sabato 29 settembre 2018

Quiescente

Con la Q mi trovo sempre un po' in difficoltà, ma stavolta ho scovato tra le pagine del dizionario una parola che, se anche non è così inconsueta come altre che ho scelto, ha un suono davvero molto gradevole e un significato che si intuisce facilmente (non come quell'Onusto... beh!).

Quiescente [quie-scèn-te] agg. 1. nel linguaggio scientifico, che si trova in stato di quiete, di inerzia. 2. fig. Acquiescente, che si adegua alla volontà altrui, arrendevole.

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Per il brano ho ripreso personaggi, luoghi e atmosfere dal quello scritto per la parola Batrace nella seconda settimana di vita del blog e... non ci posso credere, sono passati quasi due anni e non ho più scritto niente su questi personaggi? Era proprio ora di dargli una rinfrescata!


Seduto sulla sedia pieghevole osservai il campo, le tende, i caravan, e il via vai pigro degli uomini che Antares mi aveva presentato. La maggior parte sembrava normale, ma uno era un gigante magro dalle gambe lunghe, che dava l'impressione di camminare sui trampoli. A un tavolino di fianco a un camper, due donne giocavano a carte e mi tenevano d'occhio. Sbirciavano di sottecchi come se fossi stato io quello strano, quando a una di loro vedevo zoccoli caprini spuntare da sotto la gonna da zingara e l'altra reggeva le carte con quelle che parevano chele di granchio. In fondo allo spiazzo un tendone a righe gialle e rosse copriva l'orizzonte.
Non riuscivo a capire com'ero finito in un freak show. O meglio, come, lo sapevo: avevo dato di matto in pieno centro e uno di loro mi aveva colpito alla testa. Poi... il buio, finché non mi ero svegliato nel caravan della guaritrice in catene.
– È quiescente. –  Una ragazza dai capelli scuri si sedette accanto a me. Era Demi, quella che mi aveva accompagnato in un giro del campo, e anche lei sembrava fin troppo normale per un posto del genere.
– Il mostro dentro di te. – Demi indicò il mio torace. – La guaritrice ha reciso ogni collegamento con il tuo corpo e la tua mente, perciò per adesso non può nuocere a nessuno.
Aggrottai la fronte. Non riuscivo a credere a quello che dicevano di me. – Se c'è davvero qualcosa, ed è così pericoloso, perché diavolo non me lo ha tolto?
La ragazza trasalì. – Vorrei che fosse così facile. Ma non si può togliere un cuore malato senza sostituirlo con uno sano.
La guardai. Che fosse vero o no, lei ci credeva. – Scusa. Sembra che tu conosca davvero bene questa guaritrice, o sbaglio?
Cercai di posare una mano sulla sua, ma Demi si ritrasse. – N-no, perché lo dici?
– Niente, era un'impressione. – Ritirai la mano. Lei si calmò. – Volevo solo sapere perché la tengono incatenata là.
Accennai al caravan senza finestre.
– In un certo senso – mormorò Demi con un mezzo sorriso. – Perché anche lei è quiescente.

giovedì 27 settembre 2018

Il paziente

(racconto ispirato alla Sfida numero 6. Questa volta ho giocato sull'ambiguità della prima frase, e per farlo ho recuperato i personaggi del brano ispirato alla parola Ottundere.)
 
