempre. Di solito, sono invisibile. Solo di recente, molto recente, lei ha iniziato a parlarmi.
Gli tremava un po' la voce, e io mi stupii che un uomo grande e grosso come lui fosse così timido. – Ma non credo che abbia capito quello che provo per lei – concluse, con un sospiro sconsolato.
– Dovrebbe darle quella lettera – ribadii. – E se lei ha la mia stessa reazione, bene. Se non ce l'ha, peggio per lei. Vuol dire che è una deficiente insensibile.
Il mio compagno di viaggio scoppiò a ridere. – Una deficiente insensibile? È quel che vorrei dire anch'io, se non temessi di offenderla.
Aggrottai la fronte. No, con quell'ultima frase mi aveva perso. – Offendere chi? Lei lei, o lei me?
Stavo per proporgli di passare al tu per evitare simili equivoci, quando lui scrollò le spalle e disse, con un sorriso enigmatico: – È lo stesso.
Reggendosi al sedile davanti, l'uomo si alzò in piedi. – La prossima è la mia fermata, ma sa, credo che mi abbia convinto. Penso che alla fine gliela darò la lettera, anche se lei ancora non ha capito.
Poi, il mio compagno di viaggio fece ciò che mai mi sarei aspettata. Sfilò la lettera dalla pagina, chiuse il libro, e mi porse quel foglio.
Restai lì imbambolata per almeno dieci secondi buoni, o forse più, prima di afferrare la lettera, alzare gli occhi e ribattere: – Ha ragione. Lei... lei non aveva capito. Ma ora lo sa.

lunedì 11 maggio 2020

Impossibile


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– No – dissi, quando lo smarrimento torbido del dormiveglia si fu dissipato e io fui completamente, interamente sveglia. E dopo, ancora: – No no no no no!
La logica mi diceva che non sarebbe dovuta andare in quella maniera. Fin da quando avevo trovato il suo guanto sotto il mio cuscino, lo stesso identico guanto che gli avevo sfilato nel sogno, ero stata certa che si fosse trattato dello scherzo di una delle mie coinquiline. Sebbene lo avessero negato fino allo stremo, quella era l'unica soluzione razionale e possibile. Le due ragazze con cui condividevo l'appartamento erano le sole che avessero accesso alla mia camera, ed erano anche le sole a cui avessi raccontato della serie di sogni lucidi ricorrenti che tormentavano le mie notti. Avevo parlato loro del circo, e del ragazzo con la maschera, che di volta in volta si esibiva in un numero da trapezista, o come lanciatore di coltelli, o in una serie di trucchi da illusionista impossibili da replicare al di fuori di un sogno.
Come fossero riuscite a trovare un guanto uguale a quelli che il misterioso circense indossava nei miei sogni non lo sapevo, ma forse il guanto era già in casa e io lo avevo visto, pur senza riuscire a ricordarmene a livello consapevole. Insomma, al guanto c'era una spiegazione normale.
Al tizio che trovai allungato sul pavimento al mio risveglio, per quanto mi sforzassi, no.
Era impossibile.
Allungai il piede fuori dalle lenzuola e lo pungolai sul fianco. Il mio alluce sbatté contro una forma solida, perciò era reale, non un'allucinazione. Ritrassi il piede di scatto quando lo vidi trasalire, e senza alcun preavviso fu sveglio, coi suoi bizzarri occhi color arcobaleno spalancati a fissarmi. Si rizzò a sedere di scatto.
– Che cos'hai fatto! – sbottò, stringendo i pugni nella collera che gli arrochiva la voce, e più che una domanda era un'accusa.
Buffo che fosse lui a dirlo a me.
– No, che cos'hai fatto tu – replicai con minor forza. – Tu non dovresti essere qui.
– Su questo siamo d'accordo – s'intromise lui. Si alzò, calcò sulla testa il suo ridicolo cilindro e si guardò attorno. Nella mia camera. Arrossii quando notò la bacheca dei disegni sopra la scrivania, in cui i suoi ritratti erano il soggetto prevalente.
– Tu non dovresti esistere – precisai. – Tu sei un parto della mia immaginazione. Non sei reale.
Quando mi aveva detto che stavo per svegliarmi e lo avevo abbracciato, così come avevo tenuto stretto il guanto qualche settimana prima, era stato per avere la prova che quanto era successo in precedenza era solo frutto di uno scherzo prolungato troppo a lungo. Pensavo di svegliarmi e di non trovare nessuno al mio fianco e di riderci un po' su. E così era stato, finché non mi ero girata e avevo guardato il pavimento, trovando proprio ciò che mi ero aspettata di non trovare.
Era assurdo. Com'ero finita in una puntata di "Ai confini della realtà"? Mi sembrava di sentir partire la sigla e quella vocina fastidiosa che diceva: "C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce; è senza limiti come l'infinito e senza tempo come l'eternità..."
La mia vita era diventata senza preavviso una puntata di quella serie, una puntata che trattava di come alcuni sogni possono condurre in luoghi che esistono davvero, e di quanto sia pericoloso abbracciare, appena prima di svegliarsi, gli sconosciuti che li abitano.
E ancora non eravamo stati aggrediti dagli assassini onirici da cui lui stava fuggendo.