 
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– ...lo abbiamo perduto. – Passando nel corridoio del pronto soccorso sento Colette mormorare alla caposala queste poche parole, e già mi cedono le ginocchia. Perché penso al peggio, mi dico, forse non sta parlando di lui, forse non parla dell'uomo che ho soccorso. Ma Colette mi toglie ogni dubbio nel riferire in tono rammaricato: – Mi dispiace, abbiamo fatto tutto il possibile, ma... non c'è più niente da fare. Lo sconosciuto se n'è andato.
Mi appoggio alla parete, e stringo forte la boccetta con le pillole che ho preso nel suo scantinato. Perché la notizia mi ha colpito così tanto non lo so, lui non è il primo paziente che vedo morire durante un mio turno, anzi, nel suo caso, non l'ho nemmeno visto. Io non c'ero. Sì, forse è proprio questo che mi sconvolge tanto: io non c'ero. Sono stata la prima a soccorrerlo dopo l'incidente, gli ho tenuto la mano in attesa dell'arrivo dell'ambulanza, ho ascoltato i suoi deliri, e ho accettato per calmarlo di andare a prendergli quella che lui chiamava "la sua medicina", a casa sua, di cui mi aveva fornito l'indirizzo e la chiave. Pensavo di trovarci droga. E invece ho scoperto il suo laboratorio segreto nello scantinato, e ho letto il suo diario, quello in cui, come un novello Dottor Jekyll, lo sconosciuto aveva annotato i risultati dei suoi esperimenti.
E dopo averlo letto, un po' mi è sembrato di conoscerlo.
– Quando... quando è successo? – chiedo a Colette. Non posso aver tardato tanto mentre cercavo questa stupida medicina.
– Mezzora fa. Lo abbiamo lasciato da solo per cinque minuti nella 4B...
– Da solo? – sbotto. Colette e la caposala esitano.
Alla fine è la caposala a parlare: – Cerca di capire. Ho visto tanta gente strana da queste parti, ma una cosa del genere, mai.
Si riferiva al colore del sangue dello sconosciuto, un fluido verdastro, tanto scuro da sembrare nero. Avevo sentito le persone che si erano radunate dopo l'incidente mormorare che lo sconosciuto doveva essere un alieno, o un mostro, ma io sapevo che non poteva essere così, e dal suo diario avevo avuto la conferma che la causa era il dosaggio troppo elevato di un particolare farmaco nella sua medicina.
– Dio santo, non vi facevo così superstiziose!
– Non pensavamo che qualcuno nelle sue condizioni potesse...
La voce di Colette le muore in gola mentre mi faccio forza e mi allontano da lei. Non era un codice rosso, non era così grave, com'è potuto succedere? Avanzo decisa verso la stanza 4B come se non sapessi che la troverò vuota. Vado a portargli la medicina, a esaudire il suo ultimo desiderio. Troppo tardi.
Dalla soglia vedo la barella macchiata del suo sangue inconfondibile. Lui non c'è. Ovvio, lo hanno già portato via, mi dico, all'obitorio, sepolto sotto terra come il suo scantinato buio e inquietante.
Mi appoggio allo stipite.
Dietro di me mi raggiunge Colette, ansante. – Ho cercato di dirtelo, non è qui. – Si appoggia allo stipite opposto, a riprendere fiato. Sembra che le venga da ridere, e io non capisco.
– Lo sconosciuto se n'è andato – prosegue Colette, e man mano che parla, io comincio a intuire che cosa intende spiegarmi. – Lo abbiamo cercato dappertutto. Ma non si trova. Non so proprio come ha fatto a passare inosservato, eppure... nessuno lo ha visto.
Sto ormai ridendo dal sollievo, quando Colette conclude, scuotendo la testa: – Lo sai che non sono tipo da arrendermi, ma ormai è così. Lo devo ammettere. Lo abbiamo perduto.

lunedì 24 settembre 2018

Il passato di Helanna

(racconto ispirato alla Sfida numero 6. Torna Helanna di Amaricante, e come la sfida richiede, il racconto inizia e finisce con le stesse parole, ripeto più volte il colore "nero" e l'incipit e il finale, seppur uguali, si riferiscono a due cose diverse.)
 
 
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Lei ci credeva davvero. Helanna, intendo. Credeva davvero in quegli ideali astratti che il suo gruppo di rivoluzionari stava cercando di portare nel mondo. Libertà, giustizia, e tutte le altre parole altisonanti con cui quella gente non faceva che riempirsi la bocca. Non che per me fosse un passatempo, ma alla fine della giornata, io restavo ciò che ero sempre stato: un privilegiato, nato per puro caso in una famiglia con un nome e una storia.
Lei, invece, non aveva un passato.
Non che m'importasse, infatti, non me n'ero reso conto finché non ho dovuto cercare i suoi familiari, nel giorno più nero che potessi immaginare. Solo allora ho capito che io non sapevo chi fosse. Da dov'era venuta. In quali dei avesse confidato. Non avevamo mai parlato del passato. Con lei preferivo parlare del nostro futuro, quello che non avremmo mai avuto. Lei lo sapeva, e non me lo aveva mai detto. Io ero l'unico a non sapere che per noi non ci sarebbe stato un futuro.
Io non sapevo nemmeno quali abiti, e quale cerimonia lei avrebbe voluto per accompagnarla nel suo ultimo viaggio. La tunica nera della fede Solesiana mi sembrava troppo austera per la luce che aveva sempre albergato nei suoi occhi. Senza contare che a Terra Oscura, se era da lì che lei veniva, la seta nera era riservata ai matrimoni, mentre per un funerale era più appropriata una veste di fiamme.
Come vestirla. È un pensiero strano, lo so, ma mi stavo appigliando al più insignificante e pratico dei dettagli per non ricordare l'enormità di quello che era successo tra le mura nere di fumo della stanza delle torture. Per non ricordare il pazzo che l'aveva usata per infliggermi tutto il dolore possibile, e a quanto volessi solo strappare il grumo di pece nera che aveva al posto del cuore. Volevo ucciderlo così tanto, che il solo pensarci era un'agonia.
Ma non potevo, non prima di aver rintracciato la famiglia di Helanna. Non fu semplice, perché nemmeno i suoi compagni rivoluzionari sapevano chi fosse prima di diventare una di loro. Trovai i suoi parenti nell'ultimo posto in cui mi aspettavo di trovarli.
Gli Adoratori dei Draghi sono un popolo strano, con le loro tradizioni e i loro segreti, con tende e strade al posto di case e terre, il che li rende ancora più difficili da scovare. Uno di quei segreti era stato scritto in parole nere nell'anima di Helanna, una profezia difficile da portare per l'età in cui gliela avevano rivelata. "Morirai per amore", le avevano detto. Per sopravvivere, lei era fuggita da tutti coloro che amava e aveva dedicato la sua vita a un ideale astratto, qualcosa che avrebbe potuto seguire, ma non amare. E la sua nobile causa l'aveva portata da me.
Ironia del destino, la profezia aveva condotto Helanna proprio nell'ultimo posto in cui sarebbe dovuta andare, e tutto perché a quelle tre parole lei ci credeva davvero.

sabato 22 settembre 2018

Pimentare

Non avevo intenzione di scegliere un altro verbo così presto, ma questo mi ha colpito e allora... eccolo qui. Ciò che mi sembra più interessante di questa parola, così come con piccante o pepato, è la facilità con cui un sapore o un termine culinario possa passare a indicare metaforicamente qualcosa di immateriale come una sensazione.

Pimentare [pi-men-tà-re] v.tr. 1. Condire con il pimento. 2. fig. Rendere piccante, solleticante.

 
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Pensavo di sapere quale personaggio avrei usato per una parola che unisce gusto ed emozione: il mezzo demone senza nome che è spuntato più volte in questo blog, spesso accompagnato dalla yuki-onna che si fa chiamare Neve. E invece, a sorpresa, Katrina e Sharona si sono prese la scena.


Erano passati cinque giorni da quando le avevo spifferato tutto, e Sharona non faceva che guardarmi di nascosto. Coglievo il suo sguardo su di me quando mi voltavo all'improvviso, alzavo gli occhi dal piatto o mi destavo con lei già sveglia.

Ogni volta lei distoglieva gli occhi e mi lasciava a immaginare la sua disapprovazione. Non potevo sopportarlo. Iniziai a evitarla.
Rientravo a casa tardi, mangiavo fuori, mi alzavo prima di mattina per non incrociarla a colazione. La convivenza si era fatta insostenibile, e mi chiedevo se non fosse meglio che una di noi si trasferisse altrove.
Il quinto giorno era sabato, perciò non avevo la scusa del lavoro per stare fuori casa fino a sera. Ma lo feci lo stesso. Passai la giornata in cerca di avversari per il mio alter ego nel gioco, Vérys la Saetta Azzurra. Combattei con rabbia, e non mi divertii affatto. Avevo bisogno di sfogarmi.
Accumulai punti e lividi finché il cielo non si oscurò. L'ora di cena era passata da un pezzo quando rientrai in una casa buia, e pensai che Sharona fosse uscita; la casa però profumava di arrosto, segno che aveva preparato uno dei nostri piatti preferiti e me ne aveva lasciato un po'. Continuava a preoccuparsi per me, anche dopo che la verità ci aveva allontanate.
Prima che accendessi la luce, una mano mi afferrò il polso, strappandomi un gemito.
– Shhh! Non dire nulla. Vieni.
Sharona mi guidò in cucina con la sicurezza di un gatto sul cornicione. Nonostante il profumo allettante, l'arrosto non era pronto. Come mi aveva ordinato seguii le sue istruzioni senza aprire bocca, se non per qualche assaggio rubato dalle sue dita.
Sembrava che non fosse successo niente tra noi. Finché, dopo aver pimentato la salsa, Sharona mi disse: – Io ti ho reso parte del mio mondo. È ora che tu mi renda parte del tuo.
Non avevo idea che Sharona stava meditando di entrare nel gioco. Pensavo lo disprezzasse.
L'idea di condividere con lei quella parte della mia vita pimentò la nostra serata come nient'altro avrebbe potuto fare.

giovedì 20 settembre 2018

Che lettore sei?

Esistono molti tipi diversi di lettori. Ci sono lettori occasionali e lettori forti. Lettori di romanzi e lettori di saggi. Lettori per divertimento, lettori per lavoro, lettori per studio. Lettori di best-seller e lettori del più ermetico e sconosciuto degli scrittori. Lettori fedeli a pochi, o a un solo autore, e lettori onnivori. Lettori da divano, lettori da viaggio, lettori da sala d'aspetto, lettori della buonanotte e lettori da... "momento privato".

Se ti piace leggere, ti sarai riconosciuto in uno o più di questi tipi in tempi diversi della tua vita. E magari in altri che non ho citato, che appartengono solo a te o a poche persone. Da bambina, ad esempio, io sono stata una lettrice da terrazzo, e in seguito una lettrice da soffitta. C'era qualcosa nell'idea di andare a leggere in alto, isolata dal mondo e quasi sospesa tra le nuvole, che stimolava la mia immaginazione. Anche se, come era scritto su uno dei segnalibri che mi è passato tra le mani in questi anni, "leggere è bello, sempre e dovunque".