sabato 9 maggio 2020

Mescere

Mescere [mé-sce-re] v. (ind.pres. mésco, mésci ecc.; pass.rem. mescéi o mescètti, mescésti, mescé o mescètte ecc., 3a pl. mescérono o mescèttero; part.pass. mesciuto) tosc. 1. v.tr. [sogg-v-arg] Versare un liquido per berlo o farlo bere. 2. v.intr. (aus. avere) [sogg-v] Versare da bere, specialmente vino.

Etimologia: deriva dal latino miscere, "mescolare", per la consuetudine degli antichi romani di bere vino misto ad acqua (era considerato da barbari, infatti, berlo non diluito). Il verbo è poi passato a indicare l'atto del versare dal momento che il vino veniva mescolato prima di servirlo.


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
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Non era vino il liquido azzurro che la barista mesceva, con una tecnica tutta sua, in un bicchiere a forma di cono rovesciato. Ma non importava, perché tanto io non ero umano, e non potevo avvertirne il sapore, né ubriacarmi.
Lo bevevo per abitudine e per avere qualcosa tra le mani mentre aspettavo il mio contatto, o sbirciavo le ultime notizie su un foglio olografico sgraffignato ai vecchietti del tavolo vicino alla porta del bagno. Fu durante un'attesa infruttuosa, come scoprii quando l'agente corrotto che mi aveva assoldato non si presentò, che vidi per la volta quel trio male assortito di reietti.
Due erano umani, a giudicare dall'aspetto, o forse no: a giudicare dall'aspetto, lo si sarebbe detto anche di me. Uno aveva un incedere marziale e fiero, in contrasto con quella che poteva essere stata una divisa nera, ridotta a brandelli sporchi e rattoppati, che assieme a un fucile a impulsi lo identificava come un ex militare. L'altra, l'avrei definita una dama bianca, non fosse stata più color sabbia per tutto il sudiciume che le imbrattava la tuta aderente.
Il terzo non sarebbe potuto passare per umano neanche volendolo. Si vedeva lontano un parsec che aveva le mani a quattro dita, le squame e gli occhi da rettile di un arturiano. Qualcuno con l'olfatto più sviluppato del mio si sarebbe spostato quando scelse di appoggiarsi al bancone proprio accanto a me. Io mi limitai a sorseggiare il mio liquido insapore e a valutarli con un'occhiata.
Era ovvio che non avevano di che pagare, nessun credito, niente che valesse la pena rubare.
Perfino la barista arricciò un po' il naso nel chiedere in tono annoiato, con il suo accento nexiano dalle vocali larghe: – Che cosa vi mesco, gente?
– Solo un po' d'acqua – rispose la donna, che gli altri due chiamavano "capitano". – Possiamo usare i servizi?
Era colpa loro se l'agente corrotto non si era presentato, ma io lo seppi solo molte lune dopo, e da quel giorno, quel trio sgangherato divenne la mia nemesi.

giovedì 7 maggio 2020

La più segreta tra le società segrete


Immagine ritagliata, originale liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Andrea Piacquadio from Pexels