Oggi, come lettrice, io sono tremenda. Sono pochi i refusi che mi sfuggono, ma se non ne trovo in numero esagerato nello stesso libro, gli errori di stampa non mi disturbano. Quel che è peggio è che sono una criticona. Anche se non sembra, dato che gli unici segni visibili potrebbero essere un'alzata d'occhi, un ghignetto o una lieve sbuffata, ci sono volte in cui brontolo a ogni riga. Se trovo un errore di grammatica, una frase poco comprensibile o che secondo me potrebbe essere migliorata, non resisto: la devo riscrivere nella mia testa. Alcuni dei libri che leggo sono pieni di immaginari segni rossi e di appunti mentali. Ma quando trovo un passaggio che davvero mi piace vado in brodo di giuggiole. Lo devo rileggere due, tre, dieci volte. E mi può capitare, se vicino al mio angolo di lettura c'è qualcuno che conosco, di alzare gli occhi dalla pagina, sorridere, indicare e chiedere al malcapitato di leggere le splendide righe in questione.

Non sono una lettrice veloce, no. Anche perché, oltre al tempo per le critiche e a quello per la rilettura con entusiasmo, mi prendo tutto il tempo per immaginare. Immaginare ogni scena nei minimi dettagli, quelli descritti, e quelli no. Immaginare il mondo ideato dall'autore, le conseguenze che un singolo elemento fuori posto può portare in quell'universo, o i perché che nascono da una terra e da una storia totalmente diversa dalla nostra. Immaginare le diramazioni della trama, come la storia può proseguire, come io vorrei che proseguisse, come le pagine passate possono influenzare quelle future.

Sono una lettrice tenace. Raramente abbandono un libro a metà. Anche quando non mi piace. Sono abbastanza selettiva da non iniziare nemmeno se l'incipit non mi convince, ma una volta partita, devo arrivare fino in fondo. Criticando, se devo, mi sforzo di vedere come va a finire. Sono ottimista, e mi piace dare il beneficio del dubbio: "forse più avanti migliora". L'esperienza che insegna il contrario non mi ha ancora dissuaso dal pensarlo con il prossimo sulle cui pagine dovrò arrancare.

I libri che davvero ho lasciato perdere si contano sulle dita di una mano. E non è detto che in futuro non ci riproverò, perché, chi lo sa, magari quello non era il tempo giusto per leggerli. Non sarebbero i primi libri che ho lasciato sullo scaffale in un determinato periodo della mia vita solo per ricominciarli più avanti, finirli senza intoppi, amarli, e scoprire nelle loro storie significati che non ero stata in grado di cogliere prima, e che risuonavano perfettamente in sintonia con gli eventi della mia vita in quel mese, stagione, anno.


Questo è il tipo di lettrice che sono oggi. E tu, che lettore sei?

lunedì 17 settembre 2018

Sfida numero 6 - Piuma di Pappagallo

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore
Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì
Sfida numero 5 - Piuma di Gabbiano


Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

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Sfida numero 6

Pappagalli. Nell'immaginario popolare, colorati e in grado di ripetere qualunque cosa abbiano sentito. Così sarà questa sfida. Completandola, vincerai una virtuale Piuma di Pappagallo, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi un brano che inizia e finisce con la stessa frase o parola.
Può essere una linea di dialogo di un personaggio, seguita dal flashback degli eventi che lo hanno portato a dire quella cosa. Può trattarsi di un déjà vu, un avvenimento simile eppure diverso che induce il narratore a fare lo stesso commento. Forse il brano esplora due punti di vista distinti, e si scopre che in fondo, nonostante le differenze, i due personaggi stanno pensando la stessa cosa. Questi sono solo alcuni esempi di come si può ideare un brano con lo stesso incipit e finale, ma sono certa che a te ne verranno in mente tanti altri.

Livello intermedio: scegli una parola da ripetere più volte, all'interno di poche righe o in tutto il brano. Bonus se questa parola è un colore.
Di solito, in caso di una parola ripetuta, il consiglio è quello di cercare un sinonimo. Qui dovrai astenerti, e ripetere la stessa parola più e più volte. Perché, che senso ha quella ripetizione nel racconto? Questo lo dovrai scoprire tu. Ma dev'essere qualcosa di davvero importante se il narratore o i personaggi insistono, no?
Per un esempio, qui trovi il mio brano Oceano Blu, in cui il colore del titolo è ripetuto più volte.

Livello difficile: fai in modo che la frase, o parola, che apre e chiude il brano abbia un senso diverso alla fine rispetto a quello iniziale.
Cambia il colore di quelle parole (o singola parola)! Puoi usare un termine che ha più significati, uno è quello iniziale e un altro è quello alla fine del testo. Si può fare tramite una frase ambigua, con più interpretazioni a seconda del contesto. Oppure, dopo aver scoperto gli eventi del racconto, il connotato emotivo delle stesse parole viene ribaltato (ciò che sembrava un commento allegro o neutro, si rivela in tutta la sua tragedia... o viceversa). O anche... no, ora mi ritiro e ti lascio a riflettere su come tu preferisci scrivere il brano per questa sfida.


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 15 settembre 2018

Onusto

Ogni tanto mi capita di scoprire una parola di cui nemmeno sospettavo l'esistenza, e della quale non saprei indovinare il significato, se non cercandola sul dizionario. Questa è una di quelle.

Onusto [o-nù-sto] agg. lett. Carico, colmo, specialmente in senso figurato.

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Sarà il periodo dell'anno, ma la prima immagine che mi è venuta in mente leggendo la parola è stata quella di uno dei pesantissimi zainetti pieni che per anni ho portato a scuola. E allora, perché non approfittare del brano che la accompagna per un omaggio ai tanti ragazzi che questo mese cominciano l'anno scolastico?


Appoggiata all'auto, guardo i ragazzi arrancare sotto gli zaini onusti. I libri sembrano sempre più pesanti, e sempre di più, ogni anno che passa. Il peso della cultura, in senso letterale.
Rispondo al saluto del più piccolo con un sorriso incoraggiante e un frullo delle dita. Lui, almeno, si volta ancora a guardarmi. Il maggiore no, sbuffa mentre corre incontro agli amici, non ha occhi e orecchie che per loro. Li sento gridare qualcosa e ridere.
Io sono qui, lontana, dall'altra parte della strada. E sono quella che fa più fatica ad andare.
Guardo l'orologio: ho un po' di tempo prima di andare al lavoro. Ancora due minuti, mi dico, poi salgo in macchina e parto.
Quando alzo gli occhi ho un tuffo al cuore. Il più piccolo è da solo, al centro del cortile, e si guarda attorno con aria smarrita. Resisto per un soffio all'impulso di andare a prenderlo. Poi qualcuno si avvicina e lo prende per mano: è la sua fidanzatina dell'anno scorso. Anche da qui, riesco a sentire la sua gioia.
I due minuti sono passati. A malincuore, apro lo sportello e mi infilo in auto. Ora inizia quella parte della loro vita che è distinta dalla mia, e che per me rimarrà sempre, almeno in parte, un mistero. Nonostante i miei "com'è andata oggi a scuola", e nonostante gli incontri con gli insegnanti. Posso solo lasciarli andare, e avere fiducia.
Con la mente onusta di pensieri, metto in moto l'auto e mi allontano.

giovedì 13 settembre 2018

Difficile ritorno

(racconto ispirato alla Sfida numero 5. Stavolta ho scelto la foto di un luogo in cui non sono mai stata, ma che mi piacerebbe visitare. E passo direttamente alla descrizione dal punto di vista di un personaggio che ha i suoi motivi per essere triste e a tratti arrabbiato, trasformando questo paesaggio reale in un luogo immaginario)
 
 
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La rocca di Miral era una visione ingannevole. Da lontano, la si sarebbe potuta scambiare per un isolotto montuoso, il più vicino alla terraferma. Difficile immaginare le celle spartane che ospitavano gli eremiti e i rifugiati, le stanze del silenzio, il refettorio, o la biblioteca più vasta di tutta Penterra. Difficile immaginare che qualcuno davvero potesse vivere lì, giorno e notte, come sepolto sotto la terra. Magari, solo perché aveva idee diverse da chi gestiva il potere o la magia.
Camminando verso ovest, dall'isola a poco a poco emergevano le pareti di un edificio imponente, con torri grigie che pesavano sul mare come macigni ammucchiati da un gigante. Nell'avvicinarmi alla riva ebbi la netta impressione che si curvassero verso di me, quasi a volermi afferrare. Era una tiepida giornata di tarda primavera, ma io avvertivo il gelo di una bufera nella brezza salmastra, che mi indusse a stringermi addosso il soprabito. Non riuscivo a guardare direttamente la rocca; piuttosto, preferivo fissare il cielo velato da strisce di nubi e immaginare il vuoto lì dov'era Miral, o sbirciare il suo riflesso distorto dalle onde e dalle lacrime. Lacrime di rabbia, mi dicevo, perché avrei voluto smontare la rocca pietra dopo pietra, sollevare il mare, far precipitare le lune dai cieli, gettare in aria le carte con cui la sorte mi aveva costretto a giocare piuttosto che percorrere quell'ultimo tratto di strada e scoprire che la lettera che avevo in tasca non era uno scherzo, né un errore. Ma sapevo che erano ben altre le torri che avrei voluto veder crollare.
Granitica come una tomba, la rocca di Miral attendeva, e io attendevo sulla spiaggia, assieme ai pellegrini mormoranti, che la marea calasse ed emergesse il Cammino dei Saggi. Isolato dagli altri, infilai la mano in tasca e sfiorai la lettera. C'era un solo motivo per me per compiere quel viaggio: mio padre era morto, quasi certamente per ordine dei maghi, e a Miral avrei trovato il suo corpo, quel poco che restava della mia famiglia, e qualunque cosa avesse scelto di lasciarmi in eredità.
Ero un ragazzino con un soprabito troppo grande e appena un'ombra di baffi sopra il labbro, e quello era un ritorno a casa troppo faticoso per le mie gambe magre e le mie spalle strette.

lunedì 10 settembre 2018

Il ponte sul canyon

(racconto ispirato alla Sfida numero 5. La foto è di un luogo che ho visto questa estate. La prima descrizione è dal punto di vista della mia esperienza lì, per la seconda ho scelto il punto di vista di un alieno ipocondriaco)
 
 
Foto dalle mie vacanze, Canyon Rio Sass, Fondo (TN).
 