Gli appunti del vecchio erano confusi. Aveva desiderato per tutta la vita entrare in quella che lui chiamava "i giochi", la più antica e la più segreta tra le società segrete. E un giorno era sparito, lasciandosi dietro solo una marea di carte disordinate e vaneggianti. Verso la fine, almeno secondo la mia ricostruzione, scriveva di aver scoperto che per accedere ai giochi era necessaria "una parola d'ordine senza parola, un codice cifrato senza cifre": per quanto mi sforzassi, quello era un enigma che non sapevo risolvere. Nel suo taccuino non rintracciai alcun indizio, se non una parola ripetuta più volte, collegata da frecce a ogni menzione della parola d'ordine: "dentro".
Non che volessi seguire il suo esempio, e rincorrere per il resto dei miei giorni un'improbabile società occulta la cui esistenza mi lasciava scettico. Volevo solo scoprire che fine avesse fatto il vecchio, se era ancora vivo oppure no.
Ebbi la mia risposta in una notte di tempesta in cui mi ero attardato più del solito a cercare di decifrare i suoi appunti alla luce delle candele, sprofondato nel vortice dei suoi deliri massonici e complottisti. Un lampo, e nel rettangolo di luce sul pavimento si allungò un'ombra. Alzai gli occhi e lo vidi, pallido e grinzoso, contro lo sfondo scuro delle nubi temporalesche. Non feci in tempo a chiedergli dove fosse stato, che il vecchio avanzò, ma non camminando: appariva e spariva, come l'immagine proiettata da una lanterna magica, sempre più vicino. Quando mi fu dinnanzi, mi strappò di mano il taccuino rilegato in pelle, e mi disse solo questo, in tono imperioso: "Non cercare!"
Dopodiché svanì, e riapparì nel giro di qualche istante vicino alla finestra, con il taccuino in mano e un dito davanti alle labbra, e quella fu l'ultima volta che lo vidi.
Quando la voce del mio incontro con il vecchio si sparse, la gente iniziò a mormorare che fosse morto, che io avevo visto il suo fantasma, e che lo spettro ancora infestasse la sua casa. Ma io non lo credo. Io penso, piuttosto, che abbia trovato quello che cercava, e che i suoi appunti non esagerassero circa i poteri misteriosi di quella gente. Quella "parola d'ordine senza parola, codice cifrato senza cifre" mi restò piantato nella mente ma ormai, senza i suoi appunti, non avevo modo di scoprirne il significato.
Fu solo negli anni cinquanta, quando due giovani americani svelarono la struttura fondamentale della vita, che arrivai a formulare una mia teoria su quale fosse il codice che consentiva l'accesso ai "giochi". Il vecchio aveva scritto che vi si partecipava prevalentemente per diritto di nascita, e dunque il dna, o un particolare gene o un gruppo di essi, era un ottimo candidato per identificare senza errore i membri. Una parola d'ordine che non poteva essere scoperta né utilizzata da una spia. Quanto agli esterni che qualche volta, di rado, venivano accettati, non faticavo a immaginare che gli appartenenti a quella società segreta disponessero di un mezzo, un mezzo scientifico, che imponesse agli aspiranti quel necessario mutamento, che inoltre poteva spiegare i poteri straordinari che il vecchio descriveva nei suoi appunti, e che avevo visto all'opera nel suo continuo andirivieni dalla realtà del visibile a quella dell'invisibile. Un dono degno della più segreta tra le società segrete.
Il vecchio era stato accettato, o era stato punito per averli cercati. Le sue ultime parole, dunque, assumevano un significato diverso a seconda di quale conclusione scegliessi di credere. In un caso, erano una minaccia. Nell'altro, un avvertimento.
Non avevo intenzione di sprecare la mia vita a indagare più a fondo, perciò in entrambi i casi erano superflue. Suppongo che quale sia stato il suo destino, io non lo saprò mai.

lunedì 4 maggio 2020

Cambiare pelle


Last Year's Model, di Todd F Niemand, licenza Creative Commons BY-NC 2.0. Immagine leggermente ritagliata rispetto all'originale.