 
Un ponte di pietra si staglia contro il cielo limpido, stretto tra le pareti del canyon. L'arco taglia a metà l'azzurro, in netto contrasto con la linea diritta del parapetto sulla sommità. Rami carichi di foglioline verde chiaro si protendono nel vuoto da entrambi i lati, restringendo la vista del cielo in un sentiero parallelo a quello tracciato a terra dalla forra. Sotto al ponte, sono appese quattro piccole strutture a forma di campanella, e ho l'impressione che se solo ci fosse un alito di vento, dondolando si metterebbero a tintinnare. Mi ricordano la campana a vento di un gigante. All'ombra si sta bene, riparati dalla roccia il calore del sole quasi non si sente. Ciò che si sente, invece, e non si può ignorare, è il ruggito del torrente sotto i nostri piedi, che copre le voci dei miei compagni di avventura impedendoci di conversare o commentare il paesaggio ai nostri fianchi. Mi godo, a ogni passo, il rintocco dei piedi sulla passerella di metallo, e mi perdo nel profumo fresco delle felci e della pietra.


Primo giorno dall'atterraggio. In questo posto ogni cosa è bizzarra e ostile.
Dopo i primi quattro tempi e mezzo, i miei condotti auricolari hanno cominciato a ronzare per il fastidiosissimo frastuono prodotto da una gran quantità d'acqua che scorre in profondità tra la roccia. Ogni tentativo di frenarla con la pistola congelante è stato inutile. Staccare pezzi di roccia e vegetazione e gettarli tra i flutti per creare una diga si è rivelato altrettanto futile. Tra l'altro, ritengo di aver scoperto che le piante indigene, ricoperte di questi minuscoli frammenti a forma di goccia di un verde malato, sono velenose. Non è normale che sulla mia epidermide siano comparse, un tempo dopo il contatto, numerose macchie della stessa forma e colore. Suppongo che a breve morirò.
Nell'insperato caso della mia sopravvivenza, ho esplorato l'area per stabilire un campo base. Sono ragionevolmente certo che alcune strutture, come l'arco di pietra sopra di me e le griglie di metallo grigio che compongono la strada sospesa su cui mi muovo, non siano di origine naturale. Da una prima analisi, sembrano usurate e non molto stabili. Ogni tempo che passo qui corro il rischio di vedermi franare la roccia addosso o di precipitare nell'acqua turbinosa. Senza contare il pericolo rappresentato da chi le ha costruite: non posso prevedere se e quando torneranno, o la reazione nel trovarmi a casa loro.
Comincio a non sopportare più l'odore metallico del sentiero e la puzza di materia vegetale che marcisce nell'umidità persistente. Che l'aria sia respirabile, non la rende buona. La temperatura è appena tollerabile. Non voglio restare qui una frazione di tempo più del necessario.
Appena completate le rilevazioni, me ne tornerò al sicuro nell'ambiente asettico e controllato della mia nave.

sabato 8 settembre 2018

Nugolo

Questo sostantivo lo avevo sentito solo nel secondo senso della definizione. Forse perché è più comune del primo. Non tanto comune, però, da non entrare a pieno titolo nella mia lista di parole inconsuete.

Nugolo [nù-go-lo] s.m. 1. lett. Nuvola, nube. 2. fig. Fitto addensamento, folto numero. Miriade, caterva.

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La parola nugolo mi fa sempre venire in mente uno sciame di moscerini o di locuste, oppure uno stormo di uccelli. Animali volanti in gran quantità. Sarà per questo che ho scelto qualcosa di simile per il brano di oggi, che riprende i personaggi già presenti in Caligine.