Non me n'ero reso conto, ma il cambiamento era già iniziato. Prima ancora di poterlo scegliere, io ero divenuto una creatura in transizione: non più del tutto umano, ma non ancora, definitivamente, qualcos'altro. Il nome di crisalide, con il quale lui sembrava schernirmi, era senza alcun dubbio corretto.
Eppure io non mi sentivo diverso.
Se non avessi compiuto quella scelta, se me ne fossi andato voltando le spalle alla sua richiesta di aiuto, sarei potuto tornare com'ero prima. Su questo, lui non aveva mentito. Forse lo avrei fatto in maniera più graduale di com'ero arrivato a quel punto, dopo una notte insonne di febbre, di sudore e di dolore lancinante che avevo scambiato per i sintomi di un avvelenamento. Ma allora pensavo di essere prigioniero di un pazzo che farneticava di alieni mutaforma e di mangiare cose vive e cose morte. Una follia a cui chiunque avrebbe stentato a credere, sia per il suo atteggiamento incoerente, a tratti più lucido e altre volte del tutto fuori di testa, sia per il fatto che lui si rifiutava di dare una qualunque dimostrazione.
Finsi di credergli solo per indurlo ad allentare le corde che mi trattenevano. Quando però si decise a liberarmi, io non avevo più la forza di combatterlo, e quel che è peggio, stavo iniziando a credergli. A provare un po' di pietà per lui, perlomeno: che le sue assurdità fossero vere oppure no, la sua malattia era qualcosa di reale, ed era notevolmente peggiorata dal giorno in cui mi aveva tramortito e trascinato in quel luogo. La sua pelle screpolata, al pari delle croste di un vecchio dipinto, sembrava potersi staccare dal volto al primo soffio di vento, e nelle crepe s'intravedeva una ragnatela di piaghe. Io ero la sua ultima possibilità, mi aveva detto. Non ne avrebbe avute altre, e non aveva più tempo.
In fondo quello che mi aveva chiesto di fare, per quanto disgustoso, era semplice. E se non avesse funzionato, forse sarebbe bastato a dimostrargli quanto si sbagliava, e a convincerlo a cercare l'aiuto di un medico.
Ma se aveva ragione, e se tutto quello che mi aveva rivelato fosse stato vero... allora, la questione era completamente diversa. Ciò che mi stava chiedendo di fare non era semplice. Per niente.
Rinunciare alla mia identità. Rinunciare alla mia umanità.
E il cambiamento, una volta completato, sarebbe stato irreversibile.
Non avevo idea di come fosse essere come lui, ma provai a immaginare la vita che mi stava proponendo. Niente più bollette. Niente lavoro fisso, con tutte le relative seccature. Niente traffico, appuntamenti, scadenze da rispettare.
Ma, anche, niente che mi appartenesse davvero, e nessun contatto con la mia famiglia, mai più. E che avrei dovuto cambiare dieta, beh, quello era scontato. Sarei riuscito a rinunciare al sapore della pizza e di una bella grigliata per nutrirmi di lucertole e farfalle vive?
Certo, erano preoccupazioni misere in confronto alla sua condizione. Lui era disperato: stava morendo. Ma era anche pronto a lasciarmi andare, se fosse stata quella la mia scelta. Nulla mi obbligava ad aiutarlo.
Forse fu proprio quella libertà che mi spinse nella direzione che alla fine intrapresi. Oppure fu quel senso di avventura piantato nel mio cranio, lo stesso che mi aveva portato alla gita da solo nei boschi dalla quale lui mi aveva bruscamente distolto. Non riesco a credere di aver fatto quello che mi diceva solo per aiutare un estraneo.
Ma qualunque fu il motivo, alla fine compii quella scelta, e abbandonai la mia vita e il mio nome, troppo stretti per ciò che stavo per diventare, come una vecchia pelle lasciata indietro da un serpente.

sabato 2 maggio 2020

Bolide


Bolide [bò-li-de] s.f. 1 astr. Corpo celeste proveniente dallo spazio interplanetario che a contatto con l'atmosfera terrestre diventa incandescente per attrito; meteorite. 2. Oggetto dotato di grande velocità; in particolare riferito alle automobili da corsa.

Etimologia: deriva dal greco bolís, che significa "dardo, saetta", dalla radice di bállein, "scagliare".

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Mi ricordo di quell'ultima notte felice. Stavamo sfrecciando a tutta velocità, con il nostro bolide lanciato su una strada deserta nella vastità della pianura nordamericana, quando alzai gli occhi e vidi la prima scia tra le stelle. Fu come gettarsi a capofitto in un déjà vu, perché io una situazione del genere l'avevo già vissuta. Quella non era una stella cadente, un semplice e naturale bolide celeste, ed era solo il primo di molti.
Cometh, alla guida, non alzò gli occhi, ma me lo lesse nella mente. – È cominciato – disse soltanto. Asciutta, laconica, come sempre.
Le strinsi la mano appoggiata sul cambio e ci scambiammo un brevissimo sguardo. Eravamo assieme, proprio come in quella notte di moltissimo tempo prima, a casa, la nostra vera casa oltre le stelle.
Allora, l'invasione iniziò senza che ce ne rendessimo conto. Ma stavolta eravamo preparate.
Sapevamo da anni che stavano arrivando, e avevamo fatto tutto il possibile per preparare questa terra all'imminente pericolo. Avevamo messo in salvo molte persone, e armato quelli che erano rimasti. E avremmo combattuto assieme a loro, fino alla fine. Non eravamo nate qui, però la Terra era diventata per noi una seconda casa, e l'avremmo protetta come avevamo fatto per Earanphies.
Anche senza una profezia alle spalle a garantirci il successo.
Gettai la testa all'indietro e osservai le scie di altri bolidi striare l'oscurità. Era un vero e proprio spettacolo, e dalla Corvette della mia compagna, il mio fuoco gemello, dava l'impressione di una pacifica meraviglia della natura. – Sai, Com, potrei quasi definirlo bello, se non sapessi che un cielo del genere significa morte per tutto ciò che vive.
– Kindra – mi rimproverò lei, mentre rallentava e faceva inversione. – Non rilassarti troppo. Abbiamo del lavoro da fare.
Sospirai. Aveva ragione, naturalmente. Rientrammo alla base, dove tutti erano già in allerta e dove Juste sbraitava ordini, e per molto tempo mi dimenticai di cosa fosse la pace.