La migrazione delle nottole ad Avyon City era un evento spettacolare. Iniziava con un nugolo all'orizzonte, nel crepuscolo di una delle prime sere della stagione secca; ma tutti noi sapevamo che quella nube nera e agitata non era una nuvola.
Mentre il cielo si faceva blu cobalto, la fascia scura e tumultuosa all'orizzonte s'ingrandiva sempre più, e quando era possibile distinguere alcune nottole isolate stagliarsi al di sopra e al di sotto del gruppo, il suono di un corno segnalava ai cacciatori che era il momento di uscire a tendere le reti.
Non passava molto tempo prima che le furie alate si abbattessero sulla parete trasparente della Bolla, tempestandola con gli artigli nel cercare una via per aggirarla. Avyon City, immersa nel silenzio, ascoltava i loro battiti scomposti.
Celine e Jean, sdraiati sul tetto di Torre Libertà, guardavano le stelle spegnersi a una a una, oscurate da un nugolo di nottole.
– Uno pensa che un giorno o l'altro si faranno furbi – borbottò Jean con una smorfia. – E invece no, continuano a passare proprio qui dove siamo noi.
– Fanno quello che gli dice l'istinto – spiegò la sorella. – E l'istinto gli dice che questa è la rotta della migrazione.
– Sì, ma... non ci vedono? Non possono almeno scansarsi? Il rumore di quando vengono a sbattere qui sopra mi... non mi piace. – Jean si tappò le orecchie con le mani.
Celine ridacchiò e indicò la direzione da dove venivano le nottole. – Smorzatori di rumore sulla Bolla. Se non gli rimandiamo indietro il suono, non possono capire che qui c'è un ostacolo. Dovresti stare più attento a lezione, sai?
Jean sospirò. Di tanto in tanto una rete calava a intrappolare le nottole e liberava uno spicchio di cielo. – Fa paura, là fuori. Sono contento di avere la Bolla. – Jean si girò verso la sorella.
Celine guardava in alto, affascinata. Sul suo volto era comparso un sorriso. – Un giorno – disse, con le mani tese al cielo notturno e le ali grigie allargate sotto di lei. – Io sarò un cacciatore.

giovedì 6 settembre 2018

Veri scrittori, falsi scrittori

Uno degli argomenti che periodicamente si ripresentano nei gruppi di scrittura che frequento è questo: chi è un vero scrittore, e chi no? Oppure: quando uno può definirsi "scrittore"?

Ho sempre trovato questo tipo di domande, e la discussione infinita che ne scaturisce, piuttosto ridicole. Il problema, dal mio punto di vista, è che sono basate sull'assunto che "scrittore" sia un titolo onorifico di cui solo pochi eletti possono fregiarsi. E che tutti gli altri, quelli che non rispettano gli standard di volta in volta proposti, possano accontentarsi di definirsi "autore", "scrivente", "scrivano", o di anteporre a scrittore la specifica di "aspirante" o "emergente".

La mia definizione di scrittore invece è: qualcuno che scrive in modo continuativo per essere letto da qualcun altro. Tolto chi tiene un diario personale, o chi compila liste della spesa e raccoglie quaderni di appunti per motivi di studio, chiunque scriva è uno scrittore. Non necessariamente uno scrittore famoso, uno scrittore di professione o uno scrittore pubblicato dell'editoria tradizionale (tutti vincoli spesso citati nelle definizioni che ho potuto leggere nelle discussioni), ma comunque uno scrittore.

Uno degli ostacoli nella definizione di scrittore è che questa è un'attività con lunghi tempi di preparazione e "gavetta", che spesso trascorrono silenziosi, lontano dagli occhi altrui. In questo, uno scrittore è come un atleta, che passa buona parte del suo tempo ad allenarsi prima di essere pronto per affrontare una competizione; solo che nessuno si sognerebbe di dare a un atleta nei suoi anni di formazione del "falso atleta". Perché allora c'è tutta questa necessità di porre su un piedistallo il termine scrittore e le persone da definire tali?

Forse in parte è dovuto alla scuola, che esalta i pochi scrittori che hanno passato la prova del tempo trascurando le difficoltà e gli insuccessi che hanno sperimentato in vita, fino a renderli le immortali creature mitologiche che chiunque scriva aspira a diventare. Forse è causato dal fatto che uno scrittore di successo, come un attore o uno sportivo di alto livello, fa parte della categoria dei cosiddetti vip, i divi (parola che deriva da "divinità") moderni. Ma ancora, nessuno si sognerebbe di dire che un attore che non lavora a Hollywood, un calciatore che non gioca in serie A o un atleta che non partecipa alle Olimpiadi non siano un vero attore, calciatore o atleta.

Eppure... nonostante ciò che ho scritto fin qui, sono dell'idea che i falsi scrittori esistano. Ma chi sono costoro, secondo me? Se uno scrittore può essere chi si trova in qualunque fase di un romanzo che ha intenzione di portare alla pubblicazione (anche all'inizio), chi posta racconti in un blog, chi pubblica storie sul giornalino del suo istituto scolastico, chi mette fanfiction su un sito (i meccanismi narrativi, gli ingredienti di una buona storia sono gli stessi, che i personaggi siano originali o meno), un falso scrittore è chi dice "un giorno ci scriverò su un libro e diventerò famoso" ma non si sogna di provarci nemmeno, chi paga un ghostwriter per il piacere narcisistico di vedere il proprio nome sulla copertina di un libro scritto da altri, chi non ha più niente da raccontare e continua ad autoincensarsi per l'unico romanzo pubblicato decenni fa, chi non ha la pazienza di imparare un mestiere, o un piacere, quello della scrittura, in cui non si smette mai di apprendere e del quale, come affermava Hemingway, non si diventa mai maestri.


Ma adesso voglio sentire te. Tu come la pensi, esiste una distinzione tra veri e falsi scrittori, e se sì, dove tracci la tua linea?

lunedì 3 settembre 2018

Sfida numero 5 - Piuma di Gabbiano

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore
Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì


Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
Sfida numero 5

L'estate non è finita! Se hai nostalgia dei luoghi che hai visitato, o se hai ancora voglia di vacanze e di viaggi, questa sfida è ciò che fa per te. Completandola, vincerai una virtuale Piuma di Gabbiano, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scegli una foto che hai scattato o una che ritrae un luogo in cui vorresti andare. Descrivi l'ambientazione.
Come in ogni descrizione, dovrai fare delle scelte. Quali sono i dettagli importanti, quelli che rendono tangibile l'atmosfera del luogo in una sequenza di parole su carta, o su schermo? In che ordine vuoi menzionarli? Ricordati di usare tutti i sensi nel tuo brano, e non solo la vista.

Livello intermedio: hai completato la descrizione? Ok, cancella tutto e riscrivila. Questa volta, dal punto di vista di un personaggio completamente diverso da te.
Ciò che potrebbe notare, le parole che usa il tuo personaggio cambiano rispetto alla descrizione che ne hai fatto tu. La situazione stessa in cui si trova può influire nella costruzione del tuo brano. Pensaci, il tuo personaggio è di fretta, oppure ha tutto il tempo di guardarsi attorno? Forse sta cercando qualcosa di specifico... o e distratto e quasi non guarda dove sta andando?

Livello difficile: descrivi il luogo in modo da riflettere una precisa emozione, che sia differente da quella che hai provato tu.
A questo punto, non solo la personalità di chi descrive è diversa dalla tua, ma lo è anche lo stato d'animo in cui si trova. Che cosa può essere, paura, rabbia, noia, tristezza? Qualunque sia, immergi il tuo paesaggio in quell'emozione, trasfiguralo grazie a essa. E non aver paura di esagerare, se alla fine l'immagine ritratta dalle tue parole è diversa da quella della foto, ma trasmette bene ciò che intendevi dire... avrai fatto un buon lavoro!


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 1 settembre 2018

Mitridatizzare

Un verbo! Da quanto non ne sceglievo uno. E come in altri casi già presentati tra queste pagine, il termine deriva dal nome di una persona: Mitridate VI, re del Ponto, che temendo di essere ucciso dai suoi nemici si rese immune ai veleni noti all'epoca con la somministrazione prolungata di piccole dosi di quegli stessi veleni. Confermando così il detto "ciò che non ti uccide, ti rende più forte"!

Mitridatizzare [mi-tri-da-tiz-zà-re] v.tr. [sogg-v-arg-prep.arg] med. Assuefare gradualmente qualcuno a sostanze tossiche, immunizzare.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non ho avvelenatori né avvelenati tra i miei personaggi... non ancora. In senso metaforico va bene lo stesso? Ho ripreso uno dei personaggi di Mucido (sempre con la emme, eh!) per esplorare un punto di vista inedito del racconto originale.


Non potevo più sbagliare, mi dissi, fissando la sacca trasparente in cui era conservato ciò che restava del mutageno. Era poco più di una dose, la mia ultima possibilità, e io non avevo più tempo. La mia pelle era screpolata e tesa, faticavo a concentrarmi e muovermi mi provocava una serie di fitte: tutti sintomi della necrosi in corso, che non si sarebbe arrestata se non con l'aiuto di qualcuno come me a invertire il processo.
Guardai il cielo azzurro fuori dalla finestra, se si poteva chiamare tale un semplice foro nella pietra.
Sfortunatamente non potevo trovare altri della mia specie, non in quel mondo. Ma potevo crearne. O almeno, lo speravo.
Quattro volte avevo provato. Quattro volte avevo fallito. Lui doveva essere quello giusto.
Afferrai la caraffa d'argento e la lucidai.
Avevo imparato molto, dagli altri. Avevo imparato che il loro corpo e la loro mente doveva essere forte, per sopportare il cambiamento. Avevo imparato che non potevo imporlo, che dovevano volerlo affinché funzionasse. Avevo imparato a persuadere, rivestendo il mutageno, sgradevole ai loro sensi, e la stessa idea della metamorfosi, invisa alla loro mente, in una confezione brillante e decorata da intarsi come l'argento di una brocca.
La posai sul tavolo, versai dentro una parte del mutageno rimasto e lo diluii con acqua zuccherata.
Con lui dovevo imparare a dosare la mia presenza. Andare e venire da quella stanza, giorno dopo giorno, parlargli poco, all'inizio, parlare d'altro. Non del pensiero che mi ossessionava, non di quello che gli avrei chiesto di fare, come se da lui non dipendesse la mia vita. Come se non stessi morendo.
Vedermi mentre accadeva non lo avrebbe indotto a scegliere di aiutarmi. Questo pensavo, tra le mura sgretolate di un castello a cui assomigliavo ogni giorno di più.
Io ero come un veleno. Mitridatizzare il mio ospite a me era l'unico modo per farlo sopravvivere a ciò che gli avrei fatto.
Fissai la porta. Era tempo di andare a controllare di aver stretto bene le corde.